L'Ottocento: fisica. La fisica matematica francese e l'elettrodinamica di Ampere
La fisica matematica francese e l'elettrodinamica di Ampère
Nel marzo del 1800 Alessandro Volta, professore di fisica a Pavia, spedì al presidente della Royal Society di Londra, Sir Joseph Banks, una lunga lettera ‒ poi pubblicata nelle "Philosophical Transactions" ‒ nella quale presentava un suo dispositivo di nuova invenzione che sarebbe divenuto ben presto noto con il nome di 'pila di Volta'.
Tale strumento era stato ideato nel contesto di un'antica disputa riguardante i cosiddetti effetti galvanici, la cui origine era stata ricondotta dallo stesso Luigi Galvani (1737-1798) all'esistenza di una specifica elettricità animale. La pila fu uno strumento potente non soltanto perché fornì argomenti per confutare la tesi di Galvani, ma soprattutto perché, a differenza della bottiglia di Leida o delle macchine elettriche, generava con continuità effetti di intensità mai osservata in precedenza; fu per questo motivo che quella della pila fu considerata una delle invenzioni più importanti e diede l'avvio a un'ondata di ricerche che si propagò in tutta l'Europa, seguendo modalità diverse a seconda del luogo e del contesto scientifico.
Banks aveva diffuso la notizia della nuova invenzione già prima che la lettera di Volta fosse letta pubblicamente ai membri della Royal Society. Il chirurgo Anthony Carlisle (1768-1840) e il suo amico William Nicholson (1753-1815), direttore del "Journal of natural philosophy, chemistry, and the arts" ‒ anche detto "Nicholson's Journal" ‒, avviarono immediatamente alcuni esperimenti per proprio conto, ponendo particolare attenzione ai fenomeni chimici che avevano luogo nella pila e dei quali Volta, pur senza averli mai realmente analizzati, aveva fatto menzione. Carlisle e Nicholson notarono accidentalmente che quando la pila veniva chiusa, mettendo in contatto le due estremità del filo conduttore per mezzo di alcune gocce di liquido, si sviluppavano sostanze gassose che, a un'analisi più accurata, si rivelarono essere idrogeno e ossigeno, risultato attribuito dai due scienziati all'avvenuta decomposizione dell'acqua. Si trattava di un'idea assolutamente nuova: per quanto gli effetti chimici del galvanismo fossero riconosciuti come validi, nessuno aveva mai accennato alla decomposizione chimica. Non c'è da meravigliarsi, quindi, se l'interpretazione di Carlisle e Nicholson fu fortemente osteggiata nel dibattito che, a cominciare dalle pagine del giornale di Nicholson, ben presto si accese intorno all'argomento.
Le obiezioni riguardavano i molti altri effetti chimici che avvenivano simultaneamente nella pila, o il fatto che le quantità di gas sprigionate non concordassero esattamente fra loro. Un particolare che suscitava serie perplessità era che i gas si sviluppavano separatamente alle due estremità del filo; ciò rendeva difficile concepire che una certa quantità d'acqua si decomponesse simultaneamente in due punti diversi. Il dibattito proseguì per parecchi anni e vi presero parte scienziati di tutta Europa. William H. Wollaston, Henry Haldane, William Henry e William Cruikshank diedero i maggiori contributi per quanto riguarda l'Inghilterra, dove, come altrove, argomento di grande interesse era la pila stessa.
Particolare rilievo ebbe il dispositivo proposto da Cruikshank, il cosiddetto 'apparecchio a vaschetta', che si rivelò assai più maneggevole e il cui uso, nonostante i problemi di tenuta che presentava, si diffuse rapidamente; il termine 'pila' continuò tuttavia a essere comunemente adottato.
Il più attivo nel dare un contributo al dibattito fu un giovane e sconosciuto ricercatore, Humphry Davy (1778-1829). Proveniente dalla semplice esperienza di una farmacia, si era ben presto accostato alla chimica, anche se continuò a coltivare numerosi interessi, tra i quali una passione per la letteratura, in particolare per il romanticismo tedesco, che lo accompagnò per tutta la vita: non soltanto lesse molto, ma scrisse anche diversi lavori teatrali e poesie. La sua carriera fu strettamente legata alla Royal Institution di Londra, un'istituzione privata che, fondata nel 1799 con l'obiettivo di divulgare il sapere scientifico fra gli artigiani, si era rapidamente trasformata in un punto di incontro per colti esponenti delle classi superiori. Nel 1801, Davy fu assunto come assistant lecturer e, grazie al suo talento di conferenziere, fece una rapida carriera sia nella Royal Institution sia nei circoli accademici di Londra.
Sebbene nei primi tempi del dibattito sull'elettrochimica Davy avesse lavorato sulla struttura della pila, cercando di apportarvi innovazioni e migliorie, egli tornò a occuparsi dei problemi fondamentali di tale disciplina soltanto nel 1806, quando ormai aveva raggiunto una posizione consolidata nel mondo accademico londinese. Davy era convinto che fosse corretta l'interpretazione dei risultati di Nicholson e Carlisle in termini di una decomposizione chimica e si adoperò per trovarne una dimostrazione definitiva. Nella sua analisi minuziosa dello sviluppo del gas agli elettrodi fece uso di una batteria voltaica molto potente e di materiali altamente purificati; dopo avere svolto un'indagine particolarmente scrupolosa sulle proprietà chimiche dei recipienti, non soltanto riuscì a rendere conto della maggior parte delle reazioni chimiche secondarie, ma anche a ottenere con precisione le previste quantità di ossigeno e idrogeno.
Il punto cruciale della questione era quello di spiegare perché i due gas si sviluppassero in luoghi separati: al riguardo, Davy propose una teoria della dissociazione elettrochimica fortemente ispirata ad alcune teorie precedentemente proposte da altri studiosi. A Stoccolma, Jöns Jacob Berzelius (1779-1848), un giovane chimico essenzialmente autodidatta come Davy, aveva compiuto nel 1803 un primo passo verso la spiegazione del problema, il cui studio era stato portato ulteriormente avanti in seguito da Theodor von Grotthus (1785-1822), un aristocratico, chimico dilettante, che all'epoca viveva a Roma.
Nel 1805, Grotthus aveva formulato l'idea che l'acqua si dissociasse all'interno di tutto il suo volume e che le parti componenti cominciassero a muoversi non appena le estremità del filo della batteria fossero state immerse nel recipiente. Allo scopo di spiegare come mai il gas si liberasse solamente in corrispondenza del filo e non invece all'interno del recipiente, Grotthus immaginò che le particelle decomposte formassero catene di due diversi tipi, in grado di neutralizzarsi a vicenda; ciascuna catena si sarebbe mossa come un tutto e il gas si sarebbe liberato soltanto nel punto in cui essa raggiungeva il filo.
Tale idea costituì il nucleo centrale della teoria ulteriormente elaborata da Davy, ma risulta piuttosto singolare il fatto che non vi venisse fatta menzione né di Grotthus né di Berzelius. Il lavoro di Davy fu ampiamente accettato come una dimostrazione definitiva dell'elettrolisi e allo scienziato furono tributati solenni riconoscimenti a Londra e a Parigi; non solo, in seguito ai risultati ottenuti da Davy, Napoleone Bonaparte decise di concedere una speciale donazione all'École Polytechnique da destinare alla fabbricazione di una pila di Volta ancora più grande.
Ciò che conta maggiormente è che era cambiato il ruolo stesso della pila, divenuta, da mero oggetto di ricerca, strumento per l'analisi chimica. Proseguendo in questa direzione, Davy sviluppò nuove competenze e nuove tecniche e nel 1806 realizzò un'altra famosa scoperta: quando, mediante un esperimento molto complesso, la soda o la potassa venivano sottoposte all'azione di un potente apparecchio di Volta, si sprigionava ossigeno insieme ad alcune altre sostanze sconosciute. Ancora una volta, Davy interpretò il fenomeno come una decomposizione e chiamò le sostanze 'sodio' e 'potassio'. Tale interpretazione sconvolse le conoscenze chimiche ben consolidate dell'epoca, in quanto Davy stava ipotizzando che l'ossigeno, che secondo la tradizione era collegato all'acidità, potesse essere uno dei componenti delle sostanze alcaline.
La situazione era resa ancora più singolare dal fatto che lo strumento indispensabile alla realizzazione del processo era la pila di Volta, essa stessa peraltro ben lontana dall'essere compresa fino in fondo. L'interpretazione di Davy dell'elettrolisi fu, però, sempre più accettata e seguita. Quando Davy, l'anno successivo, riuscì a realizzare la decomposizione delle terre alcaline (ottenendo calcio, bario, stronzio e magnesio), Berzelius lo aveva già preceduto.
In quegli anni, il laboratorio della Royal Institution subì un notevole cambiamento: da luogo di preparazione di pubbliche lezioni, fu trasformato nel più moderno e forse meglio attrezzato laboratorio d'Inghilterra e fu grazie al successo di Davy come conferenziere e ricercatore che l'amministrazione della Royal Institution fu disposta a sostenere le spese richieste dalla trasformazione; d'altra parte, senza la disponibilità di risorse sempre maggiori, difficilmente si sarebbero raggiunti simili risultati. I laboratori privati della Royal Institution, e quelli statali dell'École Polytechnique e dell'Observatoire di Parigi, rappresentarono per molti anni importanti risorse della ricerca sperimentale. Mentre a Parigi avveniva una netta separazione fra la ricerca fisica e quella chimica, nel laboratorio di Davy tale distinzione non esisteva, e questa, forse, fu la ragione della sua produttività nei decenni che seguirono.
Lo studio dei fenomeni voltaici in Germania
Nei paesi dell'area germanica, il galvanismo era studiato approfonditamente già prima del 1800 e la notizia delle scoperte di Volta e di Nicholson e Carlisle ebbe l'effetto di intensificare ulteriormente l'attività scientifica. La maggior parte di coloro che si occupavano dell'argomento erano professori nelle università o nelle accademie: Christoph Heinrich Pfaff a Kiel, Ludwig Wilhelm Gilbert a Lipsia, Paul-Louis Simon e Paul Erman a Berlino. A differenza di Londra o di Parigi, tuttavia, non esisteva alcun laboratorio di grandi dimensioni dove svolgere ricerche sperimentali. I principali problemi trattati erano, in Germania come negli altri paesi, la possibile dissociazione dell'acqua e i nuovi tipi di pila.
Anche in questo caso, i contributi più originali si devono a un giovane ricercatore ancora privo di una posizione consolidata, Johann Wilhelm Ritter (1776-1810) che, al pari di Davy, proveniva da un ambiente modesto e si era fatto conoscere grazie a contributi molto originali al galvanismo. I suoi interessi erano ancora più vari di quelli coltivati da Davy: Ritter passava da un circolo letterario romantico all'altro e il suo lavoro sulla fisica e sulla chimica era sempre inserito nel quadro di una concezione del mondo più ampia, che comprendeva aspetti sia spirituali sia materiali.
Sebbene si ispirasse profondamente alle idee della Naturphilosophie tedesca, in particolare a quelle di Schelling, nelle sue ricerche Ritter adottò un approccio personale, privilegiando particolarmente l'attività empirica e sperimentale. Egli effettuò più esperimenti di molti suoi contemporanei, sebbene spesso con modalità e idee diverse. A differenza della maggior parte degli altri ricercatori, per lungo tempo Ritter non ricevette alcun riconoscimento da parte del mondo accademico ed era quindi costretto ad acquistare a proprie spese la maggior parte degli strumenti e dei materiali.
Ritter non rimase molto sorpreso della scoperta di Volta, avendo già ipotizzato, nei suoi precedenti lavori, che il galvanismo potesse essere prodotto da sostanze inorganiche. Aveva anche dimostrato ed elaborato in dettaglio la stretta relazione fra attività chimica e attività galvanica ‒ in effetti, alcuni considerano Ritter il fondatore dell'elettrochimica. Fin dall'inizio, dunque, egli fu convinto che il funzionamento della pila fosse dovuto a un'azione di tipo chimico e non, come suggerito da Volta, al contatto fra metalli. Nella veste di uno dei principali oppositori della teoria che interpretava i risultati di Nicholson e Carlisle nell'ottica della decomposizione chimica, Ritter realizzò numerosi esperimenti, appositamente ideati per discutere la questione. Inoltre, sviluppò nuovi modelli di pila: la Ladungssäule (pila ricaricabile) che, una volta esaurita, poteva essere ricaricata collegandola a un'altra pila, e la Trockensäule (pila a secco) che funzionava con degli strati intermedi (quasi) asciutti ed era quindi più maneggevole.
Nel 1803, Ritter avrebbe probabilmente vinto il premio annuale per il galvanismo offerto dall'Institut de France, se nello stesso periodo non avesse annunciato una nuova scoperta che alla fine si rivelò un fallimento: affermò infatti che una pila liberamente sospesa si sarebbe orientata nella direzione di certi poli 'elettrici' della Terra. Questo fatto non soltanto compromise la sua reputazione nell'ambiente scientifico parigino, ma anche quella del suo amico danese Hans Christian Oersted (1777-1851), che aveva dato l'annuncio della presunta scoperta. Nel lavoro successivo, Ritter analizzò la dipendenza del funzionamento della pila dalle dimensioni e dal numero dei dischi che la costituivano, spiegandone chiaramente i diversi effetti, in condizioni di apertura e di chiusura, e arrivando quasi a distinguere tra due grandezze indipendenti: tensione e intensità di corrente.
Ritter è forse noto soprattutto per lo straordinario uso che fece dell'autosperimentazione: il suo fu un caso quasi eccezionale, se si considera che era disposto a sottoporre ogni parte del proprio corpo a vere e proprie torture per sperimentare su di sé gli effetti galvanici. Tuttavia, la pratica di usare il corpo umano come mezzo per rivelare o quantificare i fenomeni legati al galvanismo era di per sé piuttosto comune: prima della scoperta di Volta, i sensi erano spesso l'unico strumento per individuare gli effetti più deboli, ma anche dopo l'avvento della pila, quando si produssero effetti molto più intensi, diversi scienziati continuarono a praticare l'autosperimentazione, tra questi lo stesso Volta e persino studiosi di tendenza più matematica, come Jean-Baptiste Biot che se ne servì nelle sue prime ricerche.
La pila di Volta a Parigi
A Parigi, le prime ricerche in relazione alle scoperte di Volta e di Nicholson e Carlisle furono intraprese da due eminenti chimici, Antoine-François de Fourcroy (1755-1809), che operava al Muséum d'Histoire Naturelle, e Louis-Bernard Guyton de Morveau (1737-1816) dell'École Polytechnique. Di lì a poco, nella comunità scientifica parigina si sviluppò un dibattito intorno a quale fosse l'interpretazione più corretta da dare ai risultati di Nicholson e Carlisle, cui parteciparono, fra gli altri, Nicolas Gautherot e Claude-Louis Berthollet, entrambi chimici, e il fisico Jean-Henri Hassenfratz. Ben presto fece la sua comparsa un nuovo movimento che aspirava alla fondazione di una scienza fisico-matematica, tendenza che a Parigi esisteva già dagli ultimi decenni del XVIII secolo.
Stimolato dal matematico Pierre-Simon de Laplace (1749-1827), un giovane polytechnicien di nome Jean-Baptiste Biot (1774-1862) iniziò studi per conto proprio, concentrandosi in particolare sulla pila. Biot era deciso a seguire un approccio diverso rispetto a quanti condividevano l'impostazione tipicamente chimica; infatti è significativo che nel suo primo articolo non menzionasse il lavoro di alcun chimico, ma elogiasse piuttosto Laplace, che sull'argomento non aveva pubblicato nulla.
L'occasione per Biot venne nell'ottobre del 1801, quando Volta presentò il proprio strumento all'Institut, ricevendo eccezionalmente gli alti onori di Bonaparte. Che agli altri membri dell'Institut questo piacesse o meno (e non a tutti piaceva), l'argomento aveva assunto ormai una grande rilevanza, al punto che Bonaparte non soltanto bandì un concorso annuale per il miglior lavoro sul galvanismo, ma istituì anche un premio di valore straordinariamente elevato (pari a circa dieci volte lo stipendio annuale di un professore dell'École Polytechnique) per chi avesse fatto una scoperta di importanza paragonabile a quelle di Franklin o di Volta. Biot fu eletto membro del comitato che aveva il compito di riferire sulla pila di Volta e fu incaricato di stendere la relazione. Ciò gli offrì l'opportunità di dare impulso al suo approccio generale e di compiere un primo passo verso la matematizzazione.
In un articolo del 1803 (Recherches physiques sur cette question: Quelle est l'influence de l'oxidation sur l'électricité développée par la colonne de Volta), Biot passò alla fase successiva, vale a dire alle misurazioni. Si procurò lo strumento più delicato e più preciso allora esistente ‒ la bilancia di torsione di Coulomb ‒ e se ne servì per confrontare pile diverse. A causa della natura stessa dello strumento, l'unica grandezza che Biot aveva modo di misurare era la quantità di carica depositata dalle pile su un condensatore. Biot effettuò le misurazioni lavorando sempre con la pila aperta; nonostante ciò, formulò i suoi risultati come se fossero stati ottenuti in condizioni di piena generalità. Questa svista lo portò a trarre conclusioni bizzarre, come, per esempio, che l'attività di un apparecchio a vaschetta, qual era la pila, risultava indipendente dal livello del fluido che ricopriva i dischi: un risultato perfettamente corretto per la pila aperta, ma grossolanamente errato per la pila chiusa. Dell'infelice situazione si fece carico il matematico e fisico René-Just Haüy (1743-1822) che, quale convinto sostenitore della teoria di Biot, cercò di difenderla per mezzo di dettagliate osservazioni sui fenomeni che avvenivano durante la fase di scarica della pila. A tale scopo fu costretto a introdurre alcune ipotesi, la maggior parte delle quali priva di qualunque fondamento empirico. Nondimeno, fu anche grazie a queste speculazioni che in Francia la teoria di Biot rimase per molti anni quella più accreditata. Non c'è da stupirsi che Haüy considerasse il resoconto di Biot sulla pila di Volta (e non quest'ultima) come l'inizio di una sorta di 'età moderna' della scienza voltaica.
Anche in Francia si era cercato di affrontare la questione in modo più generale: Gautherot, per esempio, aveva fatto presente la necessità di una più ampia esplorazione sperimentale del campo, prima di procedere all'elaborazione della teoria; richieste di questo tipo venivano avanzate da quanti ponevano particolare attenzione ai fenomeni chimici in gioco nella pila di Volta. Simili appelli non ebbero però alcuna risonanza e i loro autori furono infine messi a tacere: un fatto, questo, che ha molto a che vedere con l'assetto istituzionale dell'epoca. A causa di sviluppi particolari, molte posizioni chiave nell'École Polytechnique, nell'Institut e nelle riviste furono ben presto ricoperte da quanti, in linea con le direttive di Laplace, premevano piuttosto per una matematizzazione del settore. Un simile ambiente accademico non era certamente quello in cui potesse trovare spazio un lavoro sperimentale più qualitativo ed esplorativo.
Bonaparte e la fisica laplaciana
In Francia, durante gli anni della Rivoluzione, il sistema dell'istruzione era stato sottoposto a un profondo processo di riorganizzazione, che proseguì, addirittura intensificandosi, durante il periodo napoleonico. Esso interessò l'istruzione universitaria e la ricerca e diede luogo infine a una struttura altamente centralizzata. I centri dell'istruzione scientifica e della ricerca erano ora le grandes écoles, prima fra tutte l'École Polytechnique, convertita da Bonaparte in un'accademia militare: la maggior parte dei personaggi di spicco del XIX sec. sarebbero stati dapprima polytechniciens. Il centro della comunicazione accademica era la prima classe dell'Institut de France, l'erede dell'Académie des Sciences. Lo stesso Bonaparte, molto interessato alle scienze e alla tecnologia, era un membro dell'Institut e aveva pertanto un controllo diretto sulla sua attività. Parigi si ritrovò ad avere un'elevatissima concentrazione di persone altamente specializzate all'interno di un ristretto numero di istituzioni. Anche la portata delle risorse materiali era senza precedenti: l'École Polytechnique possedeva laboratori di fisica e di chimica che erano usati anche per le esercitazioni pratiche degli studenti. Un sistema d'istruzione e di ricerca così organizzato, centralizzato e statalizzato era unico in Europa. Né la Germania ‒ dove la ricerca sperimentale era disseminata in tanti piccoli laboratori o gabinetti scientifici di accademie e università ‒ né l'Inghilterra ‒ dove gli esperimenti erano tradizionalmente condotti da individui con particolari interessi scientifici (e perlopiù ricchi), e ora sempre più da piccole e specializzate istituzioni private o statali ‒ offrivano qualcosa di paragonabile. Fu nella Francia postrivoluzionaria che la ricerca universitaria e il potere politico diedero vita a un'alleanza ad alto livello.
A dispetto della politica ufficiale, improntata all'apertura, il sistema permise a un ristretto gruppo di scienziati, accomunati da una particolare impostazione, di accrescere notevolmente il proprio potere a discapito di altri. Berthollet e Laplace furono generosamente finanziati da Bonaparte ‒ del quale Laplace fu amico e per un breve periodo addirittura ministro di gabinetto. Intorno al 1806, presso Arcueil, un sobborgo di Parigi, i due studiosi riuscirono a organizzare un proprio centro di ricerche con un ben definito programma. I loro studenti e ricercatori occuparono a mano a mano tutte le posizioni chiave della comunità accademica parigina, cosicché questo movimento finì ben presto con il dominare le attività scientifiche e con il limitare le possibilità di sviluppo di impostazioni alternative: per circa dieci o quindici anni in Francia la fisica fu essenzialmente laplaciana.
Il punto principale del programma di ricerca laplaciano era la rappresentazione dei concetti e dei fenomeni per mezzo di un rigoroso formalismo matematico. L'enorme successo della meccanica celeste aveva incoraggiato la speranza di ottenere analoghi risultati in altri campi, come l'ottica, la termologia, l'elettricità, il magnetismo o lo studio dell'elasticità. La quantificazione e l'organizzazione dei dati, sotto forma di misure esatte e di espressioni analitiche, erano considerate i primi passi da compiere, ma l'impostazione di Laplace forniva indicazioni molto più specifiche rispetto a come dovesse esser realizzato un simile processo di matematizzazione: vale a dire, mediante la riduzione di tutte le interazioni fisiche a forze centrali, caratterizzate dalla proprietà di agire a distanza e secondo certe leggi ben formulate. Si ipotizzava che i centri di forza fossero particelle microscopiche di qualche fluido o sostanza, come la luce, il calore, i fluidi elettrici o magnetici; le leggi empiriche, ricavate da misure di precisione, sarebbero state spiegate infine a partire dall'interazione fra queste particelle. Dell'intero programma di ricerca potrebbe essere un'esemplificazione efficace il famoso 'demone di Laplace', un immaginario 'diavoletto' per il quale passato e futuro dell'Universo non avevano segreti, in virtù della sua conoscenza della posizione e della velocità a un dato istante di tutte le particelle e di un'infinita capacità di calcolo. Fu proprio in questo periodo, e in questo luogo, che per la prima volta cominciò ad affermarsi il concetto di scienza fisica come di una disciplina a sé stante, caratterizzata da misure esatte e da un ben definito formalismo matematico.
Poisson sull'elettricità e il magnetismo
L'elettricità era un argomento promettente per il programma di ricerca laplaciano, non soltanto per la disponibilità di eccellenti misure di precisione, ma anche perché esisteva in questo campo una buona tradizione di teoria matematica; non stupisce, quindi, che Laplace cominciasse a interessarsene. Già nel 1801, egli aveva affidato a Biot il compito di dare una forma più ampia e generalizzabile alla teoria coulombiana dell'elettricità; naturalmente, non si trattava più di definire una legge dell'inverso del quadrato della distanza, accettata ormai senza discussioni, ma piuttosto di escogitare tecniche matematiche che permettessero di applicare quella legge a sistemi più complessi. Biot considerò quello che era il più potente strumento matematico sviluppato da Laplace per la meccanica celeste ‒ una funzione matematica V, chiamata in seguito 'funzione potenziale', le cui derivate parziali forniscono le componenti della forza. La legge dell'inverso del quadrato era già contenuta nella forma stessa della funzione potenziale:
[1] V=∫dm(x,y,z)/r,
dove dm è l'elemento infinitesimo di massa di coordinate (x′,y′,z′) e r′ è la distanza di dm da un punto fisso esterno; l'integrazione va eseguita sulla massa totale del corpo.
Per estendere l'uso di questo strumento matematico al caso della forza elettrica, Biot fece alcune ipotesi aggiuntive sulla natura e sul comportamento del fluido elettrico e analizzò la distribuzione della carica sulla superficie di un ellissoide, generalizzando l'approccio di Coulomb. Tuttavia, le sue ricerche si interruppero improvvisamente, nell'autunno del 1801, a causa degli eventi che a Parigi seguirono l'annuncio della scoperta di Volta.
Dieci anni dopo, entrò in scena un altro scienziato di impostazione laplaciana, Siméon-Denis Poisson (1781-1840), che in gioventù aveva anche fatto parte del gruppo di Laplace e che inoltre si era occupato di argomenti diversi quali, per esempio, la teoria del calore e la teoria dell'elasticità. Per Poisson, il lavoro sull'elettricità fu solamente una breve digressione rispetto alle sue più importanti ricerche in altri campi; in ogni caso, gli fu molto utile per ottenere l'elezione a membro della prima classe dell'Institut, a cui aspirava da lungo tempo: nel gennaio del 1812 era stato bandito un concorso per lo studio della distribuzione dell'elettricità sulla superficie dei conduttori. Poisson consegnò pochi mesi dopo un primo articolo sull'argomento e un altro verso la fine dell'anno, pubblicati entrambi con il titolo Mémoire sur la distribution de l'électricité à la surface des corps conducteurs. A quell'epoca aveva ormai raggiunto lo scopo di essere eletto all'Institut de France.
Poisson fu esplicito nel definire le sue ipotesi fondamentali e molto più generale e rigoroso di Biot nel metodo matematico. Poisson ipotizzò che il fluido elettrico, pur libero di muoversi all'interno del conduttore, andasse a raccogliersi solamente in uno strato molto sottile al di sotto della superficie, cosicché in corrispondenza di essa tutte le forze elettriche si annullavano. La funzione V sarebbe dunque dovuta essere costante all'interno del volume del corpo e tutte le derivate parziali tangenti alla superficie sarebbero dovute essere nulle. Poisson, inoltre, assunse per convenienza (come Biot, ma a differenza di Coulomb) che la densità del fluido fosse costante; di conseguenza, una maggiore o minore carica elettrica sarebbe stata rappresentata da un maggiore o minore spessore dello strato. Bisognava risolvere il problema della determinazione di tale spessore y in ogni punto della superficie; ovviamente, la trattazione poteva esser fatta soltanto nel caso di forme geometriche e di sistemi di conduttori definiti esplicitamente.
Poisson si servì magistralmente delle tecniche matematiche di Laplace, grazie alle quali era possibile risolvere gli integrali che comparivano nei calcoli mediante l'espansione in serie di potenze e trascurando i termini di ordine superiore. Come primo risultato generale, trovò che lo spessore y è sempre proporzionale alla componente della forza normale alla superficie: −dV/dx=4πy. Per un ellissoide, egli mostrò inoltre che lo spessore è proporzionale al raggio di curvatura ‒ un fatto che contraddiceva la precedente analisi fatta da Biot. In generale, il risultato suddetto portava a un'equazione integrale: 4πy=−dV/dx=−d/dn ∫y ϱ/r′dS′, dove ϱ è la densità del fluido, r′ la distanza dell'elemento di superficie dS′ da un punto esterno e d/dn è la derivata normale alla superficie.
In seguito Poisson si dedicò all'esame di un sistema per il quale Coulomb aveva fornito alcune misure, vale a dire quello costituito da due sfere conduttrici di differente grandezza. Dando prova di una finesse matematica ancora maggiore, calcolò la distribuzione della carica elettrica per configurazioni di diverse sfere. Là dove il confronto con i dati sperimentali di Coulomb mostrava solamente qualche piccola differenza (errori di misura o simili non erano tenuti ovviamente in alcun conto), Poisson riteneva confermata non soltanto la propria teoria, ma più in generale la possibilità di applicare con successo l'approccio laplaciano all'elettricità.
L'importanza della teoria di Poisson consiste nell'elaborazione di metodi matematici, quali la risoluzione di equazioni integrali mediante l'espansione in serie di potenze e la trattazione di nuovi tipi di integrali. A fronte di un simile sviluppo di 'strumenti matematici', non vi fu però alcuna innovazione per quanto riguarda i risultati sperimentali o gli 'strumenti materiali' utilizzati. Inoltre, i concetti fondamentali di Poisson erano quelli tipici dell'impostazione laplaciana. A causa di queste caratteristiche, il suo lavoro sull'elettricità non ebbe grande seguito: persino fra gli accademici parigini ben pochi erano in grado di seguire la sua analisi e, d'altra parte, Poisson non aveva molto da offrire al generico studioso di elettricità; in effetti, soltanto in qualche punto della sua teoria fece riferimento ai dati sperimentali, e non diede alcun contributo ai problemi di scottante attualità, come, per esempio, l'elettricità voltaica. Anche nell'ambito dell'elettricità ordinaria esistevano importanti questioni che Poisson non sfiorò neppure: per esempio, quale fosse la causa che manteneva il fluido elettrico libero di muoversi all'interno dei corpi conduttori.
Osservazioni simili valgono, sebbene in misura minore, per lo studio sul magnetismo che Poisson intraprese circa dodici anni più tardi. All'origine di questo suo interesse ci fu un dibattito svoltosi in Inghilterra: durante l'esplorazione dell'Artico, la deviazione dell'ago della bussola causata dalla presenza sempre più massiccia di ferro a bordo delle navi (perlopiù sotto forma di fucili) era diventato un problema pressante per i navigatori. Dato che l'effetto variava con la posizione della nave, si pensò di poterlo attribuire a una temporanea magnetizzazione del ferro da parte della Terra. La Royal Military Academy di Woolwich (vicino Londra) ‒ non a caso un'istituzione statale ‒ si incaricò di studiare il problema. Il professore di matematica Peter Barlow (1776-1862), al termine di una sperimentazione sistematica, aveva proposto un metodo per limitare l'effetto. Il ben più giovane Charles Bonnycastle (1792-1840), anch'egli della Royal Military Academy, aveva formulato una teoria per spiegare i risultati pubblicati da Barlow nell'Essay on magnetic attractions (1820). Nel suo lavoro On the distribution of the magnetic fluids in masses of iron (1820), Bonnycastle faceva esplicitamente riferimento ad alcune ipotesi della teoria poissoniana dell'elettricità, ma usava metodi matematici completamente diversi. Barlow fu critico e formulò un'altra teoria, 'indipendente' dai principî di Poisson. Fu così che in una pubblica disputa fu chiamato in causa Poisson e lo scienziato francese si sentì in dovere di mostrare in che modo egli stesso avrebbe affrontato il problema. Il risultato fu una teoria matematica dell'induzione temporanea del magnetismo (1824).
Per quanto gli fu possibile, Poisson fece uso dell'analogia con i fenomeni elettrici, ma il magnetismo aveva un comportamento diverso in quanto, per esempio, se un magnete era spezzato in due, ciascuna delle due parti diventava a sua volta un magnete completo. Per tener conto di tali effetti, Poisson suppose che il fluido magnetico fosse in realtà costituito da minuscoli 'elementi magnetici', liberi di muoversi all'interno del corpo; due elementi magnetici contigui si sarebbero neutralizzati a vicenda e nel complesso Poisson poté considerare (come già Bonnycastle) l'azione magnetica di un corpo equivalente a quella di uno strato molto sottile di fluido magnetico distribuito sulla sua superficie. Questo passaggio concettuale gli permise di ricorrere nuovamente al metodo ben collaudato della funzione potenziale V. Attraverso tecniche matematiche ancor più sofisticate, Poisson elaborò la teoria per i corpi sferici e a forma di ellissoide, ottenendo dati in soddisfacente accordo con le misure di Barlow. Infine, fu in grado anche di formulare alcune proposte e qualche commento riguardo al metodo di compensazione di Barlow.
Ancora una volta, la potenza della teoria di Poisson consisteva nello sviluppo dei metodi matematici. Per esempio, egli formulò quello che oggi chiameremmo un teorema della divergenza, ossia un metodo piuttosto generale per ridurre un integrale triplo, esteso al volume di un corpo, a un integrale doppio di superficie. Si consideri, a questo proposito, che all'epoca tutti gli integrali erano calcolati esplicitamente per ciascuna coordinata: gli strumenti dell'analisi vettoriale sarebbero stati sviluppati soltanto verso la metà del secolo, grazie anche allo stimolo dei risultati ottenuti da Poisson. Ancora una volta egli non accennò ad alcuna delle questioni più discusse del magnetismo; è significativo, dopotutto, che in un trattato su questo tema scritto a Parigi nel 1824 non fosse neppure menzionata quella che era la novità per eccellenza del settore: l'elettromagnetismo, che all'Académie des Sciences di Parigi era da anni uno degli argomenti più importanti in discussione.
Sia per la sua perizia sia per il suo isolamento, Poisson può caratterizzare in generale il movimento laplaciano che, fortemente teso all'elaborazione di un approccio univoco, appare in qualche modo come un punto fermo nel panorama scientifico del tempo. Alcuni argomenti furono studiati in modo estremamente intenso e attraverso il ricorso a ipotesi e a metodi molto specifici. Al tempo stesso, una simile concentrazione di sforzi, che portò a notevoli progressi, si accompagnò a una tendenza a sottovalutare, o addirittura ignorare, altre questioni, altri aspetti e altri approcci. L'enfasi posta sulla matematizzazione e sulla teorizzazione si risolse nella svalutazione di un lavoro sperimentale ampio e qualitativo. È questo uno dei motivi per cui gli sviluppi più legati alla sperimentazione, ma non meno innovativi e importanti (per es., una ricerca di carattere più generale sulla pila di Volta), si verificarono fuori dalla Francia e in questo paese essi furono accolti, con riluttanza, soltanto per quanto riguardava quegli aspetti che era possibile inquadrare nell'approccio generale.
Il secondo decennio dell'Ottocento
La scuola laplaciana visse il suo periodo di massimo splendore fra il 1805 e il 1815 circa. Furono studiate con successo materie quali i fondamenti della meccanica, la capillarità, la teoria dell'elasticità, la teoria del calore e l'ottica. L'elettricità, invece, sebbene interessante di per sé, secondo i laplaciani non era che una questione marginale. Poisson fu il solo a occuparsene realmente, e anche nel suo caso si trattò più di una digressione che di un importante progetto di ricerca. Nel secondo decennio del secolo, la fisica laplaciana cominciò a tramontare: il particolare sostegno economico su cui aveva potuto contare era venuto meno, a causa delle tumultuose disavventure politiche di Bonaparte; non solo, ma aumentava sempre di più il numero di coloro che consideravano quel progetto di ricerca troppo limitato. Nel 1807, Jean-Baptiste-Joseph Fourier presentò una nuova teoria non laplaciana del calore ‒ ed è abbastanza indicativo il fatto che egli sarebbe riuscito a pubblicarla soltanto molto più tardi. Nel 1815 Augustin-Jean Fresnel propose una teoria della luce anch'essa non laplaciana e, nell'articolo del 1819 di Pierre-Louis Dulong e Alexis-Thérèse Petit, Recherches sur quelques points importants de la théorie de la chaleur, la presentazione della famosa legge dei calori specifici era accompagnata da commenti fortemente critici nei confronti della teoria del calorico di Laplace. A dire il vero, nessuno mise in discussione l'idea della matematizzazione ma, dal momento che l'impostazione laplaciana si basava su una visione del mondo profondamente metafisica, si cominciavano a cercare approcci alternativi. È significativo che la maggior parte degli stessi protagonisti di questa nuova tendenza, come Fresnel, Dulong, Petit e Dominique-François Arago, si fosse formata alla scuola laplaciana. Per la fisica parigina si schiudevano orizzonti nuovi: quando, nel 1820, si sarebbe diffusa la notizia di una interazione fra l'elettricità e il magnetismo, ad accoglierla ci sarebbe stato un ambiente scientifico del tutto particolare.
Fuori dalla Francia, gli studiosi non erano troppo interessati alle sorti della matematizzazione, ma si occupavano piuttosto di altri argomenti, per esempio della scienza voltaica. Tutte le invenzioni importanti e le scoperte teoriche di questo settore erano state realizzate nei primi dieci anni del secolo. Nel decennio successivo, l'attività di ricerca rallentò in modo notevole, lasciando irrisolte diverse questioni. Il problema di dove collocare esattamente l'origine dell'attività della pila sarebbe rimasto aperto fino alla metà dell'Ottocento, ma neppure i concetti fondamentali erano stati ancora chiariti: il termine 'tensione', sebbene usato da molti, era ancora vago; lo stesso valeva, in misura persino maggiore, per la nozione di 'corrente elettrica' che era stata introdotta, fra gli altri, da Volta e da Biot ma che, oltre a essere usata con significati diversi che variavano da caso a caso, era sempre associata a speculazioni specifiche sui fenomeni che avvenivano all'interno del filo conduttore. Per non essere costretti a misurarsi con simili speculazioni, nei loro testi molti scienziati preferirono parlare semplicemente del filo che 'connetteva', o 'chiudeva', la batteria, evitando di nominare la parola 'corrente'. Questa vaghezza era dovuta soprattutto alla mancanza di mezzi per quantificare e misurare gli effetti della pila chiusa. Per mettere a confronto pile diverse, si ricorreva talvolta a effetti termici ("la pila era in grado di liquefare un filo di platino di tale sezione") o chimici ("dopo un'ora di attività, la pila era ancora in grado di dissociare acqua acidulata"). Si trattava comunque di misurazioni approssimative, che presentavano il grave inconveniente di interferire con il funzionamento della pila e per le pile poco potenti erano semplicemente troppo grossolane.
Malgrado queste fondamentali incertezze, l'uso delle pile si diffuse largamente, esse entrarono a far parte della strumentazione ordinaria dei laboratori di chimica e di fisica e vi fu ovunque un vivace scambio di informazioni sui nuovi tipi o su come migliorare certi difetti. Una diffusione persino maggiore si ebbe nel campo delle applicazioni mediche: già prima del 1800 gli effetti galvanici erano impiegati a scopo terapeutico, e l'invenzione della pila incoraggiò enormemente tali pratiche. Esse resero possibile, per esempio, la cura della sordità, ma se ne fece un largo uso anche nella medicina generica. Gli apparecchi meno sofisticati erano alla portata di tutti e si trovavano già pronti sugli scaffali dei negozi: non era difficile imparare a maneggiarli e il loro uso divenne comune. È in questo scenario che, nel 1809, Samuel Thomas Soemmering presentò all'Università di Monaco un telegrafo elettrico di propria invenzione; non solamente Soemmering costruì un prototipo funzionante, ma calcolò dettagliatamente quanto sarebbe potuto costare un uso regolare e su lunghe distanze del suo apparecchio.
La distribuzione su larga scala di strumenti di piccola e media grandezza e la diffusione delle competenze tecniche richieste dal loro uso furono i motivi principali per cui il fenomeno sensazionale dell'interazione elettromagnetica, scoperta da Oersted nel 1820, sarebbe stato ovunque riprodotto con tanta facilità e rapidità (Tav. IV).
La notizia dei risultati di Oersted provocò reazioni diverse. A Parigi, il ben consolidato progetto di ricerca laplaciano attraversava un momento delicato. Arago, che come altri era diventato sempre più critico nei confronti di quel programma, era venuto a conoscenza degli esperimenti di Oersted e nell'agosto del 1820, durante una sua visita a Ginevra, ebbe modo di vederli ripetere con successo. Assolutamente entusiasta, subito dopo il suo ritorno riferì ogni cosa all'Académie des Sciences; preparò inoltre una traduzione in francese della lettera di Oersted, affinché fosse pubblicata negli "Annales de chimie et de physique" di cui, dal 1815, egli era il responsabile editoriale e finanziario, insieme con Joseph-Louis Gay-Lussac.
La reazione degli accademici, tuttavia, fu piuttosto riluttante; alcuni insinuarono addirittura che si trattasse dell'ennesima 'fantasticheria tedesca' (rêverie allemande). Un fenomeno di quel tipo appariva alquanto improbabile, se considerato dal punto di vista delle teorie allora comunemente accettate; per di più il nome di Oersted era ancora associato a ricordi poco lusinghieri. Solamente quando Arago ripeté l'esperimento davanti all'Académie, l'effetto scoperto da Oersted si tramutò, agli occhi degli accademici, in una seria sfida lanciata proprio a quelle stesse teorie. Per una circostanza piuttosto sfortunata, Biot, rimasto ormai l'unico che potesse rispondere alla sfida dal punto di vista laplaciano, si trovava fuori città e la reazione non poté giungere che con un certo ritardo.
Alcuni si resero conto rapidamente della situazione. Oltre allo stesso Arago, chi si interessò subito alla questione, occupandosene freneticamente, fu André-Marie Ampère (1775-1836). A differenza della maggior parte degli accademici parigini, Ampère non era stato educato a Parigi, ma era cresciuto nella campagna intorno a Lione e lì aveva studiato, perlopiù da autodidatta. Alcuni dei suoi interessi, come la metafisica, la filosofia kantiana e la psicologia, erano insoliti per un accademico parigino (Ampère scriveva addirittura poesie). A Parigi la sua vita privata era stata segnata da un secondo matrimonio molto infelice, mentre i suoi amici più stretti abitavano ancora a Lione. Professore di matematica all'École Polytechnique, egli era diventato membro dell'Académie des Sciences grazie alle sue pubblicazioni sia di matematica sia di chimica, ma la fisica, e in particolare la fisica sperimentale, non era affatto il suo campo. Alcune sue speculazioni a proposito di una teoria unificata dell'etere per l'elettricità e per il magnetismo, che non aveva più elaborato, risalivano a venti anni prima. La relazione di Oersted risvegliò in lui quell'antica idea, stimolando anche il suo interesse metafisico nei confronti della struttura del mondo; come Arago, d'altra parte, Ampère non era soddisfatto dell'impostazione laplaciana, in quanto la giudicava troppo limitata.
All'origine del suo interesse vi erano anche ragioni di tipo diverso: sin dall'inizio, fu chiaro che la questione avrebbe attirato molta attenzione e si poteva esser certi che tutti gli studi seri condotti da quel momento in poi sull'argomento avrebbero ricevuto grande considerazione, aspetti, questi, graditi ad Ampère che desiderava migliorare la sua posizione a Parigi; in effetti, quattro anni più tardi il lavoro sull'elettromagnetismo avrebbe svolto un ruolo essenziale.
Tale lavoro infatti lo aiutò a ottenere una posizione al Collège de France. Per il momento, Ampère era deciso a occupare il campo prima del ritorno di Biot e non c'è da stupirsi che la sua attività fosse a dir poco frenetica.
Ampère: la definizione di una linea di ricerca
L'aspetto più sconcertante della scoperta di Oersted consisteva nel fatto che l'ago magnetico si orientava in direzio-ne trasversale rispetto al filo e che il suo comportamento dipendeva in qualche maniera complicata dalla disposizione spaziale del sistema. Ampère iniziò le sue ricerche cercando di comprendere quel comportamento e di individuarne eventuali regolarità; ben presto riconobbe due 'fatti generali': in primo luogo, l'ago si disponeva sempre ad angolo retto rispetto al filo; poi, una volta raggiunta quella posizione, era attratto dal filo (o respinto, se era disposto antiparallelamente al filo stesso). Riguardo alle specificità delle due possibili posizioni assunte dal polo nord dell'ago, Ampère introdusse le nozioni di 'destra' e 'sinistra' della corrente mediante il disegno di un uomo posto sul filo, con il viso rivolto verso l'ago. Più tardi questa formulazione sarebbe stata definita 'ruolo nuotatore' di Ampère. Solamente attraverso un'idea così complicata egli avrebbe potuto descrivere il comportamento dell'ago indipendentemente dalla direzione della bussola. Sebbene questi effetti richiedessero una posizione preminente per l'ago magnetico, Ampère affermò, senza mai approfondire la questione, che tutti i fenomeni elettromagnetici potevano essere 'ridotti' a tali effetti fondamentali, ossia essere concepiti come una loro sovrapposizione. Egli elaborò una spiegazione a livello fenomenologico, senza considerare in alcun modo le cause fisiche più profonde che erano all'origine di quei fenomeni: per esempio, non si interessò a cosa succedeva nel filo del circuito. Egli, dunque, non elaborò una 'teoria' nel senso ottocentesco del termine. In quell'occasione, il suo lavoro di sperimentazione ebbe un orientamento esplorativo e generale, essendo basato principalmente sulla variazione sistematica di diversi parametri empirici. Tali procedure sperimentali, in netto contrasto rispetto al punto di vista corrente, secondo cui sperimentare equivaleva a verificare una teoria, sono tipiche delle situazioni di profonda incertezza, quale quella in cui la scoperta di Oersted aveva gettato molti studiosi.
Nel corso di quell'attività esplorativa, furono raggiunti almeno tre importanti risultati. Ampère notò, probabilmente in modo fortuito, che la pila esercitava a sua volta un'azione sul filo elettrico. Al fine di includere quell'effetto nel suo primo 'fatto generale', egli introdusse la nozione di 'circuito' di corrente comprendente sia la pila sia il filo connesso ai suoi poli, un'idea molto inusuale e completamente estranea alla teoria elettrostatica della pila, soprattutto in Francia. L'introduzione di tale concetto avvenne in un'ottica strettamente strumentale, ma di lì a poco esso stimolò Ampère a sviluppare una teoria fisica della corrente elettrica. In secondo luogo, questi propose di usare l'effetto della pila sull'ago magnetico per misurare l'attività della pila stessa. Come seppe da Arago, il professore ginevrino Charles Gaspard De la Rive (1770-1834) aveva già preso in considerazione una simile idea ma, grazie al suo 'fatto generale', Ampère possedeva uno strumento di studio migliore, che gli permise di introdurre una scala di grandezze e di proporre il galvanometro come strumento di misura della corrente ‒ o quale che fosse il nome del processo che aveva luogo nel circuito. Visti i problemi che esistevano nel quantificare gli effetti della pila, non c'è da stupirsi che Ampère fosse fiero della sua idea. Gli scambi di informazioni fra studiosi di nazionalità diverse erano ancora di là da venire e così Ampère non era a conoscenza del fatto che nel 1821 il professor Johann Salomon Christoph Schweigger di Halle e lo studente berlinese Johann Christian Poggendorf, indipendentemente da lui e l'uno dall'altro, avevano avuto un'idea simile e avevano a loro volta ideato alcuni galvanometri. Come terzo risultato, infine, Ampère usò tutte le sue energie per cercare di stabilire la reciprocità dei nuovi effetti. Poiché il filo elettrico collegato alla pila era in grado di muovere una calamita, una calamita immobile doveva avere la capacità di spostare un filo elettrico libero di muoversi. In questo caso Ampère dovette misurarsi con gravi problemi tecnici per consentire al filo la massima mobilità pur mantenendo un eccellente contatto elettrico. L'esperienza che ebbe modo di accumulare si sarebbe rivelata molto importante per tutta la sua futura ricerca.
Accanto a un tale lavoro di tipo esplorativo, Ampère portò avanti anche una serie di speculazioni teoriche, dalle quali ricavò un'affascinante rappresentazione dinamica dei fenomeni studiati. Egli suppose, anzitutto, che il magnetismo terrestre potesse essere originato da enormi correnti circolari che avevano luogo nelle viscere della Terra, e subito generalizzò quest'idea: forse tutti i fenomeni magnetici erano dovuti alla presenza di correnti elettriche all'interno dei corpi. Poiché, d'altra parte, simili correnti non erano mai state osservate, Ampère cercò di dimostrare la plausibilità della propria ipotesi per via indiretta: considerò l'eventualità che il comportamento di correnti circolari da lui predisposte presentasse caratteristiche assimilabili a quelle magnetiche e, effettivamente, la maggior parte degli esperimenti fu portata a termine con successo. A differenza di quelli svolti durante il lavoro di tipo esplorativo, si trattava questa volta di esperimenti progettati con il preciso scopo di dimostrare una teoria. Ampère era estremamente fiducioso di ottenere buoni risultati: quando qualche esperimento falliva, egli non metteva in dubbio le ipotesi, piuttosto cercava di migliorare l'apparato sperimentale, di usare batterie più potenti, e così via. Alla fine, riuscì persino a dimostrare la mutua attrazione di due fili spiraliformi percorsi da corrente, in assenza di ferro (Tav. VI), un effetto totalmente nuovo, che andava ben al di là della scoperta di Oersted.
Ampère non soltanto considerò questa scoperta come la prova definitiva della propria teoria del magnetismo ma, a partire da questa, inaugurò un nuovo filone di ricerca: una teoria dell'interazione fra le correnti elettriche. Solamente tre settimane dopo aver iniziato i suoi esperimenti, illustrò la propria teoria: a partire dal fenomeno fondamentale dell'interazione fra correnti elettriche, si sarebbero potuti ricavare non soltanto gli effetti elettromagnetici, ma anche il magnetismo terrestre e tutti gli effetti noti del magnetismo. Sebbene Ampère fosse perfettamente consapevole della debolezza delle basi sperimentali, ordinò di stampare una bozza della sua teoria (Mémoire sur les effets des courans électriques, 1820) e la fece circolare il più possibile, persino presso la Royal Society di Londra. In tal modo, egli si era impegnato pubblicamente e in modo irrevocabile in quel particolare programma di ricerca e abbandonò immediatamente il lavoro precedente di tipo esplorativo.
In quelle prime settimane, l'unico, oltre ad Ampère, a proporre simili argomentazioni fu Arago, che nelle sue ricerche sul magnetismo faceva uso dell'elettricità, sia quella galvanica sia quella comune (Expériences relatives à l'aimantation du fer et de l'acier par l'action du courant voltaïque, 1820). I due scienziati si scambiarono i risultati ottenuti e Arago permise ad Ampère di accedere alla strumentazione in dotazione al laboratorio dell'Observatoire. Ampère organizzò rapidamente un laboratorio personale a casa propria, affrontando spese considerevoli: per effettuare l'esperimento 'cruciale' con le due spire, dovette investire metà del suo stipendio mensile nell'acquisto della pila più grande che fosse possibile trovare a Parigi. Ampère si avvalse in larga misura anche della collaborazione di Nicolas-Constant Pixii (1776-1861), un fabbricante di strumenti parigino senza la cui esperienza difficilmente sarebbe riuscito a ideare e realizzare tutti i suoi dispositivi e apparati.
Per i tre mesi successivi, Ampère presentò quasi ogni settimana i suoi risultati all'università e pubblicò numerosi articoli. Per ottenere l'effetto fondamentale previsto dalla sua teoria, sviluppò (insieme a Pixii) la 'bilancia di corrente' (o 'bilancia di Ampère'), con cui era possibile dimostrare (ma non misurare) l'esistenza di un'interazione fra correnti rettilinee. Elaborò poi una teoria fisica che spiegava come i fenomeni che avevano luogo nella pila chiusa fossero in relazione con quelli della pila aperta e con quelli dell'elettricità ordinaria: una teoria di correnti e tensioni, per molti aspetti ancora vaga, che tuttavia lo condusse al passaggio dall'espressione 'interazioni galvano-magnetiche' a 'elettro-magnetismo', introdotta da Oersted; in seguito, Ampère coniò per la propria teoria il nome di 'elettro-dinamica' (contrapposto a 'elettro-statica'). Lasciò ad altri lo sviluppo del galvanometro, come già aveva fatto per gli elettromagneti e il telegrafo elettromagnetico, e considerò come passo successivo per la sua teoria quello di stabilire un'espressione matematica per la legge di forza. Prima che Ampère fosse giunto alla conclusione, però, entrò in scena Biot.
La risposta dei laplaciani: Biot e Savart
Biot rientrò a Parigi solo due settimane dopo la notizia della scoperta di Oersted e si mise precipitosamente al lavoro. La competizione con Ampère fu immediata e aspra: quando Biot, nella sua prima pubblicazione sull'argomento, ricapitolò la situazione del momento, non accennò né ad Ampère, né ad alcuno dei risultati da lui conseguiti. L'approccio di Biot era direttamente modellato sul programma laplaciano, come scrisse in Sur l'aimantation imprimée aux métaux par l'électricité en mouvement (1824): "La prima cosa che dobbiamo determinare è la legge con cui la forza esercitata dal filo diminuisce a distanze diverse dal suo asse" (1824 [1885, p. 83]). Seguendo questo precetto, insieme al giovane Félix Savart (1791-1824) preparò un dispositivo sperimentale simile a quello di Coulomb (Tav. VII).
Biot aveva familiarità con quel genere di misurazioni magnetiche, avendo collaborato alle ricerche sul magnetismo terrestre di Alexander von Humboldt (1769-1859); nonostante ciò, dovette scontrarsi con gravi problemi sperimentali, come, per esempio, il fatto che la potenza della batteria diminuiva rapidamente durante il suo funzionamento: dopo tutto, quello di Biot era il primo esempio di una misurazione elettromagnetica, dato che né Oersted né Ampère avevano comunicato alcun risultato del genere (e neppure lo avrebbero fatto in seguito). Dopo due sole settimane di lavoro estremamente intenso, Biot e Savart presentarono i primi risultati seguiti da ulteriori dati a distanza di sei settimane. Grazie a misurazioni ottenute con un filo rettilineo attraversato da corrente essi, nella Note sur le magnétisme de la pile de Volta (1820), affermarono di aver dimostrato una legge dell'inverso del quadrato per l'azione esercitata dagli elementi magnetici del filo sugli elementi magnetici di una calamita; ulteriori esperimenti con un filo curvo attraversato da corrente li portarono a introdurre la dipendenza da un angolo. Nel complesso, la forza esercitata da un elemento di corrente su una particella magnetica era proporzionale a senω/r2, dove ω era l'angolo formato dalla direzione del filo e dalla direzione della congiungente l'elemento di corrente al magnete. Con notazione moderna, la legge si scrive:
[2] dB=(μ0/4π)(Idlⅹr)/r3
ed è oggi nota come legge di Biot e Savart. La prima volta fu dimostrata in modo tutt'altro che lineare, al punto che la formulazione originale conteneva un errore del quale Biot si sarebbe accorto solamente alcuni anni dopo.
Biot e Savart non affrontarono mai realmente il problema della direzione delle forze elettromagnetiche, che contraddiceva totalmente l'impostazione laplaciana. Biot affermò semplicemente che quelle forze erano dirette perpendicolarmente rispetto al piano in cui giacevano sia il filo elettrico sia la particella magnetica, ma non disse niente riguardo a come si potesse ricondurre tale circostanza alla nozione laplaciana di forze centrali. Ciò gli fu possibile unicamente perché si era basato sull'esame sperimentale di due soli casi particolari, in aperto contrasto con Ampère e con molti altri scienziati; per quanti tentarono un'analisi più generale delle varie posizioni dell'ago magnetico, invece, non fu altrettanto semplice sorvolare sui problemi di fondo che si manifestarono.
Quanto all'interpretazione microscopica, Biot mantenne il punto di vista secondo cui tutte le interazioni appena scoperte erano di natura strettamente magnetica e avevano luogo fra particelle di fluidi magnetici. L'unico ruolo del fluido elettrico era quello di indurre nel filo uno speciale tipo di magnetismo, ma i due tipi di fluidi rimanevano ben distinti, secondo la migliore tradizione laplaciana. Una volta sviluppati questi due punti ‒ legge della forza e spiegazione del comportamento fisico a livello microscopico ‒ gli obiettivi fondamentali del programma laplaciano erano stati raggiunti. Il profondo impegno profuso da Biot in quel programma di ricerca fu una delle numerose ragioni che lo portarono ad abbandonare rapidamente gli studi sul magnetismo dopo il suo secondo articolo.
Gli sviluppi dell'elettrodinamica fra il 1821 e il 1826
Ampère e Biot si dedicarono alla ricerca della legge della forza per il magnetismo seguendo percorsi piuttosto differenti, che avevano tuttavia in comune alcuni concetti fondamentali. Entrambi considerarono forze centrali, agenti fra elementi infinitesimi di corrente secondo la legge dell'inverso del quadrato della distanza, assumendole semplicemente proporzionali alle correnti stesse; inoltre, la loro ipotesi di una dipendenza non soltanto dalla distanza, ma anche da certi angoli fra la direzione delle correnti fu un importante superamento di impostazioni più tradizionali. Mentre Biot introdusse un unico angolo nel considerare l'azione di un elemento di corrente su un punto, Ampère, cercando di risalire all'interazione fra due elementi di corrente, fu invece costretto a introdurre tre angoli: α, β, γ (fig. 6). Egli intendeva addirittura realizzare alcune misurazioni per trovare l'esatta dipendenza della forza dall'angolo γ e progettò uno strumento 'coulombiano' che contasse le oscillazioni, non di un magnete, ma di un circuito sospeso liberamente. Quel primo tentativo di misurare l'interazione tra i fili di due circuiti si rivelò però fallimentare: se mai lo strumento fosse stato realizzato, con ogni probabilità non avrebbe fornito dati affidabili. A lungo andare, Ampère finì con l'aggirare il problema; con la sua famosa tecnica di 'esperimenti di zero', evitò ogni misurazione, calcolando le interazioni dalle condizioni di equilibrio. In generale, egli proseguì il suo lavoro analizzando la matematica e i principî fondamentali (per es., la somma di azioni) in tutte le loro conseguenze, per progettare specifici sistemi sperimentali che potessero fornire qualcosa di simile alle condizioni limite.
Ampère presentò la sua prima legge di forza ‒ F=gh[senα senβcosγ+(n/m)cosαcosβ]/r2 ‒ nel dicembre del 1820; essa conteneva ancora una costante numerica incognita n/m, introdotta per generalità, ma posta uguale a zero (g e h erano le intensità delle correnti e r la distanza fra gli elementi). Sebbene Biot lo avesse preceduto, Ampère dimostrò che la propria formula era più generale, facendo derivare da essa i risultati osservati da Biot; per di più, le misurazioni osservate da quest'ultimo costituivano indirettamente una conferma sperimentale della formula di Ampère. Con un successo tale, ottenuto a soli quattro mesi dalla notizia della scoperta di Oersted, Ampère aveva definito in maniera soddisfacente le basi del suo approccio generale. La sua attività frenetica rallentò un po' e il suo lavoro proseguì con maggiore tranquillità.
Durante i cinque anni che seguirono, Ampère pose nelle sue ricerche particolare attenzione alla teoria, tanto è vero che i suoi numerosi esperimenti furono sempre ideati per fornire qualche indicazione empirica al sistema teorico in via di evoluzione. Uno dei problemi fondamentali era quello di stabilire se le ipotetiche correnti elettriche interne ai magneti dovessero essere considerate come macroscopiche e concentriche rispetto all'asse del magnete, o piuttosto microscopiche e diffuse all'interno di tutto il magnete. La questione divenne urgente nell'ottobre del 1821, quando Michael Faraday (1791-1867), all'epoca uno sconosciuto assistente di chimica del laboratorio di Davy, nel lavoro On some new electro-magnetical motions, and on the theory of magnetism annunciò di aver osservato un nuovo effetto elettromagnetico, prendendo anche in considerazione esplicitamente certi problemi della teoria magnetica di Ampère. Avendo fatto ruotare attorno al polo di un magnete il filo che chiudeva i poli di una batteria, e viceversa, Faraday aveva mostrato che il polo di una barretta magnetica non era situato proprio alla sua estremità (come nel caso delle bobine magnetiche), ma in qualche punto al suo interno. Ampère accettò la sfida e propose una spiegazione qualitativa delle rotazioni, accompagnata da una sofisticata interpretazione teorica nella quale egli propendeva per la natura microscopica delle correnti, con l'ipotesi aggiuntiva che non tutte fossero dirette perpendicolarmente all'asse del magnete. Nei mesi successivi, Ampère elaborò personalmente la sua teoria, facendo inoltre molti altri esperimenti.
Un altro importante obiettivo era costituito dall'elaborazione matematica della stessa legge della forza. Nel tentativo di generalizzare la legge dell'inverso del quadrato, nel 1822 Ampère riscrisse la sua formula come segue:
[3] dF=ii'dsds'(senα senβcosγ+k cosα cosβ)/rn;
essa, al termine di un lavoro approfondito, fu infine riproposta sotto questa forma:
dove i, i′ sono le correnti, ds, ds′ gli elementi infinitesimi di circuito, k il parametro incognito (qui rinominato), e ∂/∂s la derivata rispetto alla direzione del circuito. Questo passaggio dai metodi trigonometrici al calcolo differenziale rispecchiava una tendenza generale della matematica francese, e semplificava le necessarie integrazioni. Nella legge comparivano ora due parametri numerici, n e k, per i quali, da un altro esperimento in condizioni di equilibrio, Ampère ricavò la relazione: 2k+n=1. Se, come si assumeva di solito, n era posto uguale a 2, si otteneva k=−1/2, contrariamente a quanto Ampère aveva creduto per lungo tempo. Considerazioni di questo tipo ed esperimenti per casi particolari opportunamente scelti gli consentirono successivamente di elaborare la sua teoria e di organizzarla in modo sistematico, applicandola a molti tipi di circuiti: circolari, chiusi secondo una forma qualunque o solenoidali.
Progettò numerosi esperimenti per ricavare le principali caratteristiche delle interazioni di correnti con altre correnti, con i magneti e con il magnetismo terrestre e, quando cominciò a insegnare ‒ avendo ottenuto, nel 1824, il tanto sospirato incarico di professore di fisica al Collège de France ‒ nelle sue lezioni usava regolarmente un'intera tavola di quegli esperimenti. Ampère, però, non aveva percorso tutta quella strada da solo: oltre a coltivare un continuo e vivace scambio con Arago e Fresnel, collaborò con il suo vecchio studente Félix Savary per la parte matematica e con il professore di Versailles Jean-Baptiste-Firmin Demonferrand per la stesura di un contributo destinato a un manuale scientifico. Numerosi carteggi con corrispondenti internazionali come Davy, Erman, De la Rive (padre e figlio) e Faraday riguardarono perlopiù questioni sperimentali, ma non interferirono in maniera essenziale con l'evoluzione della sua teoria.
Intento a sistemare stabilmente la teoria, Ampère trascurò però la sperimentazione su larga scala e i risultati sperimentali di difficile o dubbia interpretazione. L'episodio più eclatante si verificò nel 1822. Rispetto al problema delle correnti macroscopiche oppure molecolari, il processo della magnetizzazione era ovviamente fondamentale: si trattava di capire se il magnete esterno (o la corrente) inducesse nuove correnti all'interno del ferro, o piuttosto allineasse semplicemente le correnti già presenti nel magnete e orientate a caso. Stimolato da alcune conversazioni con Fresnel, Ampère preparò un esperimento per stabilire se una spira, o un ago magnetico, potesse indurre correnti macroscopiche in un anello di rame posto nelle vicinanze.
Un primo tentativo effettuato nel luglio del 1821 diede un risultato negativo, che si accordava bene con la sempre crescente propensione di Ampère nei confronti dell'ipotesi delle correnti microscopiche. Tuttavia, quando nell'agosto del 1822, l'esperimento fu ripetuto con un dispositivo più potente, Ampère ottenne un effetto e si rese conto che doveva trattarsi proprio delle correnti indotte dai magneti; a causa della sua disputa con Faraday sulle rotazioni, egli era concentrato tuttavia soprattutto sulla propria teoria magnetica. Il risultato ottenuto sull'induzione apriva ancora una volta la strada a entrambe le interpretazioni della magnetizzazione, senza però offrire alcun indizio riguardo a quale delle due fosse quella da preferire. Di conseguenza Ampère dichiarò semplicemente che il risultato non riguardava la propria teoria e decise di non occuparsene più. Dieci anni dopo, quando Faraday 'riscoprì' l'induzione elettromagnetica, ricavandone peraltro un'enorme pubblicità, Ampère rimpianse amaramente di non aver dato in passato la giusta importanza a quel risultato sperimentale.
Nel 1827, Ampère presentò infine un'interpretazione sistematica e riepilogativa dei fenomeni elettrici e magnetici, la celebre Théorie mathématique des phénomènes électrodynamiques, uniquement déduite de l'expérience. Considerati il titolo e il gran numero di esperimenti da lui eseguiti nel corso di sei anni, fu sorprendente il fatto che in questa esposizione Ampère si basasse unicamente su quattro esperimenti, uno dei quali, per giunta, come egli stesso confessò, mai eseguito realmente. Questa scelta ha tuttavia un preciso significato: egli riteneva che il suo schema concettuale e matematico fosse talmente rigoroso e saldo che quei quattro esperimenti sarebbero stati sufficienti a fornire una perfetta esemplificazione del mondo empirico.
Era una caratteristica di Ampère quella di procedere per rigorose argomentazioni, tanto che James C. Maxwell (1831-1879) avrebbe coniato apposta per lui la definizione, rimasta famosa, di "Newton dell'elettricità". Come nel caso di Newton, inoltre, nei lavori di Ampère non resta alcuna traccia delle fasi di nascita e di evoluzione del sistema teorico. Vi è poi un altro aspetto che Maxwell non poteva conoscere: come Newton per la gravitazione, Ampère non smise mai di pensare che tutte le forze elettromagnetiche, agenti a distanza, sarebbero state infine spiegate per mezzo di una teoria dell'etere. Persino più dello stesso Newton, egli tenne per sé queste considerazioni, a mala pena accennandole nei lavori da lui stesso pubblicati.
L'elettrodinamica di Ampère costituì, decisamente, la più dettagliata spiegazione degli effetti elettromagnetici avanzata negli anni Venti del XIX sec. e tale rimase fino alla metà dell'Ottocento: in nessun altro lavoro le ricerche furono svolte con uguale passione, con risultati paragonabili e per un periodo di tempo altrettanto lungo. Vi furono certamente gli studi sul galvanometro, condotti con il massimo successo dal professore fiorentino Leopoldo Nobili (1784-1835), che ne ideò una versione 'astatica'. Molti scienziati (per es., Wollaston, Berzelius, August Heinrich Jakob Althaus, Erman e Johann Josef von Prechtl) ipotizzarono l'esistenza di una sorta di 'magnetismo trasversale', ma tale nozione rimase oscura. Sarebbe senza dubbio difficile immaginare un contesto scientifico che, più di quello parigino, avesse potuto stimolare l'elaborazione di una teoria spiccatamente matematica come quella di Ampère, e non è un caso se alla fine essa acquistò una connotazione piuttosto 'laplaciana', per lo meno nei suoi concetti fondamentali. Quando Ampère, dopo il 1826, smise di occuparsi della questione ‒ per dedicarsi alla classificazione delle scienze, un altro argomento per lui di grande interesse‒ la sua teoria si era definitivamente affermata in Francia. In Inghilterra essa fu divulgata e divenne famosa, ma sia Barlow sia Faraday, personaggi di spicco nell'elettromagnetismo dei tardi anni Venti e degli anni Trenta dell'Ottocento, non ne adottarono neppure l'approccio generale.
Ovunque, al di fuori di questi paesi, la sua teoria passò sotto silenzio o fu accolta con esplicite obiezioni (come, per es., avvenne da parte di Oersted e Berzelius). Soltanto verso la metà del secolo, quando la fisica matematica avrebbe guadagnato basi più solide anche fuori della Francia, l'elettrodinamica di Ampère sarebbe stata ripresa sia in Gran Bretagna sia nei paesi germanici.
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