L'Ottocento: biologia. Dal Settecento all'Ottocento: la nascita della biologia come scienza autonoma
Dal Settecento all'Ottocento: la nascita della biologia come scienza autonoma
Negli anni fra Sette e Ottocento nasce la biologia come scienza autonoma, al termine di un lungo processo di erosione della "filosofia meccanica" (Robert Boyle), dovuto alla persistente difficoltà di comprendere i fenomeni vitali facendo riferimento alle leggi della fisica. Convinti che la Natura vivente richieda spiegazioni ad hoc, e che esse vadano sì ricercate ancora all'interno della tradizione materialistica, ma con un approccio diverso e più sofisticato di quello caratterizzante la filosofia meccanica, un numero crescente di filosofi, medici e naturalisti invocano una 'terza via' fra le soluzioni tradizionali (il meccanicismo e l'animismo), che se da una parte appare ormai necessario imboccare, dall'altra, però, si rivela ancora disagevole da percorrere.
Il processo di erosione della filosofia meccanica ha inizio intorno al 1740 quando, grazie all'uso del microscopio e al passaggio da finalità descrittive a procedure sperimentali, viene scoperta l'inesauribile varietà e l'irriducibile complessità della Natura vivente. Si accerta che questa è un dominio costellato di fenomeni 'strani', di vere e proprie 'eccezioni' alle leggi comunemente ammesse, e caratterizzato (anche al di là di quelle eccezioni) da proprietà ben più 'complicate' di quanto fino a quel momento supposto. Si scopre insomma 'un nuovo mondo' (Charles Bonnet, Felice Fontana), composto di fenomeni 'inverosimili': anomali e sorprendenti, meravigliosi e straordinari, stupefacenti e paradossali, 'imbarazzanti' perché (e ne fu la definizione più pregnante) 'troppo complicati'. Le pagine dei naturalisti si riempiono di questi aggettivi, che testimoniano una grande eccitazione come anche un profondo disagio. L'eccitazione è grande perché dopo la partenogenesi degli afidi (Bonnet 1745) e la capacità di rigenerazione del 'polipo d'acqua dolce' (Trembley 1744) vengono scoperti ‒ e in rapida successione ‒ numerosi altri fenomeni meccanicamente incomprensibili.
Albrecht von Haller (1708-1777) nel 1753 scopre la contrattilità muscolare, che chiama "irritabilità", e le leggi che la governano, dalle quali risulta presto evidente che si tratta di una forza propria della materia vivente, la quale, al contrario delle forze meccaniche, non si applica ai corpi ma ne proviene (sorprendentemente, anche dopo la morte), e quindi è ‒ come osservò Denis Diderot negli Éléments de physiologie ‒ "diversa da tutte le altre forze conosciute" poiché "non dipende né dal peso, né dall'attrazione, né dall'elasticità" (1778 [1964, pp. 24-25]). Il fenomeno palesemente viola il terzo principio della dinamica, poiché consiste in una reazione sproporzionata all'intensità dello stimolo. Per esempio, osserva a questo proposito Felice Fontana (1730-1805), "in alcuni animali il cuore si muove più velocemente, in altri meno, benché venga urtato dallo stesso stimolante, e per il medesimo tempo"; oppure, "gli spiriti animali ricevono maggior movimento, corrono con più di velocità e forza, e soffrono maggiori urti da una gocciola di acqua messa sopra di poche fibre del cuore, da poca quantità d'aria spinta contro di quel muscolo, da una leggerissima piuma applicata a pochissime fibre, che dalla forte puntura d'uno spillo, che penetra tutta la sostanza del cuore, e da più once di sangue venoso, che urta con forza e preme in tutti i punti a un tempo stesso i ventricoli del cuore e le orecchiette". Forse, si chiede Fontana, "la leggiera puntura d'un capello e il tatto d'una piuma è più forte d'una percossa?". Evidentemente no: la verità è, altrettanto evidentemente, che le "leggi dell'irritabilità muscolare" sono tali che "si può accrescer la causa eccitante, e non accrescer per questo il suo effetto", e quindi che "nelle cagioni eccitanti non si deve solo riguardare l'intensità dell'azione, ma la qualità, le circostanze, il luogo, il tempo, le quali cose possono variare l'effetto, e fino toglierlo del tutto" (Fontana 1775a, pp. 36, 83-85, 89-90). Significativo, a tale proposito, il commento di Erasmus Darwin (1731-1802) nelle Zoonomia, or The laws of organic life: "siccome abbiamo osservato […] che nella contrazione muscolare non apparisce esservi differenza quanto alla forza o alla velocità nel principio o nel fine, così è d'uopo conchiudere che la contrazione animale è diretta da leggi sue proprie e particolari, e non da quelle della meccanica, della chimica, del magnetismo, dell'elettricità" (Darwin 1794-96, I, p. 91).
Sconvolgente fu poi la scoperta del fenomeno per il quale gli animali 'resuscitano'. Il primo a richiamare l'attenzione sull'anabiosi era stato nel 1705 Antoni van Leeuwenhoek (1632-1723), che aveva scoperto l'esistenza e alcune proprietà dei rotiferi, organismi i quali, non casualmente, aprono la lunga rassegna fatta da Lazzaro Spallanzani (1729-1799) nello scritto dal titolo Osservazioni e sperienze intorno ad alcuni prodigiosi animali, che è in balìa dell'osservatore il farli tornare da morte a vita (1776).
Il rotifero morto può restare "disseccato tra mezzo all'arena per lunghissimo tempo" ("quasi due anni seguiti", secondo Leeuwenhoek) e "per farlo rinvenire, e risorgere non si richiede altro, che ribagnare l'arena". "Poco appresso ‒ osserva Spallanzani ‒ il corpo del Rotifero si allunga, spuntan le ruote e 'l tridente, si rianima il cuore, rinasce il moto per tutto l'animale, e già nuota nell'acqua, ed esercita le premiere vitali funzioni. […] Il tempo richiesto al risorgimento non ha limite preciso", informa il naturalista italiano, ma ciò che va sottolineato, e adeguatamente meditato, è il fatto ‒ straordinario ‒ che i rotiferi mostrano "d'esser tornati vivi, vivissimi, arcivivissimi" e perciò d'aver subito "una vera, e rigorosa resurrezione". Qualcuno potrebbe dubitarne, ammette Spallanzani, chiedendosi "se mai esser potesse, che ne' Rotiferi apparentemente morti covasse ancora una favilluzza di vita": anche a questo proposito mostra d'esser teorico fra i più accorti e sperimentatore dei più scrupolosi. Egli non si limita, infatti, a osservare che quando "le parti solide si contraggono, si sformano, le fluide svaporano affatto, e tutto il corpo dell'animale riducesi a un informe atomo di materia disseccata, e indurita, che forata da un ago si spezza in più particelle, alla maniera d'un sale", tanto che risulta difficile pensare "che [vi] rimanga un principio di senso, e di vita"; Spallanzani può anche concludere "che ne' Rotiferi fatti aridi e smunti rimane tolta per intiero la vita" avendoli esposti, fra l'altro, a prolungato congelamento, a permanenza nel vuoto, a esposizione alla canfora, a immersione in olio, aceto, inchiostro, acquavite. Dopo qualsiasi trattamento e qualsivoglia lasso di tempo il fenomeno si ripete, e ‒ circostanza non meno interessante ‒ si ripete anche nei rotiferi che "risorti sieno più d'una volta". Spallanzani interrompe, soddisfatto, gli esperimenti dopo aver ottenuto quindici 'resurrezioni' degli stessi corpi ed esprime sinteticamente, ma efficacemente, le conseguenze da trarre dal fenomeno: "un animale che dopo d'esser perito risorge, e che, dentro a certi limiti, tante volte risorge, quante a noi piaccia, è un fenomeno tanto inaudito, altrettanto a prima giunta inverisimile, e paradosso, che mette in moto, e sconvolge le idee più ricevute dell'animalità, che ne fa nascere delle nuove, e che diviene interessantissimo alle ricerche non meno dell'oculato naturalista, che alle speculazioni del profondo metafisico" (Spallanzani 1776b, pp. 181-182, 189-190, 196, 199-200, 223).
Un'altra specie reviviscente viene scoperta da René-Antoine Ferchault de Réaumur (1683-1757), che nelle Observations sur la végétation du Nostoc descrive il nostoc, un genere di alghe azzurre, come un essere composto di una sostanza "imbevuta d'acqua, che gli conferisce mollezza e trasparenza, l'aspetto di una gelatina", e, se privato dell'acqua ("e basta qualche ora di sole, o di vento"), "si piega, si raggrinzisce, perde sia la maggior parte del proprio volume, sia la trasparenza e il colore, […] e non sembra più altro che una foglia secca, malformata, d'un marrone nerastro, friabile". Ebbene, "non appena l'acqua torna a bagnarlo, il nostoch la beve più avidamente di una spugna, immediatamente si gonfia e in meno di un'ora riprende sia il volume, sia la trasparenza, sia il colore originari" (Réaumur 1724, pp. 122-123, 125).
Nel 1743 John Turberville Needham scopre poi l'analoga proprietà delle 'anguilline' del grano (Anguina tritici) 'cariato', ossia attaccato dal carbonchio, riferendo che "le si possono conservare completamente disseccate nel grano per quanto tempo si vuole", precisando di avervele tenute "oltre quattro anni, anche durante un'estate passata in Portogallo", e infine informando ‒ con malcelata eccitazione ‒ che "si può farle rivivere quante volte si vuole" (in Spallanzani 1769, I, p. 163). Il sorprendente fenomeno viene confermato, nel 1753 da Henry Baker (1698-1774), il quale, oltre che sui rotiferi, lavora su anguillule "come mummificate" riportandole in vita, a suo dire, dopo ventisette anni, e da Fontana, che ne riferisce una prima volta nel 1767 e una seconda nel 1775 nel Saggio di osservazioni sopra il falso Ergot, e Tremella informando che "quelle celebri Anguillette", "quei serpentelli erano sì disseccati sì ischeletriti che l'urto improvviso della stessa acqua gli rompeva, gli squarciava in brani e particelle, e che toccati anche leggermente con un'ago, o colla punta d'un capello si sfarinavano tutti, e si riducevano in polvere minutissima. In tale stato ‒ prosegue l'abate ‒ voi ben vedete che non eran vivi sicuramente quegli animali; eppure poca acqua in pochi minuti bastava per ritornarli in vita" (Fontana 1775b, pp. IV-VI). Un fenomeno davvero "maraviglioso e oscuro", su cui si sarebbe lungamente soffermato, in quello stesso 1775, anche Domenico Maurizio Roffredi (1711-1805).
Nel 1759 Michel Adanson (1727-1806) scopre la tremella, che, come afferma nel Mémoire sur un mouvement particulier découvert dans une plante appelée Tremella, "apparentemente muore, e scompare completamente, due volte l'anno, per le forti gelate invernali e per la grande calura estiva, e che tuttavia ricompare, in primavera e in autunno, più o meno nello stesso luogo" (Adanson 1767, p. 569). Il fenomeno è analizzato anche da Bonaventura Corti (1729-1813) e dallo stesso Fontana, fra gli altri, e nel 1778 Diderot elabora in proposito, nel contesto di una serrata critica della "filosofia meccanica", la fortunata tesi a effetto che si tratti di un vivente che "nasce e muore a discrezione" (Diderot 1778 [1964, p. 18]).
Nel 1773, infine, Spallanzani scopre i tardigradi e le 'anguilline delle tegole' (rispettivamente, un phylum e una specie di nematodi), che riconosce "nobilitati della facoltà del risorgere". "I fenomeni del morire, mancando l'acqua, e del risorgere, sostituendone della nuova, succedono nel Tardigrado al modo stesso che nel Rotifero", afferma il naturalista italiano, anche relativamente alla circostanza che, nel morire, esso "rimpicciolisce assaissimo, si secca affatto, e acquista forma globosa". Quanto alle "anguilline delle tegole" ("non molto dissomiglianti da quelle dell'aceto"), "un quarto d'ora al più basta per richiamarle in vita" ed è vero che sembrano meno vitali dei rotiferi: "morte che siano le Anguille la settima, o l'ottava volta, o al più la nona, per quanto rimangano in molle nell'acqua, non risorgon mai più. Dirò inoltre, che a ogni novello risorgere vanno sempre perdendo di loro vispezza, e agilità, di maniera che il loro risorgere nell'ultime volte è un semplice passaggio dall'immobilità a un lentissimo contorcimento di membra" (Spallanzani 1776b, pp. 225-228).
Come aveva ben compreso Fontana, tuttavia, anche una sola 'resurrezione' era sufficiente a squalificare tutti i 'romanzi' dei filosofi meccanicisti, a 'rovinare' l'intera metafisica dominante e a dischiudere "un nuovo Mondo":
Un animale, che muore, e che rivive, apre un nuovo Mondo d'inaudite verità al pensatore, che sole distruggono le fatiche o i sogni di tanti scrittori detti Filosofi, i quali ci hanno dato delle intiere Librerie di Romanzi credendo di darci delle sode e profonde verità: ed ecco come due punti di materia appena visibili al Microscopio in mano dell'osservatore bastano per rovinare i più sottili e laboriosi sistemi fatti da Scrittori, che abbiamo fin ora chiamati metafisici. (Fontana 1775b, pp. XXV-XXVI)
Non si trattava, esplicitamente, di un 'manifesto' contro la 'filosofia meccanica', ma era una presa di posizione tanto dura quanto inequivocabile, con la quale si sollecitava l'accantonamento di tutta la letteratura esistente giacché, con il dischiudersi di "un nuovo Mondo d'inaudite verità", s'era percepita l'assoluta infondatezza della metafisica tradizionale. Le scoperte qui ricordate furono dunque molto importanti, da un punto di vista generale, poiché testimoniavano che "la Natura va più lontano delle nostre chimere", come si cominciò a pensare nella stessa Académie Royale des Sciences, e quindi imponevano che si precisassero 'nuovi orientamenti' non solo a proposito delle grandi questioni direttamente coinvolte (la riproduzione, la rigenerazione, la ripresa della vita dopo la morte) ma 'fors'anche [di] materie ancor più elevate'. Furono scoperte decisive, poiché rivelarono ‒ come ebbe a esprimersi Jean-Claude de La Métherie nei Principes de la philosophie naturelle ‒ che il vivente è "una macchina che confonde tutte le nostre idee di meccanica" (1787, II, p. 292).
Riserve sull'effettiva possibilità di applicare la 'filosofia meccanica' ai fenomeni vitali erano state espresse già precedentemente alle scoperte qui ricordate e studiosi di varia formazione avevano, in qualche caso, già denunciato un vero e proprio fallimento del meccanicismo biologico. Così, per esempio, in La méchanique des animaux, del 1680, Claude Perrault (1613-1688) che si era opposto alle "credenze della nuova Setta […] i cui adepti pensano che per mezzo della Meccanica si possa conoscere e spiegare tutto ciò che appartiene agli Animali", aveva espresso la convinzione che "nella formazione degli Animali vi sia qualcosa che non può essere spiegato con ciò che conosciamo delle proprietà delle cose corporee" (Perrault 1721, I, pp. 330-331), e si era spinto fino a mettere in dubbio anche la 'buonafede' dei meccanicisti. Nel 1729 Louis Bourguet (1678-1742) aveva sostenuto nelle Lettres philosophiques sur la formation des sels et des crystaux che i viventi presentano fenomeni "che mai possiamo spiegare con la pura meccanica": ossia che "le mirabili Leggi della Fisica Meccanica […] non hanno niente a che fare con le Meraviglie del Meccanismo Organico", perché "è assolutamente impossibile spiegare quest'ultimo Stato con una qualsivoglia Regola di Meccanica" (Bourguet 1729, pp. 72, 105, 142-143).
Fu intorno al 1750 che la reazione al meccanicismo biologico si fece più forte, empiricamente meglio documentata ed epistemologicamente più consapevole, testimoniando la necessità di un nuovo orientamento teorico e portando alla redazione di perentori 'manifesti' antimeccanicistici. Georges-Louis Leclerc de Buffon (1707-1788) per primo pose la questione nei termini più significativi e pregnanti: quel che si è scoperto è l'irriducibile 'complessità' dei viventi, che ‒ dichiarò l'autore dell'Histoire naturelle ‒ sono appunto "troppo complicati" per essere meccanicamente risolti. Il principio secondo cui "bisogna render conto di tutto con le leggi della meccanica" e l'assunzione che "siano buone spiegazioni soltanto quelle che possono esserne dedotte" sono profondamente sbagliati, afferma nell'Histoire (générale) des animaux (1749); moltissimi fenomeni vitali non rientrano sotto le leggi meccaniche ("per un fatto che può esservi ricondotto, ve ne sono mille che non ne dipendono affatto") e pertanto i meccanicisti, ossia "coloro che hanno posto come fondamento della propria filosofia la regola di ammettere soltanto un certo numero di principî meccanici e di respingere tutto ciò che non dipende da questo piccolo numero di principî immeschiniscono la filosofia" (Buffon 1749b, pp. 50-51). Analogamente Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759) sostenne che "i corpi degli animali e dei vegetali sono macchine troppo complicate" per essere comprese meccanicamente e, nella Dissertatio inauguralis methaphysica de universali naturae systemate, espresse la convinzione che "mai si comprenderà la formazione di un corpo organizzato con le sole proprietà fisiche della materia": l'estensione e il movimento "hanno sì chiarito assai felicemente certi fenomeni, ma non sono capaci di interpretarne parecchi altri. […] Neppure le più semplici operazioni della Chimica possono essere spiegate con quell'attrazione, che pur rende conto in modo tanto soddisfacente dei movimenti delle sfere celesti" (Maupertuis 1751, pp. 140-141, 155-156).
In effetti anche i chimici avevano da tempo manifestato, e manifestavano in questi anni con rinnovato vigore, perplessità sul vecchio programma meccanicistico impostato da Boyle. Si pensi a Étienne Geoffroy Saint-Hilaire, a Guillaume-François Rouelle o a Gabriel-François Venel (1723-1775), il quale perorava, sulle pagine dell'Encyclopédie, la causa dell'emancipazione della chimica insistendo sul fatto che essa ha un oggetto specifico, nella cui analisi la fisica si smarrisce. Egli precisava che "non è per spirito di contraddizione o per amor di provocazione che i Chimici non ammettono principî meccanici, ma perché nessun principio meccanico noto interviene nelle loro operazioni" (Venel 1753, pp. 414-416), e andava oltre, invadendo un campo non suo, fino a teorizzare che ciò valeva anche per i fenomeni vitali, i quali "devono essere oggetto di una scienza assolutamente distinta da tutte le altre parti della Fisica" (ibidem, p. 410).
Furono però ovviamente gli studiosi dei corpi viventi e i medici a esprimere certe convinzioni con la massima decisione. Pur continuando a parlarne come di una 'macchina', Haller sostenne che "vi sono molte cose nella macchina animale che sono del tutto estranee alle comuni leggi della meccanica" (Haller 1757-66, I, pp. V-VI). Nella voce Méchanicien dell'Encyclopédie Jean-Jacques Ménuret de Chambeau (1733-1815) osservò che il principio regolatore delle funzioni organiche "sembra non aver niente in comune con quello dei moti che si osservano nelle macchine", concludendo che pertanto "non si può evitare di cadere nel ridicolo, quando si vogliono trattare con mentalità geometrica fenomeni che le sono refrattari" poiché "troppo complicati per poter essere oggetto di calcolo" (1763, pp. 221-222); due anni dopo, nella voce Observation, egli affermò che i meccanicisti avevano introdotto in medicina, oltre che il "furore delle ipotesi [...] il gusto sterile per le esperienze votate al fallimento" (1765, p. 316).
Charles Bonnet aprì le Considérations sur les corps organisés osservando che ormai "la Filosofia [ha] compreso l'impossibilità di spiegare meccanicamente la formazione degli Esseri organici", sostenne che "per quanti sforzi facessimo di spiegare meccanicamente la Formazione del più semplice degli Organi non ne verremmo a capo", assicurò che "la Nutrizione, lo Sviluppo e la Formazione di un nuovo organismo sono l'effetto di una Forza ignota, […] che non ha niente in comune con le Forze meccaniche" (Bonnet 1762, I, pp. 1, 14-15, 92), e nella Contemplation de la nature concluse seccamente che "quando la Fisica ha tentato di spiegare meccanicamente la formazione dei corpi viventi si è persa nella notte delle congetture" (Bonnet 1764, I, p. 154).
Paul-Joseph Barthez (1734-1806) ammonì che "non si deve concepire il sistema delle forze del Principio Vitale come si concepiscono i sistemi di forze meccaniche", poiché "è un errore che ne produce un'infinità di altri" (Barthez 1778 [1806, II, p. 163]). Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840) affermò l'esistenza di una "forza vitale", un "impulso di formazione o generazione (nisus formativus), che si differenzia da tutte le forze di formazione puramente meccaniche", e rilevò che l'idea stessa di corpo vivente "porta con sé necessariamente quella d'un fine, d'uno scopo" e perciò "distrugge completamente tutte le spiegazioni puramente meccaniche" (Blumenbach 1779-80, I, p. 17). Théophile de Bordeu (1722-1776), dopo aver sostenuto che "v'è troppa distanza fra le leggi della chimica e della meccanica e quelle della Natura" perché quest'ultima possa essere meccanicamente compresa in quanto essa "è più profonda del più sublime matematico, fisico o chimico" (Bordeu 1755, pp. 831-832), nelle Recherches sur l'histoire de la médecine definì "fisici leggeri" quei "copisti e commentatori dei vari Hecquet, Baglivi e via dicendo, che hanno tanto parlato di molle, di elasticità, di battiti, di fibrille", come se questi potessero esaurire la complessità dei viventi, e li irrise paragonandoli a bambini che si trastullano in giochetti: "questi fisici leggeri sono tanto lontani dai veri principî dell'osservazione […] quanto quei bambini che si trastullano con pezzi di carta per costruire i loro castellucci sono lontani dalle regole dell'architettura" (Bordeu 1782, p. 670).
Diderot poi, che non per caso coinvolse molti vitalisti della Scuola di Montpellier nell'impresa dell'Encyclopédie, fu durissimo: il meccanicista sostiene "un'infinità di sciocchezze", e quando "tralascia la sensibilità, l'irritabilità, la vita, la spontaneità, non sa quel che fa" (Diderot 1778 [1964, pp. 20-21]).
Questo movimento di idee trova la sua espressione più alta nelle pagine di Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829), dove si prende atto dell'irreversibile sclerosi della 'filosofia meccanica' e si imposta una nuova scienza della vita: della filosofia meccanica si sostiene non solo che risulta impotente nella comprensione dei fenomeni vitali, ma anche che è ormai divenuta nociva poiché impedisce lo sviluppo delle conoscenze naturalistiche; della scienza della vita si afferma invece non soltanto che deve prendere le distanze dalla storia naturale (tradizionalmente debitrice delle scienze fisiche), ma pure che deve completamente rifondarsi. Nasce così la biologia, come disciplina che non intende più costituire un'appendice, un sottoprodotto, una particolare applicazione di altre forme di conoscenza ma, sottraendosi a quella che Venel chiamava "la sovranità della Fisica" (Venel 1753, p. 409), vuole ritagliarsi un proprio campo d'indagine specifico, autonomo, servendosi di concetti, leggi e principî diversi e alternativi rispetto a quelli tradizionali.
Negli anni, cruciali, fra Sette e Ottocento si erano infittite le prese di posizione contrarie alla vecchia filosofia meccanica e invece favorevoli all'impostazione di una nuova scienza della vita. Erasmus Darwin affermava che coloro che si sono impegnati "nel voler spiegare le leggi della vita per mezzo di quelle della meccanica" senza dubbio "hanno speso inutilmente ingegno e tempo". Il medico inglese sosteneva che i "movimenti primarii della materia" sono di tre tipi qualitativamente diversi ("gli uni appartenenti alla gravitazione, gli altri alla chimica, gli altri alla vita") e teorizzava che ciascuno avesse "leggi sue proprie e particolari" (Darwin 1794-96, I, pp. XXXIII, 2). Marie-François-Xavier Bichat (1771-1802) sosteneva che "la scienza dei corpi viventi deve essere trattata in un modo completamente diverso da quello in cui sono trattate le scienze dei corpi inorganici" e che "bisognerebbe, per così dire, impiegarvi un linguaggio diverso; poiché la maggior parte delle parole che trasferiamo dalle scienze fisiche a quelle dell'economia animale o vegetale richiamano idee che non si accordano minimamente con i fenomeni di questa scienza". "La fisica, la chimica, ecc. si toccano perché le stesse leggi presiedono ai loro fenomeni; ma un intervallo immenso le separa dalla scienza dei corpi organici, perché v'è una differenza enorme fra quelle leggi e le leggi della vita" (Bichat 1800a, pp. 83-84). I corpi viventi, confermava Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808) nei Rapports du physique et du moral de l'homme, sono provvisti di "forze esclusivamente proprie", le quali fanno sì che applicazioni "precipitose" di teorie "puramente meccaniche" conducano a risultati "vaghi, incerti, insufficienti, opposti fra loro e perfino contrari ai fatti" (1802, I, p. 200; II, p. 257).
Tuttavia, la denuncia dell'insufficienza delle ricerche tradizionali non poteva più bastare. Il fallimento della filosofia meccanica era evidente, ma limitarsi a continuare a riaffermarlo finiva ‒ proprio perché era stato dichiarato da tempo ‒ con il dimostrare che si era impotenti a individuare una via d'uscita. La scienza della vita andava trattata quindi in un modo 'completamente diverso' per spiegare come poteva esservi una 'differenza enorme' fra le leggi dei corpi bruti e quelle dei corpi viventi, essendo essi tutti composti della stessa materia e quali erano le forze 'esclusivamente proprie' dei corpi viventi.
Lamarck non si limita a riaffermare, per esempio, che "le materie brute […] sono rette da leggi […] molto diverse da quelle cui sono soggetti i corpi viventi" (Lamarck 1800b, p. 461), ovvero che il vivente ha un "modo d'essere" e gode di proprietà affatto particolari, poiché possiede caratteristiche "esclusivamente proprie" (1809, I, p. 382) che "lo distinguono essenzialmente" (1810-14, p. 122) dai corpi bruti, ma finalmente risponde a quegli interrogativi, muovendo dalla ridefinizione del concetto di vita e dall'impostazione di una nuova forma di materialismo. Già nel 1778, nella Flore françoise, egli aveva concepito la vita semplicemente come l'espletamento di determinate funzioni, più o meno complesse a seconda della maggiore o minore complessità dell'organizzazione corporea. In questo modo, considerando la vita come un epifenomeno ‒ un'emergenza, si direbbe oggi ‒ della struttura materiale, Lamarck liberava la nuova scienza dei viventi da ogni ipotesi animistica e la liberava anche da quella particolare forma di animismo 'laico' che consisteva nel pensare, in modo tautologico, che i viventi fossero quei corpi i quali possiedono non già l'anima della tradizione bensì un (altrettanto impalpabile) 'principio vitale' o una (altrettanto inverificabile) vis essentialis.
Per essere materialisti senza ricadere nella filosofia meccanica era diventato necessario puntare a una 'terza via' fra animismo e meccanicismo, perché da un lato gli oggetti di studio della nuova scienza dei viventi erano fenomeni materiali, dall'altro, però, essa non poteva ridursi a una meccanica di quei fenomeni. Sfuggendo all'eredità della tradizione, che come unica forma di materialismo indicava appunto la filosofia meccanica, Lamarck ricorre a fermenti diffusi nella tradizione vitalistica, che gli consentono di respingere il meccanicismo senza dover rinunciare all'impostazione materialistica della ricerca, poiché gli permettono di esprimere, in modo finalmente documentato dal punto di vista empirico, convinzioni che oggi definiremmo 'olistiche', grazie alla più coerente e piena utilizzazione del concetto di organizzazione, che da nozione anatomo-fisiologica diviene strumento euristico. Combinandosi, egli teorizza, la materia acquista nuove proprietà: "ogni materia composta può variare all'infinito nel suo stato di combinazione e nelle proporzioni dei suoi elementi […]. Dopo ogni modificazione, grande o piccola, quella materia avrà, necessariamente, proprietà particolari relative al suo nuovo stato" (Lamarck 1801b, p. 93; 1802, p. 71). Fra quelle proprietà vi sono anche le funzioni vitali: la vita 'emerge' dalla materia senza l'intervento di alcun principio estraneo alla materia stessa, poiché è semplicemente la conseguenza di una sua particolare disposizione; essa è "un prodotto dell'organizzazione", vale a dire nient'altro che "un modo o un ordine di cose" che consentono l'espletamento di funzioni organiche. Né Lamarck si riferisce alle sole funzioni elementari: egli si spinge fino a sostenere che anche quelle superiori, "le idee, il pensiero, la stessa immaginazione non sono altro che fenomeni naturali, e quindi effetti dell'organizzazione" (Lamarck 1809, II, p. 175)
Tale soluzione era molto diversa da quella di coloro che pur avevano denunciato il fallimento del meccanicismo biologico. Buffon, per esempio, aveva preferito supporre che esistessero due tipi di particelle elementari (le une "brute" e inerti, le altre "organiche" e attive), e quindi che la vita dipendesse dall'aggregazione di materia già di per sé vivente. Maupertuis aveva invece pensato che esistesse un solo tipo di materia elementare, ma non aveva affatto concepito la vita come un fenomeno da essa emergente; l'aveva considerata invece una proprietà in essa già insita, poiché si era rifiutato di pensare che esistessero atomi di materia assolutamente 'bruta' e aveva attribuito a tutte le particelle perfino "un qualche principio di intelligenza, qualcosa di simile a ciò che chiamiamo desiderio, avversione, memoria" (Maupertuis 1751, p. 147). Seppure per vie diverse (il primo per quella di un dualismo materiale, il secondo per la via di un monismo panpsichistico), entrambi negavano esplicitamente che la vita e le sue manifestazioni potessero esser considerate un risultato dell'organizzazione. Buffon affermava con sicurezza, per esempio, che "la materia da sola, per quanto perfettamente organizzata, non può produrre né il pensiero né la parola, che ne è il segno" (Buffon 1766, p. 61), e Maupertuis si chiedeva retoricamente: "se dicessimo che è l'organizzazione a causare le differenze, vorremmo forse dire che l'organizzazione, che non è altro che una combinazione di parti, potrebbe mai far nascere un pensiero?" (Maupertuis 1751, p. 149).
Così l'organizzazione veniva derubricata a semplice 'combinazione' di parti, e si escludeva recisamente che quest'ultima potesse far emergere proprietà di cui le particelle elementari non fossero già provviste. Diderot lo affermava nel modo più netto ("la vita non può essere il risultato dell'organizzazione"), così argomentando: "immaginate le tre molecole A, B e C: se sono senza vita nella combinazione A, B, C, perché mai dovrebbero cominciare a vivere nella combinazione B, C, A o C, A, B?" (Diderot 1765, p. 10). Bonnet, inoltre, che era stato fra i più severi critici della filosofia meccanica, di lì a poco, in una lettera a Needham del 1766, avrebbe rivelato che v'erano anche precise ragioni ideologiche per respingere la tesi dell'organizzazione. Se fosse stata considerata sufficiente a produrre la vita, una modificazione dell'organizzazione avrebbe potuto essere considerata sufficiente a produrre la sensazione e, chissà, anche il pensiero: ora, "chi ammette che le sensazioni degli Animali non sono altro che modificazioni dell'organizzazione si espone a terribili conseguenze" sul piano teologico, poiché potrebbe essere accusato di negare l'esistenza dell'anima (Bonnet 1986, p. 243).
Nella tradizione vitalistica s'erano tuttavia diffusi fermenti che, adeguatamente sviluppati, avrebbero consentito, a chi non si faceva scrupolo delle implicazioni ideologiche, di imboccare proprio la via della 'organizzazione'. Needham, per esempio, dopo aver verificato nei suoi esperimenti sulla generazione spontanea le trasformazioni di materia e proprietà, aveva assicurato nelle Nouvelles observations microscopiques che "i principî sono originariamente gli stessi" e che "quel che cambia è solo la loro combinazione": egli aveva infatti stabilito che "ogni composto fisico è una combinazione di agenti semplici di natura diversa e anche opposta" a quella del composto, e quindi aveva ammesso che la vita "può essere il risultato della sola strutturazione" di quegli agenti, "una conseguenza immediata della semplice organizzazione" (1750, pp. 274, 335, 375). In questa stessa prospettiva Stefano Gallini (1756-1836), che aveva studiato anche a Parigi e Montpellier, pubblicò il Saggio d'osservazioni concernenti i nuovi progressi della fisica del corpo umano in cui venivano criticati tanto l'abuso dei modelli meccanici quanto l'utilizzazione di quelli chimici, in favore di un'emancipazione della biologia da entrambi, sulla base della considerazione che dall'aggregazione di più elementi "risultano dei misti che non hanno nulla che fare con li componenti" (1792, p. XVIII). Qualche anno più tardi, nell'Introduzione alla fisica del corpo umano sano ed ammalato ipotizzò che la "forza propria delle parti organiche" potesse "dipendere dal particolare modo con cui sono tra loro coerenti le molecole componenti le fibre o la tessitura di queste parti" (Gallini 1802, p. 64).
Giacomo Tommasini (1768-1846), un grande estimatore di Gallini, combatté la sua battaglia antiriduzionistica (nel vivente si trovano "delle proprietà e delle leggi tutte sue che sfuggono il confronto e l'influenza della meccanica, dell'idraulica e della chimica") chiedendosi retoricamente: la vita "è dessa propriamente una materia, un principio nascosto entro il tessuto di quelle fibre animali che noi arriviamo a scomporre; o è piuttosto una maniera d'esistere della stessa materia animale, dipendente dalla di lei specifica organizzazione?" A suo giudizio non v'era dubbio che la vita è semplicemente quest'epifenomeno, ossia che le sue proprietà sono "qualità di struttura" che "dipendono dall'insieme di tutti i componenti e di tutti i materiali". Non v'è infatti alcuna difficoltà ‒ egli sostenne ‒ a pensare che i componenti siano di natura fisico-chimica e l'insieme risulti irriducibilmente biologico: "i materiali di un corpo organico sciolti da que' rapporti e da que' legami […] che costituiscono l'organizzazione rimangono sicuramente coi soli caratteri della materia […]. Ma quei materiali in quanto disposti e coordinati a far parte di un essere organizzato non ponno più riconoscersi per quelli di prima: subentra alla semplice apposizione o aggregazione ciò che chiamasi composto o impasto organico, e le molecole della materia morta ammesse a far parte di questo composto o di questo tutto organizzato acquistano delle proprietà di relazione che le mantengono l'una all'altra soggette" (Tommasini 1802, pp. 53-54, 61-62, 83-84).
Così, a partire dalla prolusione del corso di zoologia degli invertebrati svolto al Muséum d'Histoire Naturelle nel 1800, Lamarck può stabilire, e finalmente imporre all'attenzione della comunità scientifica, che "in natura non v'è alcuna materia che abbia 'in proprio' la facoltà di vivere" (Lamarck 1800b, p. 461) e che quest'ultima proviene in realtà dalla particolare "aggregazione" delle particelle elementari. L'aggregazione determina, nel composto, l'emergenza di proprietà nuove che scaturiscono proprio (oggi si chiamerebbero 'proprietà di sistema', dovute all''effetto di posizione' dei componenti elementari) dalla loro particolare integrazione.
Tutti i corpi materiali […] sono dotati, ciascuno, di proprietà e di facoltà proprie; ma a seguito dei moti che vi avvengono sono soggetti a varie relazioni e modificazioni del loro stato e della loro condizione; […] quindi a subire cambiamenti infinitamente diversificati, come disunioni complete o parziali dalle altre componenti, separazioni dai precedenti aggregati, ecc.: così quei corpi acquisiscono altre proprietà e altre facoltà, dipendenti dallo stato in cui ciascuno di essi si trova. (Lamarck 1809, I, p. 360)
Per Lamarck (che può evitare sia di assumere che esistano atomi viventi sia di postulare che tutta la materia sia organica e quindi può così tornare al concetto fisico di particella), la vita può 'emergere' dalla materia senza l'intervento di alcun principio estraneo alla materia stessa e la biologia può di conseguenza 'emergere' dalla fisica senza rischiare di configurarsi come una metafisica.
Il neologismo 'biologi' compare già nel 1736, all'interno dei Fundamenta botanica di Linneo (Carl von Linné, 1707-1778), ma per errore: come sarebbe emerso nella Philosophia botanica, il naturalista svedese intendeva che i 'biologi' fossero coloro che "Panegyrica plerumque exclamarunt" (Linneo 1751, p. 17) e quindi pensava in realtà ai 'biografi'. Se si prescinde da questa falsa partenza, il termine 'biologia' viene introdotto quasi contemporaneamente, fra il 1797 e il 1802, da Theodor Georg August Roose (1771-1803), Karl Friedrich Burdach (1776-1847), Lamarck e Gottfried Reinhold Treviranus (1776-1837). Sotto questa nuova etichetta si riscontravano tuttavia, perlopiù, ancora vecchi approcci, o approcci non integrati, poiché si trovava semplicemente 'fisiologia' in Roose e Burdach, e 'sistematica' in Treviranus. Del resto, ancora Auguste Comte (1798-1857), cui si deve la consacrazione dell'esistenza della biologia nel panorama delle scienze 'positive', avrebbe avuto una visione certamente più ampia della disciplina ‒ come insieme di "biotomia, bionomia e biotaxia" (Comte 1838 [1975, pp. 743-744]), ovvero di anatomia, fisiologia e sistematica ‒ ma ancora insufficientemente integrata. Infatti, quando nelle Considérations philosophiques sur l'ensemble de la science biologique egli passa a caratterizzare la scienza della vita, la definisce semplicemente come l'insieme di anatomia e fisiologia: la novità del suo concetto di biologia, come sostiene il filosofo francese stesso consiste nel fatto che al contrario degli altri egli mirava a collegare sempre, e sempre strettamente, "il punto di vista anatomico e il punto di vista fisiologico" (ibidem, p. 683). Dunque, dalla sua definizione di biologia scompaiono la sistematica, come anche un dominio di cui egli sembrava aver compreso appieno l'importanza ‒ lo studio "dell'ambiente organico e della sua azione sull'organismo" (ibidem, p. 685). Insieme con la sistematica scompaiono anche l'ecologia e l'etologia.
Lamarck sembra invece realizzare un approccio pienamente integrato ai possibili oggetti della biologia, poiché fa opera non soltanto di anatomia e di fisiologia ma anche di sistematica e di eco-etologia (evoluzionistica). Infatti è la sistematica (la radiografia dei 'rapporti', ovvero l'intensità delle 'somiglianze' morfo-funzionali) a suggerirgli l'evoluzione ("i rapporti indicano una sorta di parentela") ed è eco-etologica la teoria evoluzionistica lamarckiana; per il naturalista francese, è l'ambiente il 'motore' dell'evoluzione e il processo evoluzionistico passa necessariamente attraverso i comportamenti (le 'abitudini', i 'modi d'essere', le 'forme di vita'). Si tratta di un grande mutamento di visuale, sia per l'originalità e il carattere dirompente dell'ipotesi interpretativa, sia per l'allargamento della prospettiva che, invece di essere mirata come nei suoi contemporanei, si fa complessiva. Lo testimonia la definizione lamarckiana di 'biologia', particolarmente pregnante in uno scritto dal titolo Biologie, ou Considérations sur la nature, les facultés, les développemens et l'origine des corps vivans, del 1800, nel quale il naturalista francese caratterizza la scienza della vita in un modo che probabilmente si potrebbe, mutatis mutandis, sottoscrivere ancora oggi: la biologia è "un insieme di considerazioni sulla natura, le facoltà, gli sviluppi e l'origine dei corpi viventi" (Lamarck 1800a, p. 269). Per 'natura' Lamarck intendendo l'anatomia, con i suoi correlati tassonomici, per 'facoltà' la fisiologia, per 'sviluppi' l'ontogenesi e per 'origine' la filogenesi, con i suoi correlati ecologici ed etologici.
Questa definizione segna il passaggio non soltanto dalla storia naturale alla biologia, cioè da un insieme di discipline scollegate ed essenzialmente descrittive a una scienza unitaria delle forme viventi, che aspira a essere anche esplicativa della realtà di quelle forme, ma pure dalla storia naturale alla storia della Natura, cioè a una biologia evoluzionistica. Lamarck può essere considerato, in altri termini, come colui che definisce modernamente la biologia e che, nello stesso tempo, le fornisce anche la prima, grande ipotesi di lavoro: una teoria della 'trasformazione' delle specie. Appare dunque azzardato anticipare la nascita della biologia all'epoca della grande Rivoluzione scientifica o addirittura all'Antichità (sono state, in letteratura, avanzate a questo proposito le candidature di Redi, Harvey, Vesalio, Aristotele, Ippocrate) e, d'altra parte, risulterebbe ingeneroso posticiparla all'Ottocento inoltrato (com'è stato fatto legandola ai nomi di Hunter, Darwin o Schultze). Se infatti è vero che sarebbe stato solo Michele Foderà (1792-1848) nel 1826 a scrivere il primo, organico Discours sur la biologie, che solo Comte nel 1838 sarebbe riuscito a consacrare l'esistenza della scienza della vita nel panorama delle scienze 'positive' e che molto tempo sarebbe ancora passato prima che le università contemplassero uno specifico curriculum di studi naturalistico-biologici, è vero pure che il lungo periodo di gestazione della biologia, cominciato intorno al 1740, pare concludersi ‒ dal punto di vista epistemologico, se non da quello istituzionale ‒ con le scelte di Lamarck.
Corre tuttavia l'obbligo di ricordare che l'immagine lamarckiana della biologia, che pure tanto dirompente era nei confronti della tradizione e tanto proiettata verso il futuro (nelle Recherches sur l'organisation des corps vivans, del 1802, già si teorizza, per es., l'origine scimmiesca dell'uomo), aveva gravi limiti. Il primo di questi consiste nel fatto che Lamarck lancia la biologia non solo non incoraggiando la specializzazione biologica ma al contrario censurandone qualsiasi tentativo, il che si spiega considerando la natura del suo obiettivo (fare della biologia una scienza autonoma, finalmente sottraendola alla "sovranità della fisica") e la quantità di ostacoli frapposti al raggiungimento di quell'obiettivo. Si consideri, a questo proposito, che l'influente Cuvier era ancora favorevole a soluzioni riduzionistiche di tipo meccanicistico e ancora considerava le scienze della vita come un semplice prolungamento, una mera appendice di quelle fisiche. Per emancipare la biologia dalla fisica Lamarck aveva bisogno non di frammentare ma di unificare il campo biologico, dunque di sottolineare non le differenze che passano fra i vari domini vitali ma quelle esistenti fra la biologia nel suo complesso e l'area delle scienze fisiche, ciò che egli fece, in primo luogo valorizzando la scoperta della complessità biologica, ossia di fenomeni come la partenogenesi, la rigenerazione di parti amputate, la contrattilità muscolare e l'anabiosi, su cui si erano soffermati ‒ fra gli altri ‒ Bonnet, Trembley, Needham, Haller e Spallanzani; in secondo luogo teorizzando che tali fenomeni non sono comprensibili meccanicamente ma richiedono una spiegazione ad hoc, poiché risultano 'paradossali' alla luce della meccanica, le cui leggi non osservano o addirittura violano. In terzo luogo puntualmente elencando le proprietà che differenziano l'organico dall'inorganico, separati da "una distanza infinita" (Lamarck 1795, p. 49), "uno iato immenso" (Lamarck 1800b, p. 461); poi senz'altro glissando invece sulle proprietà che differenziano i fenomeni vitali tra di loro, e infine puntualmente elencando, al contrario, le proprietà che accomunano i corpi viventi. Lamarck sostiene infatti che, per quante differenze esistano fra gli uni e gli altri, gli organismi hanno tutti un modo d'essere comune: dunque concepisce la biologia come un corpus unitario e sollecita la formazione di un biologo generalista.
Il secondo grave limite dell'immagine lamarckiana della biologia, connesso con il primo, risiede nel particolare approccio realizzato dal naturalista francese ai fenomeni vitali, che è ancora quello buffoniano del 'colpo d'occhio' sul dominio biologico: quello della 'visione d'insieme' che non può coglierne i 'particolari', i 'piccoli dettagli', e rinuncia volentieri alla precisione e all'esattezza dell'osservazione ravvicinata. Questo era stato teorizzato già nel 1748 da Julien Offray de La Mettrie (1709-1751), in L'homme plante, con parole durissime contro gli osservatori dei "piccoli dettagli" ‒ che definiva sprezzantemente "manovali della filosofia" e che palesemente considerava stupidi 'manovali':
Si diverta pure, chi ne ha voglia, ad annoiarci con tutte le meraviglie della Natura; trascorra pure la propria vita l'uno a osservare gli insetti e l'altro a contare gli ossicini della membrana dell'udito di certi pesci, oppure ‒ volendo ‒ a misurare a quale distanza può saltare una pulce, per non parlare di altre questioni altrettanto meschine. Io […] amo vedere la Natura da lontano, in grande, in generale, e non in particolare o nei piccoli dettagli: che entro certi limiti sono necessari in tutte le scienze, ma generalmente testimoniano del poco ingegno di coloro che vi si dedicano. (La Mettrie 1748 [1974, pp. 253-254])
Anche Buffon, il grande maestro di Lamarck, nel 1749 si era dichiarato convinto del fatto che "le piccole cose non meritano la grande attenzione che è stata loro prestata in questi ultimi tempi" e aveva teorizzato l'opportunità del "colpo d'occhio", la necessità della "visione d'insieme", censurando ‒ per esempio ‒ la riforma linneana delle classificazioni con sarcasmo e malcelata stizza: "poiché i caratteri delle classi vengono [da Linneo] ricavati da parti infinitamente piccole, bisogna andare nei boschi col microscopio, per riconoscere un albero o una pianta; la grandezza, la forma, la struttura, le foglie, tutte le parti visibili non servono più a niente. Esistono solo gli stami: e se non si possono vedere gli stami non si sa niente, non si è visto niente" (Buffon 1749a [1985, pp. 42, 44, 55, 75]). Da queste parole trapela chiaramente lo sconcerto del naturalista che era stato educato all'approccio globale e che improvvisamente vedeva emergere, e affermarsi, il suo contrario, la filosofia delle 'piccole cose', contro la quale si erano scagliati anche Maupertuis ("per fare della Storia naturale una vera Scienza, bisognerebbe che ci si applicasse a ricerche che ci facessero conoscere non la figura particolare di questo o quell'animale, ma i processi generali della Natura", 1752, p. 418), e de La Métherie ("è solo considerando l'insieme delle opere naturali che si può sperare di scorgerne il meccanismo", 1780, p. V). Imboccata questa via, i buffoniani non si limitarono, pertanto, a sottolineare l'importanza del colpo d'occhio ma giunsero a considerare l'osservazione ravvicinata, l'analisi dei dettagli, come "un lusso inutile". È il caso di Julien-Joseph Virey (1775-1847), il quale nel 1803 sostenne che "sicuramente non è esaminando una miriade di piccoli dettagli che si fa progredire la storia naturale: al contrario, quei dettagli la sovraccaricano di un lusso inutile. Quanto sono più degne di essere osservate le grandi leggi dell'Universo!" (Virey 1803, p. 364).
Anche Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) abbracciò la filosofia buffoniana, affermando che "conosceremmo molte cose assai meglio, se non volessimo conoscerle troppo esattamente" (Goethe 1907 [1983, p. 125]); e già Diderot si era fatto beffe dei 'manovali' elogiando l'opera degli 'architetti', i primi dovendo limitarsi a essere diligenti, i secondi potendo aspirare a lampi di genio. Il direttore dell'Encyclopédie osservò ironicamente che "fra i manovali di esperienze ve ne sono alcuni davvero sfortunati: uno spende tutta la vita a osservare insetti senza riuscir a vedere niente di nuovo, e magari un altro getta su di essi, di sfuggita, uno sguardo, e scopre il polipo, o il gorgoglione ermafrodito" (Diderot 1754, cap. XVI). Diderot si riferiva ai più 'fortunati' (dell'entomologo Réaumur) Trembley e Bonnet, teorizzando che non si trattava di 'fortuna' ma di saper procedere con lo "sguardo", piuttosto che con metodo, e con uno sguardo genialmente distratto, piuttosto che diligentemente scrupoloso.
Lamarck è erede della filosofia buffoniana del 'colpo d'occhio', che lo portò a prefiggersi anch'egli ‒ come Maupertuis e come Virey ‒ di individuare la "legge generale" che governa la natura vivente, e lo spinse non solo a scoraggiare ma senz'altro a censurare le ricerche sulle "piccole cose", i "piccoli dettagli"; e lo portò a censurarle nella maniera più severa, giocando sul doppio senso della parola 'miope': com'è miope, in senso oculistico, colui che ha difficoltà a vedere lontano, e quindi è costretto a guardare da vicino ‒ perciò a osservare solo le piccole cose ‒, così è miope dal punto di vista scientifico (vale a dire ottuso, in buona sostanza) il microscopista, dal momento che parcellizza il territorio della Natura, volgendosi a "piccole cose e piccoli dettagli" che gli si presentano "isolatamente" e quindi gli impediscono di cogliere la loro appartenenza all'insieme, nonché la loro funzione nell'insieme. Da una parte si deve riconoscere ‒ ammette Lamarck ‒ che il miope lavora con precisione e con scrupolosa esattezza, dall'altra si deve senz'altro preferire, alla precisione e all'esattezza, "la considerazione dei grandi oggetti e delle grandi idee" (Lamarck 1802, pp. 5-6).
Ebbene, questa filosofia del colpo d'occhio, dell'osservazione 'da lontano' e della veduta 'in grande', cui si era venuta contrapponendo quella ‒ opposta ‒ dell'osservazione ravvicinata, fu da molti respinta come una filosofia di retroguardia. Ormai, "un naturalista non può fare a meno della lente di ingrandimento", osservò Chrétien-Guillaume de Malesherbes (1721-1794), dichiarò inoltre di aver trovato nell'Histoire naturelle di Buffon "molto più di quanto avessi mai sperato, quanto all'eleganza dello stile […] ma molto da ridire quanto all'esattezza dei fatti" ‒ e perciò definì "assai poco avveduta" la censura buffoniana dei microscopisti (Malesherbes 1798, I, pp. 4, 174). Nel 1792 Aubin-Louis Millin (1759-1818), fondatore della Société Linnéenne, nella stessa prospettiva aveva già liquidato l'enciclopedia buffoniana come opera meramente letteraria sostenendo che essa "alletta", sì, ma unicamente per la "magia dello stile", e non solo non favorisce il progresso scientifico, neanche semplicemente lo ritarda, ma senz'altro gli nuoce (Millin 1792, p. 27).
La congiuntura intellettuale dell'epoca era assai deludente, dal punto di vista metodologico-epistemologico: la comunità scientifica risultava ancora spaccata in due (fra empiria e astrazione, analisi e sintesi, osservazione e interpretazione) e ancora incapace di accostare due approcci che potevano risultare complementari. Come osservava, mestamente, Spallanzani, o veniva realizzato l'uno o non si aspirava che all'altro: fra i miei colleghi "ve n'ha alcuni la cui maggiore abilità, e forse l'unica, consiste nel far esperienze, nel fare osservazioni, ma nulla più, e questi accozzano del continuo materiali, ma senza mai alzar fabrica. Ve ne sono altri che fabbricano anche di troppo sopra picciol numero di fatti, supplendo al difetto di quelli con la loro immaginazione" (Spallanzani 1958-64, V, p. 88). È ancora, deludentemente, la situazione baconiana della spaccatura fra 'ragni' e 'formiche', in cui si intravede ma non si riesce a percorrere la 'terza via' delle 'api': si ipotizza che i due approcci non siano alternativi ma non si riesce a integrarli; non riuscendovi, gli uni danno agli altri dell'imbecille (com'è il caso di La Mettrie, quando parla del "poco ingegno" delle "formiche"), e questi danno ai 'ragni' del filosofo e del letterato (per es., Malesherbes e Millin), con un modo diverso ma omologo di dare dell'imbecille.
Le lamentele delle 'formiche' erano certamente giustificate poiché aveva ragione chi sosteneva che per capire la vita fosse necessario penetrare anche nei suoi interstizi. Tuttavia, è altrettanto certamente da escludere che i 'ragni' producessero semplicemente letteratura e combattessero una battaglia di retroguardia. Se, da una parte, non possono non essere sottolineati i gravi limiti dell'orientamento di quel 'ragno' che fu Lamarck (i limiti del naturalista 'vecchio stile'; il naturalista 'a tutto campo' fautore dell'approccio sistemico, che non soltanto vuol mantenere collegate le scienze della vita ma vuole coltivarle insieme alle scienze della Terra), dall'altra non può non essere sottolineato che proprio quei limiti gli consentirono, per dirla con Spallanzani, di "alzar fabrica": ovvero di concepire il moderno concetto di biologia e di fare della biologia una biologia evoluzionistica.
Volendo tentare un bilancio dei progressi ottocenteschi della biologia, Edmund B. Wilson (1901) sostenne che alla fine del secolo i biologi facevano ormai tre diversi mestieri: quello di 'cacciatori di cimici' (bug-hunters), ovvero il mestiere dei naturalisti 'a tutto campo', che guardavano all'organismo nella sua interezza e in relazione con il suo ambiente; quello di 'affettatori di vermi' (worm-slicers), l'occupazione dei morfologi di laboratorio, che lavoravano di microtomo prescindendo dalla vita reale dell'organismo, e il mestiere di 'sbattitori di uova' (egg-shakers), quello di chi si occupava magari anche di fisiologia ma con un approccio chimico-fisico, e infatti, nel corso dell'Ottocento i biologi si specializzano in diverse direzioni.
La biologia degli esordi, che prelude a tale specializzazione, è una realtà molto diversa. Per quanto sembri un paradosso, essa non è la biologia dei biologi, quella dell'osservazione ravvicinata; è piuttosto la biologia della 'veduta in grande', la biologia dei naturalisti 'vecchio stile'. Nonostante Lepenies (1976) abbia collocato alla fine del Settecento "das Ende der Naturgeschichte" (la fine della storia naturale), val la pena di ricordare che ancora Darwin sarebbe stato un naturalista 'vecchio stile'. (La Vergata 1983). Con tutti i loro limiti, i 'cacciatori di cimici' sono felicemente sopravvissuti al passaggio di secolo e hanno condizionato le scienze e la filosofia dell'Ottocento forse non più ma neanche meno degli 'affettatori di vermi' e degli 'sbattitori di uova'.
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