Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra 1859 e 1860 una varia sequenza di eventi (la seconda guerra di indipendenza; le insurrezioni nell’Italia centrale; la spedizione dei Mille) porta alla costruzione di uno Stato nazionale italiano. I rapporti di forza tra le diverse componenti politiche del movimento risorgimentale condizionano l’assetto istituzionale, modellato intorno a un’architettura costituzionale monarchica ed elitista.
Una rapida sequenza di vicende si snoda dal 1859 al 1860 e produce un risultato che pochissimi, anche solo pochi anni prima, sarebbero stati in grado di prevedere: ovvero la formazione di uno Stato nazionale italiano, il Regno d’Italia. Gli eventi che portano a questo fondamentale passaggio storico sono essenzialmente tre:
1) la cosiddetta seconda guerra d’indipendenza (24 aprile - 11 luglio 1859) nel corso della quale gli eserciti del Regno di Sardegna e del Secondo Impero francese combattono contro l’esercito dell’Impero d’Austria; dopo aver sconfitto l’Austria, il Regno di Sardegna si annette la Lombardia; all’Impero d’Austria resta l’intero Veneto e la zona di Mantova; all’Impero francese vengono cedute Nizza e la Savoia;
2) le insurrezioni che scoppiano tra aprile e giugno 1859 nei Ducati di Parma e di Modena, nelle Legazioni (Bologna e la Romagna, parte dello Stato pontificio) e nel Granducato di Toscana; le autorità politiche locali sono costrette a fuggire, mentre si formano governi provvisori favorevoli all’unione col Regno di Sardegna; i plebisciti di annessione si tengono l’11 e il 12 marzo 1860;
3) la spedizione militare in Sicilia guidata da Giuseppe Garibaldi, partita da Genova il 5-6 maggio 1860; per tappe successive, l’esercito garibaldino sconfigge i borbonici in Sicilia e poi in quasi tutto il Mezzogiorno continentale; il 21 ottobre 1860 si tengono i plebisciti di annessione al nuovo Regno che si è formato nell’Italia centro-settentrionale; il 26 ottobre 1860, a Teano, Garibaldi incontra Vittorio Emanuele II, re del nuovo Regno italiano, e gli cede formalmente la sovranità sull’intero Mezzogiorno.
Anche solo uno sguardo panoramico sulle vicende che conducono all’unità mostra che gli attori politici che cooperano alla nascita del nuovo Stato unitario sono vari e diversi. Un posto di primo piano spetta senz’altro al Regno di Sardegna, al suo re, Vittorio Emanuele II, e soprattutto al suo presidente del Consiglio, Camillo Benso conte di Cavour.
Ciò che già negli anni Cinquanta distingue nettamente il Regno di Sardegna da tutti gli altri Stati che si trovano nella Penisola è che ha conservato lo Statuto (cioè la Costituzione) che era stato concesso dal re Carlo Alberto il 4 marzo 1848; ciò significa che il Regno di Sardegna è l’unico Stato che possiede un parlamento bicamerale con una Camera elettiva, e delle istituzioni locali (comuni e province) egualmente elettive (anche se possono votare solo i maschi, adulti, alfabetizzati e molto ricchi, pari al 2 percento circa sul totale della popolazione). Dal 1852 Cavour è a capo del governo del Regno di Sardegna. Favorevole a un potenziamento delle istituzioni rappresentative, è abilissimo nell’azione diplomatica di avvicinamento alla Francia. Impone a un parlamento recalcitrante l’intervento dell’esercito del Regno di Sardegna nella guerra di Crimea, a fianco di Gran Bretagna e Francia contro la Russia (1854-1855): l’operazione consente un importante consolidamento delle relazioni diplomatiche con le due potenze alleate. Nel 1858 Cavour incontra l’imperatore francese Napoleone III a Plombières, e lì pone le basi dell’alleanza militare tra Francia e Regno di Sardegna che conduce, l’anno dopo, alla seconda guerra d’indipendenza. In nessun modo si può trascurare l’importanza di questa mossa diplomatica, poiché – sebbene dotato di un esercito ben organizzato – il Regno di Sardegna da solo non sarebbe mai riuscito a sconfiggere l’Austria, se non ci fosse stato il determinante aiuto militare francese.
L’abilità diplomatica di Cavour e il peso delle istituzioni del Regno di Sardegna non sono le uniche componenti che devono essere prese in considerazione per valutare adeguatamente il processo di unificazione. Fondamentale è altresì la partecipazione di una parte significativa dell’opinione pubblica che attivamente sostiene la causa dell’Unità. Da un lato occorre ricordare che nei primi mesi del 1859, quando la guerra tra Regno di Sardegna e Austria appare molto probabile, circa 24 mila giovani volontari si muovono dai vari Stati della penisola (e in particolare dal Regno Lombardo-Veneto, all’epoca sotto l’Austria), per recarsi a Torino e arruolarsi volontari: la cifra è rimarchevole, se si considerano le difficoltà di spostamento e il grave rischio che questi giovani decidono di correre (in effetti, nel corso della guerra, la battaglia di Solferino e San Martino si rivelerà come una delle più sanguinose nella storia militare del XIX secolo). Dall’altro lato occorre anche osservare il sostegno festoso con il quale le popolazioni delle città salutano la liberazione dei Ducati, delle Legazioni, del Granducato, o l’arrivo delle truppe garibaldine in Sicilia o a Napoli.
Infine è importante sottolineare il peso ugualmente determinante rivestito dall’“impresa dei Mille”. In effetti, l’esercito di Garibaldi, nel corso delle operazioni, si ingrossa, fino a raggiungere i 40-50 mila effettivi, di cui 20 mila sono volontari che vengono dall’Italia centro-settentrionale. L’azione militare di Garibaldi, condotta senza l’avallo ufficiale del Regno di Sardegna, è tuttavia compiuta sotto lo slogan “Italia e Vittorio Emanuele”. Ciò significa che – sin dall’inizio – l’obiettivo da raggiungere per Garibaldi è il completamento dell’unificazione nella cornice delle istituzioni monarchico-costituzionali. Ne fa fede il quesito dei plebisciti di annessione che si tengono in Sicilia e nel Mezzogiorno continentale il 21 ottobre 1860 e che sono voluti e organizzati dallo stesso Garibaldi: tutti i maschi adulti che sono chiamati a votare devono esprimersi intorno a questa affermazione con un sì o con un no: “Il popolo vuole l’Italia una ed indivisibile, con Vittorio Emanuele, Re costituzionale, e suoi legittimi discendenti”. I sì sono la stragrande maggioranza (più di 1.700.000, pari al 92 percento dei votanti).
Una lunga tradizione storiografica ha minimizzato il ruolo dei plebisciti di annessione. Studi recenti, basati anche sulle testimonianze di giornalisti e osservatori stranieri, hanno tuttavia mostrato che la partecipazione – quantitativa e affettiva – di larghi strati di popolazione alle votazioni plebiscitarie è stata del tutto considerevole. Alcune testimonianze sottolineano il consapevole orgoglio col quale contadini analfabeti partecipano a questa consultazione. In altri casi i contadini sono indotti a partecipare alle votazioni da proprietari terrieri di orientamento liberale e patriottico: ma perché ciò avvenga, occorre che questa tipologia di proprietari esista, segno che una parte non piccola delle élite sociali è favorevole al nuovo stato di cose. Dovunque i risultati sono più che confortanti e sembrano inaugurare i primi passi del nuovo Stato in modo più che positivo.
Dal punto di vista simbolico, tuttavia, gli atti inaugurali creano in alcuni un qualche sconcerto. Il nuovo Regno d’Italia non ha una carta costituzionale propria, poiché eredita quella del Regno di Sardegna (lo Statuto Albertino); il re d’Italia si chiama Vittorio Emanuele II – e non I, come sarebbe ovvio – poiché si mantiene la tradizionale numerazione dinastica dei re sabaudi; la capitale è Torino; e la legislatura parlamentare che si apre il 18 febbraio 1861 è l’VIII (e non la I), perché si prosegue la numerazione delle legislature del Regno di Sardegna. Oltre a rendere omaggio al contributo che il Regno di Sardegna ha dato al processo di unificazione, questi atti vogliono cancellare completamente una realtà che a molti liberali moderati (Cavour tra i primi) non è gradita, ovvero che all’unificazione ha dato un contributo assolutamente decisivo anche l’esperienza del volontariato garibaldino, in larga misura di estrazione democratica. Molto più concretamente questa rimozione è sancita anche dallo scioglimento dell’esercito di Garibaldi, che non viene incorporato in quello del Regno d’Italia per timore che elementi repubblicani o democratici si insinuino in una delle istituzioni nevralgiche dello Stato nuovo: e anzi, negli anni seguenti un ingente numero di ex volontari garibaldini sarà costantemente monitorato dalla polizia del Regno d’Italia.
Oltre a ciò, la classe dirigente che guida il processo di unificazione disegna il profilo istituzionale di uno Stato che non ammette l’attiva partecipazione di gran parte della sua popolazione: le donne sono completamente escluse dal voto; ma anche moltissimi maschi adulti che han potuto partecipare ai plebisciti di annessione, si ritrovano subito privi di diritti politici; la legge che disciplina la partecipazione alle elezioni per la Camera dei deputati ricalca infatti quella del Regno di Sardegna e, come quella, ammette al voto solo i maschi, adulti, alfabetizzati e molto ricchi (ovvero il 2 percento circa del totale della popolazione).
Il movimento che ha condotto alla costruzione di uno Stato unitario si è mostrato compatto nel credere nell’esistenza di una nazione italiana e nella necessità di dotare tale nazione di un assetto istituzionale proprio; tuttavia si è sin da subito particolarmente diviso sulle soluzioni politico-costituzionali da adottare. Lo Stato che viene proclamato nel 1861 è – in effetti – il prodotto del successo politico di una componente del movimento risorgimentale, quella monarchica e liberal-moderata, che si è appoggiata sul Regno di Sardegna e che ha avuto come guida Cavour. Il successo di questa componente, che porta alla costruzione di un Regno costituzionale, con istituzioni politiche che privilegiano una sottile élite sociale, è stato il frutto della debolezza della componente democratico-repubblicana del movimento risorgimentale. Da questo punto di vista occorre ricordare la sequela di insuccessi patiti da tutte le iniziative insurrezionali mazziniane, che negli anni Cinquanta hanno indotto numerosi ex repubblicani ad avvicinarsi a Cavour e al Regno di Sardegna. Fondamentale è anche la scelta compiuta dal più autorevole di questi patrioti ex repubblicani, Garibaldi, che nel 1860 guida l’assalto militare al Regno delle Due Sicilie in nome di Vittorio Emanuele, ben determinato a dare la priorità all’obiettivo dell’unificazione rispetto a ogni altra aspirazione politica.
Tuttavia, a Regno d’Italia proclamato, le fratture che avevano separato i repubblicani-democratici dai liberal-monarchici riemergono, se possibile anche più aspre di prima; e a esse si aggiungono anche altri contrasti, perfino più drammatici.
Intanto Garibaldi e i suoi volontari, delusi dal brusco scioglimento dell’esercito garibaldino e dall’assoluta mancanza di riconoscimenti per l’impresa compiuta in Sicilia e nel Mezzogiorno continentale, sono inquieti, e la loro inquietudine si traduce in piani azzardati per ottenere un rapido completamento dell’unificazione con l’annessione di Roma e, se possibile, del Veneto. Per ben due volte, nel 1862 e nel 1867, Garibaldi tenta di nuovo un’operazione simile a quella compiuta nel 1860, con l’organizzazione di un esercito volontario – del tutto illegale – che tenta di marciare su Roma: nel 1862 i garibaldini vengono fermati sull’Aspromonte dall’esercito del Regno d’Italia (e Garibaldi stesso viene ferito nel breve scontro con i regolari); nel 1867 sono sconfitti dal corpo di spedizione francese posto a difesa di ciò che resta dello Stato pontificio.
Ugualmente critici nei confronti dello Stato unitario sono Giuseppe Mazzini e i suoi seguaci, che si rifiutano assolutamente di riconoscere legittimità alle istituzioni dello Stato nuovo: il dissenso non riguarda solo l’assetto politico-istituzionale (i mazziniani avrebbero voluto un’Italia repubblicana e democratica, e non un’Italia monarchica ed elitista); riguarda anche il modo col quale si è giunti alla costruzione dell’Italia unita, con dei semplici plebisciti di annessione a uno Stato già esistente (il Regno di Sardegna), invece che con la convocazione di un’assemblea costituente eletta in forme democratiche.
Ma le critiche e le inquietudini non attraversano solo il campo democratico, poiché non meno recisa è l’opposizione manifestata dal papa, Pio IX, al processo di unificazione. Lontano sin dall’aprile del 1848 dalle posizioni del movimento nazionale, e in polemica anche con l’ala moderata e cavouriana, a causa della legislazione antiecclesiastica messa in atto dai governi costituzionali del Regno di Sardegna, il pontefice palesa con sdegno tutto il suo dissenso quando gli viene sottratto gran parte del territorio dello Stato Pontificio (1859-1860). È inevitabile che ciò avvenga: per costruire uno Sato unitario italiano è necessario inglobare lo Stato della Chiesa, il cui territorio taglia in due la penisola. Nondimeno, a unificazione in corso, il papa protesta contro lo smembramento dello Stato Pontificio, perché ritiene di non poter più svolgere liberamente il suo magistero spirituale senza la piena protezione del potere temporale, e per questo lancia una Scomunica Maggiore nei confronti di tutti coloro che hanno concorso a quella che lui considera un’usurpazione delle terre che appartenevano allo Stato Pontificio. Negli anni seguenti i rapporti tra la Santa Sede e il Regno d’Italia non fanno che peggiorare. Il che pone l’opinione pubblica italiana – maggioritariamente cattolica – di fronte a un dilemma: seguire il papa solo nella sua veste di capo spirituale o seguirlo anche come capo politico? Una parte dell’opinione pubblica opta per la prima soluzione. Ma un’altra parte – i cosiddetti “cattolici intransigenti” – sceglie la seconda strada, non riconoscendo dunque la legittimità dello Stato nuovo.
Nell’immediato, tuttavia, il problema più grave si verifica nell’Italia meridionale, e in particolare nel Mezzogiorno continentale. Qui, fra il 1861 e il 1865 scoppia un largo movimento di reazione all’Unità, che le autorità del Regno chiamano “brigantaggio”, ma che solo in una misura limitata può effettivamente essere definito in quel modo. Le azioni compiute dalle bande di insorti – concentrate, in particolare, in Abruzzo e in Lucania, ma presenti anche altrove – oscillano fra l’operazione militare dimostrativa (attacchi a simboli dell’autorità, o ai beni e alle persone di esponenti del nuovo ordine politico) e i più tradizionali atti criminali (rapine, estorsioni, sequestri). Ciò che c’è di specifico è il carattere esplicitamente politico che gran parte delle azioni delle bande assumono, poiché i loro leader dichiarano pubblicamente di operare per la restaurazione dei Borbone o per la difesa del pontefice e dei suoi diritti, e in effetti emissari borbonici e pontifici sono all’opera per sostenere, anche finanziariamente, il movimento. Nelle bande confluiscono molti ex militari borbonici, molti delusi dagli scarsi risultati sociali dell’impresa garibaldina, molti che nutrono risentimenti nei confronti dei proprietari, per le loro condizioni di vita e di lavoro o per i torti – veri o presunti – subiti nel processo di spartizione delle terre ex feudali.
L’applicazione della coscrizione obbligatoria al Mezzogiorno contribuisce poi a spingere molti altri contadini verso l’affiliazione alle bande, le cui azioni sono di sconcertante violenza. Ma un’efferatezza di certo non minore accompagna la repressione affidata alle forze dell’esercito: i processi sommari, le esecuzioni, le distruzioni di villaggi, l’esposizione dei cadaveri a scopo intimidatorio si susseguono. Una legge approvata nel 1863 autorizza l’attuazione di misure eccezionali, cosicché nel giro di qualche anno il fenomeno è quasi del tutto represso. Tuttavia non è un modo brillante di aprire la vita di un nuovo Stato; e certo questa è una vicenda che – a torto o a ragione – contribuisce a diffondere in molte comunità del Mezzogiorno rurale un atteggiamento di sospettosa diffidenza nei confronti delle istituzioni del Regno d’Italia o della simbologia e dei valori nazionali.