Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso dell’Ottocento la popolazione europea aumenta da 180 a circa 425 milioni di abitanti, nonostante il consistente flusso emigratorio della seconda metà del secolo. Questo aumento è dovuto soprattutto a una diminuzione della mortalità infantile ed epidemica ed è connesso allo sviluppo economico e specialmente all’industrializzazione. Particolarmente sensibile è la crescita della popolazione urbana, soprattutto quella delle nuove città industriali e delle capitali.
Nel corso dell’Ottocento, e in particolare della seconda metà del secolo, l’Europa – la cui popolazione era già aumentata in misura significativa durante il Settecento – vive una crescita demografica senza precedenti. Dai circa 180 milioni di abitanti del 1800, si passa ai 270 del 1850 per poi arrivare a 425 milioni nel 1900. Un aumento tanto più notevole se si considera che, nella seconda metà dell’Ottocento, quasi 30 milioni di Europei emigrano oltre oceano, diretti nelle Americhe e, in minor misura, in Australia.
Questo aumento interessa tutto il continente ma non ha la stessa intensità in tutti gli Stati e in tutte le regioni. La Francia, ad esempio, che a lungo era stata lo Stato più popoloso d’Europa, registra un aumento modesto, poco più del 30 percento: da 29 milioni di abitanti nel 1800 a 42 nel 1900. L’Italia pare demograficamente più dinamica: 17 milioni nel 1800, 22 nel 1861, 34 nel 1900. Analogo l’andamento demografico di Germania e Olanda. Ancora più esplosivo è l’incremento della Gran Bretagna. Nel 1800, l’Inghilterra (senza considerare Scozia e Irlanda) conta 8,2 milioni di abitanti. Nel 1850 la popolazione è raddoppiata e nel corso del mezzo secolo successivo raggiunge i 30,5 milioni.
Questo andamento differenziato è strettamente legato all’evoluzione economica e in particolare alla cronologia e alla geografia del processo di industrializzazione. L’accelerazione della crescita nella seconda parte del secolo, quando la rivoluzione industriale coinvolge un numero crescente di Stati, è un indizio significativo in questo senso, come lo è il fatto che le nazioni demograficamente più dinamiche sono quelle dove più rapida e intensa è l’industrializzazione. Un discorso analogo può essere fatto per le singole regioni di ogni Stato; alcune aree agricole, o anche proto industriali, in relativo declino economico, vedono infatti ristagnare la loro popolazione, mentre in altre aree si assiste a un aumento spettacolare, che trasforma villaggi e borgate in grandi centri urbani. È questo il caso delle regioni tessili e metallurgiche inglesi delle Midlands o della Ruhr, in Germania, a partire dal 1850.
Il declino del peso dell’agricoltura nell’economia degli Stati europei ha il suo corrispettivo nell’intenso fenomeno di urbanizzazione che porta una percentuale sempre maggiore di Europei a vivere in centri urbani. Tale processo si intensifica nel corso dell’Ottocento anche in seguito al mutamento di alcune caratteristiche dell’industrializzazione. Nella sua prima fase le fabbriche erano spesso localizzate nelle campagne, per poter sfruttare risorse energetiche, come l’acqua e il legname, e materie prime. Con l’avanzare del processo, però, la correlazione fra industria e urbanizzazione diventa più stretta, sia perché i borghi rurali si trasformano in vere e proprie città, sia perché le industrie tendono a concentrarsi nei pressi dei centri urbani. Nel complesso la popolazione che vive in centri con oltre 5 mila abitanti passa dal 12 percento al 38 percento nell’arco del secolo, malgrado le condizioni di vita spesso estremamente difficili nei nuovi slums industriali. Anche nel caso del livello di urbanizzazione le disparità sono significative e ancora una volta l’Inghilterra fornisce un modello esemplare.
Alla fine del XIX secolo i tre quarti degli Inglesi vivono in città e particolarmente esplosivo è l’incremento fatto registrare da centri come Liverpool, Manchester o Leeds, che solo un secolo prima non potevano neppure definirsi propriamente città e che a metà Ottocento raggiungono – e in certi casi superano – la popolazione di antiche città e importanti capitali, come Roma, Napoli, Vienna e Berlino. Ma non sono solo le trasformazioni economiche ad alterare l’equilibrio demografico delle città europee. Nell’Ottocento, come nei secoli precedenti, i fattori politici hanno ancora un ruolo di primo piano nella fortuna delle città. L’unificazione italiana e quella tedesca, ad esempio, determinano una notevole crescita delle loro capitali. Non c’è da sorprendersi se l’aumento demografico più spettacolare si registra a Londra, che non è semplicemente la capitale del Regno Unito, vale a dire della nazione economicamente più avanzata, ma anche la capitale di un impero di enormi dimensioni, il vero cuore dell’economia-mondo planetaria. Londra, prima città europea a superare il milione di abitanti nel 1800, supera i sei milioni nel 1900. Notevole è anche la crescita demografica di Parigi, tanto più se si considera la globale stagnazione demografica francese, mentre l’aumento della popolazione berlinese accompagna i progressi della potenza prussiana. Il panorama delle città italiane fino all’Unità è sorprendentemente statico. Tutte le città più importanti, come Milano, Roma, Venezia e Palermo, con la parziale eccezione di Napoli, si mantengono sugli stessi livelli dei due secoli precedenti. Solo dopo la metà del secolo la situazione si modifica; nel nuovo Stato unitario, Roma e Milano si avviano infatti ad assumere rispettivamente il ruolo di capitale politica ed economica.
Da un punto di vista demografico, lo sviluppo rapidissimo delle città si spiega con la mobilità della popolazione, ovvero con la capacità delle città di attrarre immigrati provenienti da regioni più o meno distanti. Nella maggior parte dei casi si tratta di immigrati poveri, provenienti da regioni economicamente depresse e alla ricerca – talvolta destinata a rivelarsi illusoria – di migliori condizioni di vita e di lavoro. Una parte consistente del nuovo proletariato delle città industriali inglesi è ad esempio formato da immigrati irlandesi.
Ma le grandi città, soprattutto le capitali, attirano sempre di più anche nobili e borghesi dalle cittadine di provincia o dalle campagne. Ad allettarli è innanzitutto la vicinanza con i centri del potere politico statale ed eventualmente la presenza di una corte e quindi le opportunità di promozione sociale e di guadagno derivanti dall’inserimento negli apparati burocratici e militari in continua crescita. Le grandi città esercitano però anche un monopolio sempre più stretto sulla vita culturale e artistica, o semplicemente mondana, della nazione. Per conciliare il tradizionale radicamento nelle contee con l’imprescindibile necessità di essere presenti nella vita mondana londinese, l’aristocrazia e l’alta borghesia britannica elaborano uno stile di vita pendolare, tra città e campagna (reso possibile anche dal miglioramento dei trasporti), trascorrendo alcuni mesi all’anno – la season – nella capitale.
L’immigrazione è tanto più necessaria in quanto nelle città i tassi di mortalità si mantengono considerevolmente più elevati che altrove a causa delle condizioni igieniche pessime, della densità di popolamento, che favorisce la diffusione di malattie infettive, e anche delle nuove forme di inquinamento industriale. Nell’Inghilterra degli anni Quaranta del secolo, ad esempio, il tasso di mortalità nelle zone rurali è del 20 permille, nelle città è del 26 permille e nei quattro maggiori centri del 27 permille. A Manchester e a Liverpool, l’aspettativa di vita alla nascita e di dieci anni inferiore alla media nazionale e di sette anni più bassa di quella di Londra.
Nel complesso, tuttavia, rispetto al secolo precedente, il calo della mortalità dà un contributo decisivo all’aumento demografico. Un primo elemento di grande rilievo è la diminuzione dell’elevata mortalità infantile che caratterizzava il sistema demografico europeo tradizionale. I dati di cui disponiamo ne evidenziano il sensibile declino in quasi tutti i Paesi europei già a partire dalla seconda metà del Settecento. Un secondo fattore rilevante è la diminuzione delle gravi crisi di mortalità epidemica che colpivano le popolazioni europee preindustriali. La scomparsa della peste è un fatto acquisito dalla prima metà del Settecento e malgrado la diffusione di nuove malattie endemiche o epidemiche – come la tubercolosi e il colera – l’Europa della seconda metà del Settecento e dell’Ottocento non viene più colpita dalle catastrofiche pandemie infettive che avevano segnato drammaticamente la storia demografica europea nei quattro secoli precedenti. Inoltre, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, si può celebrare la prima vera, importante vittoria della medicina ufficiale sulle malattie infettive. A Glasgow, ad esempio, nei primi due decenni dell’Ottocento, grazie alla diffusione della vaccinazione, la percentuale di decessi dovuta al vaiolo scende dal 20 al 4 percento. È un successo importantissimo perché durante il secolo precedente il vaiolo era stata una delle malattie più letali.
Anche le crisi di sussistenza dovute a cattivi raccolti si fanno meno gravi, grazie alla diffusione di nuove coltivazioni e al miglioramento dei trasporti, che consentono di attenuare le conseguenze di crisi locali. L’ultima catastrofica crisi di mortalità di tipo tradizionale è quella che colpisce l’Irlanda a partire dal 1845, in seguito alla distruzione del raccolto di patate; questa carestia provoca la morte, per fame o malattia, di un quarto della popolazione e costringe altri milioni di Irlandesi a emigrare verso l’America.
La diminuzione della mortalità è dunque il risultato del complessivo sviluppo economico e scientifico che, soprattutto dopo i primi decenni dell’Ottocento, comincia a tradursi in un miglioramento delle condizioni di vita anche per le classi e i ceti popolari. Un ruolo importante lo giocano però anche le politiche pubbliche, nazionali e locali, in campo medico e sanitario, come ad esempio la decisione di rendere gratuita, e in taluni casi obbligatoria, la vaccinazione antivaiolosa. Di questa generale flessione della mortalità non beneficiano però in egual misura tutte le popolazioni europee. Mentre in Inghilterra verso il 1875 la speranza di vita alla nascita è di 41 anni per gli uomini e 45 per le donne – era di circa 34 nel 1800 – nello stesso periodo in Germania è rispettivamente di 36 e 38 anni e in Italia di 35 e 36.
Nel corso del XVIII secolo l’aumento della natalità, grazie alla diminuzione dell’età al matrimonio, aveva avuto un ruolo trainante nella crescita demografica di vari paesi europei. Questa tendenza prosegue in genere fin verso il terzo decennio dell’Ottocento. In Inghilterra il tasso di natalità – il numero di nati per ogni 1.000 abitanti – raggiunge un picco verso il 1830, con il 39 permille, anche grazie a un aumento della natalità illegittima che arriva al 5-6 percento delle nascite totali.
A partire da questa data tuttavia, la natalità comincia a declinare, soprattutto dopo la metà del secolo. All’inizio del Novecento la natalità inglese e quella di altri paesi ormai industrializzati, come gli Stati Uniti o la Germania, scende sotto la soglia critica del 30 percento. Questo rallentamento è dovuto in certi casi all’innalzamento dell’età matrimoniale ma anche alla diffusione di un certo controllo delle nascite all’interno del matrimonio.
Anche da questo punto di vista però, la storia demografica europea è fatta di differenze, di asincronie, che non sempre dipendono strettamente dalle variabili economiche. La Francia, ad esempio, pur essendo meno avanzata dell’Inghilterra sotto il profilo economico, anticipa il calo della natalità già a partire dai primi decenni del XIX secolo. Il calo di fecondità e natalità è oggetto di forti preoccupazioni per i governanti francesi, che temono, non a torto, un ridimensionamento della potenza militare francese. Nel 1850 il tasso di fecondità – il numero di figli medio per donna – è in Francia pari a 3,4, contro i 4,4 dell’Inghilterra. Alla fine del secolo tuttavia, se la fecondità francese scende ancora a 2,3, quella inglese precipita a 1,9.
Per contro, gli Stati dell’Europa meridionale e orientale mantengono una natalità elevata, sopra al 35 permille, ben addentro al XX secolo. Questa natalità elevata, che si accompagna a un calo della mortalità, sia pure più modesto di quello dei paesi dell’Europa nord-occidentale, è una delle concause dell’imponente flusso emigratorio diretto oltreoceano.