L'Ottocento: biologia. Fisiologia e medicina sperimentale
Fisiologia e medicina sperimentale
Nel corso dell'Ottocento la fisiologia divenne una solida disciplina a base sperimentale: interessata da innumerevoli scoperte, fiduciosa nei suoi metodi, fu un modello per la diffusione della sperimentazione in altre aree della biologia e una fra le tante scienze di base considerate essenziali per il progresso e la pratica della medicina. Le spiegazioni storiche di quest'evoluzione si sono incentrate sul ruolo decisivo svolto da alcuni grandi fisiologi, fra cui, in particolare, François Magendie e Claude Bernard in Francia, Johannes Peter Müller, Emil Du Bois-Reymond, Hermann von Helmholtz e Carl Ludwig in Germania. Pur riconoscendo senza difficoltà i legami con i secoli precedenti, gli storici hanno tendenzialmente sottolineato gli elementi di novità rispetto al passato, che a loro giudizio determinano la nascita della fisiologia 'moderna'. Gran parte del merito del progresso raggiunto a metà del secolo è attribuito all'abbattimento degli ostacoli posti alla ricerca empirica dal vitalismo in Francia e dal pensiero romantico in Germania. Spesso, inoltre, vengono sottolineate le differenze tra la fisiologia francese, tedesca e britannica. Tuttavia, per quanto importanti possano essere stati i personaggi citati, le transizioni ricordate e i diversi stili nazionali, la tendenza a organizzare la storia della fisiologia del XIX sec. attorno a questi temi ha lasciato in ombra gli elementi comuni e di continuità che furono altrettanto significativi per lo sviluppo del settore.
La fisiologia sperimentale non era una disciplina nuova per il XIX sec.; la sperimentazione ‒ praticamente con la stessa concezione di base e le medesime modalità di esecuzione ‒ esisteva sin dall'Antichità. L'indagine fisiologica dell'Ottocento differiva da quella dei periodi precedenti non tanto per i principî ispiratori quanto per la portata dell'attività, per la potenza dei metodi messi a sua disposizione dalle scienze fisiche e per le strutture istituzionali organizzate nell'ambito delle quali veniva praticata. Quel che in precedenza era stato uno sforzo sostenuto da singoli individui di talento con risorse limitate divenne ora un flusso investigativo continuo, alimentato da contributi più o meno di rilievo da parte di numerosi studiosi. Sempre più, nel corso del secolo, questi ultimi si trasformarono in scienziati di professione, che potevano contare sulle agevolazioni fornite da laboratori ben attrezzati. Fisiologi pur in disaccordo fra loro su questioni di fondo circa la natura dei processi vitali contribuirono spesso in perfetta armonia a risolvere specifici problemi sperimentali.
I fenomeni studiati durante il XIX sec. nell'ambito della fisiologia erano stati spesso indicati in epoche precedenti con altri termini, per esempio 'economia animale', e discussi di solito come corollari di scienze più tradizionali quali l'anatomia e la zoologia. La fisiologia come disciplina organizzata assunse precisi contorni per la prima volta nei manuali scritti da Albrecht von Haller (1708-1777), la cui fisiologia è a volte designata come 'anatomia animata'. Egli insisteva sul fatto che non si potesse comprendere l'organizzazione del corpo vivente senza una raffinata e dettagliata conoscenza della sua struttura anatomica, ma riconosceva altresì la centralità degli esperimenti sugli animali viventi e l'importanza dell'osservazione al microscopio della più fine struttura del corpo, come pure dell'analisi chimica dei liquidi corporei, dell'applicazione delle leggi della meccanica, dell'idrostatica, dell'idrodinamica e dello studio dei movimenti del corpo.
Nel corso del XVIII sec., gli scienziati che, come Haller, si dedicarono a originali indagini fisiologiche furono pochi e variamente dislocati; tuttavia questo settore di studio ottenne un posto di primo piano nei ben strutturati programmi di medicina delle università tedesche ed europee. Il ruolo della fisiologia nella formazione medica tedesca doveva essere quello di fornire ai medici una cornice appropriata per un'interpretazione dei fenomeni della vita al passo con le concezioni filosofiche correnti. In considerazione della loro funzione pedagogica, i docenti e gli studiosi legati all'accademia si preoccupavano maggiormente di esporre in maniera sistematica i processi della vita che erano già noti piuttosto che di espandere le proprie conoscenze attraverso la sperimentazione o altri innovativi percorsi d'indagine.
I cambiamenti nella formazione medica che si verificarono in Francia durante la Rivoluzione, promossero in questo paese, e soprattutto a Parigi, lo sviluppo di una fisiologia sostenuta da un'attività sperimentale più vigorosa di quanto non fosse mai avvenuto. Questi cambiamenti portarono al superamento della tradizionale separazione fra medicina e chirurgia, e avviarono gli studenti all'esperienza clinica al capezzale dei pazienti; produssero una generazione di medici ben addestrati nelle tecniche chirurgiche, tanto che alcuni di loro non si limitarono soltanto ad applicare le loro capacità nella pratica corrente, ma le estesero anche al miglioramento della tecnica negli interventi chirurgici. Con Marie-François-Xavier Bichat (1771-1802), personalità di rilievo nell'ambito di questa tendenza fino alla sua morte precoce, l'innovazione chirurgica fu trasformata in una sorta di sperimentazione fisiologica costruita intorno agli interventi chirurgici. Studiando gli effetti dello smembramento o della distruzione di specifici organi o parti di organi, i medici-fisiologi francesi che seguirono le orme di Bichat speravano di poter comprendere le loro funzioni in condizioni di normalità. Grazie al lavoro negli ospedali, ai legami con medici pratici, e anche alle scuole veterinarie, essi avevano facile accesso a tutto ciò di cui avevano bisogno per eseguire interventi di vivisezione. Alcuni tennero corsi privati di insegnamento della materia, accompagnando regolarmente le loro lezioni con dimostrazioni sperimentali. Inoltre, a Parigi il dinamismo in molti campi dell'attività scientifica e la forte influenza esercitata dall'Académie des Sciences li incoraggiavano a proseguire in questo tipo di ricerche unicamente per il loro valore scientifico, indipendentemente dalle immediate applicazioni in ambito medico. Questi medici-fisiologi francesi di inizio Ottocento non godevano senz'altro di una sicura base istituzionale per la loro attività di indagine, ma un intreccio di motivazioni che si rafforzavano a vicenda li induceva a procedere in maniera indipendente, o in qualsiasi spazio provvisorio trovassero un appoggio, alla ricerca di una scienza fondata sull'"arte degli esperimenti sugli animali viventi".
Almeno quattro membri di questo gruppo ‒ Pierre-Hubert Nysten, Guillaume Dupuytren, Julien-Jean-César Legallois e Magendie ‒ pubblicarono significative ricerche sperimentali nel primo decennio del secolo; di particolare impatto furono quelle di Legallois sulla dipendenza di varie funzioni vitali dall'integrità di specifiche regioni del sistema nervoso centrale. In seguito, però, morto Legallois nel 1814 e avendo Nysten e Dupuytren abbandonato la fisiologia per dedicarsi totalmente alla loro carriera di medici, Magendie rimase il principale esponente della nuova fisiologia. Egli proseguì nella ricerca e nella campagna a favore della fisiologia sperimentale per altri tre decenni. Estromesso dalla Facoltà di medicina a causa di attriti personali, Magendie si dedicò all'esercizio della professione medica e contemporaneamente organizzò un corso privato di fisiologia che riscosse un grandissimo successo. Nel 1816 pubblicò un autorevole manuale, Précis élémentaire de physiologie, e nel 1821 fondò il "Journal de physiologie expérimentale", la prima rivista dedicata interamente alla fisiologia. Soltanto nel 1830, quando ormai la sua fama internazionale era consolidata, ottenne la nomina alla cattedra di medicina sperimentale al Collège de France che gli assicurò una posizione accademica ufficiale per l'insegnamento della fisiologia, nonché un piccolo laboratorio in cui eseguire i suoi esperimenti.
Negli Stati tedeschi la fisiologia si inserì nella struttura universitaria con maggiore facilità che nella Francia d'inizio Ottocento. Questa situazione non rappresentò però soltanto un vantaggio, sotto certi aspetti, infatti, quella struttura ne ostacolò il consolidamento come disciplina autonoma. Proprio nel momento in cui le università tedesche erano impegnate nella organizzazione della conoscenza (Wissenschaft) in discipline che coincidessero con l'ambito di insegnamento e di ricerca assegnato alle singole cattedre e ai singoli docenti, le convinzioni del tempo sulla relazione tra forma e funzione negli organismi rafforzarono a tal punto gli stretti legami fra l'anatomia e la fisiologia da indurre a riunire quasi sempre queste due discipline in un'unica cattedra. L'influenza più decisiva che il movimento della Naturphilosophie dell'ultimo decennio del Settecento e dei primi anni dell'Ottocento esercitò sullo sviluppo della fisiologia è legata all'idea che la descrizione morfologica degli organi del corpo potesse fornire spiegazioni causali delle loro funzioni. Questa concezione nello stesso tempo scioglieva i tradizionali legami tra la fisiologia e la formazione medica e orientava la fisiologia accademica verso l'anatomia descrittiva e comparativa.
"All'inizio del XIX sec." ‒ come ha affermato Steven Turner ‒ "la tradizionale figura del professore tedesco si trasformò, passando da un ruolo prevalente di insegnamento a un ruolo che comportava anche responsabilità di ricerca scientifica e di pubblicazioni" (1971, p. 138). Per la fisiologia, una delle manifestazioni cruciali di tali cambiamenti fu la nomina di Müller nel 1833 alla cattedra di anatomia e fisiologia dell'Università riformata di Berlino. Il ministro prussiano si aspettava che Müller desse maggiore solidità scientifica all'insegnamento della Facoltà di medicina, e insieme che assumesse la leadership tanto nelle ricerche di anatomia quanto in quelle di fisiologia. Per gli stretti legami che continuava a mantenere fra anatomia e fisiologia, Müller era in linea con il proprio tempo, ma a differenza della maggior parte dei suoi predecessori, egli non credeva che la funzione potesse essere inferita dalla sola struttura. Nella personale ricerca, nell'autorevole Handbuch der Physiologie des Menschen (Manuale di fisiologia umana) che pubblicò per la prima volta nel 1834, e nel suo ruolo di guida di tutta una generazione di più giovani ricercatori, Müller mostrò un vasto interesse in molteplici campi di osservazione e di sperimentazione.
A Breslavia, Jan Evangelista Purkynje fu chiamato alla cattedra di fisiologia e patologia, ma fra lui e il titolare della cattedra di anatomia sorsero contrasti poiché quest'ultimo rifiutava di fargli utilizzare in condominio l'unico istituto di anatomia disponibile. Nel 1839, dopo una lunga trattativa, Purkynje riuscì a ottenere un proprio istituto che, benché non fosse il primo nel suo genere, divenne tuttavia il primo istituto indipendente di fisiologia coronato da notevole successo, fino a essere considerato un punto di riferimento istituzionale nella fase di costituzione della fisiologia come disciplina accademica.
Ernst Heinrich Weber, nominato professore di anatomia e fisiologia presso l'Università di Lipsia nel 1821, svolse durante i successivi tre decenni una serie di importanti studi riguardanti la fisiologia del sistema circolatorio. Tali studi erano fondati più sulla teoria e la sperimentazione fisica che sulle osservazioni anatomiche.
Nei primi quattro decenni del secolo i fisiologi effettuarono alcune scoperte fondamentali, la più importante delle quali fu la separazione delle funzioni sensitive delle radici dei nervi spinali da quelle motorie. Tuttavia, al di là delle singole conquiste, l'attività sperimentale di quest'epoca può essere intesa come un energico attacco rivolto a un insieme di problemi già noti, di tale entità e complessità che i molti studi specifici a essi dedicati servirono non tanto a risolverli quanto piuttosto a comprenderli più a fondo. La permanenza di problemi che richiedevano una continua investigazione di questo genere affondava le sue radici nei forti legami tra le forme e le funzioni del corpo vivente. L'identificazione delle funzioni fisiologiche essenziali con le strutture integrate degli organi interni fornì una solida base per nuovi tentativi di indagine. Il sistema nervoso fu quello che per primo poté essere sottoposto a esame con le semplici tecniche della vivisezione; recidendo un nervo periferico o sezionando il sistema nervoso centrale a un ben definito livello, un fisiologo con adeguata preparazione chirurgica aveva modo di constatare direttamente la funzione delle parti così isolate, osservando quali movimenti o quali aree sensoriali venivano rese inattive. In buona misura, la sperimentazione di questo tipo effettuata all'inizio del XIX sec. assomigliava agli esperimenti sul midollo spinale e sui nervi cerebrali che erano stati già eseguiti da Galeno nel II sec. d.C.
La maggior parte delle altre aree di sperimentazione fisiologica di rilievo, invece, fu profondamente influenzata da idee e strumenti analitici messi a disposizione dalle scienze fisiche che erano in fase di rapido sviluppo. Benché la digestione, l'assorbimento, la nutrizione e la secrezione potessero essere descritti superficialmente come movimenti di liquidi entro le cavità dello stomaco e degli intestini, nei vasi del sistema circolatorio, o nei dotti delle ghiandole secretorie, si riteneva che a un livello più profondo tutti questi fenomeni fossero il risultato di trasformazioni chimiche. Gli sviluppi conosciuti dalla chimica nei decenni successivi alla rivoluzione di questa disciplina fornirono una nuova concezione della composizione degli elementi con cui interpretare tali trasformazioni e contemporaneamente nuovi strumenti analitici con cui esaminarle. Quanto alla circolazione, veniva intesa ancora come un sistema meccanico. Il suo studio subì una svolta all'inizio del XIX sec. con l'applicazione dei principî matematici da poco formulati e delle analisi sperimentali di idrodinamica.
Nel 1807 Dupuytren presentò all'Institut de France (che sostituì l'Académie des Sciences dal 1795 al 1816) una relazione su una serie di esperimenti concernenti il decimo paio di nervi encefalici (nervo vago) che, secondo il suo collega Legallois, era "notevole per la precisione e lo spirito analitico, senza pari negli autori che lo avevano preceduto". Dupuytren aveva scoperto che se si recidevano (o si legavano) entrambi i nervi di questo paio in un cane o in un cavallo si aveva un'"immediata asfissia di natura molto particolare": i movimenti respiratori divenivano profondi e violenti, il sangue arterioso diventava scuro e in breve tempo l'animale moriva. Poiché nel frattempo il cuore continuava a battere e i polmoni a riempirsi d'aria, Dupuytren ne concluse che il decimo paio doveva esercitare una diretta "azione nervosa sul tessuto degli stessi polmoni" (1807, pp. 45-47). Legallois effettuò esperimenti analoghi su un gran numero di animali di diverse età e condizioni. Egli scoprì che la recisione del decimo paio di nervi encefalici interrompeva le funzioni del cuore, dei polmoni e dello stomaco, ma secondo gradi diversi, sicché a volte era la disfunzione di un organo vitale, a volte quella di un altro a causare la morte. Alcuni degli effetti attribuiti alla perdita di funzione del nervo vago, come l'asfissia per contrazione della glottide, furono invece riferiti da Legallois ai nervi laringei, i quali corrono congiunti ai nervi vaghi per una parte del loro percorso e venivano a volte tagliati insieme a questi ultimi. Dupuytren e Legallois portarono nei loro studi un nuovo rigore chirurgico e contribuirono all'esplorazione ulteriore delle funzioni di questi e degli altri nervi encefalici.
Gli esperimenti più innovativi effettuati da Legallois furono quelli volti ad accertare quali parti del sistema nervoso centrale fossero indispensabili affinché la vita non si interrompesse. Decapitando animali, recidendone il midollo spinale e distruggendone porzioni, asfissiando o troncandone le parti con operazioni che erano abili e brutali insieme, Legallois stabilì che fino a quando la parte del midollo allungato adiacente alle radici del decimo paio rimaneva intatta e collegata alle parti più basse del sistema nervoso, i movimenti respiratori continuavano, e fintanto che una porzione del midollo spinale rimaneva intatta, i movimenti continuavano nel segmento del corpo cui essa era collegata dai nervi spinali. Magendie cominciò a concentrare la sua attenzione sul sistema nervoso nel 1821, dopo che per una decina d'anni si era dedicato soprattutto allo studio dell'assorbimento e degli effetti dei veleni sugli animali. Nel 1822 egli scoprì numerose radici nervose spinali entro il canale vertebrale di un cucciolo di cane, dove la diramazione anteriore e quella posteriore di ciascuna coppia correvano per un breve tratto separatamente per poi congiungersi in un unico nervo periferico che innerva uno degli arti posteriori. Applicando delicate tecniche chirurgiche, riuscì a recidere alternativamente le radici anteriori o quelle posteriori senza intaccare minimamente l'altro insieme. Il taglio delle radici anteriori lasciava l'arto immobile ma sensibile al dolore, mentre quello delle radici posteriori lasciava l'arto mobile ma insensibile. Da ciò Magendie trasse la cauta conclusione "che le radici anteriori e posteriori dei nervi che si dipartono dal midollo spinale hanno funzioni diverse; che il paio posteriore appare più specificamente pertinente alle sensazioni, mentre quello anteriore sembra essere più particolarmente legato al movimento" (1822, pp. 366-371). Egli diede seguito alla sua scoperta con una serie di esperimenti in cui stimolava la porzione periferica isolata delle radici spinali, e verificava gli effetti della recisione sulle convulsioni indotte negli animali dalla stricnina.
Nel decennio successivo molti altri sperimentatori cercarono di ripetere o di ampliare i risultati di Magendie, a volte con successo, a volte con esiti contraddittori. In esperimenti eseguiti più tardi, lo stesso Magendie osservò talvolta segni di sensibilità nelle radici 'motorie'. Egli fu costretto inoltre a difendersi dalla pretesa avanzata dall'anatomista inglese Charles Bell di aver individuato le funzioni delle radici spinali dieci anni prima di lui. Gli storici che si sono occupati della scoperta delle funzioni delle radici nervose spinali hanno concentrato l'attenzione principalmente su queste controversie che l'accompagnarono; tuttavia dal punto di vista storico, la scoperta fu significativa soprattutto perché aprì una nuova prospettiva sull'organizzazione del sistema nervoso, dando l'avvio a molti altri fruttuosi esperimenti.
Fin dall'Antichità erano state comprese con chiarezza le funzioni sensitive e motorie del sistema nervoso, ma era sfuggito il fatto che tali funzioni potessero essere separate in nervi distinti poiché l'eccitazione di qualsiasi ramificazione nervosa provocava di solito sia sensazione sia movimento. Trovando gli esperimenti di Magendie molto difficili da eseguirsi sui mammiferi, tanto da dubitare che fosse possibile raggiungere per questa via risultati inequivocabili, Müller ebbe "la splendida idea di utilizzare le rane per gli esperimenti controversi". Sfruttando da una parte la maggiore resistenza delle rane all'operazione, e dall'altra la migliore accessibilità delle radici dei loro nervi spinali, Müller concluse nel 1831 che "la stimolazione delle radici anteriori con una corrente galvanica provoca un'immediata contrazione massima", mentre "la stimolazione galvanica delle radici posteriori non provoca alcuna traccia di contrazione".
La scoperta delle funzioni delle radici spinali diede il via a un consistente lavoro di ricerca per verificare i risultati già noti. I fisiologi erano perfettamente consapevoli delle implicazioni di questa scoperta nella comprensione dell'organizzazione del sistema nervoso. Gli sforzi di Magendie e di altri fisiologi per ricondurre queste radici, attraverso i tronchi sensitivi e motori del midollo spinale, fin dentro il cervello ebbero un successo limitato, tuttavia essi utilizzarono di fatto la distinzione fra nervi sensitivi e nervi motori per rappresentare le ramificazioni dei nervi cranici. Le conseguenze di quella che di per sé era una limitata osservazione di una 'stranezza' nella organizzazione del sistema nervoso dei vertebrati erano così vaste che alcuni scienziati qualificarono questa scoperta come l'evento più importante nella fisiologia a partire dalla scoperta della circolazione del sangue.
Il ruolo della chimica nello studio della nutrizione
I temi della ricerca fisiologica che subirono la trasformazione più immediata, grazie all'applicazione dei nuovi metodi chimici, all'inizio dell'Ottocento furono quelli raccolti allora sotto la denominazione generale di "funzioni nutritive". Nel suo manuale Précis élémentaire de physiologie Magendie definiva la nutrizione come "il movimento intestinale con cui tutte le parti del corpo sono simultaneamente decomposte e ricomposte". Tale movimento era lo "scopo comune" di sei funzioni nutritive: la digestione; l'assorbimento e il flusso del chilo; il flusso della linfa; il flusso del sangue venoso; la respirazione; il flusso del sangue arterioso. Lo schema di Magendie discendeva dalla tradizionale concezione della nutrizione intesa come un processo graduale di trasformazione della materia attraverso il quale il cibo, in fasi successive, viene convertito nella sostanza del corpo animale.
Nel suo manuale, Magendie dedicava oltre quattrocento pagine alla descrizione di queste funzioni nutritive e dei fenomeni connessi. Riconosceva che i movimenti intestinali legati alla nutrizione erano fondamentalmente cambiamenti chimici, ma, come il suo grande predecessore Haller, dedicò la parte di gran lunga più consistente della sua analisi alle strutture anatomiche e agli eventi fisici visibili. Magendie ammetteva comunque di ignorare come operasse l'"insensibile movimento molecolare" dei processi nutritivi nelle "profondità degli organi". Nel 1823 l'Académie des Sciences istituì un premio per chiunque avesse determinato "con una serie di esperimenti chimici e fisiologici quali fenomeni abbiano luogo successivamente negli organi digerenti durante il processo di digestione". Era ormai tempo di affrontare il problema, poiché, mentre in passato l'"imperfezione delle procedure di analisi chimica" aveva impedito che si raggiungesse un'accurata conoscenza di questi fenomeni, "oggi le procedure per l'analisi delle sostanze animali e vegetali sono diventate più precise" (Tiedemann 1826-27, p. 1).
L'Académie riponeva dunque le sue speranze in nuovi metodi più precisi. I decisivi cambiamenti intervenuti nella chimica grazie ad Antoine-Laurent Lavoisier, con la rivoluzione che ne scaturì, impressero nuove direzioni alla ricerca fisiologica di inizio Ottocento. La parte dell'insegnamento di Lavoisier che più direttamente attirò l'attenzione fu la teoria secondo cui la respirazione consiste nella combustione di carbonio e idrogeno e costituisce la fonte del calore animale. La conclusione tratta da Lavoisier su base sperimentale secondo la quale la materia delle piante è composta dagli elementi chimici carbonio, idrogeno e ossigeno, e la dimostrazione del suo collega Claude-Louis Berthollet che la 'materia animale' contiene, in aggiunta a quegli elementi, anche l'azoto, proponevano un modo nuovo di considerare i cambiamenti chimici soggiacenti alle funzioni nutritive. Tali sviluppi permisero a Magendie di mettere a punto la prima vera ricerca sperimentale sulle esigenze nutrizionali degli animali. Mediante gli esperimenti condotti su cani per verificare se potessero sopravvivere con una dieta a base di sostanze non azotate, fra cui lo zucchero, l'olio e lo strutto, scoprì che essi sopravvivevano più a lungo degli animali tenuti a digiuno, ma alla fine morivano in condizioni di emaciazione.
Queste linee di indagine e di ragionamento basate sulla composizione elementare dei materiali organici e sull'applicazione della metodologia quantitativa di Lavoisier filtrarono lentamente nel pensiero e nella pratica fisiologica, assumendo una posizione dominante solamente negli anni Quaranta. I nuovi metodi cui l'Académie faceva riferimento negli anni Venti erano principalmente strumenti qualitativi intesi a estrarre, isolare e identificare le sostanze componenti i liquidi e i solidi di piante e di animali. Essi erano il frutto di una lunga tradizione investigativa iniziata nella metà del Settecento e sviluppatasi indipendentemente dalle trasformazioni della rivoluzione chimica, e stavano costituendo nel secondo decennio del XIX sec. un assai cospicuo arsenale di strumenti analitici.
I chimici dovettero lavorare per molti decenni, in tutti i principali centri scientifici d'Europa, per escogitare procedimenti analitici sistematici in grado di riconoscere e classificare le sostanze caratteristiche dei liquidi e dei solidi animali. Il medico inglese John Bostock elaborò nel 1805 una serie di "test delicati e accurati" mediante i quali riusciva a determinare se un liquido animale contenesse albumina, gelatina o muco. Egli sottoponeva in successione i liquidi a diversi reagenti, di cui alcuni facevano precipitare solo albumina, altri albumina e gelatina, e uno (l'acetato di piombo) tutti e tre i composti. Nel 1810 il chimico svedese Jöns Jacob Berzelius divenne la figura di maggior spicco in questo campo. Egli analizzò le proprietà chimiche dell'albumina, della fibrina, della "materia colorante" del sangue, del muco della saliva e delle membrane mucose più a fondo di chiunque altro prima di lui, facendoli reagire con alcali, sali, acidi concentrati e diluiti, e con i più importanti solventi come acqua, alcol ed etere. In tutti questi esperimenti, le sostanze citate presentavano somiglianze così strette fra loro da indurlo a descriverle nel 1813 come "modificazioni di un'unica e medesima sostanza" e indicarle collettivamente come materie 'albuminose'. A volte, esse erano anche chiamate 'sostanze animali', benché fosse evidente che anche la materia delle piante conteneva sostanze simili, se non identiche.
Con l'affinamento di questi metodi a opera dello stesso Berzelius e di altri nel corso dei successivi trent'anni, la lista delle sostanze animali si allungò. I procedimenti per estrarle, separarle e purificarle dai liquidi e dai solidi divennero sempre più complessi e precisi. Ogni chimico inventava propri metodi particolari per isolare sostanze specifiche, e le proprietà delle sostanze variavano a seconda dei procedimenti usati per individuarle e caratterizzarle. Alcune identificazioni ebbero un valore transitorio; ma nel 1840 quattro 'materie animali' nettamente distinte furono riconosciute nel sangue: l'albumina, la fibrina, la globulina e l'ematina. Oltre queste, i chimici identificarono nei liquidi e nei solidi animali varie sostanze grasse e sali inorganici. Nel 1808 Berzelius scoprì l'acido lattico ‒ una sostanza identificata in precedenza dal suo connazionale Carl Wilhelm Scheele ‒ nel liquido estratto dai muscoli, e poi in tutti i liquidi animali.
Il lavoro più importante che partecipò al premio bandito dall'Académie di Parigi nel 1823 fu uno studio realizzato da Friedrich Tiedemann e Leopold Gmelin all'Università di Heidelberg. Tiedemann, anatomista e fisiologo comparativo, e Gmelin, chimico, avevano effettuato insieme una serie di esperimenti per dirimere la controversa questione se il cibo digerito confluisse nel flusso sanguigno attraverso i vasi linfatici o attraverso la rete venosa della circolazione del sangue. A questo scopo, essi alimentavano i cani con sostanze facilmente individuabili (coloranti, sali e materie odorifere), quindi uccidevano gli animali e rintracciavano le sostanze nelle varie parti del canale intestinale, nella vena porta e nel dotto toracico del sistema linfatico. In occasione del concorso, Tiedemann e Gmelin eseguirono esperimenti dello stesso tipo, alimentando però gli animali con cibi semplici ben definiti: albumina, fibrina, gelatina, caseina, burro e amido. L'identificazione di queste sostanze lungo il canale digerente, nonché dei prodotti derivanti da eventuali mutamenti chimici cui avrebbero potuto essere soggette, veniva effettuata con i metodi correnti di estrazione e caratterizzazione mediante l'applicazione sistematica di reagenti alle componenti solubili in acqua, in alcol, in entrambi o in nessuno dei due. Per distinguere i prodotti della digestione dalla composizione dei liquidi digestivi che agiscono sui cibi, analizzarono in maniera analoga la saliva, il succo gastrico, la bile, il liquido pancreatico e i liquidi intestinali.
Da queste ricerche così puntuali, estese a tutte le classi di vertebrati, Tiedemann e Gmelin trassero conclusioni relativamente modeste. Il risultato più convincente fu semplicemente che i cibi vengono 'dissolti' nello stomaco; questa dissoluzione appariva ai loro occhi associata, per molti cibi, a una "decomposizione specifica". L'unica trasformazione che furono in grado di dimostrare fu la conversione dell'amido in zucchero, identificata grazie al fatto che per queste due sostanze esistevano specifiche reazioni individuanti: il test con lo iodio per l'amido e la fermentazione per lo zucchero. Tiedemann e Gmelin giustificarono questo insuccesso adducendo le enormi difficoltà create dalle condizioni ambiziose poste dal bando di concorso; in effetti, il premio non fu assegnato a loro, né ad altri, ma i contemporanei si resero conto che il lavoro compiuto dai due ricercatori costituiva un punto di riferimento nel settore.
Il culmine di queste ricerche sulla digestione nei successivi due decenni fu rappresentato da un articolo di Theodor Schwann (1810-1881) del 1836. Assistente di Müller, Schwann aveva iniziato la ricerca insieme con il suo mentore nel 1834, ispirato dalla scoperta di un medico pratico poco noto, Johann Eberle, secondo il quale era possibile ottenere un succo gastrico artificiale acidificando parti della mucosa gastrica. Indagando l'azione digestiva su un cubo standardizzato di albumina coagulata, Schwann poté stabilire che erano essenziali alla realizzazione del processo sia l'acido gastrico sia una sostanza organica. Con una brillante serie di esperimenti, egli scartò tutte le modalità di azione salvo quella del 'contatto' e dimostrò che la materia organica agiva in quantità così piccole da non poter entrare in combinazione chimica con i cibi digeriti. Egli non poteva avere la certezza che non fosse consumata nel corso del processo, ma, attraverso un confronto sistematico delle proprietà della sua azione con quelle della fermentazione alcolica, dimostrò che entrambe erano esempi di una classe specifica di fenomeni organici, che raccolse sotto la denominazione comune di fermentazione. Schwann cercò di isolare il principio organico applicando i metodi d'estrazione sopra descritti; non vi riuscì, perché l'estrazione dell'alcol distruggeva l'attività digestiva su cui egli contava per riconoscere la presenza della sostanza, ma fu in grado di trasformare questo fallimento in un successo: ideò, infatti, un modo per stabilire le proprietà chimiche della sostanza non isolata sottoponendola a una serie di agenti, e ciò gli consentì di verificare in ogni caso se l'attività digestiva passasse nel precipitato o rimanesse nella soluzione. Seguendo questa strada ebbe modo di constatare che l'agente attivo della digestione, chiamato pepsina, faceva parte della classe generale delle 'materie animali'.
L'identificazione della pepsina operata da Schwann non soltanto aprì una nuova fase per lo studio della digestione gastrica, ma fornì un precedente per sviluppare una nuova caratterizzazione dei processi chimico-fisiologici. Nessuno meglio di Berzelius comprese il significato di questo lavoro. "Siamo, mi pare" scriveva nel suo Lärbok i kemien (Trattato di chimica) "sulla strada verso una conoscenza più ravvicinata di questo misterioso processo di dissoluzione che si svolge nello stomaco". La condizione cruciale per ottenere "un risultato più preciso e sicuro" consisteva nell'isolare la pepsina, determinarne le proprietà allo stato puro, e studiarne l'azione sui cibi. "Uno studio del genere sarà lento e noioso ma ci porterà probabilmente a chiarire la situazione e a importanti risultati" (Berzelius 1817-28 [1833-40, IX, pp. 213-215]). Nel frattempo, egli identificò l'azione descritta da Schwann come un'azione di "contatto" con una propria definizione di catalisi. L'itinerario di indagine ipotizzato da Berzelius fu di gran lunga più noioso di quanto egli avesse immaginato ‒ la pepsina non fu isolata se non un centinaio d'anni dopo ‒, ma gli scienziati che si impegnarono in questa lunga ricerca riuscirono a chiarire molti punti e a ottenere importanti risultati. L'azione della pepsina, insieme con quella del fermento alcolico, capace anche in quantità modestissime di produrre trasformazioni chimiche fisiologicamente significative, divenne il prototipo grazie al quale si arrivò al riconoscimento dei fermenti quali agenti critici che controllano i fenomeni chimici della vita.
Sul finire degli anni Trenta Berzelius e altri studiosi consideravano ancora la digestione gastrica come una serie di trasformazioni successive attraverso le quali passano i materiali nutritivi fino a diventare sangue e poi elementi costitutivi delle secrezioni e dei solidi corporei. L'importanza assegnata alle varie fasi entro questo quadro non era dovuta tanto al loro ruolo fisiologico quanto piuttosto alla loro accessibilità allo studio sperimentale. Proprio nella fase cruciale in cui i cibi digeriti passavano sotto forma di chilo nel flusso del sangue, essi sembravano sottrarsi all'indagine del ricercatore. Berzelius osservava che, dopo l'assorbimento dei cibi trasformati nei vasi linfatici, "non siamo più in grado di seguire e comprendere questi processi". Inoltre, anche "alla domanda su cosa diventino i cibi, non abbiamo ancora trovato una risposta" (ibidem, pp. 358, 365).
Se la storia della scienza dovesse essere descritta in termini di scoperte concrete e di conoscenza acquisita, le osservazioni di Berzelius potrebbero essere la prova che quelli che si dedicavano con tanto accanimento ad applicare la chimica ai problemi della fisiologia ottennero pochi risultati durante i primi quattro decenni del secolo. Se invece consideriamo la scienza sperimentale come lo studio a lungo termine dei problemi centrali in un dato settore, allora si può affermare che essi gettarono le basi su cui i successori avrebbero conseguito progressi più consistenti.
La meccanica della circolazione del sangue
L'influenza in campo fisiologico dei metodi sperimentali e delle strutture analitiche mutuati dalla fisica dell'epoca fu particolarmente rilevante, all'inizio del XIX sec., nello studio della meccanica della circolazione. Nel 1808 il versatile filosofo inglese Thomas Young (1773-1829) misurò la resistenza dei liquidi al movimento attraverso tubicini fissi di diametro ridottissimo. La conclusione principale da lui raggiunta fu che in vasi molto stretti, prossimi alla dimensione dei capillari, la frizione era di gran lunga maggiore di quella in tubi con diametro simile a quello dell'aorta, sicché "la sola resistenza di rilievo sperimentata dal sangue si ha nelle arterie capillari estreme" (Young 1809, p. 10). I risultati di Young ebbero soprattutto il merito di fornire ulteriori conferme alle teorie già espresse da Stephen Hales (1677-1761): è sulle misurazioni delle forze e dei movimenti nei vasi sanguigni effettuate da quest'ultimo che egli basò, di fatto, il suo lavoro.
Due decenni più tardi, in Francia, uno studente di medicina, Jean-Léonard-Marie Poiseuille (1797-1869), inventò un semplice ma efficacissimo strumento che chiamò 'emodinamometro' e che sostituì le vecchie misurazioni relative al movimento del sangue con altre più in linea con i nuovi standard di precisione sperimentale nella determinazione delle quantità fisiche. Probabilmente all'oscuro dell'analisi teorica di Young, Poiseuille, basandosi sulle teorie presenti in numerosi manuali francesi di fisiologia, si aspettava che la resistenza al flusso del sangue attraverso le arterie provocasse una riduzione progressiva della pressione, a mano a mano che il sangue si allontanava dal cuore. Tuttavia, quando misurò la pressione del sangue in un cane o in un cavallo, simultaneamente in arterie a diversa distanza dal cuore, scoprì con sorpresa che la pressione media nei vari punti del corpo era esattamente la stessa. Individuò una spiegazione dei suoi inaspettati risultati nella elasticità delle pareti delle arterie. Nell'applicare il suo emodinamometro alla misurazione della pressione venosa, prese in considerazione le affermazioni di altri autori secondo le quali la pressione negativa registrata nel torace durante l'inspirazione faceva sì che il sangue procedesse attraverso le vene verso il cuore. I suoi risultati mostrarono che questo effetto poteva rappresentare solo una "causa accessoria" del movimento del sangue venoso.
Le misurazioni di Poiseuille aprirono un'era di vivace sperimentazione quantitava sulla dinamica della circolazione. Il suo emodinamometro, adottato con piccole modifiche da altri studiosi, servì alla successiva generazione di fisiologi come strumento primario per misurare la pressione nel sistema arterioso e in quello venoso. La scoperta che la pressione era uguale in tutte le parti del sistema arterioso e l'esplorazione dell'effetto dei movimenti respiratori del torace sulla pressione arteriosa e venosa fornirono il punto di partenza per molti lavori successivi.
Nel 1821 Ernst Heinrich Weber (1795-1878), professore di anatomia all'Università di Lipsia, avviò con il fratello più giovane Eduard una serie di studi sperimentali del moto ondulatorio nei liquidi (e anche delle onde sonore e luminose). Osservando le onde di superficie propagantisi dentro tinozze con pareti a specchio, essi riuscirono a distinguere fra i movimenti locali delle singole particelle d'acqua e i movimenti progressivi delle forme d'onda lungo la tinozza. Nel 1827 Weber utilizzò gli elementi acquisiti con questi esperimenti per riesaminare la natura del polso arterioso. Egli poté distinguere con chiarezza due moti ‒ quello dell'onda del sangue e quello del sangue stesso ‒ che i fisiologi precedenti avevano considerato come un fenomeno sostanzialmente unico. A ogni battito del cuore il sangue si spostava soltanto di pochi centimetri, di una distanza cioè corrispondente al volume di liquido pompato dal ventricolo sinistro, mentre il polso si propagava, in un tempo molto più breve, per tutta la lunghezza delle arterie. Negli anni Quaranta Weber costruì modelli sperimentali e matematici della circolazione in quanto movimento di liquidi attraverso tubi elastici.
Durante gli anni Trenta i modelli familiari dell'indagine fisiologica sulle funzioni da associare con strutture anatomiche note furono travolti da una crescente quantità di osservazioni su un complesso di strutture di livello microscopico, cui bisognava collegare alcune funzioni. L'impulso principale a questo nuovo indirizzo di ricerca fu dato dal perfezionamento dei microscopi, le cui lenti acromatiche erano in grado di eliminare le distorsioni e le aberrazioni ottiche che a lungo avevano limitato l'applicazione dello strumento allo studio dei tessuti di piante e animali. Nel 1832 Purkynje intraprese a Breslavia un esame approfondito della struttura finissima del tessuto animale. Inventò metodi per schiacciare i tessuti, per renderli duri con reagenti chimici e tagliarli in sottili fette con semplici strumenti che costituivano i prototipi del microtomo. Illustrò la struttura fibrosa dei denti; scoprì le microscopiche ghiandole secretorie composte di granuli nella mucosa dello stomaco, nelle ghiandole salivari, nel pancreas e in altri organi; descrisse la struttura delle fibre nervose, e individuò corpi 'ganglici' variamente conformati, contenenti nuclei, nel tessuto del cervello. Nel 1834, a Berlino, Müller rispose al successo delle ricerche microscopiche condotte a Breslavia intraprendendo studi analoghi. I due gruppi di ricerca di Breslavia e di Berlino assunsero il ruolo di guida in questo settore in rapida espansione per il resto del decennio.
Il trasferimento al livello microscopico delle questioni funzionali definite inizialmente al livello di sistemi organici macroscopici è ben illustrato dallo studio del sistema nervoso. All'epoca in cui Magendie scopriva la separazione delle funzioni motorie e di quelle sensitive nelle radici nervose spinali, l'organizzazione del sistema nervoso centrale e periferico poteva essere seguita solo al livello delle ramificazioni nervose rese visibili dalle grossolane dissezioni anatomiche allora possibili. Dopo la scoperta di Magendie divenne urgente definire le funzioni dei singoli nervi in tutto il sistema; si osservava, tuttavia, una grave discrepanza fra la distribuzione dei nervi in fasci e l'organizzazione di singole fibre nervose dedotta dalle caratteristiche funzionali del sistema nervoso. Nel 1833 Müller definì questo problema con acuta intuizione: "Dal momento che i nervi sembrano congiungersi insieme dappertutto, se anche le loro fibre primitive si congiungessero, non ci sarebbe quasi punto del corpo che sarebbe rappresentato singolarmente e isolatamente nel cervello. [...] Tutta la possibilità di una esatta fisica dei nervi dipende dalla questione se le fibre primitive dei nervi si congiungano realmente o meno nelle anastomosi dei fasci e delle guaine" (Müller 1833-40, I, pp. 586-587).
Müller aveva cercato di trovare una risposta alla questione analizzando segmenti di fibre nervose ripulite da tutto il resto con un semplice microscopio. Non trovò alcuna connessione fra loro, queste fibre correvano sempre l'una di fianco all'altra. Müller, tuttavia, era consapevole della provvisorietà delle sue osservazioni, in quanto aveva potuto studiare soltanto brevi segmenti di nervi. Nel 1834 Christian Gottfried Ehrenberg (1795-1876), noto per le sue indagini sugli organismi microscopici, usò il suo nuovo microscopio acromatico per studiare anche le fibre nervose degli animali superiori, come fecero pure Schwann e molti altri. Il loro lavoro fu messo in ombra nel 1836 dall'opera di Gabriel Gustav Valentin (1810-1883); curando in maniera particolare la preparazione di sezioni molto sottili e dipanando le fibre primitive con l'opportuna regolazione della pressione applicata al tessuto, questi esaminò ogni porzione del sistema nervoso, dai fasci ordinari dei nervi periferici ai gangli e ai plessi, e dalla materia bianca e grigia del cervello alle più sottili terminazioni nervose periferiche osservabili. Nei muscoli oculari di piccoli animali, egli trovò nervi talmente corti da poterli osservare al microscopio da un'estremità all'altra. A parte le fibre primitive, Valentin trovò solo un altro tipo di struttura elementare nel sistema nervoso: si trattava di corpi di forma sferica o allungata, contenenti un nucleo, entro il quale vi era un nucleolo. Questi corpi, che egli chiamò 'globuli' (Kugeln), erano distribuiti principalmente nei gangli e nel sistema nervoso centrale. Valentin vide proprio in questi globuli gli elementi 'attivi' che svolgevano le funzioni sensitiva e motoria del sistema nervoso, essendo le fibre semplici conduttori passivi.
Valentin non fu indotto a questa generalizzazione solo dai risultati empirici della sua magistrale ricerca sulla struttura microscopica del sistema nervoso; come il suo maestro Purkynje, egli aveva una concezione filosofica che lo portava a cercare l'unità nella diversità delle forme. Nondimeno, la sua conclusione che l'intero sistema nervoso fosse composto di due soli elementi modificò i termini della questione. A livello microscopico egli riuscì a ripristinare quell'armonia tra forma e funzione che era andata perduta a livello macroscopico. Partendo dal punto in cui egli si era fermato, i suoi immediati successori si preoccuparono di verificare in particolare se egli avesse dato un'interpretazione corretta dei dati indicando una contiguità e non una continuità fra i globuli e le fibre; e nel corso del successivo decennio furono indotti a ribaltare la sua conclusione. Da questo momento e per il resto del secolo, si può tracciare una linea continua di ricerche culminate nel concetto di neurone.
Il risultato più ampio delle vivaci ricerche microscopiche sui tessuti di piante e animali condotte negli anni Trenta fu la pubblicazione, nel 1839, delle Mikroskopische Untersuchungen über die Übereinstimmung in der Struktur und dem Wachstum der Thiere und Pflanzen (Ricerche microscopiche sulla concordanza della struttura e della crescita negli animali e nelle piante), fondamentale opera di Schwann sulla teoria cellulare. La teoria di Schwann possedeva il potenziale per ricondurre a livello cellulare molti dei basilari processi fisiologici tradizionalmente indagati a livello di organi, di sistemi di organi e dell'intero organismo. Nella sua concezione c'era tuttavia una tensione fra la visione della cellula come organismo in miniatura, capace ‒ in opportune condizioni esterne ‒ di "vita indipendente", e la cellula come struttura talmente elementare che la sua formazione e le sue operazioni potevano essere ridotte a processi fisici ordinari. Quest'ultima visione prevaleva nel famoso parallelo stabilito da Schwann tra la formazione delle cellule e la formazione dei cristalli, ma anche nella sua ipotesi riguardante la capacità delle cellule di produrre un contenuto cellulare chimicamente diverso da quello del citoblastema circostante, analogamente alla capacità di una cellula galvanica di separare diverse sostanze per decomposizione.
La stessa tensione continuò durante i primi sviluppi della teoria cellulare; molto interesse fu sollevato da una teoria sull'origine delle cellule proposta nel 1838 da un medico di Berlino, Ferdinand Ascherson (1798-1879). Avendo osservato che nelle larve e nelle uova di animali molto piccoli il grasso si presentava sotto forma di sottili goccioline che sembravano restare intatte in quanto protette da una membrana, Ascherson scoprì che, avvicinando una goccia d'olio d'oliva a una goccia di bianco d'uovo, "l'albume ricopriva l'olio con un sottile strato, secondo le leggi idrostatiche, e ne risultava la quasi istantanea formazione di una resistente membrana elastica". Credendo di aver assistito all'origine di una "vera cellula", ripeté l'esperimento con molte varianti nei suoi procedimenti e accumulò una tale quantità di osservazioni sulla somiglianza di queste "cellule artificiali" con le cellule rintracciabili nel tessuto animale da poter sostenere, nel 1840, che il processo "si compie sotto l'influenza della vita esattamente come fa nel tubo da esperimento del chimico". La teoria di Ascherson sembrò convincente non soltanto per la sua semplicità, ma anche perché all'apparenza i fenomeni dell'endosmosi ed esosmosi (il passaggio di liquidi attraverso membrane animali), da poco studiati da René Dutrochet e altri, potevano essere utilizzati per spiegare il movimento delle sostanze dall'esterno verso l'interno delle cellule e viceversa. Tuttavia, l'ottimismo che circondava questa teoria, al pari della spiegazione alternativa offerta da Schwann con l'analogia della cristallizzazione, fu subito smorzato dalla constatazione che i fenomeni associati alle cellule erano troppo complessi per poter essere ridotti con tanta disinvoltura alle leggi fisiche.
Il fallimento di questi primi tentativi di ridurre i fenomeni cellulari agli effetti delle leggi fisiche lasciò dietro di sé la tendenza, nei decenni successivi, a vedere le cellule come 'organismi elementari', dotati di strutture e funzioni organizzate, analoghe a quelle attribuite in precedenza agli organismi più grandi che esse costituivano. Il riorientamento dell'indagine fisiologica verso l'esame di processi vitali a questo livello fu comunque molto lento. Non soltanto la ridottissima dimensione delle cellule sembrava impedire l'applicazione dei metodi chimici e fisici con cui i processi venivano di solito studiati al livello macroscopico, ma le componenti osservabili delle cellule non si prestavano, in genere, a essere esaminate nei termini della relazione tradizionale tra forma e funzione. L'estrema semplicità degli elementi visibili che definivano una cellula per Schwann e i suoi primi successori offriva una base insufficiente per associare specifiche funzioni cellulari del sistema nervoso con altrettanto specifiche sottostrutture interne alle cellule. Il caso delle strutture primitive del sistema nervoso che si combinavano così bene con le correnti interpretazioni funzionali era, sotto questo aspetto, eccezionale. La conseguenza immediata di questa discrepanza fra le apparenze microscopiche elementari del contenuto delle cellule e la complessità delle strutture interne implicate dall'attribuzione a esse di un'attività organizzata fu che, mentre la teoria cellulare diede origine a un nuovo settore dell'anatomia microscopica, o istologia, e trasformò lo studio dell'embriologia descrittiva, i fisiologi continuarono a occuparsi principalmente di problemi definiti precedentemente a più alti livelli di organizzazione. Ben presto, tuttavia, si manifestarono alcuni segni della trasformazione imminente.
Uno dei processi fisiologici analizzati sotto una nuova luce quasi subito dopo l'avvento della teoria cellulare fu la formazione delle secrezioni. Fino all'inizio del XIX sec. il problema principale sembrava essere se le speciali sostanze che costituivano ogni secrezione fossero formate già nel sangue e poi semplicemente separate da esso durante il passaggio attraverso le ghiandole, o fossero prodotte da una qualche trasformazione chimica nei dotti secretori. La comparsa del microscopio sulla scena investigativa modificò radicalmente il problema da risolvere. Conducendo una vasta ricerca su tutti i tipi di ghiandole a secrezione esterna, Müller scoprì nel 1830 che le arterie e le vene non avevano alcuna apertura diretta verso i dotti secretori. Come ebbe modo di dimostrare, la struttura conglomerata e ramificata delle ghiandole secretorie era il mezzo che consentiva di ampliare la superficie delle membrane in cui le reti dei capillari sanguigni entravano in immediato contatto con le sottili ramificazioni dei dotti secretori. Le sostanze, concludeva Müller, dovevano passare attraverso queste superfici, al cui interno venivano trasformate nelle varie secrezioni. Nel 1839 Jacob Henle (1809-1885) propose una teoria delle secrezioni che le collegava direttamente alla teoria cellulare di Schwann appena divenuta di pubblico dominio. Avendo osservato che tutte le membrane mucose e il parenchima di molte ghiandole erano strutture cellulari, Henle concluse che le secrezioni si formano necessariamente all'interno delle cellule per essere rilasciate nei dotti secretori.
Se negli anni Quaranta l'impatto della teoria cellulare sulla fisiologia fu messo in ombra da quello della chimica, ciò dipese non soltanto dal fatto che le ricerche continuarono nella linea della tradizione di Tiedemann e Gmelin, ma anche dal fatto che molti eminenti chimici organici si mostrarono sempre più inclini ad applicare le loro concezioni sulla natura della composizione e della trasformazione chimiche a questioni fisiologiche più generali. Le figure guida in questo movimento furono Jean-Baptiste-André Dumas (1800-1884) in Francia e Justus von Liebig (1803-1873) in Germania. I fisiologi reagirono in modi diversi: qualcuno, come Theodor Bischoff, considerava la direzione che la chimica organica aveva imboccato con la pubblicazione delle idee di Liebig "della massima importanza per la fisiologia"; altri invece, come Magendie, si dimostrarono molto più scettici al riguardo.
Negli anni Quaranta ha inizio la carriera di diversi scienziati destinati ad assumere in seguito un ruolo dominante nella fisiologia: Claude Bernard in Francia, Carl Ludwig, Emil Du Bois-Reymond e Hermann von Helmholtz in Germania, raggiunsero una tale statura che l'affermarsi della fisiologia sperimentale come moderna disciplina è stato spesso associato al loro nome, mentre gli sforzi delle generazioni che li avevano preceduti sono stati spesso visti come semplice preparazione alla loro comparsa. Ognuno di loro attuò indagini di rilevante portata e significato; i loro traguardi, paragonati con quelli dei predecessori, hanno assunto un profilo anche più forte e deciso per la naturale tendenza degli storici a insistere sulla preminenza del "grande" rispetto al personaggio di levatura leggermente inferiore. Ognuno di loro, inoltre ‒ Bernard individualmente, i suoi contemporanei tedeschi collettivamente ‒, definì i propri obiettivi in maniera tale da metterli in contrapposizione con quelli dei predecessori. Claude Bernard (1813-1878) formulò i principî generali della fisiologia sperimentale e si considerava il primo a rappresentarli pienamente nella pratica. La triade tedesca, cui va aggiunto Ernst Wilhelm von Brücke (1819-1892), sostenne la riduzione della fisiologia alla fisica e alla chimica, e presentò tale scelta come un allontanamento dagli obiettivi e dalle pratiche degli studiosi precedenti. I precetti metodologici di Bernard e i manifesti riduzionistici del "gruppo del 1847" furono così considerati i punti fondamentali all'origine della fisiologia moderna. Gli storici, enfatizzando queste posizioni generali, sono stati dunque propensi a identificare i loro esponenti con la nascita, o almeno la maturazione, dell'intera disciplina moderna. Tuttavia, se concentriamo la nostra attenzione sulle correnti collettive di ricerca, su specifici problemi fisiologici piuttosto che su questi temi più generali, la relazione di tale eminente generazione di fisiologi con i predecessori appare in una luce del tutto diversa; allora si vede facilmente come essi abbiano in realtà lavorato "nello spirito della loro epoca", si siano adeguati ad approfondire problemi definiti in maniera analoga da chi li aveva affrontati prima di loro.
Bernard, arrivato a Parigi nel 1834 all'età di 21 anni, ben presto abbandonò l'idea di darsi alla drammaturgia e si iscrisse alla Facoltà di medicina. Da interno all'Hôtel-Dieu incontrò Magendie, che lo incoraggiò a dedicarsi alla fisiologia sperimentale e lo nominò suo préparateur nel 1841. Molto presto Bernard iniziò ricerche sperimentali per proprio conto, in cui si impegnò con accanimento, spesso per sette giorni a settimana, nell'arco di quasi due decenni. Le sue prime indagini, modellate per stile e argomento su quelle del suo maestro, riguardarono il sistema nervoso e i fenomeni chimici coinvolti nella digestione e nella nutrizione; per diversi anni, però, i suoi sforzi ottennero solo modesti successi.
Nella primavera del 1848 Bernard compì la prima di una serie di scoperte sconvolgenti. Riuscitagli l'impresa di procurarsi succo pancreatico fresco da un cane per mezzo di una fistola pancreatica, egli usò la sostanza per verificare la sua teoria secondo cui il succo pancreatico e il succo gastrico contenevano lo stesso principio digestivo. Trovò invece che il succo pancreatico esercitava "un'azione particolare" sul grasso, dando luogo a un'emulsione. Alcuni mesi più tardi, riprese una ricerca che aveva iniziato in precedenza, mirante ad accertare dove finisse in un animale lo zucchero ingerito con il cibo. In accordo con la teoria corrente, egli si aspettava che fosse bruciato nella respirazione, e orientò la sua ricerca verso l'identificazione dell'organo in cui lo zucchero scompariva dal sangue. Nel corso della sua indagine verificò se lo zucchero risultasse presente anche nel sangue di animali che non avevano assunto questa sostanza con il cibo, e con sorpresa osservò che una quantità "enorme" di zucchero era presente nel sangue prelevato dalla vena porta. Attraverso una serie di ingegnosi esperimenti egli riuscì a dimostrare in maniera per lui soddisfacente che lo zucchero entrava nel sangue dal fegato. La scoperta di quella che sarebbe stata poi conosciuta come funzione glicogenica del fegato suscitò un vasto interesse, come pure l'irrisolta questione della sostanza da cui si originava lo zucchero. Nel 1855, ripulendo il sangue da un fegato isolato, lasciando a riposo l'organo per una notte e poi lavandolo di nuovo, Bernard dimostrò che lo zucchero derivava da una sostanza insolubile contenuta nel tessuto epatico. Egli isolò poi questa sostanza nel 1857 e la denominò glicogeno dimostrando che era simile all'amido.
Nel 1852, nel corso di una lezione pubblica, Bernard recise la porzione cervicale del gran simpatico nel collo di un coniglio. Ritenendo che i nervi simpatici "presiedano alle mutazioni organiche che si verificano nei tessuti viventi", si aspettava che la funzione circolatoria e quella nutritiva ne sarebbero risultate indebolite e che le parti interessate sarebbero diventate più fredde. Accadde, invece, il contrario. La temperatura dell'orecchio del coniglio sul lato interessato aumentò e si ebbe un'"enorme turgescenza vascolare". Diversi mesi più tardi, Bernard sottopose a stimoli di corrente galvanica la terminazione encefalica di un nervo simpatico ugualmente reciso e osservò che i cambiamenti citati, insieme con numerosi altri effetti dell'operazione noti da tempo, avevano segno esattamente contrario. Egli abbandonò allora l'"interpretazione puramente meccanica", secondo la quale l'aumento della temperatura sarebbe causato da una accentuata circolazione, e si convinse che l'effetto derivasse da una "esagerazione" della normale produzione del calore animale. Alla fine anche quest'ultima spiegazione fu respinta sia da Bernard sia dai suoi contemporanei e il risultato degli esperimenti venne interpretato come la scoperta dei nervi vasomotori che regolano il flusso del sangue attraverso le piccole arterie nelle varie regioni del corpo.
A partire dal 1845, Bernard iniziò lo studio ‒ che avrebbe poi portato avanti per tutta la sua carriera di sperimentatore‒ degli effetti delle sostanze tossiche e dei farmaci sul corpo animale. Le scoperte più importanti derivate da queste ricerche furono quella relativa alle modalità di avvelenamento con il monossido di carbonio, che blocca la funzione respiratoria dei globuli rossi rimuovendo l'ossigeno dall'emoglobina e quella relativa all'azione del curaro, che annulla i movimenti muscolari volontari. Mirko Grmek (1973), che ha ricostruito in dettaglio la lunga sequenza di tali esperimenti sulla base delle superstiti annotazioni di laboratorio, ritiene che queste scoperte, fra le tante linee di indagine di Bernard, siano quelle che in misura maggiore hanno influito sulla formazione delle sue idee generali.
Oltre a queste, che sono considerate le sue scoperte principali, Bernard compì fra il 1846 e il 1860 numerose scoperte collaterali; per esempio, la produzione di urina diabetica in un coniglio pungendo la parete del quarto ventricolo del suo cervello e l'identificazione dei nervi che controllano le secrezioni delle ghiandole salivari sottomascellari. Per i fisiologi dell'epoca, soprattutto fuori dei confini della Francia, furono queste brillanti scoperte a conferire un lustro particolare al nome di Bernard. Lo stesso Du Bois-Reymond, sebbene un po' a malincuore, dovette riconoscere nel 1860 che questo "scopritore, fortunato come nessun altro prima, tiene al giorno d'oggi gli occhi di tutti puntati sul tavolo di vivisezione del Collège de France" (1886-87 [1912, p. 186]).
Le scoperte di Bernard catturavano l'immaginazione degli addetti ai lavori in quanto erano spesso inattese, ma tuttavia centrali nelle aree d'interesse del tempo, e imponevano modificazioni delle concezioni dominanti su molti fenomeni. Tuttavia l'attenzione che gli storici hanno largamente dedicato a Bernard solamente in parte è dovuta agli specifici contributi da lui offerti alla disciplina della fisiologia sperimentale in via di formazione. Nelle lezioni pubbliche che cominciò a tenere annualmente dopo la sua nomina nel 1855 a successore di Magendie al Collège de France, Bernard esprimeva spesso critiche sui metodi sperimentali allora usati in fisiologia, basate perlopiù sul proprio lavoro di ricerca e sulle sue personali esperienze. Nel 1865, impedito dalla malattia a svolgere i normali compiti di insegnamento e di ricerca, scrisse l'Introduction à l'étude de la médecine expérimentale, in cui ampliò, in principî generali, le sue idee sulla sperimentazione nel campo della fisiologia e della medicina. Vi discuteva il ruolo delle idee e dell'osservazione nella sperimentazione, sottolineando l'importanza del dubbio, nonché la necessità di abbandonare un'ipotesi quando un risultato sperimentale contraddiceva le previsioni del ricercatore. L'apparente spontaneità degli organismi viventi non era un ostacolo alla sperimentazione ‒ sosteneva ‒, dal momento che il principio del determinismo si applicava al mondo organico allo stesso modo che all'inorganico:
Bisogna ammettere come assioma della sperimentazione che negli organismi viventi, così come nei corpi non viventi, le condizioni d'esistenza di ogni fenomeno sono determinate in maniera assoluta. In altre parole, una volta che siano note e realizzate le condizioni in cui si verifica un fenomeno, il fenomeno stesso si deve riprodurre sempre e necessariamente a piacimento dello sperimentatore. La negazione di questa proposizione non sarebbe altro che la negazione della scienza stessa. (Bernard 1865, pp. 115-116)
Nella terza parte dell'Introduction Bernard illustrava i suoi precetti sperimentali con brevi resoconti relativi alle sue principali scoperte. Benché i recenti confronti degli storici con i suoi protocolli di laboratorio abbiano dimostrato che questi resoconti erano ricostruzioni piuttosto idealizzate, essi sono comunque serviti a conferire una particolare autorità alla discussione di Bernard sui principî della sperimentazione, vista come riflessione sulla sua personale vicenda piuttosto che come un'astratta filosofia della scienza. Come è stato sottolineato, ai tempi di Bernard tale discussione appassionò i circoli letterari e filosofici in Francia, ma ebbe scarso impatto sui fisiologi contemporanei; in tempi più recenti è stata considerata come una profonda meditazione sui metodi della fisiologia sperimentale (Grmek 1973, 1991b).
Nel muovere le sue critiche al metodo sperimentale Bernard cercò di fissare le regole che avrebbero dovuto guidare la ricerca in campo fisiologico. I suoi ammiratori hanno presentato i precetti da lui formulati per la sperimentazione fisiologica come una sua scoperta. La diffusa immagine di Bernard quale "fondatore della fisiologia moderna" è il risultato del suo modo stesso di vedere la propria relazione con predecessori e contemporanei. Egli non ha mai preteso il merito di aver introdotto la fisiologia sperimentale, una gloria che attribuiva al suo maestro Magendie, ma presentava lo stato della fisiologia al tempo della sua giovinezza come "arretrato", a causa dell'"imperfezione dei nostri metodi di indagine". A sé stesso riconosceva il ruolo di guida nell'avanzamento negli anni Sessanta, di quella disciplina scientifica. In alcuni appunti sul progresso della fisiologia in Francia preparati per una relazione che gli era stata richiesta nel 1866, egli scriveva: "Bisogna [...] vedere l'enorme progresso che la fisiologia ha fatto durante i 25 anni trascorsi da quando mi sono occupato di quella scienza. Con le mie scoperte, ho fatto avanzare la fisiologia, e le ho fatto fare un progresso tale che ci sarebbe voluto un secolo se non ci fossi stato io" (Bernard 1979, p. 56). La scoperta di Bernard che il fegato è "la fonte e l'origine dello zucchero negli animali" divenne l'occasione per una critica generale delle idee sulla nutrizione basate su indicazioni provenienti soltanto dalla chimica. Più tardi egli avrebbe affermato di aver introdotto un approccio nuovo a quelle questioni e di essere stato "il primo che abbia investigato sui [passi] intermedi", mentre in precedenza "si conoscevano i due estremi, e per il resto si creava una fisiologia della probabilità" (in Holmes 1974, p. 413). Dichiarazioni del genere non erano false, ma senz'altro parziali. I 'vincitori' spesso non sono sereni nel valutare i traguardi degli altri, ridotti al ruolo di 'predecessori'.
Nella storia del pensiero medico, uno dei meriti innegabili di Bernard è l'aver elaborato il concetto di "ambiente interno" (milieu intérieur) che, perfezionato, trova una nuova formulazione nel concetto di omeostasi, enunciato da Walter Cannon nel 1926 e da lui divulgato nel 1932 nel suo libro sulla "saggezza del corpo". Questo concetto ha influenzato in maniera profonda e duratura il modo di pensare dei biologi e dei medici. Bernard era pienamente consapevole dell'importanza di tale concetto e sosteneva anche che, insieme con il principio del determinismo, esso costituisse la base della nuova medicina sperimentale; riteneva infatti che la medicina scientifica moderna si fondasse sulla conoscenza della vita degli elementi nell'ambiente interno e che si trattasse dunque di una concezione diversa del corpo umano: "Queste sono le mie idee, e questo è il punto di vista essenziale della medicina sperimentale". Adottando il 'principio di Broussais' (anche se non lo chiamava così), Bernard riteneva che i processi fisiologici e i fenomeni patologici non si distinguono fra loro qualitativamente ma soltanto quantitativamente. La grandissima maggioranza delle sue conclusioni sulle "funzioni normali" dell'organismo sono infatti fondate sullo studio di loro perturbazioni patologiche provocate artificialmente; in proposito, si possono citare come paradigma i suoi studi sul diabete (Leçons sur le diabète et la glycogénèse animale, 1877).
Bernard è considerato il simbolo della fisiologia francese, mentre il "gruppo del 1847" collettivamente rappresenta la fisiologia tedesca. Dei quattro membri di questo gruppo, Carl Ludwig (1816-1895) viene a volte indicato come il più influente per la lunga durata della sua carriera di ricercatore nel settore e per i numerosi studenti che formò. Contrasti fra Bernard e i suoi contemporanei tedeschi vengono spesso evidenziati con riferimento alle diverse posizioni filosofiche o metodologiche di fondo: da una parte l'intento tedesco di ridurre la fisiologia alla fisica e alla chimica e dall'altra l'insistenza di Bernard sul fatto che fisica e chimica rappresenterebbero solo gli strumenti per l'autonoma scienza della fisiologia; da una parte la preoccupazione dei tedeschi per la precisione degli strumenti e le relazioni funzionali quantitative, dall'altra la finezza operativa di Bernard e la sua insistenza sull'importanza delle condizioni fisiologiche della sperimentazione. Bernard e i suoi contemporanei tedeschi contribuirono a consolidare questa dicotomia facilitando la sua identificazione con categorie nazionalistiche. Tanto la coscienza nazionale degli stessi scienziati quanto le successive generalizzazioni storiche sulla scienza francese e tedesca hanno in qualche modo oscurato il fatto che Ludwig, Du Bois-Reymond, Helmholtz e Brücke differivano fra loro per alcuni aspetti nella stessa misura in cui si differenziavano collettivamente da Bernard.
Come fondamento comune della posizione dei quattro fisiologi tedeschi viene richiamata con particolare forza la "confessione di fede" inclusa da Du Bois-Reymond nell'introduzione alle Untersuchungen über thierische Elektricität (Ricerche sull'elettricità animale), il cui brano più famoso afferma:
Se guardiamo all'evoluzione della nostra scienza, non possiamo fare a meno di rilevare come l'area dei fenomeni imputati alla forza vitale si restringe vieppiù ogni giorno che passa, in quanto un territorio sempre maggiore è assegnato alla giurisdizione delle forze fisiche e chimiche […]. Non possiamo non aspettarci che un giorno, abbandonando i propri specifici interessi, la fisiologia si fonderà nel grande stato unificato della scienza teoretica, sarà dissolta nella fisica e nella chimica organica. (Du Bois-Reymond 1848-84, I, pp. XLIX-L)
Benché tutti e quattro i membri del gruppo che si formò nel 1847 condividessero questa fede, ognuno di loro pervenne alle proprie convinzioni per vie diverse, intendendone ciascuno in maniera diversa il significato, in rapporto ai propri concreti itinerari di ricerca. Tre di loro, Du Bois-Reymond, Helmholtz e Brücke, avevano studiato con Müller. L'ispirazione comune del loro punto di vista era stata la sfida lanciata alcuni anni prima contro la prospettiva organicistica, teleologica e vitalistica di Müller dal brillante Schwann. Nella sezione conclusiva del suo trattato sulla teoria cellulare, Schwann aveva opposto alla visione teleologica la "visione fisicalistica", secondo la quale "le forze fondamentali presenti negli organismi sono essenzialmente identiche a quelle della natura inorganica, agiscono in maniera assolutamente cieca, secondo leggi necessarie, senza avere di mira alcuno scopo, forze che sono altrettanto legate all'esistenza della materia quanto lo sono le forze fisiche" (Schwann 1839, p. 221).
Sebbene l'intenzionalità apparisse tanto evidente nella natura organica da non poter quasi sfuggire a una qualche spiegazione di carattere teleologico, Schwann riteneva che non si dovesse ricorrere a essa se non nel caso in cui "nessun altro punto di vista è possibile". Du Bois-Reymond, Helmholtz e Brücke erano tutti d'accordo con Schwann nell'opporsi alla "visione teleologica" di Müller, ma nondimeno conservavano profondi legami di affetto e comunanza di obiettivi con il loro maestro. Le differenze filosofiche, comunque, non impedirono a Müller di appoggiare con convinzione le loro prime linee di ricerca.
Ludwig, che non aveva studiato con Müller e che non sembrò riconoscerne l'apertura verso gli sforzi in senso fisicalistico dei suoi allievi, vedeva in lui un ostacolo per i nuovi indirizzi. In gran parte autodidatta per quel che riguardava la fisiologia, Ludwig derivò il proprio orientamento fisicalistico e la sua ammirazione per l'analisi della circolazione sanguigna di Weber dal chimico Robert Bunsen (1811-1899), nel cui laboratorio a Marburgo, da giovane laureato in medicina nel 1839, aveva effettuato misurazioni analitiche dei gas. L'orientamento teorico che caratterizzò gran parte della carriera scientifica di Ludwig divenne manifesto nella prima ricerca indipendente da lui condotta. Assegnato dal direttore dell'Istituto di anatomia di Marburgo, presso il quale divenne assistente nel 1841, allo studio morfologico dei reni, Ludwig sviluppò una nuova tecnica di iniezione che gli consentì di visualizzare in maniera più chiara i tubuli urinari. Sulla base delle proprie osservazioni istologiche, nonché di quelle dell'anatomista inglese William Bowman (1816-1892) che aveva stabilito la continuità dei tubuli con i glomeruli di Malpighi, Ludwig propose un'ipotesi sulla formazione dell'urina "molto dettagliata eppur semplice, e ne spiega l'origine, anche se ancora in modo incompleto, sulla base della struttura del rene secondo le leggi fisiche" (Wagner 1842-53, II, p. 637). L'ipotesi di Ludwig era che il percorso del sangue attraverso le strette arteriole afferenti del rene, poi in quelle più larghe del glomerulo e infine in quelle più strette dei vasi efferenti, faceva sì che la differente pressione esercitata sulle pareti dei vasi, per effetto di leggi idrauliche, spingesse una certa quantità di acqua, di minerali e di sali disciolti verso i tubuli urinari. I materiali proteinici e grassi del sangue, invece, non potevano passare attraverso le pareti. Ludwig confortava questa parte "un po' audace" della sua ipotesi con gli studi di endosmosi di Brücke che dimostravano come le membrane del guscio d'uovo fossero impermeabili a queste ultime sostanze.
Quando Valentin sollevò l'obiezione secondo cui le proporzioni delle componenti solide dell'urina non uguagliavano quelle delle stesse nel sangue, Ludwig, per difendere la propria concezione, ipotizzò un possibile difetto nelle analisi del sangue. Per esaminare più a fondo questo problema, egli intraprese una ricerca sulle sostanze sanguigne che passano nell'urina. Nel corso di tale ricerca Ludwig identificò quella che Berzelius aveva chiamato la "materia acquea estrattiva" del sangue come "biossido proteinico", una di quelle sostanze che il chimico fisiologico olandese Gerardus Johannes Mulder (1802-1880) aveva definito come composti del radicale proteinico. Questa scoperta accese l'interesse di Ludwig per le connessioni fra la definizione chimica del biossido proteinico e il suo significato fisiologico; egli sostenne che la questione poteva essere decisa solo attraverso esperimenti su animali viventi. Il parallelismo fra l'atteggiamento di Ludwig nei confronti della relazione fra ricerca chimica e ricerca fisiologica e la posizione assunta da Bernard sullo stesso tema generale è evidente, ma a differenza di questi, Ludwig non si dedicò allo studio di tali fenomeni chimici nel suo programma di ricerca. Si volse invece, nel 1846, verso un corrispondente approccio fisiologico alle leggi fisiche: si impegnò, cioè, nella misurazione in animali viventi delle manifestazioni delle leggi dell'idrodinamica nella circolazione sanguigna.
Lo studio della circolazione nei reni spinse poi Ludwig ad addentrarsi nei problemi generali della emodinamica, la cui investigazione sperimentale negli anni seguenti divenne il principale obiettivo di ricerca. Si propose di escogitare un apparecchio che gli consentisse di effettuare misurazioni continue delle variazioni di pressione nella cavità pleurale di un animale e del sangue in una delle ramificazioni principali dell'aorta. Per registrare le variazioni della pressione in intervalli di tempo sufficientemente brevi da evidenziare i singoli battiti del polso, egli mise un galleggiante verticale nell'estremità aperta di un emodinamometro di Poiseuille, che aveva in cima una piuma orizzontale dotata di una punta sottile inchiostrata, in grado di tracciare una linea sulla superficie di un cilindro rotante in senso orizzontale. Un accurato meccanismo a orologeria assicurava che il cilindro ruotasse a velocità costante. Con questo accorgimento Ludwig misurò la relazione fra le variazioni della pressione legate alla respirazione e la frequenza del battito cardiaco, nonché le variazioni nell'ampiezza della pressione arteriosa nei cavalli e nei cani al cambiamento delle condizioni. Tali variazioni furono tuttavia da lui descritte solo parzialmente in termini quantitativi; oltre a essere incapace di esprimere queste relazioni in formule matematiche, Ludwig non riuscì nemmeno a dare fondamento teorico alle relazioni osservate. Nonostante questi risultati iniziali poco conclusivi, Ludwig aveva dato vita a un metodo le cui conseguenze furono di grande importanza per il suo settore. Gli storici hanno cercato di rintracciare i precedenti di questi metodi di registrazione in diversi altri settori, come per esempio la balistica, ma non esistono prove dirette che Ludwig avesse preso a modello qualcuno degli strumenti noti in precedenza.
La prima curva disegnata dal suo strumento è giunta sino a noi ed è datata 12 dicembre 1846. Quando nel 1847 si recò a Berlino per incontrare Du Bois-Reymond, Helmholtz e Brücke, dunque, Ludwig fu probabilmente in grado di mostrare ai suoi nuovi amici i primi risultati ottenuti con il nuovo apparecchio. Non si sa molto sui dettagli di questo incontro, salvo il fatto che i quattro fisiologi ben presto furono uniti da un'amicizia e da un obiettivo comune che sarebbero durati per l'intera loro vita scientifica. Un anno più tardi, nella prefazione alle Untersuchungen über thierische Elektricität, che presentavano in sintesi sei anni di esperimenti sull'elettricità animale, Du Bois-Reymond definiva il "tipo di indagine fisico-matematica" in fisiologia. Non si poteva giungere a una fisiologia esatta, egli affermava, facendo semplicemente tutte le osservazioni "in massa e numero". Benché allo stato presente la maggior parte dei settori della fisiologia non fosse ancora pronta per una profonda analisi teorica in cui le connessioni causali tra i fenomeni potessero essere espresse matematicamente, era tuttavia possibile valutare l'entità di un effetto osservato come funzione ignota di tutti i fattori che lo influenzano e variare un fattore tenendo costanti tutti gli altri: "La dipendenza dell'effetto da ogni condizione può a questo punto essere registrata nella forma di una curva, la cui legge esatta rimane, certo, sconosciuta, ma il cui decorso generale può tuttavia essere abbozzato" (Du Bois-Reymond 1848-84, I, pp. XXVI-XXX).
L'analisi funzionale di questo tipo divenne la pietra miliare metodologica della scuola fisicalistica in fisiologia, cui Emil Du Bois-Reymond (1818-1896) diede la più famosa formulazione ideologica. Dopo essersi trasferito da Marburgo all'Università di Zurigo nel 1850, Ludwig applicò il suo apparecchio dal cilindro rotante, che chiamò 'chimografo' (Kymograph), a una ricerca sulla secrezione della saliva. "Dopo aver considerato le rispettive forze, siamo convinti", scriveva Ludwig a conclusione di una serie di meticolosi esperimenti, "che la secrezione della saliva non può più essere spiegata in base alla teoria della filtrazione". C'è ragione di pensare che per Ludwig non fu facile abbandonare la "semplicità" dell'"elegante ipotesi" che vedeva nelle secrezioni "una conseguenza meccanica di stimolazione nervosa" (Ludwig 1851, pp. 256, 275, 277). Un'ipotesi del genere non soltanto presentava il vantaggio di unificare le sue spiegazioni della secrezione renale e di quella salivare, ma avrebbe altresì avuto l'effetto di promuovere la sua ricerca sulle leggi idrauliche soggiacenti ai fenomeni fisiologici. Tuttavia con la capacità di abbandonare un'ipotesi cui era legato in presenza di risultati sperimentali contrari alle sue previsioni, Ludwig diede prova di possedere una di quelle qualità di scienziato solitamente associate al nome di Bernard. Anche per la sua posizione sul tema specifico, Ludwig finiva per assomigliare a Bernard: egli prendeva in considerazione gli stessi due tipi fondamentali di spiegazione per l'azione dei nervi sulle secrezioni salivari dei quali Bernard, quasi contemporaneamente, si serviva per chiarire l'influenza dei nervi sulla formazione del calore nell'animale. Bernard e Ludwig dominarono l'evoluzione della fisiologia nella fase in cui essa si affermò come matura attività sperimentale; entrambi erano entrati in quel settore in un momento in cui stava già emergendo rapidamente. L'uno e l'altro diedero un forte impulso a quel movimento e ciascuno contribuì a conferirgli la forma che alla fine assunse, ma la ricerca fisiologica nello stato in cui l'avevano trovata formò Ludwig e Bernard quanto essi contribuirono a formare la medicina sperimentale.
Cercando di spiegare il ruolo di preminenza generalmente accordato a Bernard, Grmek scrive che "se Bernard contribuì più di qualunque altro scienziato prima o dopo di lui a far avanzare la fisiologia, fu proprio grazie a un particolare talento per la generalizzazione intuitiva. La genialità di Bernard fu non soltanto nel sapere come realizzare le scoperte, ma anche nel saperne afferrare il significato e l'importanza generale fin dall'inizio" (1973, p. 40).
È una sintetica descrizione delle qualità per cui Bernard brillò più di tutti gli altri nel suo campo, tuttavia, misurando il progresso scientifico secondo altri parametri, è Ludwig ad apparire il più illustre del suo tempo. Egli ha al suo attivo molte scoperte importanti, fra cui il nervo depressore, e la scoperta simultanea, indipendente da Bernard, dell'innervazione delle ghiandole sottomascellari; ma per apprezzare adeguatamente la grandezza dei traguardi scientifici di Ludwig si deve guardare, più che alle scoperte di nuove funzioni o di altri fenomeni, alla sua opera di approfondimento dell'analisi sperimentale e di comprensione teorica di fenomeni già noti. Ludwig non scoprì la natura della secrezione urinaria, ma l'ipotesi da lui elaborata circa le sue cause diede il via a un approccio completamente nuovo al problema. Egli non scoprì la circolazione del sangue o del liquido linfatico, ma i risultati raccolti nel corso della sua lunga investigazione di questi fenomeni trasformarono la comprensione che i fisiologi ne avevano come sistema complesso, autoregolantesi, funzionante secondo le leggi idrauliche della fisica. Nell'ambito poi degli specifici metodi sperimentali introdotti nella fisiologia, Ludwig fu decisamente il più brillante di tutti. Il chimografo ebbe una diffusione così ampia che alla fine assurse a simbolo del laboratorio fisiologico, esattamente come l'apparecchio per la combustione di Liebig era diventato il simbolo del laboratorio di chimica organica. Oltre al chimografo, l'apparecchio per i gas del sangue di Ludwig, i suoi metodi per misurare la pressione e la velocità del flusso sanguigno e per la sperimentazione su organi isolati perfusi, fornirono gli strumenti per altre linee di ricerca, sia all'interno del suo laboratorio sia fuori di esso, che durarono a lungo anche oltre l'Ottocento.
Questi aspetti di differenziazione fra l'approccio di Bernard e quello di Ludwig agli argomenti trattati (la brillantezza qualitativa e la fertile immaginazione dello scienziato francese contro la profondità nell'analisi delle cause e il rigore quantitativo del suo collega tedesco) andrebbero riequilibrati considerando le loro impressionanti somiglianze. Entrambi si dedicarono alla verifica di idee provenienti dalla fisica o dalla chimica secondo lo standard degli esperimenti di vivisezione effettuati su animali integri. Al contrario, Helmholtz e Du Bois-Reymond effettuarono i loro esperimenti fisiologici più importanti con preparati isolati di nervi e muscoli di rana. Non è un caso che Bernard e Ludwig, nonostante le barriere nazionalistiche che li dividevano, riuscirono a riconoscere l'uno il valore dell'altro più prontamente di quanto Bernard seppe apprezzare la forza dei contributi di Helmholtz e Du Bois-Reymond, o questi ultimi le sue scoperte.
Hermann von Helmholtz (1821-1894) pubblicò solo cinque saggi sperimentali durante il decennio dal 1843 al 1852, nel corso del quale lavorò su questioni fisiologiche fondamentali, ma quattro di essi furono contributi che aprirono nuovi campi di ricerca. Nel 1845 egli fornì la prima prova sperimentale di una trasformazione chimica che accompagna la contrazione dei muscoli. Non riuscì a identificare la reazione in sé stessa, ma mise in evidenza un cambiamento quantitativo nella proporzione di sostanze solubili rispettivamente nell'acqua e nell'alcol allorché un muscolo di rana isolato veniva elettricamente stimolato a contrarsi fino all'esaurimento. Nel 1848, attraverso misurazioni eseguite con una delicata termocoppia di sua concezione, dimostrò che un muscolo di rana isolato produce, contraendosi, un apprezzabile aumento di temperatura. Iniziò poi una serie di esperimenti per verificare l'andamento nel tempo della contrazione di un muscolo. Helmholtz adattò un galvanometro balistico per misurare i brevi intervalli di tempo fra la stimolazione e il movimento di contrazione del muscolo. Mentre era impegnato in queste misurazioni, egli scoprì che, stimolando il muscolo in due punti diversi lungo il nervo attaccato a esso, poteva misurare la velocità di trasmissione dell'impulso nervoso dall'uno all'altro dei due punti. Ognuna di queste ricerche divenne il punto di partenza per la creazione di una sottospecializzazione della fisiologia sperimentale che si mantenne per tutto il XIX secolo. Fu necessario molto tempo perché i fisiologi arrivassero a identificare con sicurezza come formazione di acido lattico quella trasformazione chimica che si compie durante l'attività muscolare, di cui Helmholtz aveva fornito la prova iniziale. Gli esperimenti sulla velocità dell'impulso nervoso ‒ un fenomeno che in precedenza veniva considerato troppo rapido per poter essere misurato ‒ divennero modelli paradigmatici della precisione nella sperimentazione fisiologica. Il metodo grafico di registrazione mediante un apparecchio di precisione, inventato da Helmholtz e successivamente noto come miografo, fu per molto tempo alla base delle ricerche sul movimento muscolare.
Nel 1847 Helmholtz pubblicò il classico saggio teorico über die Erhaltung der Kraft (Sulla conservazione dell'energia), nel quale egli formalizzava le idee sulla "conversione delle forze" (vale a dire sulla conservazione dell'energia), che erano andate emergendo già nel corso dei precedenti decenni. Benché quest'opera sia stata spesso considerata come il primo passo della definitiva conversione finale di Helmholtz alla fisica, essa ebbe tuttavia anche profonde conseguenze per quanto riguarda la fisiologia, come lo scienziato stesso dichiarava brevemente in un capoverso alla fine del suo famoso saggio:
[Gli animali] assumono ossigeno e i complessi composti ossidabili prodotti da piante, e li restituiscono in parte ossidati sotto forma di acido carbonico e di acqua, in parte come composti ridotti più semplici; essi consumano quindi una certa quantità di energia chimica potenziale e da essa producono calore ed energia meccanica. Dal momento che quest'ultima rappresenta una quantità relativamente piccola di lavoro rispetto alla quantità di calore, la questione della conservazione dell'energia si riduce pressappoco a chiedersi se la combustione e le trasformazioni delle sostanze che servono per la nutrizione creino la stessa quantità di calore che gli animali emettono. (Helmholtz 1847, p. 70)
Fu necessario all'incirca mezzo secolo per dare una risposta sperimentale alla questione inquadrata da Helmholtz in quest'ultima affermazione. All'epoca, i fisiologi erano cresciuti nella convinzione che la risposta dovesse essere affermativa. I risultati di Helmholtz non risposero mai appieno alla grande questione che si era posta inizialmente, ma indicarono la direzione che avrebbero imboccato le future indagini su questi problemi. Le poche ricerche sperimentali da lui effettuate prima di dedicarsi, negli anni Cinquanta, al lavoro pionieristico sulla fisiologia della visione e del suono, lasciarono dunque una traccia profonda per il successivo sviluppo della fisiologia generale.
Dei quattro membri del "gruppo del 1847", Du Bois-Reymond fu quello che con maggior vigore si applicò al raggiungimento del suo obiettivo ultimo: la riduzione di un fenomeno fisiologico a processi fisici elementari. Il progetto affidatogli da Müller nel 1841 ‒ di sottoporre a verifica l'elettricità che Carlo Matteucci affermava di aver osservato nelle rane ‒ divenne la base del lavoro svolto nell'arco di tutta la sua vita. Dopo aver costruito un galvanometro più sensibile di quelli disponibili all'epoca, Du Bois-Reymond scoprì nel 1843 flussi di elettricità nelle rane intere, in muscoli isolati e in pezzi di muscoli. Dal gran numero di osservazioni all'apparenza contraddittorie, trasse la conclusione generale secondo cui una sezione trasversale naturale o artificiale di un muscolo presentava sempre una carica elettrica negativa rispetto alla superficie esterna del muscolo stesso. Du Bois-Reymond concepì allora un nuovo progetto di ricerca per coprire ogni aspetto dei fenomeni elettrici nei muscoli, nei nervi e negli altri tessuti animali. Si dedicò quindi pienamente alla sperimentazione, non soltanto affinando sempre più la propria ricerca, ma sottoponendo a nuova verifica tutti i fenomeni sperimentali riferiti dai suoi predecessori fin dai tempi di Galvani. Scrivendo con una intensità pari al suo fervore sperimentale, portò a termine nel 1848 un volume di 742 pagine nel quale esponeva in dettaglio la precedente storia dell'elettricità animale e gli esperimenti da lui stesso effettuati su di essa. Incapace di esaurire l'argomento malgrado l'estensione dell'opera, nel 1849 scrisse il secondo volume dei tre che aveva progettato.
Tra i numerosissimi risultati sperimentali riportati in questi due volumi, tanto Du Bois-Reymond quanto gli storici considerano come il più significativo quello che dimostra in che modo, nel momento in cui un muscolo si contrae, si verifica un'"oscillazione all'indietro" dell'ago del galvanometro. Egli concluse di trovarsi in presenza di una variazione in negativo dell'elettricità muscolare. Scoprì poi che un'analoga variazione si osservava anche nell'elettricità di un nervo quando lo si stimolava in rapida successione. Du Bois-Reymond fu quindi indotto a vedere in questa variazione in negativo la manifestazione esterna dei movimenti interni dei nervi; ugualmente interpretò la variazione in negativo dell'elettricità muscolare come il segno dei movimenti interni al muscolo in forza dei quali si ha la contrazione. Come aveva scritto a Ludwig nel 1847: "Dalle mie indagini emergerà, io credo, che sono le forze elettriche emesse dalle molecole [...] a provocare i fenomeni di movimento nei nervi e nei muscoli" (Du Bois-Reymond 1927, p. 2).
Per quanto fosse consapevole della difficoltà di ricavare una spiegazione molecolare dai fenomeni da lui osservati, egli tuttavia ne avanzò una per la contrazione muscolare. La rapidità spesso fulminea del rovesciamento nella corrente muscolare lo convinse che l'elettricità non poteva muoversi attraverso le "masse ponderabili" e lo indusse "a considerare le molecole stesse del muscolo come elettromotrici". Du Bois-Reymond costruì un modello di molecole elettromotrici sferiche bipolari che, ruotando nello spazio, rovesciavano istantaneamente la polarità del muscolo.
Nel suo approccio alla sperimentazione fisiologica, egli aveva molto in comune con l'amico Helmholtz, ma non riuscì a eguagliarne l'abilità nello scegliere da una questione globale un problema particolare risolvibile con un esperimento elegantemente strutturato. Il suo rigido modo di pensare lo portò alla fine alla sterilità, ma non prima di aver creato le basi su cui i suoi studenti, e altri dopo di lui, poterono costruire la moderna comprensione dei fenomeni elettrici nella funzione nervosa e muscolare.
La maggior parte dei fisiologi di inizio Ottocento, al pari dei loro predecessori, proveniva da studi di medicina e conduceva i propri esperimenti avendo in mente le applicazioni mediche. Come disciplina scientifica, la fisiologia continuava a essere insegnata principalmente nelle facoltà di medicina. Nel corso del secolo si attuò un movimento in direzione dell'autonomia, nel senso che alcuni eminenti fisiologi, fra cui Bernard, pensavano a una scienza generale della vita che prescindesse dalle sue applicazioni mediche immediate. A bilanciare questo movimento di allontanamento dalle sue origini mediche, contribuì la crescente insistenza da parte degli stessi fisiologi che la medicina dovesse essere basata sulla nuova fisiologia sperimentale.
Gli appelli a una 'medicina fisiologica' acquistarono vigore in Germania nel corso degli anni Quaranta con la fondazione, per opera del chirurgo Wilhelm Roser e di un maestro della medicina clinica, Carl Wunderlich, dell'"Archiv für physiologische Heilkunde". Lo scopo "di ogni spirito illuminato", proclamavano i curatori nel primo numero, "dev'essere di dare una base fisiologica alla patologia" (Wunderlich 1842, p. I). Malgrado l'accezione piuttosto ampia del termine 'fisiologico', dalle successive discussioni si deduce che facevano riferimento alla nuova anatomia microscopica di Henle e alla fisiologia di Müller. Essi non vedevano alcun conflitto fra l'anatomia patologica che stava emergendo nella medicina tedesca sulla scia della Scuola di Parigi e l'applicazione della fisiologia alla medicina.
Negli anni Quaranta le scuole tedesche di medicina cominciavano a riconoscere che i recenti progressi in campo fisiologico imponevano di separare la fisiologia dall'anatomia e di assegnare a qualche esponente dei più nuovi indirizzi fisiologici cattedre indipendenti all'interno delle loro facoltà. Nelle università maggiori la nomina di un professore di fisiologia portò spesso alla creazione di un istituto di fisiologia ben attrezzato per la ricerca sperimentale, nonché di aule per le lezioni e laboratori didattici in cui la fisiologia divenne un elemento centrale della formazione medica. La svolta decisiva lungo questa linea si ebbe nel 1865, quando l'Università di Lipsia chiamò Ludwig da Vienna allettandolo con la promessa di mettergli a disposizione un istituto, che con la sua attività stabilì un nuovo standard di dimensioni ed efficienza. Nei tre decenni in cui Ludwig diresse l'Istituto di Lipsia più di duecento studenti tedeschi e stranieri eseguirono ricerche sperimentali sotto la sua guida. Gli Stati tedeschi si convinsero che l'attività di laboratorio in campo fisiologico dovesse essere inclusa nel corso di studi per tutti gli studenti di medicina.
Nessuno più di Bernard sostenne con tenacia e convinzione la necessità di fondare la nuova medicina sulla fisiologia. Il cardine della medicina sperimentale, che egli si augurava avrebbe ben presto soppiantato la medicina empirica esistente, doveva continuare comunque a essere un medico capace di osservare i suoi pazienti nella maniera più completa possibile. Dopo di che, però, la scienza sperimentale avrebbe dovuto analizzare "tutti i sintomi, cercando di riportarli a spiegazioni e leggi della vita che dovranno comprendere la relazione dello stato patologico con lo stato normale o fisiologico". La formazione di questo tipo di medici, egli sosteneva, può essere realizzata unicamente in speciali laboratori, poiché i soli precetti utili nella pratica medica sono quelli che "nascono dai dettagli della pratica sperimentale" (Bernard 1865, pp. 347, 394-395). A causa delle modeste sovvenzioni del governo francese, tuttavia, Bernard non ebbe il successo che arrise ai suoi colleghi tedeschi nella realizzazione di questi obiettivi. Il suo laboratorio di ricerca rimase relativamente modesto, anche negli anni del suo maggior prestigio. Benché gli studenti di medicina seguissero con regolarità le sue lezioni, egli non aveva i mezzi per fornire loro l'esperienza di laboratorio di cui era sostenitore. Solamente un piccolo gruppo di studenti più assidui poté apprendere la fisiologia sperimentale sotto la guida del maestro.
È stato sottolineato che, malgrado i fisiologi del XIX sec. abbiano condotto con successo una campagna per assicurare alla loro disciplina un posto centrale nella formazione medica, si hanno scarse prove che le scoperte fisiologiche abbiano contribuito concretamente al miglioramento delle cure mediche nell'immediato. A partire da quel momento, gli storici della medicina hanno affermato che i fisiologi e altri scienziati stabilivano la necessità delle loro discipline per la formazione dei medici prima di essere in grado di trasformare le loro conoscenze "in diretti vantaggi terapeutici". Una delle spiegazioni proposte per questo paradosso è che le interpretazioni fisiologiche conferivano ai medici praticanti una maggiore autorità; secondo un'altra, dai progressi scientifici dell'epoca i fisiologi, a ragione, deducevano l'elevata probabilità di una loro futura applicazione. Una delle giustificazioni frequentemente invocate a quel tempo era che attraverso l'addestramento scientifico gli studenti di medicina acquisivano la capacità dell'argomentazione critica e attitudini sperimentali che li rendevano più preparati a ragionare in maniera efficace nell'ambiente clinico. In questi giudizi, gli storici sembrano condividere la prospettiva di Bernard per quello che andava considerato come un apporto al trattamento medico. Pensando al futuro, Bernard immaginava che attraverso la sperimentazione i medici avrebbero potuto "comprendere il meccanismo fisiologico di produzione della malattia e il meccanismo d'azione del farmaco curativo" (ibidem, p. 367). L'unico caso di questo tipo cui potesse fare riferimento ai suoi tempi era il parassita responsabile di una forma di prurito (acaro della scabbia). Tuttavia gli storici non si sono spinti abbastanza a fondo nell'analizzare i modi più sottili con cui i risultati della ricerca fisiologica si intrecciarono, fin dall'inizio del secolo, nel tessuto del ragionamento medico. Quando, per esempio, nel 1843 Wunderlich intraprese un'"indagine storico-fisiologica sulla febbre", basò la sua interpretazione della patogenesi dei sintomi delle febbri sulla concezione del riflesso nervoso messo in luce da analisi recenti ‒ eseguite da Müller e altri ‒ della relazione esistente fra il midollo spinale, i nervi sensitivi e i nervi motori. Sarebbe facile moltiplicare esempi analoghi.
Nel corso dell'ultimo trentennio dell'Ottocento la fisiologia sperimentale organizzata si diffuse al di là dei suoi centri di Francia e Germania. In Inghilterra, dove questa disciplina era rimasta relativamente stagnante prima del 1870, Michael Foster (1836-1907) fondò una scuola di ricerca all'Università di Cambridge che acquistò molto presto grande prestigio. Benché non fosse uno sperimentatore eminente, Foster attrasse tuttavia un gruppo di giovani ricercatori di talento, fra i quali John N. Langley e Walter H. Gaskell. Alla fine del secolo un gran numero di fisiologi di origine britannica era già in prima linea sul campo.
Verso la fine del XIX sec. la fisiologia sperimentale fu introdotta nelle scuole americane di medicina. Ritornando a Boston nel 1871 dopo aver lavorato nell'istituto di Ludwig, Henry P. Bowditch (1840-1911) riuscì ad allestire un modesto laboratorio fisiologico presso la Harvard Medical School, dove continuò a condurre ricerche sperimentali modellate su quelle che aveva eseguito a Lipsia. Negli anni Ottanta, presso la Johns Hopkins Medical School, da poco istituita, uno degli studenti di Foster, Henry N. Martin (1848-1896), inserì nel corso di studi in medicina l'addestramento nel laboratorio di fisiologia. In Russia, Ivan Petrovič Pavlov (1849-1936), che aveva lavorato nel laboratorio di Ludwig dal 1884 al 1886, fu nominato direttore della sezione di fisiologia di un istituto di medicina sperimentale, dove, con un numeroso gruppo di assistenti, condusse una ricerca pionieristica sulla digestione e sul sistema nervoso centrale.
Nella matura e ben istituzionalizzata disciplina quale la fisiologia era diventata alla fine del XIX sec., i ricercatori continuarono ad approfondire le funzioni e i problemi su cui i loro predecessori si erano concentrati. Sempre di più essi si interessarono della regolazione di processi come la respirazione, la formazione e la perdita di calore e la circolazione del sangue, dei quali in quel periodo era stata stabilita la natura generale. Nel corso di questi costanti studi su funzioni fisiologiche già note ne emersero a volte di nuove. Così, nell'ultimo decennio del secolo i manuali di fisiologia cominciarono ad aggiungere alla sezione sulle funzioni secretive una sezione distinta sulle "secrezioni interne". Questo concetto, che entrò nei manuali solo negli anni Novanta, non fu altro che la generalizzazione di un'idea che si era sviluppata in tempi precedenti intorno a casi specifici.
A Bernard è stato spesso riconosciuto il merito di aver introdotto, negli anni Cinquanta, l'espressione di 'secrezione interna' per distinguere la secrezione dello zucchero nel sangue da parte del fegato dalla secrezione della bile verso l'intestino, ma il suo contributo al concetto fu puramente casuale, visto che coloro i quali generalizzarono il significato di secrezione interna alla fine del secolo avevano in mente una classe di secrezioni che non includeva la funzione glicogenica del fegato. Una fonte più diretta di queste concezioni più tarde fu una ricerca condotta anch'essa negli anni Cinquanta sugli effetti dell'asportazione delle ghiandole surrenali nei conigli. La scoperta del medico inglese Thomas Addison (1793-1860) che la malattia ben presto indicata con il suo nome era connessa con la degenerazione delle ghiandole surrenali negli umani indusse direttamente Charles-Édouard Brown-Séquard (1817-1894) a esaminare la funzione di queste ghiandole negli animali (un altro esempio della stretta interazione fra medicina e fisiologia sperimentale durante questo periodo). Brown-Séquard verificò che a seguito dell'asportazione di entrambe le ghiandole gli animali morivano dopo aver manifestato sintomi analoghi a quelli del morbo di Addison; avendo avuto cura, nei suoi esperimenti, di evitare che qualsiasi altro danno potesse risultare dall'operazione chirurgica in modo da rendere univoco il loro responso, egli concluse che la causa dei sintomi e della morte degli animali era la "mancanza delle ghiandole surrenali". Da tale risultato Brown-Séquard dedusse che la funzione di queste ghiandole, che per via anatomica erano già state individuate come "ghiandole sanguigne" ‒ cioè "modificatori del sangue, che si distinguono dalle ghiandole con dotti verso l'esterno in quanto non eliminano alcunché" ‒, fosse quella di secernere nel sangue qualcosa di "essenziale per la vita" (Brown-Séquard 1856, pp. 663-665).
La ricerca della secrezione delle surrenali fu più difficile di quanto Brown-Séquard avesse potuto immaginare. Gli sforzi compiuti nel corso degli anni Settanta per verificarne l'azione, iniettando estratti di ghiandole surrenali in animali, non fecero altro che causare la loro morte. Prima che si facesse un qualsiasi progresso sostanziale in questa direzione, l'attenzione fu di colpo dirottata, nel 1883, verso un'altra delle ghiandole sanguigne, prive di dotti, la cui funzione permaneva ancora oscura. Allorché la tiroide umana, una ghiandola situata alla base del collo, cresceva in maniera ipertrofica, nella forma nota come gozzo, essa arrivava spesso a comprimere la trachea al punto da impedire la respirazione. Per salvare la vita ai pazienti, i chirurghi ricorrevano a volte all'asportazione della ghiandola ingrossata; l'escissione totale era l'unica risorsa anche in casi di ingrossamento maligno della tiroide. L'avvento della chirurgia antisettica consentiva di eseguire l'operazione con minori pericoli d'infezione. Il rimedio radicale dell'escissione totale fu accolto con tanta prontezza perché "i fisiologi non sapevano nulla della funzione fisiologica della tiroide", e di conseguenza i chirurghi "assumevano tacitamente che la tiroide non avesse alcuna funzione". Tuttavia in Svizzera, dove il gozzo era così frequente che i chirurghi praticavano numerose tiroidectomie, un medico di Ginevra, Jacques-Louis Reverdin (1842-1929), riferì di due casi in cui dopo l'operazione le capacità mentali dei pazienti risultarono gravemente danneggiate. Questa notizia spinse Theodor Kocher (1841-1917), che aveva effettuato oltre un centinaio di tiroidectomie a Berna, a tenere sotto controllo la situazione dei suoi pazienti dopo l'operazione; dei sedici che avevano subito l'asportazione totale e di cui poté seguire l'evoluzione successiva, tutti avevano manifestato significativi disturbi del loro stato generale. I sintomi erano abbastanza simili a quelli della sindrome nota come cretinismo, tanto da suggerire per la prima volta una precisa relazione fra il cretinismo e la tiroide.
La conclusione tratta da Kocher diede avvio a numerose ricerche volte a confermare la scoperta clinica tramite la sperimentazione animale. Nel 1885 Victor Horsley (1857-1916), un chirurgo di Londra, dimostrò che l'asportazione della tiroide in un macaco produceva tutti i segni patognomonici del cretinismo congenito, o del mixedema, una malattia acquisita in età adulta la cui sintomatologia è sovrapponibile a quella del cretinismo. Nel 1891 George Murray (1841-1914) scoprì che iniezioni di estratto di tiroide potevano contrastare i sintomi del mixedema. Trattamenti prolungati su soggetti affetti da cretinismo che avevano subito un arresto dello sviluppo consentivano loro di riprendere a crescere e di raggiungere la normalità delle funzioni mentali.
Benché i personaggi principali coinvolti in questi importanti progressi fossero chirurghi e clinici, bisogna ricordare che la sperimentazione animale aveva contribuito alla scoperta di una terapia capace di guarire pazienti affetti da una malattia gravemente disabilitante.
Alla fine del XIX sec., le ricerche sperimentali assegnavano ormai un significato concreto alla funzione attribuita alle secrezioni interne, che da poco aveva cominciato a essere vista in un'ottica generale: tali secrezioni, costituivano un meccanismo attraverso il quale i vari organi del corpo agivano l'uno sull'altro in modi suscettibili di analisi quantitativa. Oltre a portare alla luce nuove funzioni, come quelle delle secrezioni interne, le ricerche fisiologiche di fine Ottocento modificarono il significato delle vecchie funzioni. Attraverso un processo di questo tipo, il riflesso, definito da Marshall Hall (1790-1857) come "una funzione del sistema nervoso e muscolare distinto dalla sensazione, dai movimenti volontari e respiratori" (1833, p. 640), divenne "il meccanismo elementare del sistema nervoso quando quel sistema è considerato nella sua funzione di integrazione" (Sherrington 1906 [1947, p. 7]).
Hall definiva la funzione del riflesso, o arco riflesso, come l'eccitazione dei muscoli per opera di uno stimolo che si trasmetteva lungo 'nervi superficiali' che andavano fino al midollo spinale e 'nervi muscolari' che provenivano dal midollo. A sostegno della sua concezione Hall condusse esperimenti su tartarughe, serpenti e altri animali decapitati, i quali rispondevano agli stimoli esterni con movimenti coordinati. Quando il midollo spinale veniva reciso, le porzioni del corpo che precedevano e seguivano il taglio rispondevano separatamente l'una dall'altra, mentre questi movimenti cessavano allorché il midollo spinale veniva distrutto. Osservazioni di questo tipo erano già state effettuate nel Settecento, ma Hall le generalizzò e, più di chiunque altro prima di lui, sottolineò il carattere indipendente di questi movimenti dalla sensazione e dalla volizione.
Indipendentemente da Hall, Müller propose, nello stesso anno, un concetto analogo di 'riflesso' nell'organizzazione del sistema nervoso. La visione di Müller differiva da quella di Hall per due aspetti importanti. In primo luogo, egli non separava la funzione del riflesso da quella sensitiva e da quella motoria. Benché le azioni riflesse potessero aver luogo attraverso il solo midollo spinale anche quando era separato dal cervello, ciò non provava, secondo Müller, che in condizioni normali la sensazione fosse esclusa. In secondo luogo, Hall prestava scarsa attenzione alle relazioni strutturali dei nervi sensitivi e motori coinvolti. Müller, al contrario, costruì il suo concetto di riflesso proprio sulla distinzione netta fra la funzione sensitiva e quella motoria delle radici nervose e sulla sua analisi dell'organizzazione delle fibre sensoriali e motorie primitive. Fra le tante prove a sostegno della sua "legge" del riflesso, egli fece osservare che, se si stimolava la terminazione centrale di un nervo periferico sezionato, potevano verificarsi movimenti in varie parti del corpo, ma mai in quei muscoli connessi con la terminazione periferica dello stesso nervo. Egli mostrò anche che i nervi del simpatico possono essere la fonte di stimoli di riflesso.
Fra i primi a studiare per via sperimentale i fenomeni riflessi fu Alfred Wilhelm Volkmann (1800-1877), professore di fisiologia prima a Dorpat e poi a Halle; usando rane decapitate, egli confrontò i movimenti riflessi causati stimolando la pelle in diversi punti con i movimenti causati tramite la stimolazione elettrica di nervi sensitivi. Verificò gli effetti delle sezioni longitudinali del midollo spinale e scoprì che i movimenti riflessi potevano ancora incrociare al lato opposto del corpo fin tanto che una porzione del midollo rimaneva indivisa. Scoprì che i movimenti riflessi si trasmettevano con tanta maggiore ampiezza quanto più lo stimolo era intenso. Poiché tutti i movimenti riflessi da lui osservati apparivano come "finalizzati", nonostante nei suoi esperimenti il cervello fosse stato escluso, Volkmann ritenne che le rane decapitate potevano continuare a sentire l'azione dello stimolo e a scegliere, fra i vari mezzi, quello più appropriato per rimuovere il peso della sensazione. Il fatto che le funzioni riflesse nelle rane decapitate sembrassero più energiche di quelle degli animali integri indusse Volkmann a pensare che "la volontà ha la capacità di limitare i movimenti riflessi". Il modo in cui egli esplorò l'azione riflessa fornì un modello per analoghe ricerche che continuarono per tutto il secolo.
Bernard incluse gli esperimenti sui movimenti riflessi in un'ampia rassegna della struttura e delle funzioni del sistema nervoso durante le sue lezioni al Collège de France. Alcune delle sue dimostrazioni su rane decapitate e rane con il midollo spinale reciso assomigliavano agli esperimenti già effettuati da Volkmann e da altri. A questi egli aggiunse l'esperimento con una rana avvelenata dal curaro, dal quale fu indotto a pensare che i nervi che connettevano i nervi sensitivi e quelli motori nel midollo spinale avessero funzione sensitiva. Bernard era estremamente interessato ai movimenti riflessi che si verificavano negli organi interni e venivano trasmessi attraverso i nervi del sistema simpatico, alcuni dei quali davano luogo a movimenti involontari interni, altri a movimenti muscolari esterni. Nel 1864 Bernard credette di aver scoperto un'inibizione riflessa della secrezione della ghiandola sottomascellare operante attraverso un ganglio contenuto nella stessa ghiandola. Benché sbagliasse su questo punto, la sua analisi degli stimoli nervosi reciproci all'attività della ghiandola salivare fornì l'esempio classico di una funzione riflessa il cui esito finale era una secrezione anziché il movimento di un muscolo.
Nel 1845 i fratelli Weber osservarono che uno stimolo elettrico trasmesso attraverso il cervello e il midollo spinale di una rana faceva sì che il suo cuore cessasse di battere per diversi secondi. Per scoprire dove si collocasse la fonte di questo effetto, essi stimolarono porzioni del cervello di rana staccate tramite tagli trasversali, e stabilirono che un intervento sulla regione fra lo scriptus calamus e il midollo allungato allentava il battito cardiaco. Poiché i nervi vaghi collegano quella parte del cervello con il cuore, l'ovvio passo successivo fu di stimolare la terminazione periferica di un nervo vago reciso. Stimolando contemporaneamente con corrente galvanica entrambi i nervi vaghi, il cuore perse il battito, e non lo recuperò se non dopo venticinque secondi dalla fine della stimolazione. Nel presentare la scoperta, Eduard Weber commentò che questa modalità d'azione di un nervo su un muscolo, quella cioè per cui "esso non produceva il movimento [del muscolo], ma impediva o inibiva del tutto il movimento che altrimenti avrebbe avuto luogo, è nuova e inattesa" (1846, pp. 42-48).
La scoperta dei Weber aprì, in effetti, la strada all'ipotesi che i nervi potessero agire come inibitori, oltre che come attivatori. L'azione dei nervi vaghi sul battito cardiaco era considerata, negli anni Sessanta, come la prima di una classe di funzioni inibitorie del riflesso. Questo esempio ispirò gli esperimenti eseguiti nel 1862 dal fisiologo russo Ivan Michajlovič Sečenov (1829-1905) per spiegare il fatto, messo in luce da Volkmann e da altri, che i movimenti riflessi nelle rane risultassero accresciuti dalla loro decapitazione. Benché Sečenov avesse effettuato questa ricerca nel laboratorio di Bernard, egli dedicò i risultati pubblicati a Ludwig, con cui aveva lavorato in precedenza. L'ipotesi studiata da Sečenov, secondo cui la volontà esercita un'"influenza inibitoria sui movimenti riflessi del midollo spinale", presupponeva "la presenza di un meccanismo inibitorio nel cervello". Egli decise di localizzare questo meccanismo dentro il cervello di rana, confrontando i tempi impiegati dall'anfibio per rispondere a uno stimolo riflesso standard quando il suo tronco cerebrale veniva tagliato in successione a quattro diversi livelli. Con questo metodo, e anche stimolando chimicamente ed elettricamente la terminazione tagliata del cervello, egli scoprì l'esistenza di un meccanismo inibitorio fra la regione dei lobi oculari e il midollo allungato. Benché in seguito tale scoperta fosse messa in dubbio, gli esperimenti di Sečenov spinsero tuttavia a ritenere che le funzioni riflesse del midollo spinale sono controllate da processi inibitori più elevati attivi nel sistema nervoso centrale. Egli stesso più tardi elaborò un'ampia costruzione teorica secondo cui tutti gli atti sia consci sia inconsci sono, nella loro struttura di fondo, riflessi.
Alla fine dell'Ottocento, la fisiologia come scienza sperimentale della vita aveva assunto una posizione dominante, ma contemporaneamente si trovò sul punto di perdere in parte l'egemonia che si era conquistata. La chimica fisiologica aveva raggiunto infatti un grado di specializzazione tale da alimentare un movimento per l'autonomia, che fu conseguita nell'arco di un altro trentennio nell'ambito disciplinare della biochimica. Lo studio dei fenomeni fondamentali della vita comuni a piante e animali su cui Bernard aveva sperato di costruire una physiologie générale diede invece origine alla biologia cellulare e alla biologia molecolare. La ricerca sperimentale sull'azione delle sostanze tossiche e delle droghe divenne dominio primario della farmacologia. È tipico della scienza che, proprio nel momento in cui un settore emerge nella sua pienezza come disciplina autonoma, esso comincia subito a frantumarsi in campi più specializzati. Tuttavia l'importanza acquisita dalla fisiologia ai fini dell'addestramento e della pratica medica le consentì, nel Novecento, di cedere parti del suo territorio alle nuove specializzazioni e di conservare ugualmente intatta l'identità che si era guadagnata durante il secolo delle sue più memorabili conquiste.
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