L'Ottocento: fisica. Lo spettro ottico
Lo spettro ottico
Nel 1800 l'astronomo William Herschel (1738-1822) cercò di risolvere il problema dell'eliminazione degli effetti termici che disturbavano l'osservazione prolungata di oggetti fortemente luminosi come il Sole. Per trovare il filtro adeguato, egli cominciò con il cercare la regione dello spettro ottico che produceva il minimo riscaldamento. Espose quindi tre termometri anneriti, ciascuno per cinque minuti, alle zone di differente colore dello spettro e registrò sistematicamente le diverse temperature in funzione della posizione. Con sorpresa trovò che il massimo effetto termico si verificava al di fuori della regione visibile dello spettro, al di là del limite della zona rossa. Egli osservò anche che, spostandosi nello spettro di rifrazione dal giallo all'estremità del rosso, l'intensità termica aumentava, al contrario di quanto accadeva all'intensità della luce visibile.
Herschel trascorse i due anni successivi cercando di interpretare questa sua scoperta e si interrogò se lo spettro ottico continuasse oltre il limite del rosso visibile, oppure si trattasse di un nuovo tipo di radiazione con proprietà diverse da quelle della luce. Anche i suoi contemporanei erano indecisi: John Leslie e Christian Ernst Wünsch sostenevano che si trattasse solo di radiazione ottica non adeguatamente filtrata, mentre Henry C. Englefield, Thomas Young e, più tardi, anche Jacques-Étienne Bérard aderivano alle idee di Herschel. La localizzazione precisa del massimo della regione rossa divenne oggetto di un'accesa controversia risolta solamente nel 1819, quando Thomas Johann Seebeck (1770-1831) dimostrò che la posizione suddetta dipendeva dal materiale di cui era fatto il prisma.
Le differenti proprietà di trasmissione e di assorbimento dei vari mezzi sembravano mettere in dubbio il fatto che si trattasse di un solo tipo di radiazione; come affermò Herschel negli Experiments on the solar, and on the terrestrial rays that occasion heat, "siamo di fronte a una prova semplice e diretta, nel caso del vetro rosso, che i raggi luminosi vengono trasmessi e quelli del calore arrestati, e che quindi essi non hanno nulla in comune, se non lo stesso grado di rifrangibilità" (1800b, p. 522). Tuttavia, per Herschel, l'argomento decisivo contro ogni interpretazione che unificasse le onde termiche e quelle luminose era proprio la diversa posizione dei massimi e il differente andamento delle curve di intensità per i due tipi di spettro.
Le indagini sull'effetto chimico della luce su certe sostanze hanno una lunga storia. Già nel 1727 la fotosensibilità dei sali d'argento era stata studiata da Johann Heinrich Schulze, professore di medicina e lettere classiche prima ad Altdorf e poi a Halle. Nel 1777 il naturalista svedese Carl Wilhelm Scheele descrisse in maniera molto dettagliata esperimenti eseguiti con una miscela di gesso e nitrato d'argento o con la cloroargirite (un minerale di cloruro d'argento), che si anneriva molto più rapidamente quando veniva esposta alla regione violetta dello spettro. Nel 1782 il botanico Jean Senebier, nei Mémoires physico-chimiques, quantificò l'azione chimica delle diverse parti dello spettro misurando il tempo necessario per annerire superfici argentate: mentre la luce violetta impiegava non più di 15 secondi, la luce purpurea ne richiedeva 23, quella blu 29 e la luce verde 37; il giallo impiegava 5 minuti e mezzo, l'arancione 12 e la luce rossa 20. Nel 1801 il farmacista Johann Wilhelm Ritter di Jena dimostrò che l'azione chimica sui sali d'argento avveniva anche al di là della zona violetta dello spettro visibile e ne dedusse l'esistenza di 'raggi chimici', di cui presto fu sperimentalmente osservato l'effetto anche su composti gassosi come l'acido cloridrico. Con la logica del filosofo naturale, Ritter interpretò le sue scoperte come l'effetto di una controparte dei 'raggi termici' di Herschel situata all'altro estremo dello spettro, ossia in termini di un'opposizione tra 'raggi deossidanti' vicino al violetto e 'raggi ossidanti' vicino al rosso.
A ciò va aggiunto che Seebeck e, indipendentemente, John Herschel (1792-1871), figlio di William, scoprirono che, quando veniva esposto allo spettro luminoso, il cloruro d'argento perdeva colore in modo diverso nelle differenti regioni dello spettro, anche se nessuno dei due scienziati riuscì a fissare in maniera permanente queste impronte chimiche di origine spettrale. Tali studi subirono un nuovo impulso allorché nel gennaio del 1839 fu resa pubblica la tecnica di stampa fotografica basata sui cosiddetti 'dagherrotipi', ossia su un procedimento chimico ‒ l'esposizione a vapori di mercurio seguita da un bagno di iposolfito di sodio e da un risciacquo in acqua distillata ‒ che finalmente impediva alle immagini formatesi su lastre metalliche ricoperte di uno strato di ioduro d'argento di svanire per effetto della successiva esposizione alla luce.
L'eterogeneità, o, meglio, la cosiddetta 'polarità' negli effetti fisici della radiazione chimica e di quella termica, fu il principale argomento che indusse ricercatori come il chimico di New York John W. Draper (1811-1882) a postulare l'esistenza di un nuovo agente indipendente all'altro estremo dello spettro visibile, quello costituito dai raggi chimici o, come preferiva dire, dai 'raggi titonici'. D'altra parte l'interpretazione di queste scoperte era meno facile di quanto siamo portati a credere. Oggi è difficile concepire queste nuove linee se non come una naturale estensione dello spettro visibile oltre il rosso e il violetto, cioè esse stesse come radiazione 'infrarossa' e 'ultravioletta'. Un'idea del genere balenò a molti dei primi ricercatori; tuttavia i dati disponibili circa gli effetti fisici su rivelatori termici, ottici e chimici in diverse regioni spettrali spinse la maggior parte di loro a scegliere un'altra interpretazione: postulare l'esistenza di nuovi tipi di radiazione oltre quella luminosa. Sia John Herschel sia Draper pensavano che la radiazione solare e quella emessa da sorgenti terrestri luminose fossero un miscuglio eterogeneo di raggi visibili, calorifici e attinici. Lo spettro generato da un prisma o da un reticolo di diffrazione, successivamente osservato e fotografato o in altro modo registrato, era concepito come la sovrapposizione di tre spettri distinti: uno 'spettro ottico' ‒ che copre tutta la regione dal rosso al violetto (o color 'lavanda', come Herschel chiamava la regione più rifrangibile ancora visibile a occhio nudo) ‒, uno 'spettro attinico', o 'chimico' ‒ corrispondente alla regione di massimo annerimento di superfici impregnate con sali d'argento, al di là del limite violetto dello spettro visibile ‒, e infine uno 'spettro termico', o 'calorifico', con un massimo posto al di qua della riga A di Fraunhofer.
Solamente dopo la verifica sperimentale del fatto che i raggi termici e chimici mostravano le stesse proprietà (di rifrangibilità, polarizzabilità, interferenza, ecc.) caratteristiche delle onde luminose, come avevano teorizzato Young e Augustin-Jean Fresnel, la maggioranza dei fisici adottò la tesi che queste regioni spettrali altro non fossero che estensioni dello spettro ottico verso l'infrarosso e l'ultravioletto.
L'osservazione delle righe spettrali discontinue fu una delle più importanti scoperte dell'inizio del XIX sec. nel campo dell'ottica. Essa fu resa possibile dall'aggiunta di una stretta fenditura all'apparato prismatico e dal miglioramento della qualità del vetro del prisma. Lasciando da parte l'osservazione di Thomas Melvill (1726-1753) di una riga gialla eccezionalmente brillante nello spettro di fiamma, fu il medico, chimico e mineralogista inglese William H. Wollaston (1766-1828) a notare nel 1802, durante l'osservazione di un raggio di luce solare fatto passare attraverso una fenditura di 1,5 mm e un prisma di vetro flint di alta qualità posto a 3 m di distanza, che quattro regioni dello spettro (rossa, giallo-verde, blu e violetta) erano separate da zone scure o 'divisioni', che egli definì anche 'righe'. Come notò Wollaston in A method of examining refractive and dispersive powers by prismatic refraction:
La riga A che si trova al limite della parte rossa dello spettro è un po' confusa, il che sembra in parte dovuto alla scarsa capacità dell'occhio di mettere a fuoco la luce rossa. La riga B, che si trova tra il rosso e il verde per una certa posizione del prisma, è perfettamente nitida; così anche le righe D ed E, che delimitano la regione violetta. La riga C, che separa il verde dal blu, non è invece altrettanto nitida; sono inoltre distinguibili, da entrambi i lati di questo limite, altre righe scure f e g, ciascuna delle quali può essere confusa, in un esperimento non perfetto, con i confini di questi colori. (1802, p. 378)
È interessante notare che Wollaston interpretò queste zone scure come divisioni ben visibili tra le diverse regioni colorate dello spettro. Tale risultato fu posto da lui immediatamente in relazione con l'acceso dibattito sul numero dei colori primari:
Non posso concludere queste osservazioni sulla dispersione senza notare come i colori in cui può essere scomposto un fascio di luce bianca mediante la rifrazione non mi sembrano né 7, come quelli che si osservano normalmente nell'arcobaleno, né in alcun modo riducibili a 3, come pensano alcune persone; invece, usando una lama di luce molto stretta, si possono vedere, nello spettro prismatico, 4 divisioni primarie con un grado di definizione che, credo, non è stato mai descritto né osservato in precedenza. (ibidem)
Comunque sia, solo un ragionamento fantasioso poteva portare a identificare le zone scure con i limiti delle regioni colorate. Occorreva una riscoperta di tali righe in un contesto diverso per dare avvio a un'indagine più accurata sul problema. Questa riscoperta fu effettuata nel 1814 da Joseph von Fraunhofer (1787-1826), un giovane ottico dell'Istituto di meccanica di Monaco (fondato nel 1802). In risposta all'embargo contro le Isole britanniche disposto da Napoleone Bonaparte nel 1806, questa fabbrica si era assunta il compito di produrre strumenti scientifici per soddisfare le crescenti richieste; in particolare vi venivano costruiti strumenti ottici e astronomici. Il principale strumento geodetico per misure angolari, noto come 'teodolite', aveva una scala circolare graduata in unità di 10′, realizzata da Georg Friedrich von Reichenbach (1772-1826), che, grazie alla presenza di un nonio, poteva produrre un'accuratezza di lettura pari a 10″. Un simile strumento di precisione era indispensabile per il rilievo della Baviera ordinato dall'elettore Massimiliano IV nel 1801, inizialmente in collaborazione con il francese Bureau topographique.
Dopo la secolarizzazione dei monasteri bavaresi, avvenuta nel 1803, la sezione di ottica dell'Istituto di meccanica fu spostata nel chiostro del Benediktbeuern, dove a partire dal 1806 Fraunhofer cominciò a lavorare ‒ soprattutto per conto di Joseph von Utzschneider (1763-1840) ‒ con lo scopo di migliorare la produzione del vetro e delle lenti. Egli ottenne risultati così brillanti che dopo appena tre anni fu nominato direttore del laboratorio di ottica fino a diventarne comproprietario nel 1814. Fraunhofer era particolarmente interessato al fatto che le righe scure dello spettro solare si presentassero sempre nella stessa posizione (rispetto alla scala dei colori dello spettro continuo). Tale caratteristica gli consentì di utilizzarle come indicatori per lunghezze d'onda specifiche (ossia per fasci di luce monocromatica) nello studio del 'potere rifrangente' ‒ in termini moderni, dell'indice di rifrazione n ‒ di vari tipi di vetro, che era importante conoscere per la produzione di obiettivi acromatici e di prismi ad alta dispersione. Osservando gli angoli di incidenza e di rifrazione per ogni riga, Fraunhofer ricavò una chiara rappresentazione della variazione del potere rifrangente n in funzione del colore della luce (ossia il potere dispersivo dn/dλ in funzione della lunghezza d'onda λ) e lo misurò con ben cinque cifre decimali. Nel corso di queste indagini, pubblicate nella memoria Bestimmung des Brechungs- und Farbenzerstreuungs-Vermögens verschiedener Glasarten (Sul potere rifrangente e dispersivo di differenti specie di vetro, 1815), egli realizzò anche un prototipo di spettroscopio, munito di prismi per disperdere la luce incidente, e di un cannocchiale, per ingrandire e osservare lo spettro che ne derivava. Entrambi gli elementi erano montati insieme su un teodolite, ossia uno strumento impiegato nel rilevamento topografico e che, come si è detto prima, era costituito da un disco metallico girevole dotato di una scala angolare di precisione.
L'importanza pratica delle righe scure come riferimenti, per l'industria ottica, spinse Fraunhofer a registrarne ben 574, ora note come 'righe di Fraunhofer', e a pubblicare nel 1815 il primo disegno accurato di una selezione di circa 350 di esse, distribuite lungo l'intero spettro solare. Egli le aveva contrassegnate, andando dal rosso al violetto, con le lettere dell'alfabeto. Sopra questa mappa spettrale disegnò poi una curva che rappresentava l'intensità stimata della luce in funzione del colore, mostrando come per l'occhio umano il massimo di intensità si collocasse nella regione giallo-verde al centro dello spettro e come tale intensità decrescesse sia verso il rosso, sia verso il violetto. Per questa rilevazione egli usò uno specchio piano semitrasparente ruotato di 45°, in modo da sovrapporre all'oculare la luce proveniente da una sorgente di confronto costituita da una fiamma la cui distanza dal cannocchiale dello strumento poteva essere fatta variare. Per calibrare le intensità relative egli determinò la distanza della fiamma per la quale gli spettri di fiamma e del Sole apparivano approssimativamente della stessa intensità, tenendo conto dell'inverso del quadrato di questa distanza.
Un esame più accurato delle distanze relative tra le righe di Fraunhofer mostrò che queste dipendevano dal tipo di vetro usato. Un prisma di vetro flint, per esempio, era meno dispersivo nel rosso e molto più dispersivo nel blu e nel violetto rispetto a un prisma di vetro crown e produceva nel contempo uno spettro circa due volte più largo; si potevano inoltre generare spettri ancora più ampi con prismi cavi, riempiti di disolfuro di carbonio liquido o di olio di cassia. In questo modo, le righe scure non furono più solamente un mezzo conveniente per contrassegnare un particolare colore dello spettro, ma anche l'oggetto di un'indagine sistematica, alla quale contribuì Fraunhofer stesso, soprattutto dopo che nel 1819 il suo laboratorio fu di nuovo trasferito a Monaco.
In una memoria pionieristica di Fraunhofer del 1815 e in un suo breve addendum alla memoria del 1823 Kurzer Bericht von den Resultaten neuerer Versuche über die Gesetze des Lichtes und die Theorie derselber (Breve relazione dei risultati dei recenti esperimenti circa le leggi della luce e la sua teoria) troviamo commenti delle sue analisi spettroscopiche della luce emessa da altre sorgenti, quali il pianeta Venere, alcune stelle di prima grandezza e un arco elettrico. Egli notò per esempio che, a differenza dello spettro solare con le sue righe scure, lo spettro prodotto dalla fiamma di una candela conteneva righe luminose; in particolare, "nell'arancione si vede una doppia riga brillante che risalta rispetto al resto dello spettro e che è collocata nel punto in cui si trova la doppia riga D dello spettro della luce solare" (Fraunhofer 1888, p. 140). Provò anche a disperdere la luce generata da una scarica elettrica e quella riflessa dalla Luna, che rivelò "nei colori più chiari le stesse righe della luce solare, esattamente nelle stesse posizioni" (ibidem, p. 141).
Negli anni Trenta del XIX sec., dopo che le scoperte di Fraunhofer furono conosciute da un pubblico più ampio grazie alla traduzione in inglese e in francese dei suoi scritti, le righe scure nello spettro solare, con le corrispondenti righe luminose negli spettri di fiamma, furono oggetto di ulteriori indagini, che divennero sistematiche alla fine degli anni Cinquanta. Ai fini di queste ricerche più accurate, i semplici simboli di Fraunhofer erano evidentemente inadeguati; così come inadeguata era la vaga terminologia cromatica utilizzata, per esempio, nei primi anni Venti dal fisico scozzese Sir David Brewster (1781-1868), il quale nella Description of a monochromatic lamp for microscopical purposes (1823), per descrivere lo spettro di una sorgente monocromatica di luce, si esprimeva in termini di "un bel giallo omogeneo, che, quando è analizzato dal prisma, mostra deboli tracce di verde e azzurro, ma neppure un singolo raggio di luce rossa o arancione" (p. 436). Né erano più chiari i resoconti fatti nel 1822 da John Herschel circa "i colori dello spettro prismatico mostrato da certe fiamme" o le descrizioni di William H.F. Talbot (1800-1877) di "esperimenti su fiamme colorate", scritte quattro anni più tardi e in cui ci si limitava semplicemente a contare le righe poste all'interno delle diverse zone colorate.
Sia Brewster sia John Herschel avevano intrapreso uno studio sistematico dell'assorbimento selettivo di vari mezzi trasparenti, non perché interessati allo spettro in sé, ma piuttosto per trovare sorgenti perfettamente monocromatiche di luce da utilizzare per misure accurate degli indici di rifrazione. Dobbiamo ricordare che questo programma di ricerca era stato avviato poco prima che i contributi di Fraunhofer si diffondessero in Gran Bretagna e che quindi la strategia basata sulla selezione di un piccolo segmento di luce di colore ben definito doveva apparire molto promettente.
Tuttavia Brewster si era sicuramente accorto dell'insufficienza delle descrizioni meramente verbali dei fenomeni di assorbimento osservati. Egli accluse a un rapporto dettagliato per le "Transactions of the Royal Society of Edinburgh" una tavola colorata a mano che rappresentava le strisce colorate dello spettro (rosso, giallo, verde, azzurro e lavanda) con le parti assorbite dipinte in nero.
In questa tavola non si fa alcun tentativo di rappresentare la variazione continua di colore, né vi è nulla che corrisponda a una riga scura, dato che le strisce scure sono molto ampie e indifferenziate. Ciò che interessava a Brewster in quel periodo era che le restanti aree cromatiche fossero così limitate. Più ampie erano le parti annerite e meno luminose le parti restanti, meglio si realizzava lo scopo di ottenere una sorgente monocromatica di luce. Nello stesso anno Brewster si imbatté nella pubblicazione di Fraunhofer che tradusse immediatamente e fece ripubblicare sull'"Edinburgh philosophical journal". è interessante notare che egli modificò il titolo originale di Fraunhofer aggiungendo le parole "con un resoconto delle righe o strisce che attraversano lo spettro"; questo fa pensare che egli non avesse ancora deciso se chiamare "righe" o "strisce" le parti scure dello spettro di Fraunhofer, come del resto dimostrano i suoi disegni precedenti.
Nel 1815 Fraunhofer aveva notato che, quando sali di sodio venivano fatti evaporare nella fiamma di una candela, nella luce dispersa da un prisma si presentava sempre una riga gialla molto evidente che corrispondeva quasi esattamente all'altrettanto evidente riga scura dello spettro solare che egli aveva contrassegnato con la lettera D: "Questa luce [proveniente dalla fiamma] possiede, per quanto ho osservato, la medesima rifrangibilità del raggio D della luce del Sole" (Fraunhofer 1888, p. 140). Tuttavia questa scoperta non ebbe alcun seguito fino al 1849, quando il fisico e astronomo francese Jean-Bernard-Léon Foucault fece la stessa osservazione analizzando lo spettro della brillante luce giallastra prodotta da un arco elettrico. Per controllare questa coincidenza Foucault sovrappose lo spettro dell'arco elettrico allo spettro solare e con grande stupore trovò che la riga D di Fraunhofer diventava ancora più scura. Fu questa la prima indicazione a favore di una stretta connessione tra le proprietà di emissione e di assorbimento della luce emessa da un gas, anche se si basava su una singola riga spettrale ed era pubblicata su una rivista poco nota. A Londra il professore di chimica William A. Miller aveva fatto una scoperta simile nel 1845, quando aveva notato l'aumento di intensità di diverse righe di Fraunhofer prodotte nello spettro di fiamma generato dalla combustione dell'olio. Le sue osservazioni riguardo agli spettri di fiamma del calcio, del rame, del cloruro di bario e del nitrato di stronzio furono pubblicate lo stesso anno nell'articolo Experiments and observations on some cases of lines in the prismatic spectrum produced by the passage of light through coloured vapours and gases, and from certain coloured flames.
Già alla fine del XVIII sec. Martin van Marum aveva notato che le scintille prodotte in diversi gas producevano colori differenti, mentre nel corso delle sue Experimental researches in electricity Michael Faraday aveva compilato un elenco molto dettagliato dei colori specifici degli spettri di scintilla. Tuttavia, questi resoconti qualitativi, basati su impressioni visive (e addirittura acustiche), non erano certamente sufficienti per distinguere in maniera affidabile le diverse sostanze a partire dai colori delle scariche elettriche, anche se fino a Robert Bunsen questa linea di ricerca venne ripetutamente ripresa specialmente dai chimici. I fisici, invece, preferivano usare la dispersione prismatica della luce generata da una scarica elettrica per studiare l'aspetto fisico del problema. Nel 1835, per esempio, il docente di filosofia sperimentale al King's College di Londra, Charles Wheatstone (1802-1875) presentò al quinto congresso della British Association for the Advancement of Science i risultati delle sue ricerche sulla scomposizione prismatica della luce elettrica in una relazione intitolata appunto On the prismatic decomposition of electric light. Purtroppo la memoria più dettagliata sullo stesso argomento, completata da una illustrazione, apparve solo nel 1861 nelle "Chemical News", dopo l'affermazione definitiva dei metodi di analisi spettrale. Tuttavia, a differenza dei suoi predecessori, Wheatstone traeva una conclusione importante circa la distinzione tra i metalli basata sulla distribuzione delle loro righe spettrali:
Lo spettro della scarica elettromagnetica generato dal mercurio è composto solo da sette raggi distinti, separati da intervalli scuri; questi raggi visibili sono rispettivamente due raggi arancioni molto vicini, una brillante riga verde, due righe azzurro-verdastre vicine tra loro, una riga color porpora molto intensa e, infine, una riga violetta […]. La scarica ottenuta allo stesso modo dallo zinco, dal cadmio, dallo stagno, dal bismuto e dal piombo, allo stato fuso, dà risultati simili, ma il numero, la posizione e i colori delle diverse righe variano per ciascun caso; queste manifestazioni sono così diverse che, attraverso questo tipo di analisi, i suddetti metalli possono essere facilmente distinti l'uno dall'altro. (Wheatstone 1835, p. 11)
Nell'estratto del 1835 erano anche descritte le caratteristiche spettrali di vari metalli, che Wheatstone aveva determinato utilizzando degli elettrodi intercambiabili e un micrometro in vetro graduato posto all'interno del campo visivo del cannocchiale di uno spettroscopio a prisma. In tale estratto si affermava inoltre che l'articolo era accompagnato da una tavola, nella quale venivano indicate le posizioni e il colore delle righe dei vari metalli utilizzati. La presentazione di Wheatstone, quindi, deve essere considerata come l'origine delle tavole spettrali comparative per i vari elementi chimici, anche se la tavola venne pubblicata soltanto molto più tardi e in forma di tabella, con i vari spettri messi in verticale e non, come invece in seguito si sarebbe fatto di regola, in orizzontale.
Posta a confronto con tavole spettrali più tarde, la tavola di Wheatstone è naturalmente ancora molto imprecisa: per esempio, la doppia riga gialla del sodio (5893Å) dovrebbe essere collocata al di sotto delle due righe gialle del mercurio (5770 e 5790Å) e non, come la disegnò Wheatstone, tra di esse. Tuttavia, dobbiamo tenere presente che lo scopo di Wheatstone non era quello di realizzare una spettroscopia di precisione in senso moderno, bensì un esame comparativo semplice, conciso e facilmente memorizzabile delle differenti caratteristiche degli spettri metallici.
Una buona idea, da sola, non basta a fondare una nuova disciplina. I contemporanei di Wheatstone non riuscirono a cogliere l'immenso potenziale di queste scomposizioni prismatiche e Wheatstone stesso non fece molto per promuovere la propria idea, sicché il suo lavoro fu rapidamente dimenticato e, come si è detto, fu riscoperto e ripubblicato solo dopo il 1860. In questo senso è vero che, come afferma Frank James nel contraddire Michel Sutton e la storiografia tradizionale, almeno fino al 1855 non vi era una vera e propria tradizione di ricerca in spettroscopia o nell'analisi spettrale; comparivano di tanto in tanto contributi isolati che solo retrospettivamente sembrano precorrere i concetti-chiave della successiva analisi spettrale. Questi contributi sarebbero stati considerati dai contemporanei piuttosto come appartenenti alle ricerche fisiche sui meccanismi di emissione e di assorbimento della luce o sui processi che avvengono nell'arco elettrico, o anche relegati nell'ambito più generale delle ricerche sulla scarica nei gas, che in ogni caso era certamente molto lontano dall'indirizzo decisamente chimico assunto dalla successiva analisi spettrale.
In realtà, gli isolati accenni di Miller e Foucault a un possibile legame tra righe spettrali e composizione chimica dei corpi luminosi negli anni Quaranta dell'Ottocento non restarono completamente inascoltati. Da questo punto di vista, ebbe un'importanza decisiva il perfezionamento del bruciatore a gas che il chimico Robert Bunsen (1811-1899) effettuò, negli anni 1853-1854, in collaborazione con il tecnico Peter Desaga e il suo ex studente e quindi collaboratore nelle indagini fotochimiche Henry E. Roscoe. A differenza del gas di carbone e delle fiamme a olio allora comunemente usate, la miscela di gas e aria, utilizzata dallo strumento che sarebbe poi divenuto noto con il nome di 'becco Bunsen', poteva generare temperature molto più elevate, al di sopra dei 1800 °C, senza produrre depositi di carbonio indesiderati (ossia senza fumi). Inoltre essa produceva di per sé una luce molto più debole, per cui potevano essere meglio analizzati gli spettri specifici delle sostanze bruciate o rese incandescenti.
Fu così che il chimico scozzese William Swan (1818-1894) cominciò a esaminare gli spettri prismatici delle fiamme, facendo bruciare sostanze o elementi specifici e partendo dalla premessa che l'osservazione di particolari righe o gruppi di righe fosse causalmente correlata con la presenza di una specifica sostanza o classe di sostanze. Nella sua analisi degli idrocarburi, On the prismatic spectra of the flames of compounds of carbon and hydrogen (1857), Swan trovò che "in tutti gli spettri prodotti dalle sostanze sia della forma CrHs, sia della forma CrHsOt, le righe luminose sono identiche" (p. 418), indipendentemente dalla sostanza specifica, ossia dai valori di r, s e t. Oltre a determinare "l'assoluta identità [...] tra gli spettri di composti idrocarbonici diversi", Swan li confrontò con lo spettro solare. Ciò che ottenne, e di cui diede anche una rappresentazione grafica, fu che "benché parecchie righe dello spettro delle sostanze idrocarboniche hanno posizioni pressoché coincidenti con righe evidenti dello spettro solare, tuttavia in nessun caso, fatta eccezione per la riga α, si è osservata un'esatta coincidenza" (ibidem, p. 420).
Tali risultati, dunque, erano diametralmente opposti a ciò che le osservazioni di Fraunhofer, Miller e Foucault avevano suggerito. Queste ultime sembravano implicare una "legge generale degli spettri di fiamme" in base alla quale "le loro righe luminose coincidono sempre con le righe scure dello spettro solare"; invece, le osservazioni di Swan sembravano mostrare che "le 'righe luminose' dello spettro degli idrocarburi coincidono non con le righe scure, ma con gli 'spazi luminosi' dello spettro della luce del Sole" (ibidem). Per controllare questa affermazione Swan misurò attentamente le deviazioni angolari delle singole righe spettrali con un'accuratezza di un secondo d'arco (1″) con una serie di osservazioni che coglievano differenze di pochi secondi d'arco. Mentre la coincidenza della riga D di Fraunhofer con la sua riga α si rivelava valida entro 3″, le altre righe si discostavano per più di 20″. Malgrado questo temporaneo arretramento nella ricerca delle coincidenze tra righe luminose e righe scure, il programma di ricerca di Swan costituisce un esempio della crescente speranza dei chimici del tempo di correlare sistematicamente certi gruppi di righe con la composizione chimica dei corpi sottoposti ad analisi spettrale. Nel sopracitato lavoro del 1857 Swan affermò: "Nei casi in cui, malgrado tutto, vi è una notevole analogia nella configurazione di due gruppi di righe, magari accompagnata da una coincidenza esatta, come per esempio tra le doppie righe α e D, e soprattutto quando osserviamo effettivamente il sorprendente fenomeno della sovrapposizione ottica delle righe degli spettri, l'impressione di una qualche connessione fisica tra i due gruppi di fenomeni appare irresistibile" (ibidem, p. 426). Appena sei anni più tardi la connessione fisica postulata da Swan fu effettivamente trovata.
A partire dalla metà degli anni Cinquanta anche Bunsen stava cercando di ricavare, con il suo nuovo bruciatore, la composizione chimica dei sali vaporizzati dalle loro caratteristiche cromatiche. Assieme al suo studente inglese Rowlandson Cartmell, Bunsen studiò l'effetto di filtri diversi sui colori delle fiamme, con la speranza che ciò sarebbe servito a distinguere tra loro le fiamme spesso simili di alcuni elementi. I suoi risultati però erano ben lungi dall'essere soddisfacenti anche perché, come si sa, a causa dei metodi di produzione dei vetri colorati, l'intervallo di trasmittanza dei suoi filtri era troppo ampio per essere abbastanza selettivo. Fu il suo collega e amico di Heidelberg, il fisico Gustav Robert Kirchhoff (1824-1887), a suggerirgli di usare i prismi degli spettroscopi per analizzare le componenti spettrali della luce. Bisogna notare che Kirchhoff aveva familiarità con lo spettroscopio in quanto fisico, mentre lo strumento non era molto noto ai chimici. Come conseguenza di questo consiglio l'iniziale analisi cromatica di Bunsen si trasformò nella ricerca delle righe spettrali caratteristiche di specifici elementi chimici. Avendo una non comune predisposizione per l'analisi inorganica, Bunsen, mediante un apparato sperimentale, riuscì quasi subito a identificare, mediante la fiamma del suo bruciatore, le righe di emissione caratteristiche per un'intera serie di elementi chimici e per i loro composti.
Al fine di registrare in maniera più precisa gli spettri dei diversi elementi, tra il 1860 e il 1861 Bunsen e Kirchhoff progettarono uno spettroscopio più sofisticato che fu poi costruito da Karl August Steinheil (1801-1870). Il modo ingegnoso con cui i fasci di luce provenienti da due fiamme diverse erano guidati fino a formare un unico fascio, per poi sovrapporsi a una scala graduata, rese possibile una registrazione molto accurata delle singole righe spettrali. La loro prima pubblicazione, Chemische Analyse durch Spektralbeobachtungen (L'analisi chimica per mezzo di osservazioni spettrali, 1860-1861), comprendeva una tavola in cui erano dipinte le righe spettrali caratteristiche dell'intera serie dei metalli alcalini assieme a quelle di altri elementi. Questa tavola sarebbe stata poi riprodotta innumerevoli volte sia da chimici sia da fisici, in libri, articoli, manuali, e sarebbe stata diffusa nei laboratori, negli osservatori e persino nelle aule scolastiche.
Non appena l'importanza dei risultati di Kirchhoff e Bunsen fu pubblicamente riconosciuta, grazie alle spettacolari scoperte di nuovi elementi chimici e alle inattese applicazioni analitiche del nuovo metodo spettroscopico in campi disparati ‒ dall'analisi del sangue fino alla produzione di acciaio ‒, sorsero dispute sulla priorità, come succede di frequente per le scoperte scientifiche di questo calibro.
Tali dispute furono alimentate non soltanto da motivi personali, ma anche dall'orgoglio nazionalistico, dato che alcuni dei lavori più importanti sull'analisi prismatica furono pubblicati in paesi diversi dalla Germania, ossia in Francia e in Inghilterra. Dopo il brillante inizio segnato dai lavori di Fraunhofer, nell'area di lingua tedesca non fu più condotta alcuna ricerca di paragonabile rilievo fino alla metà del XIX secolo. Più di una volta il professore di Glasgow, William Thomson (lord Kelvin, 1824-1907), fece riferimento al fatto che, dieci anni prima della pubblicazione dell'articolo di Kirchhoff e Bunsen, il suo insegnante irlandese George G. Stokes (1819-1903), durante le lezioni, aveva fatto menzione della coincidenza delle righe gialle del sodio con le luminose righe di fiamma del sodio, interpretando tale corrispondenza come l'effetto di un fenomeno di risonanza.
Alcune lettere successive tra Stokes e Thomson rivelano che in effetti il primo, insieme ad alcuni suoi allievi, era arrivato molto vicino a scoprire la relazione fondamentale tra righe di emissione e righe di assorbimento. Quando, nel febbraio del 1854, Thomson chiese a Stokes informazioni sulla relazione fisica tra "luci artificiali e righe scure solari", riferendosi in particolare alle righe D del sodio, Stokes rispose che, a parte il carbonato di sodio, non conosceva altra sostanza chimica pura che producesse le righe D. D'altra parte, secondo Stokes, era difficile escludere che altre sostanze potessero produrre le stesse righe, dato che anche la più piccola traccia di carbonato di sodio le faceva comparire, come avevano già osservato Foucault, Miller e altri negli spettri di fiamma di altri sali.
Thomson dichiarò di essere d'accordo con Stokes sul fatto che la ricerca sulla connessione tra spettri terrestri e spettro solare fosse "uno splendido campo d'indagine" aggiungendo che non si poteva escludere l'esistenza di sostanze in grado di emettere righe spettrali luminose proprio in corrispondenza delle altre righe dello spettro di Fraunhofer. Se fosse stata coronata da successo, una simile indagine avrebbe aperto la strada a un'analisi qualitativa dell'atmosfera solare. In seguito Thomson descrisse gli esperimenti che aveva realizzato per verificare l'esatta coincidenza tra le righe del carbonato di sodio e le righe D di Fraunhofer: "La luce della lampada ad alcol corrispondeva nel modo più esatto osservabile con la riga scura solare D" (Thomson a Stokes, 24 febbraio 1854, in Wilson 1990, I, pp. 134-136).
Stokes replicò a sua volta ricordando, in una lettera del 7 marzo, la verifica che di questa coincidenza aveva condotto, in maniera molto più accurata, il chimico Miller il quale aveva fatto ricorso a tre prismi dal potere dispersivo così elevato da produrre un intervallo di 3 pollici tra le due righe D. Anche allora le due righe luminose della fiamma apparivano esattamente coincidenti con le righe scure solari. Fu in quell'occasione che Thomson ricordò che:
È stato proprio l'esperimento di Miller (di cui mi avevi parlato tanto tempo fa) che mi convinse per la prima volta che doveva esserci una connessione fisica tra l'agente che si muove sulla superficie del Sole e la fiamma di una lampada ad alcol in cui è presente un sale. Non ho mai dubitato, dopo aver saputo dell'esperimento di Miller, che 'deve' esistere una qualche connessione e trovo addirittura inconcepibile che, conoscendo l'esperimento di Miller, lo si possa dubitare […]. Se si potesse solo dimostrare che senza il carbonato di sodio la riga D non appare, considererei del tutto certo che c'è soda o sodio puro in un qualche stato all'interno o intorno al Sole. Se si potesse dimostrare la coincidenza delle righe luminose di altre fiamme con le righe scure dello spettro solare con la stessa accuratezza di Miller la connessione sarebbe a mio parere altrettanto sicura. Certamente mi aspetto un'analisi qualitativa dell'atmosfera solare da esperimenti alla Miller su altri tipi di fiamma. (Thomson a Stokes, 9 marzo 1854, ibidem, p. 142 e segg.)
Stokes aveva anche elaborato un modello per spiegare questa coincidenza. Facendo un'analogia con la risonanza delle corde di uno strumento musicale, egli immaginò che i mattoni elementari della materia fossero simili a strutture oscillanti tali da poter essere messe in movimento dalla luce incidente, assorbendone l'energia, e poter essere eccitate anche dal calore o dall'elettricità. Tali vibrazioni venivano attenuate dall'emissione di energia in forma di righe spettrali, là dove le frequenze di oscillazione erano quelle caratteristiche delle strutture elementari:
Credo che si possa darne una ragione fisica plausibile supponendo che le molecole ultime di taluni corpi ponderabili possano essere in grado di attuare una certa vibrazione avente un periodo proprio e che tale vibrazione possa essere eccitata sia quando un corpo si trova in uno stato di combustione, dando quindi origine a una riga luminosa, sia da vibrazioni luminose dello stesso periodo, producendo quindi una riga scura di assorbimento. Ma non dobbiamo andare troppo in fretta. Non ho trovato, per quanto ricordi, un libro in cui sia descritto un esperimento del genere, né sono in grado di immaginare un singolo esperimento per giustificare questa ipotesi. (Stokes a Thomson, 7 marzo 1854, ibidem, p. 140)
Eppure Stokes negò sempre, in maniera categorica, la sua priorità nella scoperta. Per esempio, nella lettera a C.T.L. Whitmell contenuta nella memoria On the early history of spectrum analysis (1876), egli scrisse: "Non ho mai cercato di attribuirmi nemmeno in parte l'ammirevole scoperta di Kirchhoff, e stento a credere che alcuni dei miei amici abbiano sostenuto la mia causa con zelo eccessivo" (p. 189). A differenza di Whitmell, suo allievo entusiasta, il cauto Stokes era ben lungi dall'essere certo che l'intensa riga spettrale gialla potesse essere attribuita al sodio elementare, a un suo composto o forse persino a una componente subatomica in cui il sodio era scisso nella fiamma. Il fatto che non si fossero osservate altre righe altrettanto intense, interpretabili in termini di ulteriori modi oscillatori della struttura elementare, non fece che rafforzare i suoi dubbi. Discutendo gli spettri luminosi prodotti presso la Royal Institution per mezzo dell'allora relativamente nuovo arco elettrico, Stokes tornò alla domanda di Thomson sul grado di certezza con cui la riga D di Fraunhofer nello spettro solare potesse essere attribuita al sodio:
Anche se i composti del sodio producono nelle fiamme questa riga luminosa, non penso che siamo necessariamente autorizzati a inferirne la presenza di sodio o di un composto del sodio dalla sola comparsa di questa riga. […] Non posso fare a meno di credere che scomposizioni di ordine molto più elevato possano avvenire in un simile arco (mi riferisco all'arco voltaico) e che un attento esame di tali righe possa condurci a conclusioni notevoli circa i corpi attualmente considerati elementari. Non c'è niente di stravagante in questa ipotesi: sono pochi i chimici, credo, che pensano che i cosiddetti elementi siano realmente tali. Non si può, per esempio, escludere che i metalli chimicamente puri possano al pari dei composti del sodio produrre la riga luminosa D. Se ciò fosse scoperto, forse potrei dire che questi metalli sono composti del sodio, ma molto più probabilmente direi che sia essi sia il sodio sono composti di qualche sostanza ancora più elementare. (Stokes a Thomson, 28 marzo 1854, in Wilson 1990, I, p. 146)
Malgrado le loro intuizioni sul fatto che l'analisi spettrale fosse la possibile chiave per future indicazioni sulla composizione dei corpi luminosi, riportate in articoli risalenti fino al 1834, né Stokes, né Thomson, né Brewster perseguirono tale linea di ricerca. A parte il fatto che il centro del loro interesse era altrove, ciò fu probabilmente dovuto alla mancanza di un buon collaboratore esperto nell'analisi chimica, che avrebbe loro consentito di disporre di elementi chimici puri. Finché le impurezze dei campioni impedirono un'esatta determinazione di quale sostanza chimica generasse un particolare spettro di fiamma ‒ la riga D molto intensa del sodio era una chiara eccezione alla regola ‒, la speranza di associare in maniera affidabile righe spettrali ed elementi diversi rimase illusoria. Tanto più che, come abbiamo visto nella corrispondenza tra Stokes e Thomson, prima del 1859 non era nemmeno chiaro se le presunte entità vibranti fossero realmente elementari, fossero composti chimici, oppure se, per spiegare le righe spettrali osservate, si dovessero invocare strutture atomiche ancora più minute.
Sempre nell'ambito delle dispute di priorità degli anni Sessanta dell'Ottocento, molti fecero riferimento ai contributi di Anders Jonas Ångström (1814-1874), il quale mezzo decennio prima aveva intrapreso ricerche sperimentali per esaminare le righe spettrali prodotte da scariche elettriche. Egli giunse alla conclusione che lo spettro di scintilla era una combinazione degli spettri generati dai poli metallici e dal gas interposto. Inoltre, egli trovò che gli spettri delle leghe metalliche erano una combinazione degli spettri dei singoli componenti metallici. Entrambi questi risultati indicavano che le righe spettrali erano una sorta di impronte digitali ottiche dei relativi elementi chimici che non venivano influenzate dalla loro combinazione con altri elementi. Queste considerazioni condussero Ångström a porsi il problema della relazione tra le righe luminose prodotte negli spettri generati elettricamente e le righe scure di Fraunhofer nello spettro solare.
Nella versione della scoperta della sua ipotesi di coincidenza, Ångström ne attribuisce l'origine storica a una memoria di Leonhard Euler del 1746, nella quale è anche utilizzata l'analogia con la risonanza meccanica. Il fatto che, nonostante la sua profonda intuizione, Ångström non riuscì a risolvere affatto questo problema fu causato dalla sua scelta di confrontare le righe di Fraunhofer con quelle dell'aria, avendo egli ipotizzato che le righe scure fossero dovute a un processo di assorbimento da parte dell'atmosfera terrestre. Un simile confronto fu necessariamente deludente, dato il numero molto basso di coincidenze fra righe dei due spettri, ed egli abbandonò la sua ipotesi assieme al confronto sistematico tra i diversi spettri di scintilla. Nel 1862 Ångström riconobbe a Kirchhoff la priorità nella dimostrazione della correttezza della propria ipotesi, grazie ai suoi esperimenti sistematici sulle righe del sodio, del litio e del ferro. Ben presto fu generalmente riconosciuto ‒ anche se Ångström non era pienamente d'accordo ‒ che Kirchhoff era stato anche il primo a generalizzare queste osservazioni e a comprenderne appieno il significato.
Bunsen rivelò le enormi potenzialità dell'analisi spettrale qualitativa quando dimostrò che anche quantità microscopiche di sodio (3×10‒6 mg) bastavano a far osservare la caratteristica riga D nello spettro di fiamma. Nel marzo del 1860 Bunsen notò righe di emissione rosse e blu di considerevole intensità in alcuni spettri. Distillando un campione di sali da 44.000 litri di acqua minerale di Dürkheim, scoprì un nuovo elemento chimico, il 'cesio', il cui nome deriva dal termine latino caesia che indica l'azzurro del cielo. L'anno seguente, usando lo stesso metodo, che richiedeva non soltanto l'occhio acuto dell'esperto spettroscopista, ma anche le competenze analitiche del buon chimico, egli isolò da circa 150 kg di lepidolite, estratta in Sassonia, un nuovo elemento che chiamò 'rubidio', dal latino rubidus, cioè rosso scuro. Grazie a metodi simili seguirono molte nuove scoperte, come, per fare qualche esempio, quella del 'tallio' nel 1861 a opera di William Crookes, dell''indio' nel 1863 e del 'gallio' nel 1875. Tuttavia un metodo solo apparentemente così semplice produsse anche molti pronunciamenti prematuri, che erano basati sull'erronea attribuzione di righe spettrali associate a elementi chimici già noti.
Il successo dell'analisi spettrale nel biennio 1859-1860 fu così travolgente che in pochi mesi gli strumenti di analisi comparvero nei laboratori dei chimici e dei farmacisti, negli osservatori astronomici, negli ospedali, nei centri d'indagine giudiziaria, nelle acciaierie e, in pochi anni, anche nei laboratori scolastici. Oltre a queste molteplici utilizzazioni per analisi qualitative, la nuova tecnica acquistò ulteriore fascino in seguito alla sua descrizione in numerosi libri pubblicati dopo il 1860 e destinati a ogni tipo di pubblico. La miriade di nuove applicazioni era stupefacente. In metallurgia, per esempio, il tecnico addetto, usando un semplice spettroscopio tascabile, poteva facilmente identificare il momento esatto in cui l'acciaio fuso veniva decarbonizzato, appena prima di perdere la sua fluidità. In precedenza, 'vedere' questo cambiamento in base alla piccola variazione di colore del metallo contenuto nel recipiente richiedeva una notevole abilità. Ora, invece, bastava saper distinguere le molte righe del ferro dalle bande di ossido di carbonio, che svanivano alla fine del processo. Così, le analisi chimiche di diversi gas e fluidi assorbenti, come per esempio il sangue, richiedevano adesso semplicemente la capacità di distinguere tra loro diverse configurazioni di righe e bande negli spettri.
Per il resto del XIX sec., rappresentare graficamente tutti i tipi di spettro in condizioni sperimentali controllate e confrontarli sistematicamente con gli spettri di sostanze sconosciute, o sostanze in condizioni fisiche ignote, divenne una delle principali occupazioni dei ricercatori di vari dipartimenti scientifici. Ångström fu il primo scienziato a usare un reticolo di diffrazione per graficare uno spettro non secondo la sua decomposizione prismatica (che dipendeva dal tipo di vetro usato per il prisma), ma secondo una scala per le lunghezze d'onda basata su un'unità pari a un decimilionesimo di millimetro (10‒10 m), in seguito chiamata Ångström in suo onore (simbolo Å). Il perfezionamento della tecnica di produzione di reticoli di diffrazione da parte di Lewis M. Rutherfurd, negli anni Settanta, e di Henry A. Rowland, negli anni Ottanta, consentì di disegnare altre mappe simili per l'ultravioletto vicino, per esempio a opera di Eleuthère-Elie-Nicolas Mascart e Marie-Alfred Cornu a Parigi. Contemporaneamente, nel 1881, l'invenzione del bolometro aprì all'indagine la regione infrarossa, che fu analizzata, in particolare, da Samuel P. Langley e da Charles G. Abbott il quale nel 1900 raggiunse i 53.000 Å. Per quanto riguarda la parte visibile dello spettro, la mappa fotografica di Rowland dello spettro solare normale (pubblicata in due serie successive nel 1886 e nel 1888) segnò il punto più alto del suo programma di ricerca baconiano di cartografia spettrografica.
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