L'Ottocento: chimica. Chimica e istituzioni
Chimica e istituzioni
Il periodo che, attraverso la fine del secolo dei Lumi e la Rivoluzione francese, portò l'Europa alla Restaurazione e all'età romantica, viene solitamente ricordato dagli storici come il passaggio da un'epoca dominata dal cosmopolitismo illuminista a un'altra in cui si instaurò, con progressiva ma ineluttabile scansione, un clima di rivendicazione nazionale. In effetti, almeno a prima vista, durante tutto il XVIII sec. i momenti di coesione tra i rappresentanti della Repubblica delle lettere superarono senza difficoltà le divisioni geografiche e politiche, favoriti in questo scambio dal dominio incontrastato della lingua e della cultura francesi. Per converso, le guerre che dominarono il XIX sec. si distinsero spesso per la partecipazione ideologica degli intellettuali al clima diffuso di rivendicazione del primato del genio nazionale. In ambito chimico si potrebbe ricordare, per fare un unico esempio, il pamphlet del chimico e farmacista Pierre-Jacques-Antoine Béchamp intitolato in maniera significativa La France et la Prusse. Lavoisier et M. Liebig. Pubblicato nel 1871, poco dopo la disfatta francese, il libello di Béchamp confrontava due stili di pensiero chimico, quello prussiano e quello francese, prendendo come esempio il destino dell'opera di Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794), creatore della chimica moderna, e Justus von Liebig (1803-1873) il suo principale imitatore e denigratore. A partire da queste premesse Béchamp giungeva all'esito scontato di accusare Liebig di essersi prima appropriato di una tradizione di ricerca nata con l'opera di Lavoisier, poi di aver costruito il proprio sistema chimico attingendo a piene mani dalle scoperte di Jean-Baptiste-André Dumas (1800-1884), anch'esso francese.
Durante la guerra franco-prussiana e nei decenni successivi i chimici europei si contesero con crescente passione il passato della propria scienza, rivendicando di volta in volta un ruolo sempre più importante alle tradizioni nazionali. Così, nel 1869 Charles-Adolphe Wurtz aveva aperto una polemica dichiarando nel Discours préliminaire del suo Dictionnaire de chimie pure et appliquée ‒ intitolato Histoire des doctrines chimiques depuis Lavoisier jusqu'à nos jours ‒ che la chimica era una scienza francese, le cui origini andavano cercate negli esiti delle ricerche di Lavoisier. Dumas, e con lui tutta la sezione di chimica dell'Académie des Sciences, aveva espresso lo stesso giudizio nell'introduzione all'edizione nazionale delle opere di Lavoisier, il cui primo volume era apparso nel 1862 sotto l'alto patrocinio del ministero della Pubblica Istruzione francese. I tedeschi, per parte loro, non erano stati da meno. Nelle sue celebri Chemische Briefe (Lettere sulla chimica), apparse nel 1844, Liebig aveva ridimensionato il ruolo storico di Lavoisier individuando nell'alchimia antica e medievale l'origine dell'arte sperimentale. Reagendo agli attacchi dei francesi, Hermann Kopp aveva osservato nella Geschichte der Chemie (Storia della chimica) che lo spirito nazionale dei chimici tedeschi si era già affermato alla fine del secolo precedente con il rifiuto di "cambiare il sistema di Stahl, loro compatriota, contro la moderna chimica francese" (Kopp 1843-47, I, p. 341). Lo stesso Kopp, che pure riconobbe a Lavoisier un ruolo di preminenza, aveva accettato, su incarico dello storico Leopold Ranke, di collaborare alla monumentale impresa editoriale Geschichte der Wissenschaften in Deutschland (Storia delle scienze in Germania) e di scrivere nel 1873 un volume, il decimo, intitolato Die Entwicklung der Chemie in der neuen Zeit (Lo sviluppo della chimica nella nuova epoca), un'opera di enorme rilevanza storica, ma che dava credito alle crescenti rivendicazioni di superiorità della tradizione tedesca nelle scienze della Natura. Infine, un allievo di Liebig, Jacob Volhard, rispondeva nel 1872 alle accuse di Béchamp, Wurtz e Dumas, sostenendo che Lavoisier non era stato altro che un dilettante, il quale, attingendo alle scoperte fatte da altri chimici, in larga parte tedeschi, aveva saputo costruire in maniera opportunistica un sistema teorico e assicurarsi un successo personale.
Il duro scontro tra i chimici tedeschi e quelli francesi sulle origini storiche della loro disciplina si innestava ovviamente nel clima di ben altri conflitti e sembra confermare la tendenza generale della seconda metà del XIX sec. di un emergente nazionalismo anche nelle attività degli scienziati. Questa immagine, però, offre soltanto una prospettiva, e nemmeno la più significativa, dello sviluppo generale della chimica europea del XIX secolo. Accanto alla retorica nazionalista e alle dispute sul ruolo delle nazioni e dei geni nazionali nelle vicende della chimica, si era venuta creando una disciplina assai diversa da quella ritratta in questi scritti d'occasione. Per certi versi la chimica del XIX sec. riflette al meglio gli ideali di cosmopolitismo e internazionalismo che avevano caratterizzato l'epoca dei Lumi, favorendo la nascita di un nuovo modo di concepire la scienza. In effetti, fu proprio la combinazione paradossale tra una cultura dominante nazionalistica e autarchica e una pratica della chimica aperta al dialogo e fortemente cosmopolita la causa che favorì l'espandersi e il definitivo affermarsi di una scienza che, agli inizi del secolo, stava compiendo i suoi primi passi.
Ricorrendo all'espediente di giudicare il passato attraverso il presente, gli storici della scienza hanno spesso identificato gli enormi progressi compiuti dalla chimica ottocentesca con lo sviluppo istituzionale e industriale goduto da questa scienza negli Stati tedeschi. Questa interpretazione retrospettiva non tiene conto del fatto che nei primi anni del XIX sec. la chimica, grazie a Lavoisier e alla riforma dell'educazione scientifica che fece seguito alla Rivoluzione francese, veniva identificata con la Francia e non c'era scienziato o naturalista che aspirasse a mettersi in luce in questa scienza senza una legittimazione della comunità chimica di quel paese.
Alla fine del XVIII sec. la rivoluzione teorica di Lavoisier aveva dato un impulso straordinario alla ricerca sperimentale e all'affermazione istituzionale della chimica in quasi tutta Europa. L'importanza di questo fondamentale cambiamento concettuale aveva portato con sé anche un rinnovato approccio alla pratica di laboratorio. Lavoisier, soprattutto sul finire della carriera, aveva fatto del proprio laboratorio all'Arsenal un luogo di incontro e di collaborazione tra vere e proprie équipes di ricerca. A partire dagli esperimenti sulla sintesi e sulla decomposizione dell'acqua del 1785 fino alle ultime esperienze sulla respirazione animale, il chimico francese si era avvalso della collaborazione di un gruppo di giovani praticanti, affiancati dalla supervisione di studiosi più esperti normalmente reclutati all'Académie des Sciences. Gaspard Monge, Charles-Auguste Vandermonde, Jacques-Antoine-Joseph Cousin, Pierre-Simon de Laplace, Louis-Claude Cadet de Gassicourt, Balthazar-Georges Sage, Jean-Baptiste Meusnier de La Place e altri accademici assistettero e parteciparono alla riuscita degli esperimenti sull'acqua; questo folto gruppo di testimoni attivi veniva affiancato da ospiti stranieri di riguardo come Charles Blagden, Marsilio Landriani, Alessandro Volta, Martin van Marum, Arthur Young, i quali, in più di un'occasione, ebbero l'opportunità di collaborare e proporre modifiche importanti alle pratiche sperimentali adottate da Lavoisier. Oltre a essere punto di scambio fra tradizioni di ricerca e ambiti disciplinari differenti, il laboratorio di Lavoisier si presentava come una vera e propria scuola di apprendistato sperimentale che ebbe il ruolo di modello per il laboratorio didattico introdotto con successo nell'école Polytechnique alla fine del XVIII secolo. Alcuni assistenti di Lavoisier, quali Jean-Henri Hassenfratz (1755-1827) e Armand Séguin (1767-1835), che per nascita o educazione non avrebbero mai potuto aspirare a una carriera scientifica, riuscirono grazie all'attività di assistente di laboratorio a mettersi in luce e conquistarsi una reputazione scientifica sufficiente per assicurarsi una posizione retribuita all'école Polytechnique o in altre istituzioni scientifiche.
Il laboratorio di Lavoisier rappresentava soltanto una componente dell'ambizioso progetto di dare alla chimica una dimensione istituzionale più ampia, tale da favorire i contatti e l'incontro di esperienze e tradizioni differenti. Non a caso nel 1789 Lavoisier fondò, con i suoi assistenti di laboratorio, le "Annales de chimie", una rivista che dava ampio spazio ad articoli provenienti da tutta Europa. Per quanto significativo, il tentativo di Lavoisier si presentava come un'iniziativa in larga misura privata che, pur rispondendo all'esigenza diffusa di creare una rete internazionale di scambi e di contatti scientifici, non era in grado di assicurare una duratura stabilità istituzionale.
La difficoltà principale per una disciplina come la chimica era costituita dalla mancanza di istituzioni, insegnamenti e periodici in grado di garantirle un'espansione pari a quelle delle altre scienze naturali. Tale difficoltà era tanto più sentita in quanto la rivoluzione chimica di Lavoisier aveva generato grandi entusiasmi e aspettative per una materia che ancora cinquant'anni prima era spesso associata alle pratiche alchemiche o, nel migliore dei casi, era subordinata alle esigenze della medicina e della farmacia. La discussione sulla teoria antiflogistica esplosa in tutta l'Europa sul finire del XVIII sec. e le centinaia di scoperte che seguirono a questo intensissimo dibattito fecero emergere con urgenza il bisogno di dare alla chimica una nuova organizzazione istituzionale. Questa esigenza nacque simultaneamente in molti paesi europei, nei quali, fatta eccezione per gli Stati tedeschi, non esistevano tradizioni nazionali di ricerca. Tale lacuna, che differenziava la chimica dalle altre discipline scientifiche, favoriva l'instaurarsi di una visione cosmopolita della scienza e di una volontà diffusa di collaborazione.
Tra il finire del secolo e i primi decenni dell'Ottocento, si moltiplicarono le iniziative per realizzare nuove forme di collaborazione internazionale tra i chimici. La prima applicazione di un tale progetto può essere forse individuata nella costituzione della Société Physique et Chimique d'Arcueil, un'iniziativa nata all'inizio del XIX sec., anche se l'anno di fondazione ufficiale fu il 1807. La sede della società era, ancora una volta, una residenza privata, ossia la casa del chimico Claude-Louis Berthollet (1748-1822), già collaboratore di Lavoisier. Questi era allora all'apice della propria carriera: nel giugno del 1803 aveva pubblicato il celebre trattato Essai de statique chimique che riprendeva, sotto un nuovo approccio metodologico, il sogno di sottoporre le leggi dell'affinità chimica al rigore della fisica newtoniana. Berthollet, inoltre, si era distinto all'interno dell'Institut de France come uno degli scienziati più autorevoli e, grazie alla partecipazione alla campagna d'Italia e alla spedizione d'Egitto, godeva dell'appoggio di Napoleone Bonaparte. I membri della società erano, oltre a Berthollet e a suo figlio Amédée, Laplace, Jean-Baptiste Biot, Alexander von Humboldt, Jean-Antoine-Claude Chaptal, Augustin-Pyramus de Candolle, étienne-Louis Malus, Dominique-François Arago, Siméon-Denis Poisson, Joseph-Louis Gay-Lussac, Louis-Jacques Thenard, Pierre-Louis Dulong, Hippolyte-Victor Collet-Descotils e Jacques-étienne Bérard. Si trattava di un'associazione assai variegata che, in molti punti, si distaccava dai criteri di reclutamento promossi dalle istituzioni e dalle accademie scientifiche tradizionali. In primo luogo la Société d'Arcueil includeva tra i propri membri giovanissimi scienziati, come Gay-Lussac e Thenard, che per la loro età non avrebbero potuto nemmeno aspirare a entrare a far parte della prima classe dell'Institut. In secondo luogo erano stati ammessi a partecipare alle attività della società due scienziati stranieri, il tedesco Humboldt e il ginevrino Candolle. è bene ricordare, tra l'altro, che lo stesso Berthollet non era di origine francese, essendo nato a Tailloire in Savoia e avendo compiuto i primi studi a Torino. Infine, oltre a quelli ordinari, vi erano numerosi membri associati, tra i quali si distinguevano i ginevrini Marc-Auguste Pictet e François de la Roche, nonché il chimico irlandese Richard Chenevix. Il primo volume dei "Mémoires de physique et chimique de la Société d'Arcueil" apparve anch'esso nel 1807 e, pur non avendo un orientamento omogeneo, la politica editoriale di fondo favoriva la pubblicazione di articoli di tipo sperimentale a opera dei giovani del gruppo, in particolare Gay-Lussac. è interessante notare che, grazie al prestigio dei membri anziani e alla presenza di autorevoli scienziati stranieri e malgrado la rarità del periodico, le memorie di Gay-Lussac furono tradotte quasi subito in inglese e in tedesco, assicurando al suo autore una notorietà immediata.
La presenza preponderante dei chimici e la loro febbrile attività editoriale sembravano destinare l'istituzione di Berthollet a diventare una società chimica tout court. Tuttavia l'obiettivo di ricondurre la chimica al rigore della fisica e l'importanza accordata a progetti sperimentali e programmi investigativi, che potessero favorire una collaborazione tra fisici e chimici, resero ambigui gli esiti scientifici pubblicati nei "Mémoires". Anche se gli obiettivi scientifici della società non erano chiari, né tanto meno regolati da uno statuto, agli occhi della comunità chimica europea l'iniziativa di Berthollet costituiva un punto di riferimento autorevole e prestigioso. Nell'ottobre del 1810, per esempio, il giovane Jöns Jacob Berzelius (1779-1848), in cerca di contatti internazionali, così scriveva a Berthollet: "Per me sarebbe estremamente interessante fare un viaggio a Parigi, e in particolare poter usufruire per alcune settimane della vostra Société d'Arcueil, questo luogo così giustamente celebre negli annali della chimica" (Berzelius 1912-41, I, p. 10). A causa della guerra Berzelius dovette rinunciare al suo viaggio e attendere fino al 1819, quando l'esperienza di Arcueil era ormai giunta alla fine. In questa occasione egli poté sperimentare lo spirito internazionale e collaborativo che aveva sostenuto per così tanto tempo le attività della società. Il chimico svedese, infatti, poté disporre liberamente del laboratorio di Berthollet dove lavorò per oltre sei settimane, collaborando con Dulong a un programma di esperimenti sul peso atomico dell'idrogeno e dell'azoto e sui pesi specifici di alcuni gas. Da questa esperienza Berzelius aveva appreso alcune nuove tecniche di analisi e l'uso di strumenti di cui non era a conoscenza. Berzelius mantenne con Dulong e con altri chimici francesi un rapporto di amicizia e collaborazione e, malgrado le relazioni politiche tra Francia e Svezia non favorissero in alcun modo una fitta rete di scambi, il suo caso offre un significativo esempio di come le vie della chimica europea non seguissero il corso della politica e della cultura, ma quello meno impervio della propria affermazione epistemologica. Oltre che da Berzelius, la Société d'Arcueil fu visitata da altri chimici e scienziati stranieri. Blagden, che aveva già assistito agli esperimenti di Lavoisier sulla sintesi dell'acqua, incontrò Berthollet e gli altri membri del consesso tra il 1814 e il 1815, nell'unico momento cioè in cui un cittadino inglese poteva visitare la Francia senza correre il rischio di essere arrestato. Anche in questo caso la politica nazionale, anzi imperiale, di Napoleone I non impedì a Berthollet di impostare le relazioni scientifiche con altri chimici su un piano completamente libero da condizionamenti politici e rivendicazioni patriottiche. Certamente la competizione tra scienziati francesi e inglesi sussisteva e le ragioni filosofiche ed epistemologiche che avevano tenuto separato Lavoisier da Joseph Priestley (1733-1804) erano state più volte riprese e sviluppate; tuttavia, come allora, la politica e la guerra venivano lasciate in secondo piano. La dimensione internazionale della Société d'Arcueil favorì, almeno per quanto concerne l'ambito francese, una cultura estremamente aperta allo scambio e alla collaborazione fra nazioni. Molti furono gli studenti stranieri accolti da Thenard, Gay-Lussac, Dulong con lo scopo di apprendere i fondamenti della chimica e di formare, a loro volta, giovani capaci di imprimere a questa scienza progressi sempre più rapidi.
Con la scomparsa di Berthollet si estinse l'istituzione da lui fondata, anche se, nel frattempo, altri chimici in altri luoghi avevano creato nuove forme di insegnamento e istituzionalizzazione della loro disciplina.
La carriera di Berzelius, il patriarca della chimica ottocentesca, offre un esempio estremamente significativo della tendenza cosmopolita fortemente presente in tale disciplina. Fin dai primi decenni del XVIII sec., la Corona e gli organismi governativi svedesi avevano promosso e incoraggiato una politica di sviluppo dei contatti internazionali. La consapevolezza del valore strategico delle scienze per l'economia locale e l'urgenza di mantenersi aggiornati sulle ultime scoperte tecniche e scientifiche avevano praticamente reso necessario, nell'educazione di uno scienziato, il viaggio in Europa. Linneo (Carl von Linné), Emanuel Swedenborg, Anders Celsius e altri avevano compiuto viaggi scientifici grazie ai quali avevano potuto stabilire preziosi contatti, instaurando scambi e collaborazioni di fondamentale importanza. Quando, nel 1812, Berzelius manifestò la volontà di visitare la Francia e l'Inghilterra, trovò dunque nella Corona un sostegno immediato e generoso. Dovendo rinunciare alla Francia, per ovvie ragioni politiche, il giovane chimico svedese si recò a Londra dove fece la conoscenza di William H. Wollaston, Humphry Davy, Smithson Tennant, Alexandre Marcet, Edward C. Howard e altri. In generale l'accoglienza riservata a Berzelius fu molto calorosa, anche se il chimico lamentava un atteggiamento di condiscendenza, probabilmente dovuto alla fama di Davy, non meno che all'importanza che la tradizione sperimentale inglese stava acquisendo. Berzelius era soprattutto sorpreso dal "brillant Davy" il quale, malgrado l'abilità e il prestigio conseguiti con le sue ricerche di elettrochimica, non perdeva occasione di attaccare i francesi. Alla fine del 1812, sollecitato da Davy a dare un giudizio sui suoi Elements of chemical philosophy, pubblicati in quello stesso anno, Berzelius criticava senza mezzi termini il pessimo trattamento che Davy aveva riservato alla posizione di Berthollet sulla dottrina delle proporzioni definite. In altri casi l'acrimonia di Davy contro la nomenclatura introdotta da Lavoisier e dai suoi seguaci gli aveva provocato dei veri e propri abbagli. Al di là del contenuto specifico delle critiche di Berzelius, che comunque non intaccavano la stima per il testo nel suo complesso, quello che interessa sottolineare in questa sede è l'obiezione sollevata contro la critica pregiudiziale di Davy verso le opere dei chimici francesi. In effetti, Berzelius aveva compreso pienamente perché l'ostilità di Davy nei confronti della chimica lavoisieriana e il suo patetico tentativo di riabilitare il flogisto intaccarono non poco la sua reputazione, contribuendo a isolare la comunità scientifica inglese. Berzelius, al contrario, fu estremamente oculato nel non generalizzare mai i suoi giudizi estendendoli a una tradizione di tipo nazionale; infatti, nelle numerose polemiche e controversie in cui si trovò coinvolto si incontrano soltanto raramente riferimenti alle scuole nazionali di pensiero.
Il viaggio a Londra rappresentò comunque un successo nella carriera del chimico svedese grazie soprattutto all'intensa serie di esperimenti sui bisolfiti realizzata in collaborazione con Marcet, che era svizzero e allora residente a Londra. Nonostante avesse visitato i laboratori di chimica meglio attrezzati di Londra e Parigi, quello di Berzelius a Stoccolma era costituito da due stanze sprovviste di fornaci, di gas e di acqua, con al centro due semplici tavoli da lavoro sui quali analizzare le sostanze e provocare le reazioni. Forse a causa delle modeste dimensioni e della mancanza di risorse, Berzelius non poté mai contare sulla possibilità di istituire corsi pubblici di chimica. Tuttavia gli allievi non mancarono e tra questi molti furono gli stranieri, soprattutto provenienti dai vicini Stati tedeschi. Eilhard Mitscherlich (1794-1863), dopo aver studiato lingue orientali a Heidelberg e a Parigi, cominciò a interessarsi di chimica nel 1818 seguendo a Berlino i corsi di botanica di Heinrich Friedrich Link (1767-1851). Proprio in quel periodo Berzelius si trovava nella capitale prussiana e, colpito dalle doti del giovane studente, lo invitò a stabilirsi a Stoccolma, dove rimase fino al 1821. Da allora Mitscherlich passò sotto la protezione di Berzelius e fu grazie all'intervento e alle assillanti raccomandazioni del chimico svedese che nel 1825 riuscì a ottenere la prestigiosa cattedra di chimica presso l'Università di Berlino. La politica di Berzelius, dunque, consisteva nel selezionare pochi allievi e, qualora questi avessero manifestato qualità notevoli, nell'offrire loro una possibilità di carriera, sia attraverso segnalazioni per posti universitari, sia diffondendo le loro pubblicazioni. Anche Heinrich Rose (1795-1864), Gustav Rose (1798-1873) e Heinrich Gustav Magnus (1802-1870) lavorarono, sia pure per un periodo molto breve, nel laboratorio di Berzelius ed entrarono a far parte del gruppo dei suoi seguaci più intimi. L'allievo senza dubbio più importante fu però Friedrich Wöhler (1800-1882). A Stoccolma tra il 1823 e il 1824 su suggerimento e raccomandazione di Leopold Gmelin (1788-1853), Wöhler imparò da Berzelius non solo a diventare un buon chimico, ma anche un ottimo organizzatore e divulgatore. Fin dal 1822 Berzelius aveva accettato l'incarico della Kunglige Vetenskapsakademie (Accademia Reale delle Scienze) di Stoccolma, di cui dal 1818 era il segretario permanente, di redigere rapporti annuali sui progressi compiuti dalla chimica in Europa. Il fortunato periodico "Årsberättelse om Framsteg i Physik och Kemi", di quasi 300 pagine per volume, offriva una sintesi delle principali scoperte, teorie e pubblicazioni chimiche apparse sulle principali riviste europee o comunicate direttamente a Berzelius. Attraverso uno spoglio accurato delle "Annales de chimie et de physique", dell'"Edinburgh philosophical journal", dell'"American journal of science and arts", degli "Annalen der Physik", degli "Annals of philosophy", dell'"Archiv für die gesammte Naturlehre", degli "Annalen der Physik und Chemie" e degli atti delle principali accademie europee, Berzelius ripercorreva i progressi compiuti dalla chimica durante l'anno precedente a quello della pubblicazione del suo periodico. Nella maggior parte dei casi si trattava di una cronaca sufficientemente obiettiva, anche se i giudizi sulle scoperte e sulle teorie dei propri allievi erano considerati con un occhio di riguardo. Così, per esempio, quando nel 1822 Mitscherlich enunciò la legge dell'isomorfismo, Berzelius dette il massimo risalto alla notizia, sostenendo che si trattava della scoperta più importante dopo l'introduzione della teoria delle proporzioni chimiche. Oltre al giudizio, in sé giustificato, Berzelius coglieva l'opportunità per attaccare il mineralista René-Just Haüy (1743-1822), ma soprattutto tutti quelli che ancora appoggiavano la sua teoria dei cristalli.
Episodi come questi furono comunque rari e il valore degli annali di Berzelius fu ben presto riconosciuto in tutta Europa; essi furono considerati uno dei principali punti di riferimento per lo studio della chimica. L'opportunità di avere a propria disposizione un giovane dotato come Wöhler venne sfruttata da Berzelius affidandogli la traduzione tedesca degli annali e dei tre volumi del suo celebre Lärbok i Kemien (Trattato di chimica, 1808-1818). Alla traduzione degli annali, in 22 volumi dal 1822 al 1841, fu dato il titolo di "Jahresbericht über die Fortschritte der physischen Wissenschaften". Il trattato, con il titolo di Lehrbuch der Chemie (Trattato di chimica), apparve a Dresda nel 1825-1826. La traduzione di un periodico è un fatto già di per sé inusuale, ma il successo ottenuto dall'edizione tedesca fu ancora più sorprendente, tanto che nel 1839 veniva pubblicato a Parigi il primo volume del "Rapport annuel sur les progrès de la chimie", e il periodico apparve regolarmente fino al 1848 (anno di morte di Berzelius); infine fu realizzata a Mantova un'ampia selezione dei testi degli annali in italiano sotto il titolo di "Fasti politecnici e filosofico-chimici contemporanei" (1845).
Il successo degli annali di Berzelius e la loro diffusione internazionale contribuirono enormemente a propagare un'immagine della chimica come scienza cosmopolita, i cui progressi dipendevano più dalla cooperazione e dalla collaborazione che dalla difesa delle scuole nazionali o locali. La conquista dell'Europa da parte di Berzelius fu in effetti di natura editoriale. Il successo delle traduzioni, molte delle quali corrette e aggiornate dallo stesso scienziato al fine di adattarle all'eterogeneità dei lettori, dimostrò alla comunità chimica europea che l'affermazione di una dottrina era sostenuta dalla capacità di riuscire a rivolgersi a un pubblico sempre più vasto. L'abilità di Berzelius che considerava la chimica una scienza essenzialmente europea rappresentò il cambiamento ideologico più significativo avvenuto in tale disciplina nei primi tre decenni del XIX secolo. Questo indubbiamente fu favorito dal fatto che Berzelius era cittadino di un paese periferico che, al contrario della Francia, della Germania e dell'Inghilterra, non poteva contare su una tradizione culturale altrettanto solida. Tuttavia non bisogna esagerare troppo il ruolo delle cause contingenti; lo spirito fortemente antiromantico e l'ideale cosmopolita, ereditato dai principî illuministi di cui era imbevuta la sua formazione giovanile, spinsero Berzelius a fare della chimica una disciplina senza confini.
"Un giovane tedesco ora a Parigi […] ha appena scoperto che l'argento e il mercurio fulminati di Howard sono degli autentici sali […]. Sono relatore della sua memoria e l'ho impegnato a fare nuove esperienze" (Berzelius 1912-41, II, 1, p. 48). In questo breve seppur positivo commento Dulong annunciava a Berzelius l'apparizione sulla scena parigina di Justus von Liebig.
Quando giunse a Parigi nel 1822 Liebig aveva appena 19 anni e un titolo, di scarso valore scientifico, di dottore presso l'Università di Erlangen. Dopo alcuni vani tentativi di entrare in contatto con i maggiori chimici della capitale francese, su raccomandazione del connazionale Humboldt, già membro della Société d'Arcueil di Berthollet, fu introdotto presso Gay-Lussac. Quest'ultimo, dopo la morte di Berthollet, rappresentava la massima autorità chimica in Francia e ricopriva numerosi incarichi istituzionali. Dal momento che per un giovane studioso non esisteva a Parigi la possibilità di praticare la chimica in un laboratorio universitario, Liebig ebbe il raro privilegio di poter lavorare nel laboratorio privato di Gay-Lussac, lo stesso che pochi decenni prima aveva visto realizzarsi la rivoluzione chimica di Lavoisier. Il lavoro di Liebig era assorbito da una serie di esperimenti sui fulminati. La sua abilità pratica nel manipolare le sostanze e nel condurre gli esperimenti attirarono l'attenzione di Gay-Lussac e di altri chimici parigini che gli procurarono la possibilità di pubblicare un articolo nelle prestigiose "Annales de chimie". Come sottolineato dallo stesso Liebig in una nota autobiografica di 48 anni più tardi, il soggiorno a Parigi e l'incontro con Gay-Lussac decisero il corso della sua carriera scientifica. Gay-Lussac, scriveva Liebig, "mi prese come collaboratore e allievo nel suo laboratorio privato; tutta la mia vita è stata segnata da questa esperienza" (in Volhard 1909, II, p. 421). Tale giudizio, espresso nel 1871 dopo la guerra franco-prussiana e a seguito di una serie di violente polemiche con i francesi, in particolare con Dumas, dà un'enfasi ancora maggiore all'importanza del soggiorno parigino di Liebig e della scuola chimica francese degli inizi del secolo. Qualche anno prima, nel 1867, presenziando a un banchetto che era stato organizzato dai chimici francesi, Liebig aveva già dichiarato in maniera ancora più esplicita: "Non dimenticherò mai le ore passate nel laboratorio di Gay-Lussac […]. Quando avevamo terminato un'analisi egli mi diceva "Ora signor Liebig bisogna che voi danziate con me come io ho danzato con Thenard; quando trovavamo qualcosa di buono noi danzavamo!"" (in Crosland 1978, p. 278).
Purtroppo i documenti relativi a questo breve ma intenso tirocinio sono scarsi e quelli esistenti non informano sufficientemente su quanto sia stato decisivo l'influsso di Gay-Lussac e del suo metodo di praticare la chimica di laboratorio sul giovane Liebig. è certo che Gay-Lussac avesse sviluppato la tradizione, in Francia ormai consolidata, di fare del laboratorio un luogo di lavoro di équipe e di apprendistato, così come avevano fatto al loro tempo Lavoisier e Berthollet. Inoltre, Liebig aveva imparato dal maestro francese, godendone in prima persona, quanto fosse stimolante e gratificante vedere riconosciuti i propri meriti. La pubblicazione nelle "Annales de chimie et de physique" del 1824 di un articolo intitolato Analyse du fulminate d'argent portava la firma di entrambi, nonostante Gay-Lussac avrebbe potuto benissimo appropriarsi del contributo del suo più giovane collaboratore, considerando quest'ultimo un semplice aiuto di laboratorio. Tale condotta era già stata adottata da Lavoisier che aveva pubblicato negli anni Novanta del XVIII sec. le sue celebri memorie sulla respirazione animale e umana, dando il giusto risalto al suo assistente Séguin. Dopo Lavoisier, in Francia divenne abbastanza comune pubblicare articoli firmati da più autori in modo da favorire l'inserimento dei più giovani nella comunità scientifica. Nel caso specifico della pubblicazione di Gay-Lussac e di Liebig è significativo il fatto che il testo fu presentato anche alla seduta pubblica dell'Académie des Sciences del 22 marzo 1824, dando così la possibilità a Liebig di entrare in uno dei templi della scienza europea. Questo modo di procedere, come è noto, divenne una delle principali e più fortunate caratteristiche del metodo di insegnamento di Liebig. Il laboratorio di Gay-Lussac all'Arsenal però rimaneva un luogo essenzialmente privato dove non era materialmente possibile organizzare corsi pubblici con i quali mantenere la didattica al livello della ricerca. Qualche tentativo in tale direzione fu realizzato da Gay-Lussac durante l'insegnamento all'école Polytechnique in cui i corsi erano seguiti da esperimenti e manipolazioni di laboratorio, realizzati in massima parte direttamente dagli studenti e da alcuni assistenti. Tuttavia, a causa della rigidità del sistema educativo francese, l'impossibilità di dare sbocco e regolarità istituzionale a questo modello di insegnamento impedì la creazione di una sede permanente di formazione sperimentale che permettesse agli studenti di chimica di trovare nel laboratorio la propria dimensione professionale.
Con questo tipo di formazione, e dietro raccomandazione di Humboldt, nel 1824 Liebig ricevette l'incarico per l'insegnamento della chimica presso l'Università di Giessen; l'anno successivo, a soli 22 anni, sarebbe divenuto professore ordinario e avrebbe potuto disporre di un modesto laboratorio. Giessen era praticamente agli antipodi di Parigi. Una cittadina provinciale di poco più di 5000 abitanti la cui unica risorsa erano gli studenti, per di più situata in uno Stato relativamente periferico nella galassia degli Stati tedeschi, non sembrava promettere un grande avvenire alle ambizioni di Liebig di creare una scuola e un laboratorio di chimica quantomeno dignitosi. Le cose, come è noto, andarono diversamente e in pochi anni il suo laboratorio divenne la capitale della chimica mondiale, sottraendo prestigio e autorità alle più celebri scuole di Berzelius, Gay-Lussac e Davy. Studenti di tutti i paesi e di tutti i continenti furono attratti dalla capacità sperimentale e dai metodi innovativi di insegnamento adottati da Liebig. Vi studiarono infatti i francesi Wurtz, Charles Frédéric Gerhardt e Henri-Victor Regnault, i britannici Alexander W. Williamson, Lyon Playfair e James Muspratt, il messicano J.V. Ortigosa e i tedeschi Wöhler, Kopp, August Wilhelm von Hofmann, Volhard, Friedrich August Kekulé per non citare che i nomi più noti. Nei primi anni, come Liebig ebbe a lamentarsi con le autorità universitarie, furono proprio gli stranieri, in particolare gli studenti francesi e olandesi, a garantire la sopravvivenza della struttura. Cosa può aver indotto 194 studenti ‒ tanti furono gli stranieri che a vario titolo frequentarono il laboratorio di Liebig tra il 1830 e il 1850 ‒ a spingersi fino a Giessen quando, standosene a Londra o a Parigi, avrebbero potuto disporre di sedi ben più attrezzate e moderne, lo spiega lo stesso Liebig: gli ingredienti principali del successo erano il rapporto di stretta collaborazione che egli era capace di instaurare con ciascuno studente, e la libertà, sia pur guidata, dei loro programmi di ricerca sperimentale. Per completare il quadro si può aggiungere la totale mancanza di distrazioni che offriva Giessen.
Anche se ognuno di questi elementi giocò un ruolo importante, uno dei fattori principali dell'affermazione della scuola di Liebig era costituito dalla possibilità offerta al singolo studente di ottenere, mediante il proprio lavoro sperimentale, un credito scientifico. Seguendo la lezione impartitagli da Gay-Lussac, Liebig comprese quanto stimolante potesse essere per un giovane studioso vedere riconosciuta la proprietà intellettuale di una scoperta. Al fine di favorire questo tipo di riconoscimento, Liebig comprese tempestivamente che l'identità professionale del chimico ottocentesco si otteneva attraverso la pubblicazione dei saggi e degli articoli su riviste specializzate. Già a partire dal 1824 Liebig si era impegnato a collaborare con Philipp Lorenz Geiger (1785-1836) alla redazione del "Magazin für Pharmacie", uno dei primi periodici specializzati in chimica farmaceutica. Dopo la morte di Geiger e varie vicissitudini editoriali, nel 1837 Liebig decideva di trasformare radicalmente il periodico e lanciava l'idea, del tutto inedita per quei tempi, di creare una rivista internazionale di chimica, invitando l'inglese Thomas Graham (1805-1869) e il francese Dumas a collaborare alla sua direzione. Appena un anno dopo, Wöhler si lamentava con Berzelius del fatto che questa cooperazione fosse in realtà un semplice espediente di facciata per garantire all'editore un maggior numero di abbonamenti e che l'alleanza bizzarra tra Graham, Liebig e Dumas umiliasse le potenzialità dei chimici tedeschi. Nello stesso anno Wöhler si candidava, con esito favorevole, a collaborare gratuitamente al periodico, il cui nome veniva cambiato nel 1842 in "Annalen der Chemie und Pharmacie". Il successo editoriale degli "Annalen", accompagnato dalla creazione nel 1847 dello "Jahresbericht über die Fortschritte der Chemie", garantì a Liebig la possibilità di diffondere, mediante i contributi dei suoi allievi, studenti e seguaci, una visione della chimica riconducibile ai principî che erano loro impartiti nel laboratorio di Giessen.
La febbrile attività editoriale di Liebig, il successo del suo metodo di insegnamento e la fama internazionale del laboratorio di Giessen stimolarono in tutto il resto dell'Europa uno spirito di emulazione, garantendo così alla chimica uno sviluppo istituzionale rapidissimo.
Intorno alla metà del XIX sec. furono fondate le prime società chimiche nazionali. Prima fra tutte, nel 1841, la British Chemical Society di Londra, seguita, nel 1857, dalla Société Chimique de Paris e, nel 1868, dalla Deutsche Chemische Gesellschaft. La nascita delle associazioni nazionali insieme alla pubblicazione di bollettini e di periodici anch'essi nazionali segnarono l'avvento della professionalizzazione della chimica e della crescita omogenea della disciplina nei principali paesi europei. La formula ideata da Liebig per dare impulso istituzionale e scientifico alla chimica divenne la base di partenza di tutti i tentativi immediatamente successivi. L'associazione come forma di confronto e di scambio e la pubblicazione periodica quale strumento di comunicazione sociale di tale confronto divennero le cornici istituzionali entro le quali si venne affermando una nuova identità della disciplina. In aggiunta a questi due elementi fondamentali Liebig aveva fortemente favorito l'incontro tra allievi e ricercatori provenienti da paesi e tradizioni diverse, garantendo così alla chimica un'identità transnazionale e per certi versi cosmopolita. La nascita delle società chimiche nazionali sembrava in qualche modo invertire questa tendenza. In realtà, anche in condizioni contingenti meno favorevoli, l'internazionalismo della chimica europea della prima metà del XIX sec. continuò a esercitare una grande attrazione.
Nell'autunno del 1859, durante una breve visita a Karlsruhe, Kekulé propose al suo collega più anziano Carl Weltzien (1813-1870) di organizzare una conferenza internazionale di chimica al fine di dirimere la controversia sull'identità chimica dell'atomo e sulla nomenclatura e notazione da adottare. La proposta di Kekulé, allora trentunenne, fu accolta con entusiasmo da Weltzien e da altri chimici autorevoli, quali Wurtz, Stanislao Cannizzaro (1826-1910), Louis Pasteur (1822-1895), Williamson e Wöhler. Altri, in particolare Hofmann, manifestarono il loro scetticismo sulla possibilità di realizzare, mediante un unico incontro, un programma tanto ambizioso. La proposta di Kekulé, comunque, non incontrò pareri apertamente negativi.
L'idea di una riunione tra scienziati non era del tutto nuova; tra la fine del XVIII e i primi decenni del XIX sec., nei principali paesi europei erano stati già organizzati alcuni congressi nazionali. In Germania, per esempio, grazie a un'iniziativa di Lorenz Oken (1779-1851) gli scienziati tedeschi avevano cominciato a riunirsi con scadenza annuale dal 1822, e nel 1858 si erano incontrati proprio a Karlsruhe. La partecipazione a questi congressi era perlopiù limitata alla comunità nazionale ed era animata dall'unico proposito di presentare i risultati delle ricerche individuali nei diversi ambiti disciplinari. Verso la fine del XVIII sec. vi erano stati alcuni tentativi di organizzare congressi internazionali su programmi scientifici meglio definiti, come nel caso della riunione del 1798 promossa dalla Commission des Poids et Mesures dell'Institut di Parigi, nella quale un gruppo di scienziati francesi, italiani, danesi, spagnoli, svizzeri e olandesi avevano discusso le modalità di diffusione del sistema metrico decimale. Nel 1800 si riuniva a Gotha un gruppo internazionale di astronomi al fine di adottare un sistema standardizzato di osservazioni. Senza sminuire l'importanza di questi tentativi, è tuttavia lecito asserire che quello tenuto a Karlsruhe fu il primo vero congresso scientifico internazionale capace di dare un significato nuovo e una direzione alla comunicazione scientifica.
Il 3 settembre 1860 Weltzien, consapevole della novità di tale riunione per la storia della scienza, sottolineava che era la prima volta che i cultori di una singola disciplina, per di più recentissima come la chimica, si riunivano per discutere un programma di unificazione degli standard concettuali e linguistici della scienza; le differenze linguistiche ed etniche non potevano ostacolare l'unità dell'identità professionale dei convenuti. Le principali questioni messe sul tavolo da Kekulé e Wurtz, i veri ispiratori dell'incontro, erano essenzialmente due: se fosse possibile trovare una definizione soddisfacente di atomo, molecola ed equivalente; se i recenti progressi della chimica giustificassero un cambiamento nel sistema simbolico introdotto da Berzelius. Gli storici della scienza sono concordi nel ritenere che la commissione istituita il primo giorno per individuare una soluzione di sintesi a tali quesiti non riuscì a trovare una linea comune capace di far convergere le differenti opinioni. Tuttavia, è molto difficile stabilire, sulla sola base dell'esito negativo della commissione, se il congresso sia stato un successo o un fallimento. Una soluzione a questo dilemma può essere trovata soltanto se si guarda al congresso di Karlsruhe entro una prospettiva più ampia e non ci si interroghi esclusivamente sui risultati concreti e immediati conseguiti in quella occasione. Anche se non fu raggiunto alcun accordo definitivo sulla natura dell'atomo, non si può considerare una coincidenza il fatto che un membro della periferia della comunità scientifica internazionale, Cannizzaro, riuscì a conquistare un posto centrale nella discussione. Invitato da Weltzien a esprimere il proprio parere in merito all'atomo, Cannizzaro fece osservare che la distinzione tra molecole fisiche e molecole chimiche non gli sembrava né necessaria né chiaramente stabilita poiché, contrariamente a quanto sostenuto da Kekulé, una molecola gassosa rappresentava una molecola chimica a tutti gli effetti ed era impossibile confonderla con una molecola fisica. In questo e in altri interventi Cannizzaro spiegò la sua idea illustrando le conseguenze teoriche della filosofia chimica di Amedeo Avogadro (1776-1856) e come queste si combinassero con la recente posizione di Gerhardt, dandone addirittura una formulazione più semplice e coerente.
Di fronte a Dumas, che presiedeva la sessione e che aveva da sempre criticato la posizione di Gerhardt e cercato in tutti i modi di ostacolarne la diffusione in Francia, Cannizzaro ‒ secondo il resoconto del congresso stilato da Wurtz ‒ concludeva la propria relazione con le seguenti parole: "Noi non possiamo impedire che il sistema di Gerhardt non guadagni ogni giorno dei difensori. Già oggi è accettato dalla maggioranza dei giovani chimici, da quelli che prendono parte attivamente al progresso della scienza" (Wurtz 1860 [1983, p. 26]). Stando ancora al resoconto di Wurtz la posizione di Cannizzaro fu quella che suscitò maggiore interesse, lasciando in secondo piano la discussione sulla simbologia e sulla nomenclatura da adottare. L'eco del suo intervento, in effetti, fu così forte che un allievo di Wöhler, Konrad Friedrich Beilstein (1838-1906), non esitò a definirlo come il vero argine al fallimento dell'iniziativa. In una lettera indirizzata al chimico italiano, Beilstein scrisse che la presenza di Wöhler "avrebbe (insieme con Liebig) controbilanciato la chimica gallica e sostenuto i cuori vacillanti che hanno finito per farsi invadere dai Napoleonidi. Siete voi, signore, che avete salvato il resto da una sconfitta completa, noi vi saremo obbligati per sempre" (Cannizzaro 1992, p. 50). Il chimico italiano, inoltre, fu il solo ad aver portato con sé l'estratto di una pubblicazione, il Sunto di un corso di filosofia chimica, che avesse una connessione diretta con i contenuti del convegno. Anche da questo punto di vista la strategia di Cannizzaro si rivelò fortunata, poiché sia Kekulé, sia Julius Lothar Meyer (1830-1895) rimasero fortemente impressionati dalla ricchezza teorica del Sunto.
Il caso di Cannizzaro è abbastanza interessante perché è legittimo chiedersi se, senza l'organizzazione del congresso di Karlsruhe, la diffusione delle sue idee e il riconoscimento del significato storico ed epistemologico da attribuire all'opera di Avogadro avrebbero avuto il medesimo impatto. All'epoca del congresso Cannizzaro aveva solamente 34 anni e non poteva contare su una comunità chimica o scientifica nazionale prestigiosa come quella tedesca, inglese o francese. A conferma di ciò è bene ricordare che la delegazione italiana a Karlsruhe era composta soltanto da Cannizzaro e da Angelo Pavesi, quindi inferiore numericamente non solo a quelle di Germania (57 delegati), Francia (21 delegati), Inghilterra (17 delegati), ma anche a quelle dell'Austria (7 delegati), della Russia (7 delegati), della Svizzera (6 delegati) e della Svezia (4 delegati). Soltanto Spagna, Portogallo e Messico, tutte con un unico delegato, erano rappresentate in misura minore. Infine, bisogna ricordare che poco dopo l'uscita, nel 1858, il Sunto non ebbe alcuna risonanza internazionale e che la recensione di Felix Leblanc, apparsa nel "Répertoire de chimie", e quella di Kopp pubblicata nel volume del 1859 dello "Jahresbericht über die Fortschritte der Chemie" non lasciavano prevedere un largo successo. Fu dunque soltanto dopo la presentazione al congresso di Karlsruhe che l'opera di Cannizzaro seppe conquistarsi una posizione di primo piano, e non è certo un caso che nel 1872 il chimico italiano venisse insignito dalla Chemical Society di Londra della Faraday medal, riconoscimento che prima di allora era stato conferito solamente a Dumas, nel 1869.
Il caso di Cannizzaro, dunque, ci permette di apprezzare meglio l'importanza del congresso di Karlsruhe e, più in generale, delle iniziative che favorirono la collaborazione internazionale. Grazie a tale evento, la comunità chimica europea si riconobbe nei valori di cosmopolitismo e internazionalismo che, a partire dall'inizio del XIX sec., si vennero progressivamente affermando e diffondendo. Le rivalità tra i chimici, più che innestarsi su valori riconducibili al patriottismo e alla rivendicazione sciovinistica del primato della propria nazione, si caratterizzarono, almeno fino al 1870, come conflitti personali e controversie di scuola. Dal momento che le scuole chimiche del XIX sec. non erano, se non in rarissimi casi, scuole nazionali, non era possibile appoggiare la preferenza di un approccio teorico su principî culturali di tipo nazionale. I discepoli di Berthollet, Berzelius, Liebig, Hofmann e Dumas appartenevano a nazioni diverse, anche se si fecero promotori di posizioni teoriche comuni.
Il clima generalizzato di collaborazione e la tendenza a superare le barriere culturali del nazionalismo non impedirono la diffusione, soprattutto in Francia e in Germania, di posizioni che, almeno in apparenza, contraddicevano lo spirito del congresso di Karlsruhe. Celebre e più volte citata è la seguente affermazione di Wurtz: "La chimica è una scienza francese: essa fu costituita da Lavoisier, d'immortale memoria" (1869b, p. 1). L'influenza di questa affermazione fu enorme tanto che, ancora nel 1916, il chimico-fisico Pierre-Maurice-Marie Duhem (1861-1916) pubblicava un volume intitolato La chimie est-elle une science française? in cui veniva confermato, con una nuova e più analitica ricostruzione storica, il ruolo di guida assunto da Lavoisier nella fondazione della chimica moderna. Tra l'affermazione di Wurtz e il volume di Duhem la storia delle relazioni franco-tedesche venne fortemente condizionata dallo scoppio del conflitto franco-prussiano, prima, e dall'inizio della Prima guerra mondiale, poi.
In questo periodo di deterioramento della situazione politica internazionale, l'attribuzione di un ruolo preminente a Lavoisier era particolarmente sentita dai francesi, in quanto egli si era distinto nella storia della disciplina per aver soppiantato la teoria del flogisto, propugnata dal medico tedesco Georg Ernst Stahl (1660 ca.-1734). Inoltre, come veniva spesso ricordato, la teoria dell'ossigeno di Lavoisier era stata definita fin dal suo nascere come la 'teoria dei chimici francesi' o 'teoria antiflogistica', entrambe qualifiche che, agli occhi di storici interessati come Wurtz, Dumas e Marcellin Berthelot (1827-1907), potevano essere utilizzate per dimostrare la superiorità storica dei francesi in ambito chimico. Come accennato in precedenza, in piena Guerra franco-prussiana, Volhard intervenne a difendere la tradizione chimica tedesca contro le tesi di Wurtz, accusando Lavoisier di plagio, un'imputazione che nel secolo successivo avrà tanta fortuna quanto quella del suo contendente. La biografia di Lavoisier non venne utilizzata soltanto contro i tedeschi ma, come dimostra l'opera di Berthelot La révolution chimique, Lavoisier (1890), anche contro gli inglesi. Nella biografia scientifica di Lavoisier, infatti, Berthelot sminuiva il ruolo svolto da Priestley, da Henry Cavendish e da James Watt nell'avvento della rivoluzione chimica: il loro modo di fare sperimentazione, a suo giudizio, non gli avrebbe infatti permesso di abbandonare una teoria errata, un passo che fu concesso solamente al genio teorico di Lavoisier. La posizione di Berthelot venne immediatamente contestata da Sir Thomas E. Thorpe (1845-1925), chimico anch'egli, il quale scelse un'occasione di massimo prestigio per difendere l'onore dei suoi compatrioti. Nel 1890 leggeva un presidential address di fronte alla sezione di chimica della British Association for the Advancement of Science intitolato Priestley, Cavendish, Lavoisier and 'la révolution chimique'. Per l'occasione Thorpe aveva vestito, come Berthelot, i panni dello storico e, presentando al pubblico documenti inediti relativi alla scoperta della composizione dell'acqua, rivendicava ai naturalisti inglesi non soltanto il primato della scoperta, ma anche un'integrità etica che era mancata a Lavoisier. Nella conclusione della sua lunghissima disamina, Thorpe non mancò di servirsi della storia per attaccare Berthelot e la sua posizione teorica:
Berthelot rimprovera a Priestley e a Cavendish la loro adesione alla teoria del flogisto. Io gli esprimo tutto il mio rispetto ‒ ma, fra tutti, Berthelot è proprio il più autorizzato a lanciare una simile pietra? Non è egli stesso un'esemplificazione di quel conservatorismo che deplora? Una generazione fa la dottrina di Avogadro divenne la pietra angolare di quell'edificio di cui Berthelot sostiene che Lavoisier abbia gettato le fondamenta. Infatti, l'introduzione di questa dottrina ha determinato una rivoluzione appena meno memorabile di quella di cui Lavoisier è stato il capo. Ma qual è stata la coerente attitudine di Berthelot nei confronti di questo insegnamento? Possiamo illustrarla con un solo esempio. Egli è l'unico insegnante in Europa, qualunque posizione gli altri occupino, che continua a simbolizzare, mediante una formula obsoleta quanto la concezione del flogisto, la costituzione di quella autentica sostanza di cui sostiene che Lavoisier abbia scoperta la composizione. (Thorpe 1911, p. 184)
Dopo il 1870, dunque, il dibattito su Lavoisier e le origini della chimica moderna si trasformò in una controversia dai forti connotati ideologici e nazionalistici che fu utilizzata in varie forme per difendere idee e posizioni che con la storia avevano poco a che vedere. Il crescente nazionalismo si manifestò addirittura nella nomenclatura dei nuovi elementi. I primi ad adottare la toponomastica nazionale furono gli svedesi. Nel 1879 Lars Frederik Nilson (1840-1899) scopriva un elemento che denominava, in onore della propria nazione, scandium; nello stesso anno Per Theodor Cleve (1840-1905), professore di chimica a Uppsala e allievo di Wurtz, individuava due costituenti delle terre rare denominandoli holmia, dalla propria città natale, e thulia, l'antico nome della penisola scandinava. L'esordio svedese venne emulato da Clemens Winkler (1838-1904) che nel 1886 isolava e denominava il germanum. Come è noto, anche una cosmopolita della scienza come Marie Sklodovska Curie (1867-1934) non si sottrasse alla tentazione di celebrare le proprie origini polacche denominando polonium l'elemento radioattivo scoperto nel luglio del 1898.
Anche se le tendenze nazionalistiche espresse dai chimici dopo il 1870 non possono essere sottovalutate, è altrettanto pericoloso, come finora hanno fatto gli storici della scienza, vedere in esse una convinzione profondamente radicata nell'intimo degli scienziati. Il caso di Wurtz, che viene quasi sempre indicato come una delle massime espressioni di tali orientamenti è, a un esame più attento, esemplare. Se è vero che le prime tre righe della sua celebre ricostruzione storica attribuiscono a Lavoisier il ruolo di padre fondatore della chimica moderna, è altrettanto vero che il capitolo più lungo dedicato a un singolo scienziato è quello che prende in esame l'opera di Berzelius. Non solo, giacché nel richiamare l'attenzione sull'importanza epocale dell'atomismo chimico, Wurtz riconosceva che "quella di Dalton è dunque una grande idea e si può dire a buon diritto che fra tutti i progressi che le dottrine chimiche hanno compiuto dopo Lavoisier, quella è la più importante. Essa ha cambiato la faccia della scienza" (1869b, p. 262).
La stessa biografia di Wurtz, simile a quella di tanti suoi contemporanei, serve a darci un'immagine più sfumata e quindi più ricca di quelle che furono le sue posizioni storiografiche. Dopo aver lavorato con Liebig a Giessen, nel 1845 Wurtz diventò assistente di Dumas con il quale nel 1857 fondò la Société Chimique de Paris; sostenne, contro il parere di Dumas, il sistema di Gerhardt e divenne uno dei principali fautori dell'idea di organizzare un congresso internazionale a Karlsruhe, di cui, tra l'altro, fu il segretario. La sua posizione di professore a Strasburgo gli consentì di intensificare ulteriormente le relazioni scientifiche internazionali che, anche durante gli anni della guerra, non subirono interruzioni. E forse non è un caso che un suo allievo, il tedesco Albert Ladenburg (1842-1911), sia divenuto celebre per un testo, Vorträge über die Entwicklungsgeschichte der Chemie (Letture sullo sviluppo storico della chimica, 1869), che faceva iniziare la storia della chimica moderna proprio dall'opera di Lavoisier. Anche nel caso di Ladenburg, l'appartenenza a una scuola chimica, quella di Wurtz e Charles Friedel (1832-1899), era dunque molto più influente e importante dell'adesione a una visione nazionalista della cultura scientifica.
Gli ultimi anni del secolo sottolinearono ulteriormente la resistenza della chimica europea ai richiami dei nazionalismi ed è significativo che nel 1889 i chimici si riunirono a Parigi per un nuovo congresso internazionale, cui seguì nel 1892 il più celebre congresso di Ginevra, lo scopo dei quali era la standardizzazione della nomenclatura della chimica organica. Anche in queste occasioni, la tensione tra la cultura nazionalista dominante da un lato e la natura essenzialmente internazionale della chimica dall'altro si risolse a favore della seconda.
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