L'Opera dei congressi
«Come spiegasi che siasi giunto da qualcuno a tanta fierezza di ostilità da intimare pel prossimo Congresso di Bologna l’aut aut, o voi scaccierete noi, o noi ci sbarazzeremo di voi?»1. L’interrogativo formulato da «La Civiltà cattolica» nell’imminenza del XIX congresso annuale dell’Opera dei congressi diceva bene il punto a cui era arrivata l’organizzazione principe del movimento cattolico italiano. Svoltasi dal 10 al 13 novembre 1903, l’assemblea avrebbe mantenuto le promesse, mettendo in scena, da un punto di vista romano, il peggio di quella che allora veniva ancora definita ‘azione cattolica’ a tutte minuscole2. Il motivo del contendere era, ancora una volta, di natura politica. Occorreva togliere al movimento cattolico le ‘fasce’, esortava il leader morale dei ‘giovani’ democratico-cristiani, Romolo Murri, cioè compiere l’ultimo passo verso la costituzione di un partito, e un partito fortemente connotato in senso sociale. Sul fronte opposto gli ‘intransigenti’, arroccati attorno alla difesa del non expedit, si riconoscevano in Giovanbattista Paganuzzi, avvocato veneziano che dell’Opera era stato presidente dal 1889 sino all’anno precedente.
In realtà l’Opera sin dall’inizio della sua parabola si era trovata a dover fare i conti con la tentazione, ricorrente in parte dei suoi aderenti, di scendere in campo. Negli anni Settanta la prospettiva era stata quella del partito conservatore, patrocinata dagli stessi ambienti della Gioventù cattolica che all’Opera aveva dato il via. Tentativi in tal senso erano stati rintuzzati durante il pontificato di Leone XIII, quando era risultata vincente la linea del ‘fare movimento’ all’insegna dell’intransigenza, il non expedit era diventato un non licet e l’astensione dalle politiche un modo per contarsi. In realtà per l’Opera erano stati anni di ristagno, che erano durati sino alla metà degli anni Novanta. L’allargamento del suffragio nel 1882 aveva accentuato l’insofferenza di chi vedeva cogliere altrove, soprattutto nella Germania del Zentrum, occasioni che si pensavano alla portata dei cattolici italiani. Il ‘mondo cattolico’, inteso come arcipelago di ambienti in qualche modo organizzati, era infatti più ampio dell’intransigentismo militante. Il confine con il campo dei cattolici-liberali, sconfessato ma vivo, era meno definito di quanto le condanne papali non facessero immaginare.
Alla metà degli anni Novanta si era verificata un’accelerazione, con l’entrata in campo dei democratici cristiani. I successi dei cristiano-sociali austriaci, dopo quelli del Zentrum, avevano iniziato a fare breccia, soprattutto dopo l’enciclica Rerum novarum, che ne recepiva e legittimava l’indirizzo. Nell’Opera, e più precisamente nel suo secondo gruppo, venne a incanalarsi una quantità crescente di opere sociali. Nel 1898, anno critico, l’Opera poteva contare su alti indici di crescita, grazie a un fattore nuovo e decisivo: un largo coinvolgimento del clero curato.
Nessun dubbio sul significato delle misure repressive messe allora in atto dal governo: si trattava, oltre che di un avvertimento, di un invito a entrare in gioco contro i socialisti. Veniva al momento giusto, proprio mentre nella Segreteria di Stato del cardinale Rampolla all’apprezzamento dei vantaggi provenienti dall’assecondare tendenze emergenti si mescolava la consapevolezza dei danni che questo poteva provocare se i movimenti che ne derivavano venivano lasciati liberi di gestire linee e alleanze. Questo si verificava nel campo del sociale come nell’altro, caldissimo nell’area centro-orientale, delle rivendicazioni nazionali.
Possiamo attribuire al 1898 l’inizio, sempre sotto la guida di Rampolla, di una delicata operazione di presa di controllo. Giocata su più quadranti, in Italia si proponeva di compattare il movimento, traghettandolo senza sbandamenti verso l’inevitabile sbocco politico. Iniziava così la transizione tra l’‘azione cattolica’/movimento ottocentesca e l’organizzazione di massa che avrebbe preso il nome di Azione Cattolica Italiana. Ne furono protagonisti, tra i laici, non già i leader delle parti in conflitto, ma uomini col talento della mediazione: Giuseppe Toniolo, Paolo Pericoli, capaci non a caso di riscuotere la fiducia di Leone XIII come quella del successore.
Iniziata nel 1898, l’operazione arrivò a un tornante decisivo nel 1901, anno in cui l’enciclica Graves de communi, sintetizzando un biennio di precisazioni e ammonizioni, legittimava la democrazia cristiana, ma soprattutto ne indicava i limiti. Di lì a poco il primo intervento diretto dell’autorità ecclesiastica sulla struttura dell’Opera, che ‘ricevette’ un nuovo statuto, confezionato entro le mura vaticane da una commissione mista e pubblicato dalla Tipografia Vaticana, con lettera di promulgazione del Segretario di stato Rampolla3. Lo corredava un testo di fondamentale importanza: un’Istruzione della Congregazione degli Affari Ecclesiastici straordinari (27 gennaio 1902), che cominciava così di fatto a esercitare l’alta direzione – un termine comunemente usato per il rapporto tra l’istituzione ecclesiastica e le associazioni che a essa dovevano l’erezione – sul movimento.
Le ragioni di questa misura, che riguardava in modo specifico il movimento cattolico italiano, risiedevano con tutta evidenza nella necessità di mantenerne il controllo prima che ‘esplodesse’ in una pluralità di partiti di ispirazione cattolica di scarsa utilità per una vantaggiosa soluzione della questione romana. A dispetto delle precisazioni della Graves de communi, non si trattava ancora di una svolta in senso conservatore. Almeno a giudicare dal contenuto dell’Istruzione, i ‘giovani’ democratico-cristiani, opportunamente disciplinati, giocavano un ruolo di primo piano per rendere più incisiva l’Opera tra i ceti popolari. Nel contempo si contava su altri ambienti, oltre i margini dell’universo intransigente, per coltivare i rapporti con i settori più malleabili del fronte governativo. In questo quadro alla Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari spettava il compito di mediare, indirizzare e all’occorrenza reprimere.
Dai documenti del magistero papale come dagli articoli del «La Civiltà cattolica» che ne rappresentavano l’interpretazione autorizzata trapelava ottimismo sulle possibilità che alla Chiesa poteva riservare un’evoluzione in senso democratico della rivoluzione liberale italiana. Tornava d’attualità la convinzione, che il padre Curci aveva espresso quarant’anni prima, che in un paese tenacemente attaccato alla fede cattolica bene sarebbe stato che tutti votassero, e che votassero soprattutto le donne4.
L’operazione ebbe un effetto collaterale: stimolò la produzione di una teoria. Come alcuni decenni prima era stato elaborato per il movimento il tema della supplenza del laicato, veniva messo ora a punto un discorso sui caratteri specifici dell’‘azione cattolica’ che riguardava le condizioni della sua legittimazione, il suo rapporto con la politica, il ruolo del clero al suo interno. Il discorso riguardava per il momento la sola situazione italiana. Successivamente, tradotto in una precisa forma organizzativa, sarebbe diventato un modello teorico, ma anche organizzativo, da esportare.
Sottoporre l’Opera dei congressi all’‘alta direzione’ di un organo ecclesiastico, mettendolo nella posizione, ad esempio, di un’Opera per la propagazione della fede, presentava qualche problema sotto il profilo giuridico. Le organizzazioni del laicato militante non trovavano ancora collocazione nel diritto canonico. Nate da iniziativa autonoma, appartenevano al ‘mondo esterno’ della società secolarizzata. Se è vero che sollecitavano il riconoscimento dell’autorità ecclesiastica, sino a quel momento formalmente non ne ‘dipendevano’. Potevano da questa essere esortate e anche richiamate, ma non ci si aspettava che venissero sciolte da un soggetto che non le aveva erette. Con l’emanazione dell’Istruzione del 27 gennaio 1902 la Congregazione per gli Affari Ecclesiastici straordinari aveva postulato che la democrazia cristiana rettamente intesa avesse ‘carattere religioso’, che la sottoponeva senz’altro alla direzione ecclesiastica. Da qui un principio destinato a diventare generale: «è volere della Santa Sede, e la stessa nozione della ecclesiastica Gerarchia lo esige, che il laicato cattolico non preceda, ma segua i suoi Pastori». Pio X ne avrebbe tratto le conseguenze a modo proprio, ma la direzione era stata segnata prima del suo avvento. Il documento conteneva anche un’altra indicazione: il radicamento nella parrocchia rappresentava la garanzia del saldo riferimento dell’‘azione popolare cristiana’ alla gerarchia.
Con Pio X l’inquadramento del laicato militante si collegò con una più ampia strategia di centralizzazione in chiave romana. Anche per questo il momento era, tutto sommato, propizio: un papato forte come da tempo non era, anche in termini di disponibilità economica, a dispetto del motivo propagandistico che lo voleva ‘povero’; di contro, una periferia ecclesiastica che in Italia dopo l’Unità appariva impoverita, almeno relativamente, e in difficoltà coi poteri locali, quanto meno dove vescovi e parroci avevano fatto dell’intransigenza la loro bandiera.
Con Pio X, per usare una definizione corrente, cominciò il vero disciplinamento. Per quanto riguardava l’Opera, si trattò di un’importante verifica. Restava infatti da dimostrare che la stretta iniziata con le norme del 1902 aveva trovato interlocutori disposti a subirla. Le condanne si erano talvolta dimostrate più clamorose che efficaci, come nel caso del cattolicesimo liberale. Messo ripetutamente e pesantemente sotto accusa, lungi dall’essere debellato, questo si era trovato per qualche tempo ‘decentrato’, messo in attesa da una curia che continuava peraltro discretamente a mantenere i rapporti con suoi esponenti. Perché la riorganizzazione del laicato militante progettata a cavallo del secolo dai vertici romani avesse luogo, occorreva dunque la disponibilità di quest’ultimo a lasciarsi riorganizzare. In realtà questa disponibilità non era scontata, e lo stesso valeva, seppure in misura minore, anche per il clero, quanto meno per i preti giornalisti, propagandisti, intellettuali, tutti più o meno sine cura, che in questi anni erano al culmine della loro parabola, molto diversi dai confratelli che pochi decenni dopo sarebbero usciti dal seminario riformato da papa Sarto. Sturzo, Albertario, Murri – tanto per citare i più famosi – avevano deciso autonomamente in quale settore impiegarsi e come; il loro ‘incardinamento’, anche psicologicamente, era molto relativo.
A una serie di reprimende ai murriani, seguì il 18 dicembre 1903 il Motu proprio Ordinamento fondamentale dell’Azione popolare cristiana5, gli ultimi cinque punti del quale parlavano di «piena soggezione» e obbedienza ai vescovi «e a chi li rappresenta» da parte dei militanti cattolici, di censura ecclesiastica preventiva per la loro stampa, e sottoponevano al consenso dell’ordinario l’adesione degli ecclesiastici a organismi anche meramente tecnici, attribuendo all’autorità ecclesiastica l’esclusiva dell’arbitrato nelle dispute. Si trattava del prodromo dello scioglimento, avvenuto il 28 luglio 1904 con una circolare della Segreteria di Stato ai vescovi6. Il suo contenuto ribadiva il concetto che l’‘azione cattolica’ era cosa dell’autorità ecclesiastica: il disciolto Comitato permanente avrebbe consegnato l’archivio al cardinale vicario, il papa si attribuiva la nomina del presidente del sopravvissuto II gruppo, agli ecclesiastici era vietato parteciparvi senza l’autorizzazione del vescovo, occorreva il permesso ecclesiastico per la convocazione di congressi a ogni livello. Spettava ai vescovi la nomina dei presidenti dei comitati diocesani, che potevano sciogliere in ogni momento. «È preferibile che un’opera non si faccia anziché farla all’infuori o contro la volontà del Vescovo».
L’Opera si lasciò sciogliere, riconoscendo implicitamente operatività all’‘alta direzione’ ecclesiastica. In realtà la ribellione a quel punto avrebbe comportato costi pesanti, come ebbero modo di accorgersi di lì a poco i murriani di stretta osservanza. Per un consenso di massa, quantificabile in voti, il clero curato era indispensabile. E il clero curato, tanto più in quel momento, aveva troppo da perdere a ribellarsi apertamente.
Detto questo, l’invito ai sacerdoti a tenersi fuori dalla politica di partito aveva a che fare ancora con lo specifico della situazione italiana più che con distinzioni di principio tra politico e religioso. Non c’era nulla nel diritto canonico – non vi sarebbe stato neppure nel codice del 1917 – che impedisse a un prete di militare in una formazione politica e men che meno di ricoprire cariche pubbliche. Anche la distinzione tra partito e movimento non apparteneva alla realtà del tempo. I comitati elettorali cattolici non erano meno ‘partito’ per il fatto di operare solo per le amministrative. Con tutta evidenza l’‘azione popolare cristiana’ veniva ora riorganizzata per essere un partito forte, spendibile però in tempi e modi decisi dalla Santa Sede. Di fronte al pericolo che in Italia il potenziale elettorale cattolico si sbriciolasse, la Santa Sede giocò d’anticipo con le prime prudenti revoche, in luoghi altamente controllati e in una direzione molto diversa – per tipo di alleanze – da quella desiderata dai ‘giovani’.
Lo scioglimento dell’Opera precedette di poco le prime deroghe al non expedit, di segno clerico-moderato. Al di là dell’ulteriore reprimenda ai ‘giovani’, che la sconfessione della presidenza Grosoli rappresentava, ciò che seguì non preludeva necessariamente a un’involuzione in senso conservatore del movimento cattolico. La riorganizzazione voluta dal papa doveva enfatizzare proprio la dimensione ‘sociale’ e ‘popolare’ del nuovo soggetto, spiegava la «Civiltà cattolica» in una serie di articoli che mettevano in luce, in vista soprattutto del suffragio universale, i vantaggi dell’approccio tedesco. Nel Volksverein si indicava dunque la «nuova opera di organizzazione universale, semplice, elastica, agile, disciplinata» adatta alla «sempre crescente trasformazione democratica della moderna società», dove «non hanno né importanza né vita che i partiti popolari, quelli cioè che trovano eco nelle moltitudini cittadine e agricole e si mostrano capaci d’intenderne i bisogni, di patrocinarne gl’interessi, di organizzarle corporativamente»7. La serie degli articoli continuò nel 1905 mettendo l’accento sul carattere ‘popolare’ del movimento, usando persino il termine ‘pericoloso’ di giustizia. Si puntava al mezzo milione di associati8, nella convinzione di poter ancora contare sul ‘paese reale’. L’enciclica Il fermo proposito (11 giugno 1905) presentò infine l’Unione popolare, «istituzione di carattere generale […] destinata a raccogliere i cattolici di tutte le classi sociali, ma specialmente le grandi moltitudini del popolo intorno a un solo centro comune di dottrina, di propaganda e di organizzazione sociale»9. La traduzione italiana, anche nell’intitolazione, del Volksverein tedesco aveva ancora le caratteristiche di un’organizzazione secolare. Essa, tra l’altro, eleggeva il proprio presidente, a dimostrazione del fatto che l’elettività delle cariche non era ancora considerata incompatibile con le esigenze del controllo ecclesiastico. Lo stesso comitato permanente dell’Opera nel 1903 era stato reso elettivo, per volontà della Santa Sede. Il triumvirato incaricato di tradurre in uno statuto le Norme dettate dal pontefice attribuì ai soci il diritto di eleggere il consiglio direttivo nazionale. Presto si sarebbe però affermata una tendenza diversa, almeno per i settori strategici: dal 1911 il presidente dell’Unione economico-sociale fu nominato dalla Santa Sede, su una terna di candidati, e quello dell’Unione elettorale scelto senz’altro da Roma. L’Unione popolare continuò a eleggere il proprio, con l’avvertenza che fosse persona di fiducia della Santa Sede, che dunque lo avrebbe potuto ricusare. Nel 1913 si stabilì che anch’egli fosse scelto dal papa10, mentre i vescovi acquisivano la facoltà di designare le presidenze delle neo-costituite giunte diocesane. Nel 1916, infine, tutti e tre i presidenti delle Unioni erano di nomina pontificia.
Il 1904 portò anche un altro mutamento significativo, riguardante proprio l’organizzazione che aveva dato origine all’Opera: la Gioventù cattolica11. Da lungo tempo defilata, nell’ambito del nuovo pontificato la società presieduta da Paolo Pericoli riconquistò un ruolo centrale dopo che una lettera del Segretario di Stato Merry del Val le affidò nel 1904 il ruolo di collettore di tutte le realtà giovanili presenti nell’Opera12: l’esile reticolo di circoli d’élite, di simpatie conciliatoriste, nel giro di pochi anni raggiunse dimensioni di massa.
La nuova collocazione della Gci (Gioventù cattolica italiana) fu un passo cruciale nella costruzione del modello italiano di Azione cattolica. Diversamente dalle centrali che si occupavano di intervento sociale, strategie elettorali, stampa o altro ancora, l’organizzazione fondata da Fani e Acquaderni si qualificava per l’appartenenza dei suoi aderenti a una fascia d’età e non per una specifica scelta programmatica. Potenzialmente tutto ciò che riguardava i giovani la riguardava. Inoltre la presenza in ogni circolo, sin dall’inizio, di un assistente ecclesiastico (con potere di veto), la metteva, per così dire, all’avanguardia nel nuovo corso.
Paolo Pericoli, romano, esponente di ambienti non troppo lontani dal governo, ma di sicura fedeltà al papa, poteva senz’altro essere definito un moderato. Alla sua capacità di mediare venne affidato il difficile compito di disciplinare, senza comprometterne la vitalità, le riottose file democratico-cristiane. La presidenza Pericoli riuscì nell’impresa, pilotando la crescita impetuosa della Gioventù sul modello della Jeunesse Catholique francese e belga e superando, grazie anche al fatto che in tale occasione la Santa Sede usò una mano insolitamente leggera, il tornante difficile della riforma degli statuti, approvata nel dicembre del 1910.
L’organizzazione si stava trasformando anche in un altro senso: stava infatti ‘ringiovanendo’ tramite un reclutamento sempre più largo di adolescenti, per i quali furono ideate le sezioni degli ‘aspiranti’, di carattere meramente formativo. La formazione precoce diventò sempre più, anzi, un elemento portante dell’attività, coerentemente al diffondersi di un’attenzione all’adolescenza che la Società condivideva con altri ambienti. Attorno al tema del buon costume, strettamente legato a quello della salvaguardia delle fasce d’età ‘pericolanti’, vi era prossimità tra cattolici e liberali moderati, beninteso all’interno dei ceti medio-superiori, nei quali l’adolescenza era dedicata agli studi.
La trasformazione che la Gioventù subiva agli inizi del Novecento la inserì in un movimento internazionale che comprendeva gli Scout e il Wandervogel, la Ymca e gli Orli del mondo slavo, per i quali la ricreazione era uno strumento essenziale del processo formativo, oltre che del reclutamento. L’associazionismo sportivo, l’escursionismo a piedi e in bicicletta, le filodrammatiche, erano settori adatti ad aggregare, senza rischi, anche tra i ceti popolari, in città e nelle campagne.
Alla rinnovata Gioventù si affiancò nel primo decennio del secolo XX un’associazione affatto nuova, che ne ricalcava le caratteristiche: aveva dimensione nazionale, un’articolazione che seguiva quella ecclesiastica e un reclutamento basato sul connotato generalissimo del sesso. L’Unione femminile nacque nel 1908 in esplicita contrapposizione alle prime manifestazioni pubbliche del femminismo in Italia. Iniziative cattoliche al femminile erano già presenti, a dire il vero, nella democrazia cristiana e fuori di essa. Dal 1901 si pubblicava a Milano per iniziativa della scrittrice Elena Da Persico «Azione Muliebre»; dal 1904 Adelaide Coari, vicina alle idee di Romolo Murri, fondava «Pensiero e Azione». Sebbene il pontificato di Pio X potesse non sembrare il momento migliore per dare il via a un’organizzazione nazionale, per la quale ormai si rendeva necessario il riconoscimento ecclesiastico, l’Unione femminile (Ufci) lo ottenne, a condizione di accettare la non sempre gradita tutela di Giuseppe Toniolo. Le personali convinzioni del papa sul ruolo delle donne passavano in secondo piano di fronte alla constatazione che sempre più largamente esse stavano ovunque accedendo al voto. Il centro del movimento femminile passò da Milano a Roma, la direzione da militanti di estrazione piccolo-borghese, a diretto contatto con le donne dei ceti popolari, a un’aristocratica: la principessa Maria Cristina Giustiniani Bandini13.
Alla formula dell’Unione arrise un rapido successo: nel 1917 vantava 350 comitati e 46.000 iscritte. Favoriva il reclutamento la minore attrattiva esercitata dal positivismo sugli ambienti di élite, dove anzi a cavallo del secolo spiritualismi di vario tipo erano diventati di moda. La difesa della famiglia e della moralità, la tutela dell’infanzia furono sin dall’inizio i punti forti del programma. In questo quadro era naturale che la donna fosse sollecita delle necessità (oltre che della moralità) delle sottoposte: da qui l’assistenza a operaie e apprendiste, anche se, come nel caso della ‘nuova’ Gioventù cattolica, nell’Unione femminile erano confluite anche esperienze che parlavano da pari a pari alla donna lavoratrice, senza escludere azioni di carattere rivendicativo.
La nascita dell’Unione, che con la Gioventù maschile condivideva anche la presenza a tutti i livelli dell’assistente ecclesiastico, iniziò a comporre uno schema destinato a completarsi nel dopoguerra. Declinata nella curia di Benedetto XV l’influenza della Bandini, fautrice di un modello elitario, il passaggio delle consegne a Maddalena Patrizi, avvenuto nel 1917, segnò l’inizio della diffusione capillare e di massa dell’organizzazione, che prima nelle periferie industriali, poi nel più facile contesto delle parrocchie rurali, vide passare le donne del popolo dal ruolo di assistite a quello di socie. Il voto alle donne sarebbe arrivato in Italia più tardi del prevedibile: la formazione di elementi capaci di muoversi nel mondo della politica per le donne dell’azione cattolica era però cominciato. Più che nell’Unione, essa si svolse però nel settore giovanile di questa, diventato autonomo nel dopoguerra: la Gioventù femminile, plasmata da allora per un trentennio dalla milanese Armida Barelli.
Nel decennio che separa lo scioglimento dell’Opera dallo scoppio della Prima guerra mondiale, l’intransigentismo, nei fatti e con l’avallo della Santa Sede, fu liquidato, e il liberalismo cattolico, nella sua versione moderata, implicitamente riabilitato. Il patriottismo poté avere corso nelle associazioni, anche più di quanto accadesse qualche decennio prima nei circoli della vecchia Sgci. Tra i murriani avevano fatto breccia le suggestioni del nazionalismo, tanto pervasive, comunque, da indurre «La Civiltà cattolica» stessa a dilungarsi in quegli anni sui pregi del patriottismo cattolico a proposito di Giovanna d’Arco, beatificata nel 1909 e canonizzata nel 1920, nonché del Dante meno ghibellino. La Prima guerra mondiale accelerò il processo, allargandolo a settori nuovi del mondo ecclesiastico in seguito al coinvolgimento del giovane clero nell’esperienza (inaugurata in Italia proprio in quell’occasione) del servizio come cappellani militari.
Durante la Prima guerra mondiale si distinse per iniziative che saldavano religione e patriottismo una donna che, nel dopoguerra, avrebbe pilotato la nascita del terzo ‘ramo’: la milanese Armida Barelli14, vicina per estrazione famigliare agli ambienti industriali e finanziari del moderatismo lombardo. A differenza del 1908, l’iniziativa venne dall’alto. Il nuovo ‘ramo’ mirò sin dall’inizio a darsi dimensioni di massa grazie a un piano sistematico di ‘propaganda’. Speculare alla Gci, la sua espansione avvenne proprio mentre l’elemento maschile si defilava a frotte dall’Unione popolare per concentrarsi su partito e sindacato. La Gioventù femminile nacque senza infusioni di militanza sociale. Fondata nel cuore del biennio rosso, riceveva l’impronta da una donna nella cui cultura il linguaggio della mistica si coniugava a quello dell’efficientismo, con una buona dose di antisocialismo in sovrappiù. Al secondo congresso nazionale, nell’ottobre del 1922, la Gf contava 228.495 socie e 4.360 circoli, diffondendosi nella rete parrocchiale insieme agli asili infantili affidati a congregazioni femminili, che non di rado fornivano ai circoli un complemento (non però un sostituto) all’opera dell’assistente ecclesiastico.
L’organizzazione di Armida Barelli si intitolò Gioventù Femminile ‘di Azione Cattolica’ a tutte maiuscole. Nel frattempo, infatti, il processo di riorganizzazione in chiave centralistica del movimento cattolico era stato portato avanti da Benedetto XV. Nel 1915 l’Unione popolare veniva da questi definita «organizzazione fondamentale» del movimento cattolico italiano, di fronte alla quale ogni altra stava «come specie a genere»15. Anche il nuovo codice di diritto canonico, pubblicato nel 1917, entrava nell’argomento. Sebbene non vi si facesse menzione (e più tardi molti lo avrebbero rimpianto) dell’‘azione cattolica’, al titolo XVIII De fidelium associationibus esso prospettava infatti realtà diverse dalle tradizionali confraternite e pie unioni, non erette ma commendatae (can. 684), sulle quali la Chiesa esercitava una legitima vigilantia. Il testo conteneva, probabilmente non a caso, margini di ambiguità, lasciando aperta la porta a un ulteriore rafforzamento dei legami tra la gerarchia e queste associazioni di nuovo tipo. La situazione del primo dopoguerra – non solo in Italia – era quanto mai fluida e foriera di veloci cambiamenti.
In Italia l’Azione Cattolica rischiò il tracollo proprio mentre cominciava a esibire le sue maiuscole. Nel Partito popolare erano confluite le diverse anime scontratesi sino ad allora nel movimento cattolico, nonché i moderati che a esso erano rimasti estranei. Contrariamente alle attese de «La Civiltà cattolica», la versione italiana del Volksverein non riuscì però a fungere da solido punto di riferimento. I suoi elementi più dinamici, i giovani, passarono in massa al partito e al sindacato, svuotando le sezioni dell’organizzazione ‘madre’. Il laicato cattolico adulto abbandonava dunque i recinti dell’associazionismo ‘raccomandato’ (e quindi controllato) dall’autorità ecclesiastica, minacciando di lasciarle nient’altro che fanciulli e adolescenti, nonché (per il momento) le donne. Al cambio di direzione provvidero, congiuntamente, l’avvento di un nuovo pontefice e quello di un nuovo regime politico.
Achille Ratti, dal 6 febbraio 1922 papa col nome di Pio XI, fu l’artefice della riforma che non solo ‘creò’ l’Azione cattolica italiana, coronando un processo iniziato ormai da due decenni, ma si adoperò anche per renderla un modello applicabile in tutto il mondo. Il nuovo papa presentava molte affinità con la presidente della Gf: lombardo, vicino ai moderati, di estrazione borghese, col culto dell’efficienza e una radicata avversione per il socialismo. La sua prima enciclica, Ubi arcano, del 23 dicembre 192216, lanciò forte il richiamo al compattamento attorno all’autorità: in primis ecclesiastica, naturalmente, ma era consentito estendere il concetto. Mussolini era salito al potere proprio mentre veniva scritta. Inaugurata con una lettera del Segretario di Stato Gasparri del 2 ottobre 192217, la riforma era partita prima della marcia su Roma, quando però erano già evidenti i segnali di una svolta imminente. Mentre venivano elaborati i nuovi statuti, pubblicati nell’autunno del 1923, l’evolversi della situazione incontrò l’approvazione sempre più aperta del Vaticano, che nel contempo imponeva a vescovi e parroci di prendere le distanze dal partito e dal sindacato. Quella messa in atto dalla Santa Sede era una misura contingente, dettata da ragioni di opportunità, e non un divieto di natura generale. Generale invece divenne l’obbligo per tutti i sacerdoti in cura d’anime di occuparsi di quella che cominciò a essere definita «collaborazione dei laici all’apostolato»18.
La riforma del 1923 può essere considerata la definitiva consacrazione di un modello la cui incubazione era iniziata nei primi anni del secolo. Le Unioni che avevano coordinato a livello nazionale specifiche attività dei cattolici militanti lasciarono il posto ai ‘rami’, cui i singoli aderivano non in virtù del consenso a un programma, ma sic et simpliciter per mettersi a disposizione della Chiesa, e ancor prima per essere formati a questo tipo di disponibilità. Lo schema fu completato con la Federazione degli uomini cattolici, il cui statuto fu approvato, non a caso, nel maggio del 192719, a liquidazione avvenuta di ogni diversa forma di azione pubblica del laicato cattolico. Diversamente dal passato, all’Ac si aderiva iscrivendosi ai singoli rami; continuava a esistere peraltro una struttura unitaria – le giunte – con compiti di coordinamento e di collegamento con l’autorità ecclesiastica ai vari livelli: parrocchia, diocesi, centro nazionale. Il presidente della Giunta centrale, diversamente da quello dell’Unione Popolare, era nominato dal papa. Continuava dunque la progressiva dismissione della pratica elettorale per la selezione dei dirigenti, che a livello centrale sarebbe stata completata nel 1925 con l’adeguamento ai nuovi statuti di quello della Gioventù cattolica, la cui assemblea perse il diritto di eleggere il presidente20.
Alla riorganizzazione dell’Ac fece riscontro il rapido tracollo delle organizzazioni del movimento cattolico, nel politico, ma anche nel sociale. Nell’ottobre del 1925 il patto di palazzo Vidoni segnò la fine dei sindacati cattolici. Quanto alle associazioni economiche,– società di mutuo soccorso, Casse rurali e cooperative – l’anno successivo il ‘Popolo d’Italia’ invitò apertamente i cattolici a desistere dall’occuparsene. Nel biennio 1925-1926 il fascismo cominciò ad allestire le proprie organizzazioni giovanili di massa e i dopolavoro, intensificando gli attacchi a singoli e associazioni della Gci; iniziò anche l’offensiva contro lo scoutismo. Lo scioglimento dell’Asci (Associazione Scoutistica Cattolica Italiana) fu uno dei prezzi pagati tra il 1927 e il 1928 per disincagliare la trattativa concordataria. Alla fine degli anni Venti, se non tutte, come vedremo, buona parte delle alternative all’Ac erano venute a mancare.
Negli anni che seguirono la riforma, l’Ac acquisì alcuni caratteri che l’avrebbero a lungo definita. Uno di essi fu la dialettica fra istanze unitarie e tenace difesa della loro autonomia da parte dei rami, a dispetto del fatto che Pio XI dichiarasse nel 1928 la Giunta centrale «al centro della Chiesa e al centro di ogni attività cattolica»21. Visti in dettaglio, furono gli stessi statuti, in tutte le loro successive revisioni, a consentire tale autonomia. L’autorità ecclesiastica disponeva del resto, oltre alle giunte, di altri strumenti per garantirsi che l’Ac restasse «bene unit[a] al centro della cattolicità», a cominciare dal fatto che ciascuno dei presidenti di ramo manteneva rapporti diretti e costanti col pontefice che lo aveva designato. Furono presidenze molto lunghe, indizio di una fiducia immutata da un pontefice all’altro. Armida Barelli restò in carica nella Gf sino al 1949, come Maria Rimoldi, a capo delle Donne. Più tormentata la vicenda dei vertici della Gioventù cattolica. Dopo la crisi del 1931, per la cui composizione si rese necessario – una necessità non necessariamente sgradita – accantonare gli ex popolari, poté iniziare la parabola di Luigi Gedda.
Un altra, fondamentale, possibilità di controllo era fornita dagli assistenti ecclesiastici, incaricati di ‘vigilare’ a tutti i livelli sull’operato dei laici. Le figure del parroco fondatore e amministratore di casse rurali, del prete giornalista e conferenziere, che avevano condiviso con i laici la direzione del movimento cattolico, furono rimpiazzate da quella del formatore di giovani, animatore che non poteva più essere assimilato al gruppo dirigente, nei confronti del quale era anzi chiamato a esercitare il controllo22. Quello dell’assistente ecclesiastico, nominato al centro dal papa, nelle diocesi dal vescovo, sarebbe diventato un inedito percorso di carriera per i prodotti del seminario di Pio X, tra i quali si fece strada una nuova leva di giovani che, segnalatisi da cappellani per il loro attivismo nel promuovere l’Ac, passavano ai centri diocesani e agli uffici di curia, non di rado trampolino di lancio per una nomina episcopale. Il ruolo sempre più importante dell’assistente si giustificava anche col progressivo rafforzarsi, mano a mano che il fascismo chiudeva gli spazi dell’azione, della dimensione formativa. L’arco d’età dei soci dell’Ac, del resto, dopo gli adolescenti, finì per comprendere anche l’infanzia, con la sezione Fanciulli, affidata all’Unione donne.
L’Ac riformata da Pio XI era ancorata saldamente alla parrocchia. Le attività si svolgevano pressoché esclusivamente nei suoi spazi: chiesa, canonica, oratorio. Facevano eccezione, solo per il fatto di aver sede presso i centri diocesani, i due rami ‘intellettuali’: la vecchia Fuci e, dal 1932, il Movimento Laureati. Si trattava di una scelta obbligata, indotta dal fascismo, cui venne conferito un significato più ampio mano a mano che la ragione sociale dell’Ac venne identificandosi con l’‘apostolato’, ovvero col recupero dei ‘lontani’ alla pratica religiosa e, possibilmente, alla militanza nell’organizzazione stessa. All’Ac Pio XI non parlava più di un ‘paese reale’ cattolico da organizzare, bensì di una società secolarizzata – e persino scristianizzata – da riconquistare alla Chiesa. Si trattava di un radicale mutamento di prospettiva, che nel magistero di Pio XI e nella letteratura che attorno a esso fiorì prendeva l’aspetto di una maturazione e di una vera e propria promozione del laicato. Dentro a uno Stato come quello fascista, che rivendicava alle proprie strutture la gestione del sociale, ai cattolici organizzati restava l’apostolato del ‘simile sul simile’. In definitiva, l’obiettivo dell’Ac divenne diffondere quanto più capillarmente e sistematicamente (‘razionalmente’) se stessa. Se la generazione dei vecchi militanti faticò a riciclarsi, nel giro di qualche anno crebbe una nuova leva di soci. Quanto al clero, quello impegnato nel movimento cattolico sembrò apprezzare la nuova formula. Le regioni più attive in passato continuarono a essere in testa alle graduatorie, per numero di sezioni e di iscritti. I numeri, insomma, consentono di parlare di successo.
Ciò che l’Ac stava diventando era in parte l’esito di un processo iniziato da tempo, in parte frutto dell’adattamento ai particolari sviluppi della situazione politica italiana, non tutti sgraditi ai vertici della Chiesa. Venuti a mancare i maggiori incentivi alla disunione e all’autonomia, la prospettiva che si apriva alla nuova Ac era la cristianizzazione di un’Italia fascista già migliore di quella del passato, e sicuramente perfettibile. La sua presenza in ogni stazione curata divenne un preciso obbligo per i vescovi. Non mancavano, da parte di questi ultimi, motivi di perplessità: tra gli altri, l’insofferenza di fronte al fatto che i dirigenti dell’Ac della propria diocesi rispondessero ai propri centri nazionali prima che alle direttive del vescovo. Roma aveva peraltro strumenti di pressione maggiori di un tempo, né si deve dimenticare che un lungo pontificato ha la possibilità di rimodellare gli episcopati: in Italia, nella nomina dei vescovi, ai tempi di Pio XI si tenne conto dello zelo dimostrato dai candidati nel promuovere la ‘pupilla’ del papa. Lo stesso meccanismo si riproponeva poi nel rapporto tra vescovo e clero diocesano.
La svolta mussoliniana, con tutti i suoi difetti, fu dunque considerata preferibile, dal papa e da più di un vescovo, al ‘disordine’ precedente. Le profferte di Mussolini avevano un prezzo, ma anche pregi che si facevano apprezzare. Che quella offerta dal fascismo fosse la ‘tesi’ sarebbe dire troppo, ma offriva qualcosa di meglio dell’‘ipotesi’ liberale, offriva l’occasione di rimontare almeno in parte le posizioni perdute dopo l’Unità, nella prospettiva di dar vita, all’ombra di un autoritarismo benevolo, a un esperimento su grande scala: la formazione ex novo di una generazione di cattolici, capaci di riconfessionalizzare lo Stato e riconquistare quanto si era perduto nella società. Anche quando il fascismo mise in campo pretese di monopolio, restò il vantaggio rappresentato dal rapporto diretto tra due soli enti, Chiesa e Stato, e sopravvisse l’aspettativa che prima o poi quest’ultimo si ammansisse, soprattutto se adeguatamente infiltrato di personale dirigente cattolico. Il Concordato rappresentava la garanzia che vi sarebbe stato modo di raggiungere tale obiettivo, rispetto al quale l’Ac rivestiva un ruolo cruciale. «Lo Stato italiano riconosce le organizzazioni dipendenti dall’Azione Cattolica Italiana – recitava all’art. 43 – in quanto esse, siccome la Santa Sede ha disposto, svolgano la loro attività al di fuori di ogni partito politico e sotto la immediata dipendenza della gerarchia della Chiesa per l’attuazione e la diffusione dei principi cattolici». Il riconoscimento rendeva l’Ac qualcosa di più di un’associazione di diritto privato, e nel contempo la vincolava definitivamente all’organizzazione ecclesiastica. La tenuta dell’accordo fu immediatamente messa alla prova da Mussolini.
Nella primavera del 1931 ebbe infatti luogo nei rapporti tra la Chiesa e il regime una crisi, la cui incubazione era iniziata l’indomani del Concordato23. Gli avvenimenti seguirono un copione già noto: dalle dichiarazioni aggressive del capo del governo si passò alle intimidazioni e agli attacchi, sino allo scioglimento delle associazioni giovanili. La ricostituzione avvenne a prezzo di alcune rinunce: ai segni esteriori che ricordavano il passato impegno politico, alle attività esterne e agli spazi parrocchiali; uscirono di scena i dirigenti con un passato popolare. Per quanto sgraditi, soprattutto alla base, questi adattamenti non comportavano un reale mutamento di rotta rispetto allo spirito della riforma; in qualche modo, anzi, la rafforzavano. Il principio dell’estraneità dell’Ac non solo a un determinato partito, ma all’azione politica tout court, messo in campo per ragioni difensive all’epoca dei primi attacchi alle associazioni giovanili, come quello che la precludeva ai sacerdoti, stava assumendo infatti una consistenza impensabile solo pochi anni prima.
Gli anni della presidenza Ciriaci (1929-1936), al di là della sunnominata crisi, furono caratterizzati, da entrambe le parti, dalla costante preoccupazione di mantenere l’accordo, in un regime di reciproca, diffidente vigilanza. Per il fascismo l’Ac restava pericolosa. Tale la rendeva la struttura centralizzata su scala nazionale, con autonomi strumenti di formazione, in cui intravedeva, tra le pareti delle canoniche, il potenziale partito politico: ciò che peraltro sarebbe puntualmente avvenuto dopo il 1943. Avrebbe preferito saperla ‘diocesanizzata’, privata cioè dei suoi centri nazionali di ramo. Gli statuti del 1932 solo apparentemente vennero incontro a tale aspettativa, che probabilmente anche più di un vescovo condivideva. I rami prosperarono più che mai, negli anni Trenta, soprattutto quelli giovanili. Il ripiegamento nelle parrocchie, che aveva comportato anche la dolorosa rinuncia alle manifestazioni sportive, alla lunga fece gioco, rendendo la frequentazione delle sezioni più sicura agli occhi di famiglie meno engagées o semplicemente più prudenti.
Quanto all’‘afascismo’, categoria elaborata dalla storiografia cattolica degli anni Settanta24, richiede qualche distinguo. Indubbiamente il legame tra le organizzazioni del laicato militante e la gerarchia ecclesiastica si rafforzò in questi anni. Il primo non era più rappresentato da una élite di esponenti della nobiltà e della borghesia medio-alta. Nella dimensione della militanza era entrata una folla di fedeli che nell’assistente ecclesiastico riconosceva una guida, non più un semplice compagno di strada. L’Ac negli anni del fascismo diventò poi un’organizzazione di massa di tipo moderno. Senso di appartenenza, orgoglio della propria identità associativa, lealtà, disponibilità alla mobilitazione: tutto questo rendeva la base, ma soprattutto i dirigenti dell’Ac relativamente impermeabili alla fascistizzazione. Non possiamo sapere (e del resto la storia non si fa coi ‘se’) se questa parziale immunizzazione avrebbe retto alla lunga: la parabola del regime fascista, prima che l’alleanza col nazismo cambiasse le carte in tavola, fu infatti realmente breve, anche per i parametri della storia contemporanea.
La consapevolezza di costruire un’alternativa potenziale, in previsione di mutamenti di scenario nel medio, se non nel breve periodo, esisteva probabilmente soprattutto all’interno di alcuni ambienti selezionati: la Fuci cresciuta sotto la direzione di Montini, il Movimento Laureati che ne era la gemmazione, la stessa Università cattolica di padre Gemelli, non particolarmente sospetto di ‘afascismo’. Una simile consapevolezza non implicava peraltro un’automatica presa di distanza critica dal fascismo. Negli anni Trenta, in un paese imbevuto di propaganda, per una generazione di soci questo rappresentò l’unico orizzonte conosciuto. La presa di distanza sarebbe avvenuta, ma solo in conseguenza del mutare drastico della situazione.
L’Ac di Pio XI, giocoforza ristretta nella parrocchia, che il fascismo voleva disgregata in un pulviscolo di confraternite e di cui lo stesso magistero papale enfatizzava la dimensione para-ecclesiastica, solo a un occhio disattento poteva sembrare assorbita nel mero perfezionamento della conversatio che la suddivisione dei rami suggeriva. Se il modello che ispirava la composizione delle giunte parrocchiali era la famiglia, va detto che ciascuno dei membri di questa si trovava a gestire un programma fortemente proiettato all’esterno. A questa famiglia si chiedeva di produrre, e con efficienza. Suo compito era infatti l’apostolato, l’obiettivo il raggiungimento di traguardi misurabili. Significativo un aneddoto: all’ennesima richiesta di aiuto – sin dai tempi di Leone XIII la Santa Sede aveva soccorso regolarmente le organizzazioni e i giornali cattolici – Ratti obiettò: il papa non deve dare, ma ricevere denaro25. Dall’Ac, in particolare, esigeva risultati misurabili, si trattasse di denaro raccolto per le missioni o per l’Università cattolica ovvero di nuovi soci. Il frutto apostolico per eccellenza diventarono infatti le cifre del tesseramento, col particolare significativo che ogni tessera doveva essere pagata dal socio, magari a rate, ma senza sconti. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi; ciascun ramo portò a questo modello il suo contributo specifico. La Gci, ribattezzata nel 1932 Giac (Gioventù Italiana di Azione Cattolica), e la Gf sono le realtà che, anche per l’indubbio vantaggio di essersi letteralmente allevate una generazione di soci in casa, riuscirono meglio nell’impegno.
L’Ac di Pio XI era in buona parte l’esito di un’operazione che il movimento cattolico aveva subito, e che ne aveva trasformato i connotati. Di tale vicenda venne presto proposta una versione destinata a lunga fortuna e ampia diffusione. L’elaborazione del discorso procedette mano a mano che si rendeva necessario giustificare la chiusura di spazi e l’abbandono di determinati campi d’azione. La «collaborazione subordinata all’apostolato gerarchico» divenne nei discorsi del papa, sulle pagine della stampa associativa e infine nello statuto, la ragion d’essere dell’Ac, un esito che il laicato organizzato fu esortato a considerare una promozione. Nei manuali di Luigi Civardi si rileggeva addirittura la storia della Chiesa sulla base di questo schema, che poggiava sull’antico presupposto della naturale superiorità del clero, cui avrebbe fatto riscontro, nella storia oltre che nella dottrina, una condizione di subalternità del laicato. Un altro importante presupposto era l’estraneità dell’uomo di Chiesa alla politica, una condizione che lo sottraeva ai rischi della sconfitta e del giudizio morale, salvo restando il diritto del magistero di tracciare di volta in volta il confine tra la politica e ciò che non doveva essere considerato tale. La nascita dell’Ac, in questo schema, acquistava il significato di un progresso del laico verso una superiore dignità. Nel racconto, che prendeva le mosse dai tempi apostolici per dimostrare la perenne validità del paradigma, il passato recente veniva semplicemente rimosso.
Un approccio anche sommario alla stampa associativa, in particolare quella dei rami giovanili, mette in evidenza un dato: la ricerca insistita, e da un certo momento in poi consapevole, di uno ‘stile’. Uno sguardo più ravvicinato scopre che in questo tentativo ebbero convergenza contributi diversi quanto qualificati. Nei programmi della Gioventù maschile, in particolare, si avverte la saldatura fra tradizioni pedagogiche consolidate all’interno della Chiesa – più antica quella dei Gesuiti, relativamente recente quella salesiana – con gli studi più aggiornati. L’Università cattolica, presto all’avanguardia nel campo della psicologia, fu sin dall’inizio, con il pedagogista Mario Casotti, un’importante consulente dei rami giovanili.
Si è detto della cifra barelliana, con il suo impasto di mistica e lessico aziendale. Con l’avvento di Luigi Gedda26, la stampa a uso dei dirigenti della Giac cominciò a parlare esplicitamente di ‘tecnica’: nel campo della formazione, con la messa a punto di strategie e procedure dall’esito verificabile in termini quantitativi anche nelle questioni più legate all’interiorità, e in quello dell’apostolato. Qui si imponeva l’uso degli strumenti della moderna tecnologia, a partire da quelli della comunicazione di massa: cinema e radio. Soprattutto, però, testimoniare equivaleva a essere visibili, nei limiti concessi dal regime: da qui l’insistenza sul distintivo. In realtà era il tipo di visibilità messo in atto dalla modernizzazione in chiave fascista quello che, neppur troppo nascostamente, si invidiava. Ci si sarebbe rifatti, in tema di adunate di massa, nel primi anni del dopoguerra; nel frattempo si faceva il possibile, in occasione delle processioni, tolti di mezzo bandiere associative e gagliardetti, con il basco, bianco per le ragazze, verde per i giovani. Un risvolto di tale approccio in ambito formativo era la specializzazione per fasce d’età, via via sempre più spinta: dalla prima infanzia di Fanciulli e Piccolissime all’età adulta dei Senior e delle Effettive.
Non apparteneva alla ‘tecnica’, ma risaliva piuttosto a un’impostazione sessuofoba, e anche un po’misogina, che Pio X avrebbe condiviso con i successori, la separazione dei sessi, destinata a restare a lungo un connotato dell’Ac. In realtà la separazione, che, pur non formalizzata, esisteva di fatto anche all’interno della democrazia cristiana in virtù di progetti nati da donne per le donne, in prospettiva avrebbe finito per giovare alle truppe di Armida Barelli, fucina di dirigenti e propagandiste che qualche anno dopo sarebbero entrate con naturalezza nei consigli comunali e in Parlamento, in qualche caso anche in partiti diversi da quello cattolico. Comune a giovani e ragazze era l’addestramento alle riunioni, chiamate adunanze, e a tutti i particolari della vita associativa, dai verbali alle campagne di tesseramento; all’organizzazione, insomma, e un’organizzazione fortemente orientata al proselitismo da un lato, dall’altro al controllo sul comportamento dei soci, chiamati per primi a esercitarlo su se stessi, dai rapporti col prossimo alla sfera interiore.
Tra i vari strumenti pedagogici ricordiamo la pubblicazione, nell’ambito dell’Ave, la casa editrice della Giac, di una serie di biografie di cattolici morti in giovane età dopo un percorso esemplare di vita. Il più famoso di questi, anche fuori dall’Ac, è sicuramente Piergiorgio Frassati di cui, nel lavoro del salesiano Antonio Cojazzi27, veniva sfumata la partecipazione al partito popolare a favore dell’icona del giovane sportivo. Faceva gioco anche la prestigiosa provenienza famigliare, trattandosi del figlio del direttore della «Stampa», liberale.
Attraverso l’icona di Frassati, ma anche in molti altri particolari di programmi minuziosamente articolati su tutto l’arco dell’anno, passava il messaggio che essere cattolici, anche pubblicamente, non solo non precludeva i vantaggi della modernità, ma era un ottimo modo, anzi il migliore, per essere a essa intonati. Una modernità tutta in positivo era quella che ispirò l’iniziativa fortunata del «Vittorioso», bell’albo a fumetti, che poté giovarsi per la distribuzione della rete parrocchiale, nell’ambito della quale risuonavano le messe in guardia nei confronti della concorrenza, ma si avvaleva anche di matite di assoluta qualità.
Modernità ricordava, in questo contesto culturale, velocità, efficienza e una certa misura di aggressività. Si poneva in sintonia con questo stile l’attenzione ai ‘numeri’, che induceva a misurare la crescita spirituale anche con le somme raccolte per l’Università cattolica e la traduceva in bollini che gli aspiranti attaccavano all’apposito quaderno, a dimostrare i traguardi di bontà e di pietà raggiunti. Anche il catechismo poteva trasformarsi in una pratica sportiva con i concorsi di cultura religiosa, dotati di classifiche, individuali e a squadre, ed eliminatorie, sino alla finale nazionale. Messo a punto nel corso degli anni Trenta, questo stile era destinato a restare in auge per almeno un ventennio, mostrando più di un pregio in frangenti decisivi per la Chiesa e il mondo cattolico.
La preparazione che un’intera generazione di soci nati dopo la marcia su Roma ricevette nelle file dell’Ac avrebbe dato i suoi frutti nel momento dell’emergenza, nella svolta drammatica della Seconda guerra mondiale. Prima ancora che questa scoppiasse, peraltro, si profilò una nuova crisi. Le tensioni sorte nel 1938 tra la Chiesa e il regime dopo l’emanazione delle leggi razziali indussero le associazioni a un ulteriore, prudente ripiegamento entro gli spazi parrocchiali28. Questi, in più di un caso, dalla semplice stanza della canonica si erano trasformati, col lavoro dei soci (era uno degli obiettivi proposti dal programma), in una struttura ben più capace, con sala da adibirsi anche a cinema/teatro, oratorio dotato di giochi, sedi diverse per i rami: tutti spazi che esercitavano una loro attrattiva soprattutto nei paesi di campagna, dove non di rado Giac e Gf riuscivano a reclutare buona parte dei giovani, se non tutti.
Indubbiamente nel campo giovanile l’iniziativa dell’Ac ‘stile Novecento’ (come allora si diceva) riscosse successo, lasciando indietro il settore adulto. Il settore femminile, poi, sopravanzò quello maschile. Gli Uomini invece, che inizialmente avevano potuto avvalersi di un massiccio travaso di soci dalla Gci (40.000 nel 1927, circa 100.000 tre anni dopo), finirono per disattendere l’aspettativa che li voleva assorbire tutti tra i cattolici militanti adulti. Il passaggio alla Federazione dal mondo delle cooperative, casse rurali e simili, si rivelò tutt’altro che automatico, fatto che la rese il costante fanalino di coda.
Alla fine degli anni Trenta la tendenza complessiva era chiara: in pochi decenni si era passati da un’organizzazione militante di maschi adulti – il vecchio movimento cattolico – a un’organizzazione di massa in cui non solo prevaleva il settore giovanile, ma che anche all’interno di quest’ultimo evidenziava una pericolosa strozzatura. Il servizio militare, il matrimonio, la fine della scuola per una percentuale preoccupante di giovani maschi segnavano infatti la fine della vita associativa. Ancora prima del passaggio agli Uomini (trent’anni o matrimonio), il grosso delle defezioni si verificava al momento del passaggio da Junior (16-20) a Senior.
La tendenza cominciò presto a preoccupare gli osservatori più attenti, al centro e in diocesi dove si era investito molto nell’Ac. In realtà si trattava di una selezione abbastanza naturale nel passaggio da un’attività centrata sulla ricreazione (sia pur dai contenuti formativi) e l’impegno all’esterno. E in ogni caso, al momento del bisogno, i giovani si rivelarono capaci di impegnarsi, ed efficacemente, in un’emergenza drammatica, ma anche piena di potenzialità, come quella creata dalla guerra.
I numeri avevano meno importanza per i rami intellettuali, Fuci e Laureati, per loro natura elitari. Meno coinvolta nell’efficientismo dei ‘rami’, la Fuci, di cui era assistente centrale Giambattista Montini, poté dedicarsi a letture e riflessioni – Maritain e Mounier – che rappresentavano un buon terreno di coltura per l’‘afascismo’. Si trattava di testi con cui fecero conoscenza anche molti dirigenti della Giac, una volta approdati agli studi universitari, e più di un assistente ecclesiastico, soprattutto a livello diocesano. Ci si preparava, senza necessariamente prevedere un cambiamento di regime: furono i fatti a portare questi giovani nei governi del dopoguerra e non ai vertici di uno Stato-partito.
Nel momento del suo maggiore sviluppo tra le due guerre, alla fine degli anni Trenta, l’Ac era ancora oggetto di resistenze, alcune delle quali riguardavano il tentativo del papa di accentrare in essa ogni tipo di attività cattolica. Era il caso degli ordini religiosi che avevano creato proprie organizzazioni giovanili: dalla rete degli oratori salesiani alle Congregazioni mariane dei Gesuiti, sino alla complessa struttura della Gioventù francescana, per molti versi simile alla Giac. Sorde resistenze opponevano, in sede locale, anche le associazioni storiche del laicato – confraternite e pie unioni – che continuavano a essere preferite da più di un adulto, o di un parroco. Soprattutto gli uomini sembravano apprezzare questo tipo di associazioni. La messa in discussione degli usi locali, all’interno del più generale progetto di omologazione iniziato con Pio X, di cui sono testimonianza le sinodi diocesane celebrate in questi decenni, non cessava di scontentare molti, soprattutto nelle campagne. In luoghi in cui la Chiesa e i suoi rituali erano ancora un punto di riferimento per la comunità, l’introduzione dell’Ac fu così identificato con misure impopolari, ad esempio con l’abolizione del cori misti. Non ultimo, a guardare con scarsa simpatia la ‘pupilla’ del papa, era l’ambiente dei cappellani militari, nonché dei numerosi sacerdoti a essi affini per orientamento politico, impegnati nelle organizzazioni di massa del regime.
Dopo alcuni anni di ‘pace controllata’, nel rapporto ondivago della Chiesa con il regime venne infine il momento della definitiva presa di distanza, visto che il regime di lì a poco avrebbe cessato di esistere. L’Ac ancora una volta fu al centro della questione.
Vi è stata discussione tra gli storici sul momento in cui questa presa di distanza iniziò, se la si possa cioè far risalire alle leggi razziali, nel 1938, o vada collocata al momento in cui gli esiti della guerra apparirono segnati, alla fine del 1942. Senza voler dare qui una risposta, va detto che per l’Ac il 1938 rappresentò un nuovo momento di difficoltà, reso più inquietante dall’allineamento dell’Italia alla Germania di Hitler, dove le organizzazioni cattoliche venivano sottoposte a fortissima compressione e, nel caso dei giovani, erano state senz’altro sciolte29. Quello tedesco, che in Italia si voleva imitare, era un totalitarismo potente e determinato, che nei confronti della Chiesa parlava un linguaggio non molto diverso da quello dell’Urss. Si riducevano drasticamente gli spazi di manovra, né vi era molta materia per l’ottimismo. L’imperativo diventò: salvare l’essenziale e resistere. «In Sagrestia!», incitò Pio XI di fronte alla richiesta, avanzata dall’ambasciatore italiano presso la Santa Sede al cardinale Pizzardo, di rinunciare al tesseramento30.
Questa fu la genesi della nuova revisione dello statuto, entrato in funzione nel 1940. L’operazione fu perfezionata all’inizio del nuovo pontificato. Pio XII riconfermò all’Ac il suo ruolo centrale, anche se, va detto sin d’ora, senza l’enfasi accentratrice del predecessore. Sotto il mantello della ‘clericalizzazione’ – a ogni livello la presidenza fu assunta da ecclesiastici – i nuovi statuti in realtà conservavano all’Ac la sua ossatura forte: i rami nazionali. Lo scoppio della guerra rese quanto mai opportuna la discrezione. Preghiera, studio e riflessione, assistenza e cura dei rapporti con i soci al fronte diventarono le attività prevalenti. In realtà la guerra si rivelò il banco di prova del grado di efficienza raggiunto, con la tenuta dei primi anni e con gli sviluppi successivi al vero e proprio momento di svolta, rappresentato dal radiomessaggio del Natale del 1942.
Il radiomessaggio del Natale 1942 è concordemente considerato un tornante decisivo per il mondo cattolico italiano31. Esso incitava i cattolici a scendere nuovamente in campo sul terreno sociale, preparandosi ai mutamenti sicuramente radicali del dopoguerra. Se per i più anziani poteva essere la chiusura di una parentesi, non era così per la generazione dei venti-trentenni, nella cui formazione la memoria del movimento cattolico del passato non aveva alcuno spazio. La direttiva papale invitava a mettere in campo una nuova e incisiva presenza, che trasformasse in programma politico la dottrina sociale della Chiesa. Gemelli scrisse il 29 aprile 1943 per chiedere direttive, tornarono a farsi vivi gli ex popolari; quanto alla politica, si delinearono diverse possibilità.
Ancora prima della caduta di Mussolini si prospettò, con tutti i suoi rischi, una riedizione del primo dopoguerra. La tenuta dell’Ac diventava cruciale. La Giac «non si lasci trascinare nel vortice dei partiti politici», ammonì Pio XII il 12 marzo 194332. Appariva più sicura la strada imboccata da Luigi Gedda, che dopo il 25 luglio offrì a Badoglio quadri sperimentati per gli enti decapitati dalla caduta del regime33. L’8 settembre rese possibile rimandare ogni decisione in materia di partiti, lasciando liberi i membri dell’Ac, col tacito consenso dell’autorità ecclesiastica, di esprimere una varietà di orientamenti politici.
In realtà fu proprio la situazione di emergenza che si aprì con l’armistizio a offrire all’Ac una grande opportunità. La dissoluzione delle strutture dello Stato rappresentò per la Chiesa, una volta di più, l’occasione di svolgere azione di supplenza. Sia a Roma che nelle diocesi le strutture ecclesiastiche fornirono assistenza: dalle cucine economiche alla ricerca dei dispersi, sfollati e prigionieri tramite l’Ufficio informazioni della Santa Sede. Non era solo l’Ac a essere mobilitata; la sua presenza capillare e l’addestramento impartito ne resero peraltro l’impegno – dove si distinsero le sezioni femminili, coadiuvate dagli Aspiranti della Giac – particolarmente visibile. Il grande successo riscosso dalla Democrazia cristiana sin dalle prime consultazioni del dopoguerra, in cui le donne votarono ma vennero anche votate, può essere considerato una ricaduta di questo lavoro: si avverava, dopo ottant’anni, ciò che il padre Curci lucidamente aveva intuito.
Anche su un altro versante l’Ac conquistò credibilità negli ultimi due anni dei conflitto. Mentre la Fuci e i Laureati ricambiavano la relativa libertà di cui avevano goduto con un contingente di futuri dirigenti politici (Aldo Moro e Giulio Andreotti erano stati gli ultimi presidenti degli universitari), molti dei soci dopo l’8 settembre entrarono nella Resistenza, molti dentro le formazioni di Giustizia e Libertà, qualcuno nelle Garibaldi. Vi fu addirittura il caso di formazioni – le Fiamme Verdi lombarde, la brigata Osoppo in Friuli – se non integralmente, in maggioranza cattoliche, in cui gli assistenti ecclesiastici si trasformarono in cappellani militari. Il percorso di Teresio Olivelli, autore della toccante Ribelli per amore, evoca una «uscita dal fascismo» probabilmente comune a tanti giovani soci, per la quale un passato da ‘afascisti’ non risultava un requisito indispensabile.
Oltre alla partecipazione diretta alla resistenza, che necessariamente restò appannaggio di una minoranza, la base dell’Ac nel suo complesso fu coinvolta nell’esperienza del collateralismo, dell’assistenza praticata in mille modi, nella necessità, isolati dai centri nazionali, di regolarsi autonomamente, obbedendo alle direttive dei vescovi, e anche qui con qualche libertà tacitamente autorizzata. Nella primavera del 1943 Pio XII faceva chiedere a Mussolini dal cardinale Maglione la scarcerazione di una serie di dirigenti dell’Ac, arrestati per antifascismo34: da qui alla fine della guerra la gerarchia ecclesiastica avrebbe avuto molte occasioni di impegnarsi per proteggere il proprio investimento sul futuro. Che tale fosse l’Ac lo rivela anche il fatto che nella capitale occupata, tra le mura discrete di enti ecclesiastici, iniziasse da parte di questa la preparazione di nuovi strumenti per l’intervento in democrazia.
Una preoccupazione animava quelle riunioni: occorreva appropriarsi prima degli altri degli spazi di società occupati dallo Stato fascista. Si pensava alla scuola pubblica, alle organizzazioni di massa con tutte le loro ramificazioni, dallo sport alle colonie, sino al grosso boccone rappresentato dalle organizzazioni sindacali e parasindacali. Tramontata l’ipotesi di una successione pura e semplice alla dirigenza fascista nel quadro di uno Stato autoritario, si allestirono gruppi di pressione: associazioni di insegnanti per le scuole dei vari gradi, le Acli per ovviare all’ingresso dei cattolici nel sindacato unitario, la presto potentissima organizzazione dei Coltivatori diretti. Altre se ne sarebbero create nell’immediato dopoguerra: tra queste l’Ucid (1946), destinata a far sentire la voce dei dirigenti e imprenditori cattolici all’interno della Confindustria. Rinacque, tra l’altro, nel 1943, per il momento solo in versione femminile, il movimento scoutistico cattolico. Al centro dell’arcipelago associativo che si stava delineando vi erano uomini e donne, per lo più giovani, dell’Ac35.
Si ripresentava, in questo fiorire di iniziative, la situazione del primo dopoguerra, con in più, per l’organizzazione base, un’alternativa strategica. L’esempio della Gioventù cattolica belga e francese, riorganizzatesi per ambienti (scuola, fabbrica, agricoltura) esercitava infatti un suo fascino, soprattutto in un momento come quello, in cui l’attenzione (mista a timore) verso il mondo del lavoro era al massimo grado. Una soluzione del genere avrebbe però messo in discussione troppe cose. L’affidabilità delle parrocchie italiane – non a torto, del resto – era considerata maggiore e l’articolazione in rami, nell’attuale configurazione unitaria, la migliore garanzia che lo ‘svuotamento’ del primo dopoguerra non si sarebbe ripetuto. Fu adottata una soluzione di compromesso: attorno al nucleo rappresentato dall’associazione parrocchiale si disponevano le ‘opere’, associazioni dirette da un ramo dell’Ac, cui potevano aderire anche cattolici a esso non tesserati. In nome dei comuni obiettivi in un ambiente ci si proponeva così di coinvolgere i tanti che ancora gravitavano attorno ad altri poli – ordini religiosi, confraternite – o semplicemente manifestavano interesse alle iniziative messe in campo. Si immaginò un sistema a cerchi concentrici, al centro dei quali vi era l’Ac, tutt’attorno le opere e infine, all’esterno, gli organismi col maggior grado di ‘aconfessionalità’, partito cattolico compreso. Di fatto, in questa fase, l’Ac fornì a tutti questi livelli personale dirigente, svolgendo il ruolo di interfaccia tra le opere e la Chiesa, nell’intento di utilizzarle senza farsene svuotare, mantenendo allo stesso tempo il controllo su di esse. Ciò era reso possibile in virtù del mandato affidatole dalla Chiesa, che impegnava in concreto tutto il clero a sostenerla. Comprensibile che per un partito che si apprestava a scendere in campo col nome di Democrazia cristiana mantenere con l’Ac un rapporto privilegiato fosse cruciale: esso rappresentava la garanzia – e la condizione – di essere votato.
Se nel dopoguerra il ruolo centrale dell’Ac – ribadito ripetutamente dal magistero papale – non fu messo in dubbio, non fu altrettanto scontato, almeno per qualche tempo, che l’intervento dei cattolici in politica avesse in Italia il volto del partito unico. Sappiamo che questa soluzione, sostenuta in curia dal prosegretario Montini, risultava meno gradita ad altri esponenti degli stessi ambienti vaticani, che anche in seguito avrebbero continuato a sollecitare l’apertura su più fronti, in direzione delle destre. Non è azzardato ipotizzare che sin dall’inizio si fosse consapevoli, negli ambienti ecclesiastici e ai vertici dell’organizzazione, che la soluzione del partito unico comportava gli stessi rischi di un tempo.
Quando, finita la guerra, una folla di iscritti, uomini e donne, riempì le liste elettorali della Dc, dai comuni alla Costituente, fu chiaro a tutti che la distinzione tra Ac e partito, imposta dal Concordato, era una foglia di fico. Le parrocchie si trasformarono in sezioni elettorali e, venute a mancare le ragioni della prudenza, dal papa al parroco il clero prese posizione, con qualche trasparente giro di parole, per la Dc. L’impegno dei rami fu aperto; la propaganda elettorale fu affrontata come l’ennesima campagna e il successo elettorale perseguito come il riscontro dell’efficienza apostolica. L’Ac riscuoteva i frutti del lavoro svolto durante l’emergenza, quanto meno in una parte del paese. Indubbiamente il suo peso elettorale fu maggiore al Nord: la pressione esercitata sui vescovi da Pio XI aveva potuto poco sulla tenace preferenza per le confraternite che contraddistingueva il Meridione, capace anche in passato di produrre grandi individualità piuttosto che una rete associativa durevole.
Maestri cattolici, insegnanti medi, dirigenti e imprenditori, Acli, Coldiretti: più che il partito erano queste associazioni di categoria a riproporre i vecchi problemi. Si era riformato con esse il tessuto degli enti legati a interessi concreti, economici e sociali. La sua esistenza offriva ora un’opportunità in più ai soci adulti, rischiando di accentuare nell’Ac, quanto meno nel settore maschile, la dimensione giovanilistica che era la sua forza e il suo limite. La fine del fascismo rafforzò, insomma, le forze centrifughe.
La riforma degli statuti del 194636 deluse le attese di almeno una parte della base. I nuovi ordinamenti mantennero infatti all’apposita commissione cardinalizia l’alta direzione e non ripristinarono l’elettività dei dirigenti. L’Ac restava dunque sotto tutela anche se la minaccia fascista non sussisteva più. La nuova situazione, agli occhi di chi aveva il potere di decidere, non era peraltro scevra da insidie, una delle quali consisteva proprio nell’essere venute meno le ragioni di coesione create dall’invadenza fascista. Significativo un avvicendamento al vertice. Luigi Gedda divenne presidente degli Uomini, nell’evidente speranza che carisma e tecnica rafforzassero l’attrattiva del ramo. Tale speranza sarebbe andata in buona parte delusa, ma il dopoguerra era il momento dell’ottimismo. Nell’immediato il dispiegamento di mezzi organizzativi messo in campo dall’Ac comunicava un’impressione di forza e salute.
Le manifestazioni di massa attorno alle quali nei primi anni del dopoguerra l’Ac concentrò il suo impegno erano un lascito del periodo precedente. Con le grandi adunate in piazza S. Pietro, i baschi verdi della Giac e quelli della Gf, ora color ruggine, celebrarono il ritrovato diritto alla visibilità. Gli anni che culminarono nel giubileo del 1950 furono scanditi da grandi ‘campagne’, condotte su scala nazionale con l’uso di tutti i mezzi di comunicazione disponibili: stampa, radio, cinema. Piena fiducia negli strumenti della modernità: il mirino delle condanne del resto appariva spostato. La condanna del comunismo accentrava per il momento l’attenzione, a scapito della critica delle società liberali, e secolarizzate dell’occidente.
Il prevedibile successo del giubileo del 1950, in occasione del quale mostrò tutto il suo potenziale la rete del turismo devoto, si accompagnò al fallimento della campagna del ‘grande ritorno’37, che si proponeva di riportare all’obbedienza al precetto pasquale – un risultato misurabile – il maggior numero possibile di ‘lontani’, soprattutto comunisti. Il ‘grande ritorno’, che doveva rappresentare la vittoria della tecnica organizzativa, coniugata con il fervore religioso, aveva però il grande difetto di far leva su di una conoscenza molto sommaria, per non dire nulla, degli uomini e delle donne la cui riconquista era l’obiettivo della campagna, nonché su di una rappresentazione semplificata al limiti del grottesco delle cose in cui essi credevano. I limiti dell’impianto apologetico-controversistico si fecero sentire: la fiducia nelle possibilità della ‘tecnica’ combinata con la buona volontà avrebbe cominciato presto a incrinarsi. Nel giro di pochi anni si fece strada (lo si percepisce nella stampa interna) un senso di insoddisfazione inconcepibile prima della guerra, di cui fu espressione una generazione nuova di dirigenti.
Nel frattempo si continuò a crescere di numero, soprattutto nel settore femminile e nelle fasce d’età dell’infanzia e dell’adolescenza. La formula che combinava ricreazione e formazione, l’attrattiva tuttora esercitata dall’attività liturgica e paraliturgica, attorno alla quale ruotava una parte importante della vita sociale dei piccoli centri, si dimostrava ancora adeguata. Era probabilmente questa tenuta a incoraggiare chi pensava al rapporto con la società italiana in termini di conquista del territorio. In sintonia con questa concezione era il progetto della ‘base missionaria’, che Luigi Gedda lanciò negli anni Cinquanta38, proprio nel momento in cui cominciavano a darsi voce le prime istanze critiche verso una presenza tutta centrata sulla parrocchia. Era proprio quest’ultima infatti, più precisamente la parrocchia delle periferie urbane, la ‘base’ alla quale ricondurre i ‘lontani’ attraverso un’azione concertata, di cui i rami dell’Ac erano il centro, ma che mirava a coinvolgere tutte le forze cattoliche presenti sul campo. C’era (ancora una volta) molto ottimismo in questo approccio, la convinzione che bastasse farsi conoscere, avvicinando uno a uno gli abitanti di un quartiere – di cui si proponeva una vera e propria schedatura a tappeto – per indurli a frequentare la chiesa.
Lasciata nel 1949 la presidenza dell’Unione Uomini ad Agostino Maltarello, suo fedele collaboratore, Gedda, diventato vicepresidente generale dell’Ac, impegnò proprio il ramo nella costruzione, a Roma, del complesso parrocchiale ideale. Il progetto di San Leone Magno39, che prevedeva una stanza per ogni articolazione organizzata del mondo cattolico, era la metafora di una strategia. Una delle stanze della parrocchia ideale, e non la meno importante, era destinata al comitato civico.
I comitati civici avevano svolto egregiamente il loro compito alla scadenza del 1948. La decisione di mantenerne permanentemente operativa la struttura era stata direttamente concordata con i vertici vaticani da Luigi Gedda, non senza destare malumori all’interno dell’Ac40. C’era chi non gradiva la fin troppo evidente volontà di controllare il partito; per un altro verso, nei vertici romani come in periferia, e non solo nell’Ac, continuava a esistere una varietà di orientamenti politici. Lo stesso Gedda sembrava interessato ad alternative di destra al monopolio democristiano, rispecchiando orientamenti presenti in parte della curia. Qualcosa dell’incertezza del biennio 1943-1945, insomma, continuava a sussistere.
Le perplessità su troppo strette intromissioni dell’Ac nella politica venivano anche dal crescere di una sensibilità nuova, che sarebbe stata impensabile pochi decenni prima. Proprio mentre il magistero di Pio XII si allargava a tutti i campi dello scibile, le distinzioni di un Maritain, su cui la Fuci aveva lavorato, tornarono a galla. Si erano fatte sentire dopo la vittoria del 18 aprile 1948 in un intervento su «Cronache sociali» di Giuseppe Lazzati, già presidente diocesano della Giac milanese41. In quei giorni erano riflessioni di pochi, e comunque di membri dell’Ac ‘passati’ alla politica, che all’interno del partito riscoprivano, nell’esperienza concreta, i pregi dell’‘aconfessionalità’, disposti a riconoscere all’Ac il ruolo di formatrice, non quello di chi detta il programma. Nei primi anni Cinquanta cominciarono a farsi sentire, quanto meno tra i dirigenti, anche all’interno: l’opposizione della Giac di Carlo Carretto all’operazione Sturzo ne fu il segnale. Indizi di crisi affioravano anche a proposito del modello di presenza del cattolicesimo organizzato nella società. La critica si concentrò su un punto strategico: l’alternativa parrocchia-ambiente.
Tra i più stretti collaboratori di Gedda, in piena sintonia con questo per metodi e linguaggio durante tutto il primo mandato, a partire dal 1949 Carlo Carretto cominciò a delineare per la Giac un indirizzo nuovo42. Il cambiamento si sentì nei contenuti della stampa interna, che se continuò a parlare di ‘conquista’, lo faceva insinuando il dubbio che non fosse sufficiente, per conquistare, farsi conoscere, ma che servisse conoscere, e perfino farsi ‘contaminare’ dall’interlocutore. «Tecnica», mensile per i dirigenti diocesani, cominciò a far trapelare nei suoi articoli una vera e propria fascinazione per l’ambiente operaio, entrando nel terreno scivoloso delle tematiche di classe. Non solo. La critica si rivolgeva all’interno, giungendo a prendere le distanze da ciò che sino a quel momento aveva garantito successo, e ciò proprio mentre era al culmine, nel magistero pacelliano, il richiamo allo scontro frontale di civiltà: occidente cristiano e oriente comunista.
Wladimiro Dorigo era tra i più espliciti nel mettere in dubbio, dopo l’operazione Sturzo, le «certezze dell’Ottantacinquesimo», evocando – il richiamo era a Emmanuel Mounier, recentemente scomparso – «compromessi di coscienza», «ricorsi alle cadute mitologie», «impossibili difese di un mondo crollante», ma soprattutto indicando come difetti quelli che continuavano a essere punti di forza dell’Ac («Abbiamo abbandonato, anche i giovanissimi, certi motivi di emozione come peccati di gioventù»), e mettendo addirittura in forse la necessità di una rete organizzata stabile. L’organizzazione deve «trasform(arsi) in mille organizzazioni»: il singolo «senza parola d’ordine», in «una guerra d’irregolari», «fatto organizzazione a sé stesso»43.
L’operazione Sturzo fu per questo nuovo gruppo dirigente, ben rappresentato anche nei centri diocesani, un banco di prova e un momento di rottura. Diversi segnali – nell’Ac, ma anche nel partito e nel sindacato – indicavano alla Santa Sede che anche in questo dopoguerra la presa sul cattolicesimo organizzato era messa a rischio. Non solo l’Ac continuava a perdere soci che aveva formato, almeno nel settore maschile, a favore di altri comparti del mondo cattolico, ma cominciava anche a mettere in dubbio ciò che, sin dagli albori del movimento cattolico, era un principio fondamentale: la necessità di un’organizzazione dei cattolici forte, visibile, coesa. E a dare un fondamento teologico, citando De Lubac, alla «fedeltà alle regole del mondo democratico», prospettando un quadro di «leali rapporti» tra Chiesa e Stato «indipendenti e autonomi nelle rispettive schiere» in cui i cattolici militanti fungano da mediatori, e non semplici esecutori44. Da qui la possibilità di sperimentare, sul campo, soluzioni diverse dalla contrapposizione e dal reclutamento.
La generazione di dirigenti nati durante il fascismo, formata all’insegna dell’attivismo geddiano e temprata dalle ‘emergenze’, stava dando frutti inaspettati. Approdata alla Democrazia cristiana, rivendicava autonomia e di lì a poco avrebbe cominciato a parlare di apertura a sinistra. Dentro l’Ac, faceva suoi i punti di vista che in Francia avevano costantemente reso impraticabile l’ipotesi del partito unico dei cattolici. Il ruolo svolto dal Vaticano nell’operazione Sturzo dice che questo non era un dogma neppure oltre Tevere, ma altrettanto certo era che non stava alla base decidere quando e come rompere le righe. Dopo il 1950 il magistero di Pio XII fece risuonare sempre più spesso questo avvertimento. Se Carlo Carretto uscì di scena dimettendosi, in modo tutto sommato discreto, l’allontanamento nel 1954 del successore, Mario Rossi, che ne aveva portato ancora più in là il discorso, fu clamoroso45.
Gli ultimi anni del pontificato pacelliano furono all’insegna delle condanne. Dopo il comunismo ateo (sempre comunque presente) salirono alla ribalta laicismo e indifferentismo. L’attenzione si rivolse all’interno, dove si era iniziato a contestare – in Italia e fuori – il diritto dell’autorità ecclesiastica di stabilire i confini delle proprie competenze. L’autorità ecclesiastica disponeva degli strumenti per risolvere eventuali ‘crisi’ sul piano disciplinare, e lo fece. Negli ultimi anni del pontificato di Pio XII sotto il profilo quantitativo l’Ac raggiunse l’apice dell’espansione, riconfermando il peso sempre maggiore dei settori femminile e dei giovani sotto i vent’anni, nonché lo scarto tra Nord e Sud. Qualcosa, però, stava sottilmente cambiando.
Il magistero di Angelo Roncalli, patriarca di Venezia, non aveva mancato di messe in guardia nei confronti del relativismo e di ogni rivendicazione di autonomia del laicato nelle scelte politiche. Neppure i primi atti da papa facevano pensare a una rottura degli schemi consolidati del magistero pacelliano. L’«Azione Cattolica deve essere e apparire una: una nell’ordine metodico del suo procedere: una nella disciplina ben compresa e volentieri accettata da tutti: una nella concordia che riesce a mettere insieme le buone idee, e ad assommare le ricchezze comuni»46. Capiva «le difficoltà, le ansie, le incertezze di alcuni, e le impazienze dei più giovani», ma «la strada è segnata. Là dove è un Vescovo, ivi, secondo la denominazione caratteristica di ciascun paese, è una Giunta Diocesana. Accanto a ogni parroco è la Giunta Parrocchiale»47. Il nuovo papa additava la strada dello «spirito soprannaturale», contrapposto allo «zelo interessato o smodato»48, ma non sembrava intenzionato a proporre nulla di troppo nuovo: il ruolo dell’Ac continuava a essere definito dal suo rapporto privilegiato con la gerarchia. Il nihil sine episcopo fu ripetuto anche all’Ac francese49. Giovanni XXIII esprimeva umana e paterna comprensione, ma nel rispetto dei rapporti gerarchici. In Italia l’episcopato era peraltro vicino all’organizzazione, nelle cui fila non di rado si era formato. Di lì a poco, durante il concilio, avrebbe difeso la centralità dell’Ac di fronte alla spinta, proveniente dall’estero, a collocarla quanto meno su un piano di parità con altre forme di associazionismo laicale.
Di rottura fu invece senz’altro la scelta di non riconfermare alla scadenza Luigi Gedda. La critica a certi aspetti del passato era esplicita nei discorsi in cui il papa criticava gli eccessi di zelo, sottolineava il primato dello spirituale, la necessità di una formazione adulta, la ricerca della qualità. Ciò peraltro non intendeva essere un via libera alle tendenze centrifughe, ma un modo per compattare l’organizzazione liquidando uno stile e un atteggiamento considerati non più adeguati. Giovanni XXIII in realtà mise in moto il processo di cambiamento prima convocando il concilio, poi lasciandolo lavorare. Dentro il concilio più di una voce avrebbe contestato la centralità dell’Ac nell’intento, in realtà, di contestare il centralismo romano.
Da molte parti fu espressa l’aspettativa che il concilio dicesse una parola nuova sul ruolo del laicato, riscattandolo dalla subalternità in cui l’ecclesiologia lo aveva progressivamente confinato nel corso del Novecento. Le attese andavano oltre l’aspetto organizzativo, puntando al superamento della teoria della supplenza, che giustificava la militanza laicale con la carenza di clero, per passare a una dottrina della partecipazione basata sull’ormai affermato principio della Chiesa come corpo di Cristo.
Diversi erano gli elementi di critica negli interventi della maggioranza: sul piano dottrinale veniva considerato riduttivo far partire la missione dei laici dalla chiamata della gerarchia. Esiste un apostolato dei laici non riconducibile alla collaborazione con quello gerarchico, osservavano alcuni vescovi canadesi50. Lo schema predisposto in curia, «tratta i laici come un padrone tratta i suoi operai», contestava il cardinale Ritter, arcivescovo di St. Louis, che addebitava a esso anche di favorire troppo l’Ac51. Per il cardinale Leo Suenens, arcivescovo di Malines, infine, la nozione di azione cattolica doveva essere «tanto ampia da poter abbracciare tutte le legittime forme di apostolato che perseguono lo stesso fine apostolico della Chiesa». Molto chiaramente: «Un tempo, quando non era ancora elaborata una teologia del laicato, e i laici se ne restavano per lo più passivi nella Chiesa, fu necessario [...] che la gerarchia prendesse l’iniziativa»52: ma questo non era più.
Alla fine il concilio, nella sua ottava sessione (18 novembre 1964), produsse il decreto Apostolicam actuositatem53, che riproponeva l’impianto teorico della costituzione dogmatica Lumen gentium sul dovere/diritto originario dei laici all’apostolato, in virtù della loro partecipazione al corpo mistico, in «una grande varietà [di] associazioni di apostolato», «si chiamino azione cattolica o altro». Parrocchia e ambiente si equivalevano; quanto al rapporto con la gerarchia, questa conferiva un mandato, «senza per questo togliere ai laici la necessaria libertà d’azione». Il documento segnò di fatto la fine del modello voluto da Pio XI.
La rassicurazione di Paolo VI, in un discorso del 7 dicembre 1963 alla giunta centrale («Siete al centro di un continuato interesse della Chiesa, e della Santa Sede in particolare»54) conteneva un elemento nuovo: la sottolineatura del carattere specificamente italiano dell’organizzazione. C’era inoltre nel discorso una nuova souplesse. Se è vero che «la piena efficienza pastorale non può ora concepirsi e raggiungersi senza l’Azione Cattolica», aggiungeva, questa può esistere «tanto nella sua primigenia espressione diocesana e parrocchiale, quanto in quella delle sue ramificazioni specializzate e rivolte all’apostolato d’ambiente». Se era «dovere dei pastori istituirla, sostenerla, formarla», non si sarebbe fatto loro carico di non accogliere l’invito. Inoltre assicurava «uguale affezione a quanti cercano il loro perfezionamento e l’applicazione del loro apostolato in altre forme associative e religiose riconosciute dalla Chiesa»55. Si preannunciavano sostanziali mutamenti di struttura. L’attuale forma, su base nazionale, era stata «utile ai fini ch’erano nella mente dei Papi, dei sacerdoti e dei laici, che in tale forma e in tale misura l’hanno promossa», ora però «ulteriore approfondimento e nuove manifestazioni» erano necessari56. Il primo di questi mutamenti fu il passaggio dell’alta direzione alla Cei. Il papa avrebbe dato consiglio, appoggio e direzione «dove è richiesta»57.
Nel linguaggio ricco di sfumature e distinguo di Paolo VI emergeva chiara un’indicazione: se Roma si impegnava a usare mano libera con i vescovi, era opportuno che questi facessero lo stesso con il laicato: «Nella presente insofferenza delle forme pesantemente autoritarie, o bonariamente paternalistiche», non si usasse il «giogo molesto», bensì «uno stile di sapienza psicologico e di pienezza umana ammirabile»58. Dal concilio l’Ac – così ai delegati vescovili e agli assistenti diocesani – riceveva «piuttosto una conferma, che una riforma»59. Alcuni ulteriori adeguamenti erano necessari. L’assistente ecclesiastico un tempo «era tutto in un’associazione: presiedeva, proponeva, comandava, eseguiva, pagava»; la «maturità» recentemente riconosciuta ai laici esigeva ora che si limitasse alla loro formazione religiosa e al ruolo di tramite con l’autorità ecclesiastica, usando anch’egli «nuova arte pastorale»60: tatto e comprensione.
Si era intanto verificato un drastico ridimensionamento dell’organizzazione sul piano delle iscrizioni. Al venir meno della pressione esercitata da Roma sulle diocesi, nel clima conciliare che privilegiava ciò che sapeva di novità, a poco servirono le ripetute manifestazioni di fiducia del papa. Il 1968 determinò inoltre, soprattutto tra gli studenti, un movimento significativo verso gruppi e ambienti che con la Chiesa e il mondo cattolico non avevano molto a che fare. Cominciò inoltre a farsi sentire la concorrenza di soggetti nuovi, i movimenti, alcuni preesistenti come i Focolari di Clara Lubich, altri al loro esordio, come Comunione e Liberazione. In questa difficile transizione era alla guida dell’Ac Vittorio Bachelet61.
Proveniente dalla Fuci, giurista, nominato da Giovanni XXIII vicepresidente generale nel 1959, al momento dell’accantonamento di Luigi Gedda, diventò presidente a 38 anni, nel 1964, e lo restò sino al 1973. La linea che con lui, e con il consenso della Santa Sede, si inaugurò viene ricordata come «scelta religiosa». L’aspetto più vistoso di quest’ultima fu la fine del collateralismo, inteso non tanto come appoggio alla Dc, quanto come pretesa di controllare quest’ultima. L’Ac del post-concilio metteva al primo posto la formazione e la testimonianza religiosa, nella parrocchia e negli ambienti della fabbrica e della scuola. Le esigenze della Chiesa locale acquistarono priorità sui programmi nazionali dei rami, giunti all’epilogo della loro parabola con la fine della pluridecennale separazione tra associazioni femminili e maschili. Queste le linee guida dello statuto che adeguava l’organizzazione al nuovo corso imboccato dalla Chiesa, pubblicato ad experimentum nell’estate del 1969.
La svolta era drastica. Venuta meno la divisione per sesso, restarono attive tre fasce d’età: Giovani e Adulti, più i Ragazzi per l’infanzia e la prima adolescenza. Fu parzialmente reintrodotta l’elettività dei dirigenti, che comunque non riguardava i presidenti, ancora designati dall’autorità ecclesiastica. Si realizzò in definitiva quella diocesanizzazione per cui il fascismo si era tanto speso in passato. Per quanto riguarda l’alternativa ambienti-parrocchia, quest’ultima restò la base operativa delle sezioni, mentre venivano previsti per gli ambienti della scuola e del lavoro dei ‘gruppi’, che insieme formano un ‘movimento’ (termine che stava prendendo quota nel clima del ’68).
Lo statuto entrò in vigore mentre le cifre del tesseramento precipitavano ai minimi storici. Dagli oltre tre milioni del 1959 in meno di un decennio i soci diventarono 600.000. Nella lettera del papa all’assistente centrale monsignor Franco Costa lo spopolamento in atto era però solo evocato: «l’attrattiva dell’impegno temporale è forte e allettante»62. Tutto sommato, pareva di capire, la situazione era favorevole a un nuovo inizio all’insegna del ritorno all’essenziale. Si poteva intendere così il passaggio del discorso all’assemblea della Cei dell’11 aprile del 1970: «sarebbe trascurare tanti fermenti generosi e nobili della presente generazione, se non mostrassimo di saper individuare nel tumulto delle inquietudini e delle agitazioni odierne certe aspirazioni, certe promesse che ci sembrano presagi e fattori di un felice rinnovamento»63. Ed ancora in positivo, sempre alla Cei nel giugno del 1971: «dopo un periodo d’incertezza, d’autocritica, di analisi sociologico-ecclesiale, la formula dell’Azione Cattolica risulta rinnovata, ma sostanzialmente rivendicata nella sua ragion d’essere», anche a fronte del «fenomeno di vegetazione spontanea associativa» rappresentato dai movimenti64. Mano a mano che proseguiva un decennio per la Chiesa italiana di dissenso e lacerazioni, deplorando la scelta delle Acli per il socialismo, il pontefice rinnovava il suo apprezzamento per la strada che la malconcia Ac stava percorrendo. Nel 1973 le rivolse un decalogo che voleva essere un incoraggiamento a continuare sul cammino intrapreso. Ripetuto nelle parole di Paolo VI l’auspicio di una ripresa, che però stentava ad arrivare65.
A questo punto della sua storia, per volontà del papa, il rapporto dell’Ac con l’organo dell’episcopato italiano era diventato determinante. L’appoggio della Cei non era però senza condizioni. Non avrebbe tenuto conto di «esitazioni ed incertezze», avvertiva nel 1976, purché la «scelta religiosa» non diventasse motivo di «indifferenza per le questioni sociali e le loro implicazioni politiche»66: un chiaro invito a non rifugiarsi nell’astensione sulle questioni più contrastate (era di due anni prima il referendum sul divorzio). La dialettica interna non andava risolta col criterio della maggioranza, ma doveva trovare composizione nell’unione col vescovo, vale a dire obbedendo alle sue indicazioni. La lettera suonava come un incitamento, non privo di impazienza, a riportarsi all’altezza del ruolo che la Chiesa continuava ad attribuire all’organizzazione.
Indubbiamente la ripresa non lasciava sperare neanche lontanamente i numeri del passato. Quando Giovanni Paolo II si rivolse per la prima volta pubblicamente all’Ac questa contava non più di 650.000 soci. Il che la rendeva la più imponente delle associazioni sul campo, ma rivelava anche un declino destinato, nelle nuove condizioni, a essere irreversibile. Non si trattava solo di dimensioni. Non essere «insicuri, incerti, confusi» in un mondo di «pluralismo ideologico», lasciandosi «intimidire, o distrarre, o confondere da dottrine parziali o erronee»: il nuovo pontefice invitava a darsi invece un’identità forte, a dare al mondo risposte definite – quelle dettate dal magistero – piuttosto che farsene interrogare. Invitava insomma a essere più simili ai movimenti, aggredendo da un lato il secolo con certezze, disponendosi dall’altro a un «atteggiamento di obbedienza e di docilità alle direttive della Chiesa, sia in campo dottrinale, morale e pedagogico, sia in campo liturgico»67.
I movimenti si aggregavano attorno a un’idea forte e semplice, coltivando al proprio interno il concetto di autorità in modo non troppo dissimile da formazioni militari. Erano proiettati naturalmente alla conquista, senza le esitazioni di chi sta ripensando la propria identità e vive in termini problematici l’incontro con altre culture. Nei primi documenti del magistero pubblico di Giovanni Paolo II, i movimenti (soprattutto Comunione e Liberazione, che il papa aveva conosciuto da arcivescovo di Cracovia, e nei cui confronti vi era qualcosa di più dell’apprezzamento: sintonia di linguaggio e di metodo) assunsero un rilievo inedito, mentre all’Ac, dopo la scontata riconferma, fu indirizzata tutta una serie di rilievi critici. In soldoni, ciò da cui essa doveva guardarsi era proprio ciò che dai movimenti la differenziava. Lo si coglie nell’accenno all’«indulgere a orientamenti diversi o addirittura contrari alle indicazioni dell’episcopato» e a «forme di debolezza nei confronti di ideologie e prassi contrastanti con la fede cattolica»68, che se non venivano direttamente rimproverati all’associazione, scopertamente alludevano a tentazioni presenti al suo interno. Compito del militante era andare alla conquista di un mondo «altrimenti disperato»69, che, se non era cristiano, non aveva nulla di buono da proporre. Rispuntava la distinzione classica nel magistero pre-conciliare tra errore ed errante.
Anche se nel corso degli anni Ottanta non mancarono gli apprezzamenti, soprattutto per la realtà dell’Acr, l’Ac, confinata definitivamente in una dimensione italiana, non guadagnò terreno nei discorsi di Giovanni Paolo II. Né mancarono ulteriori messe in guardia, mentre cresceva nel magistero papale il tema dell’identificazione tra valori umani e valori cristiani. Il 25 aprile 1986, ai partecipanti alla VI assemblea nazionale, espresse «affetto» e «consapevolezza della sua importanza», parlò di «volontà di interpretare le attese e le speranze dei vostri vescovi, tanto legati all’Azione Cattolica e spesso formatisi nel suo seno»70: un episcopato che ancora in buona misura il papa aveva ereditato dai predecessori, ma che provvedeva gradualmente a rimpiazzare con elementi in sintonia con la propria sensibilità. Si fece nuovamente insistente anche la sottolineatura dell’obbedienza alla gerarchia, alle «discutibili visioni ecclesiologiche» generate da «improprie estensioni del concetto di ‘laicità’»71. Un altro ritorno al passato era l’invito a non farsi «condizionare da quei meccanismi che la mentalità secolaristica mette in atto per bloccare sul nascere le vie dell’evangelizzazione», per evitare «accuse di trionfalismo o di proselitismo» nell’intento di «smussare le opposizioni all’annuncio evangelico»72.
Anno dopo anno, nei non molti discorsi che le rivolse, mentre si susseguivano presidenze variamente collegate all’area dei cattolici democratici (e qui ricordiamo il ruolo che nella scelta degli uomini svolgeva la Cei), le ricordava che l’obbedienza doveva produrre fatti, prese di posizione concrete, anche a prezzo – si intuisce – di distacchi dolorosi. Il 26 settembre 1987: «Non comportatevi come quel figlio che, a un’adesione verbale alla volontà del Padre, non ha poi fatto seguire l’impegno concreto dei fatti»73.
Le messe in guardia finirono all’inizio degli anni Novanta. All’Ac, dal 1991 presieduta da Raffaele Cananzi, si diede atto infine di essersi allineata alle linee forti del pontificato: la difesa della vita, della famiglia, dell’equazione umano = cristiano. La sconfitta mondiale del comunismo rendeva possibile una maggiore souplesse, soprattutto tenuto conto del fatto che, dopo quasi tre lustri di pontificato, nel mondo cattolico italiano gli ambienti più disposti a farsi ‘contaminare’ erano diventati del tutto minoritari. Sempre più identificata con la parrocchia, le si diede atto di essere, all’interno di questa, una presenza «mite e serena»74. In vista della nuova riforma degli statuti, il papa invitò anzi i parroci a «‘non avere paura’di accogliere in parrocchia l’esperienza associativa dell’Azione Cattolica»75. La lettera di Camillo Ruini, segretario della Cei, che accompagnava il nuovo ordinamento, entrato in vigore nel 2003, conteneva però, comprensibilmente, quasi solo citazioni del magistero di Paolo VI76.
Mantenuti invariati gli articoli iniziali, che ne definivano natura e compiti, l’Ac vedeva ulteriormente sottolineato il legame con le diocesi, le cui particolari esigenze – era finalmente esplicitato – venivano prima di qualsiasi programma nazionale. Il preambolo conteneva termini provenienti da un lessico diverso da quello tradizionale dell’Ac: «esperienza di comunione», «vicenda di popolo», «soggetto» e «ascolto» avevano origine nel vocabolario dei movimenti, che Giovanni Paolo II aveva fatto proprio e diffuso nella Chiesa. Recuperare slancio missionario e fiducia di poter entrare in comunicazione con gli altri, mostrare che il Vangelo produce un’umanità piena, erano tutti motivi che bene si inquadravano nel discorso del papa. Un passaggio è significativo: era ora di dimostrare che l’Ac era «una realtà su cui la Chiesa può tornare a scommettere»77: sottintendendo che da qualche tempo aveva cessato di farlo. Per la prima volta nel dispositivo era previsto il caso di scioglimento.
Il pontificato di Benedetto XVI vede l’Ac destinataria dell’ormai tradizionale serie di rassicurazioni e atti di stima. Nel discorso del 4 maggio 2008 – il primo dall’inizio del pontificato, se prescindiamo dai brevi saluti in occasione della ormai tradizionale visita natalizia dei Ragazzi – Benedetto XVI ricorda come «l’amata Nazione Italiana» abbia «sempre potuto contare su uomini e donne» da essa formati, «disposti a servire disinteressatamente la causa del bene comune, per l’edificazione di un giusto ordine della società e dello Stato». Un giudizio positivo, quindi, ma ancora tutt’altro entusiasmo per il ‘carisma’ dei movimenti, la cui dimensione missionaria è invece mondiale, mentre quella dell’Ac – ribadisce anche l’«Osservatore romano» – ha confini che sono, sia pur in ogni «ambiente di vita», «quelli delle città e dei paesi d’Italia»78.
1 Distinzioni che non corrono, «La Civiltà cattolica», 1903, 4, p. 260.
2 Restano di riferimento per la storia dell’Opera dei congressi i classici G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Bari 1966; per il ricchissimo materiale proveniente dall’archivio dell’Opera, A. Gambasin, Il movimento sociale nell’opera dei congressi: 1874-1904. Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma 1958; G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma 1972; da consultare anche DSMC.
3 Istruzione della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari sull’Azione popolare cristiana o democratico-cristiana in Italia, ASS, 34, Roma, 1901-1902, pp. 401 segg.
4 L’articolo del padre Curci, uscito allora anonimo, Il Parlamento italiano nel 1861, «La Civiltà cattolica», 1861, 10, 33-47, il passo sul suffragio femminile a p. 37.
5 ASS, 36, 1903-1904, pp. 341-344.
6 ASS, 37, 1904-1905, pp. 17-23.
7 Il testamento di Luigi Windthorst al suo popolo, «La Civiltà cattolica», 1904, 3, p. 653.
8 Della popolarità nell’Azione Cattolica, «La Civiltà cattolica», 1905, 2, p. 312.
9 ASS, 37, 1904-1905, p. 754.
10 La lettera con cui il cardinale Merry del Val (15 febbraio 1911) «rimette» a Stanislao Medolago Albani il nuovo statuto «che il Santo Padre, Pio X, intende sostituire all’attuale», AAS, 3, 1914, p. 154.
11 Sulla Gioventù cattolica cfr. La “Gioventù cattolica” dopo l’unità. 1868-1968, a cura di L. Osbat, F. Piva, Roma 1972. Sul primo periodo L. Bedeschi, Le origini della Gioventù cattolica. Dalla caduta del Governo pontificio al primo Congresso cattolico di Venezia su documenti inediti d’archivio, Bologna 1959. In particolare sulla presidenza di Paolo Pericoli L. Ferrari, Appunti sulla Gioventù cattolica d’inizio secolo. La presidenza di Paolo Pericoli, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 1990, pp. 266-297; Id., La gioventù cattolica italiana nella seconda fase della presidenza Pericoli (1910-1922), «Rivista di storia e letteratura religiosa», 1992, pp. 533-589.
12 La lettera del Segretario di Stato, del 22 marzo 1904, in ASS 36, 1903-1904, pp. 604-605.
13 Sulla nascita dell’Unione Femminile cfr. P. Gaiotti De Biase, Le origini del movimento femminile cattolico, Brescia 2005. In generale ricco di informazioni sulla genesi e il primo sviluppo dei rami dell’Ac, F. Magri, L’Azione cattolica in Italia, I, 1775-1939, Milano 1953. Sui rapporti tra la Bandini e Toniolo cfr. R. Molesti, Giuseppe Toniolo. Il pensiero e l’opera, Milano 2005, p. 91.
14 Su Armida Barelli si veda l’autobiografico La sorella maggiore racconta. Storia della Gioventù Femminile di Azione Cattolica Italiana dal 1918 al 1948, Milano 1949. Un’ampia biografia si deve alla collaboratrice M. Sticco, Una donna tra due secoli. Armida Barelli, Milano 1967.
15 Lettera a Giuseppe della Torre (25 febbraio 1915), AAS, 7, 1915, 5, p. 140.
16 Una importante raccolta di documenti pubblici del pontificato di Pio XI sull’Ac è A.M. Cavagna, Pio XI e l’Azione Cattolica, Roma 1929.
17 Ibidem, pp. 332-333.
18 Sulle revisioni statutarie del ventennio fascista cfr. L. Ferrari Una storia dell’Azione cattolica. Gli ordinamenti statutari da Pio XI a Pio XII, Genova 1989. Per un discorso di sintesi: G. de Antonellis, Storia dell’Azione cattolica, Milano 1987; M. Casella, L’ Azione cattolica nell’Italia contemporanea. 1919-1969, Roma 1992.
19 La lettera di Gasparri al presidente generale della Fiuc (20 maggio 1927) in A.M. Cavagna, Pio XI e l’Azione cattolica, cit., pp. 386-387.
20 Di grande interesse i documenti pubblicati in M. Casella, Nuovi documenti sull’Azione Cattolica all’inizio del pontificato di Pio XI, in La moralità dello storico: indagine storica e libertà di ricerca. Saggi in onore di Fausto Fonzi, a cura di A. Ciampani, C. Fiorentino, V.G. Pacifici, Soveria Mannelli 2004, pp. 273-320.
21 Passi del discorso di Pio XI alla Giunta Centrale (14 dicembre 1928), ibidem, p. 319.
22 Utile lo spoglio del mensile «L’Assistente ecclesiastico», (1931-1967).
23 Si tratta di uno dei momenti più studiati della storia dell’Ac. Cfr. Chiesa, Azione Cattolica e Fascismo nel 1931, Atti dell’Incontro di studio (Roma 1981), Roma 1983.
24 A partire dal saggio di R. Moro, Afascismo e antifascismo nei movimenti intellettuali di Azione Cattolica dopo il 1931, «Storia contemporanea», 1975, 4, pp. 733-799.
25 L. Civardi, Manuale di Azione Cattolica, II, La pratica, Padova 19337, pp. 11 segg.
26 C. Falconi, Luigi Gedda e l’Azione cattolica, Firenze 1958; G. Poggi, Il clero di riserva. Studio sociologico sull’Azione cattolica durante la presidenza Gedda, Milano 1963. Si veda anche l’autobiografico L. Gedda, Addio Gioventù, Roma 1947.
27 A. Cojazzi, Pier Giorgio Frassati. Testimonianze raccolte da don Antonio Cojazzi, Torino 1928.
28 Si veda per questo M. Casella, La crisi del 1938 tra Stato e Chiesa nella documentazione dell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», gennaio-giugno 2000, pp. 91-186; Id., L’Azione Cattolica all’inizio del pontificato di Pio XII. La riforma statutaria del 1939 nel giudizio dei vescovi italiani, Roma, 1985.
29 Cfr. F. Zipfel, Kirchenkampf in Deutschland 1933-1945: Religionsverfolgung und Selbstbehauptung der Kirchen in der nationalsozialistischen Zeit, Berlin 1965, pp. 60 segg.
30 M. Casella, La crisi, cit., p.105.
31 Atti e discorsi di S.S. Pio XII, a cura di E. Coco, Roma 1952-1955, IV, 1942, pp. 299-324. Il testo è anche consultabile in http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1942/ documents/hf_p-xii_spe_19421224_radiomessage-christmas_it. html (24 ottobre 2010). Sulla stagione che segue il radiomessaggio M. Casella, L’Azione cattolica alla caduta del fascismo: attività e progetti per il dopoguerra, 1942-’45, Roma 1984.
32 M. Casella, L’Azione cattolica alla caduta, cit., p. 44.
33 T. Sala, Un’offerta di collaborazione dell’ACI al governo Badoglio (agosto 1943), «Rivista di storia contemporanea», 1972, pp. 517-533.
34 A. Ossicini, Il “colloquio” con don Giuseppe De Luca: dalla Resistenza al Concilio Vaticano II, Roma 1992, p. 32.
35 Una ricostruzione dettagliata in La presenza sociale del PCI e della DC, a cura di A. Manoukian, Bologna 1969.
36 L. Ferrari, Gli Statuti dell’Azione Cattolica del 1946, «Italia contemporanea», 1978, pp. 57-83.
37 Importante documentazione in questo contributo di M. Casella, L’Anno Santo del 1950, l’Azione Cattolica e la ‘Crociata del gran ritorno’. Lettere e relazioni da diocesi e parrocchie dell’Italia settentrionale e centrale, «Rivista di storia sociale e religiosa», 2008, pp. 203-248.
38 La base missionaria, Azione Cattolica Italiana, Roma 1953.
39 F. Magri, L’azione cattolica in Italia, II, Milano 1953, p. 170. Per dettagli sull’operazione si veda la rivista interna «Noi uomini».
40 Mondo democristiano, mondo cattolico nel secondo Novecento italiano: a colloquio con Corrado Corghi, a cura di A. Nesti, A. Scarpellini, Firenze 2006, pp. 72-74 e passim.
41 G. Lazzati, Azione cattolica e azione politica, «Cronache sociali», 1-15 novembre 1948, pp. 1-3; riportato in L. Ferrari, L’Azione cattolica in Italia dalle origini al pontificato di Paolo VI, Brescia 1982, pp. 136-138.
42 Sulla vicenda della GIAC nel secondo dopoguerra importante F. Piva, “La Gioventù Cattolica in cammino...”. Memoria e storia del gruppo dirigente, Milano 2003.
43 W. Dorigo, Le certezze dell’ottantacinquesimo, «Gioventù», 19-26 ottobre 1952; Id., Il nostro laicismo, ibidem, 9 marzo 1952; citati insieme ad altri documenti dello stesso orientamento in L. Ferrari, L’Azione Cattolica in Italia dalle origini, cit., pp. 147 segg.
44 Ibidem.
45 Oltre al testo di Piva (n. 46) cfr. l’autobiografico M.V. Rossi, I giorni dell’onnipotenza. Memoria di una esperienza cattolica, Roma 1975.
46 L’allocuzione all’Ac di Roma (10 gennaio 1960), AAS, 52, 1960, p. 88.
47 Ibidem, p. 85.
48 Ai presidenti dell’Unione Uomini e ai partecipanti al congresso nazionale del Movimento Laureati (5 gennaio 1961). Di «sconsiderato attivismo» parla il discorso agli Uomini di AC (13 maggio 1962. Per gli atti papali, soprattutto da Giovanni XXIII in poi, si consulti http://www.vatican.va/holy_father/john_ xxiii/speeches/1962/documents/hf_j-xxiii_spe_19620105_unione-uomini_it.html (24 ottobre 2010).
49 Il testo del discorso (12 marzo 1961), AAS, 53, 1961, pp. 323 segg., in partic. p. 326.
50 Uno stralcio del discorso di monsignor R. De Roo (Victoria) del 7 ottobre 1964 in Il Concilio Vaticano II. Terzo periodo. 1964-65, Roma 1965, p. 145.
51 Ibidem, p. 144.
52 L’intervento, del 9 ottobre 1964, ibidem, p. 163.
53 Conciliorum Oecomenicorum Decreta, a cura dell’Istituto per le scienze religiose, Bologna 1991, p. 994.
54 http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/speeches/1963/ documents/hf_p-vi_spe_19631207_apostolato_it.html (24 ottobre 2010).
55 Discorso ai presidenti diocesani (30 luglio 1963), AAS, 55, 1963, p. 689.
56 Discorso alla Cei in occasione dell’assemblea plenaria (14 aprile 1964), AAS, 56, 1964, p. 380.
57 Così nell’allocuzione ai vescovi italiani, in occasione della loro assemblea generale il 23 giugno 1966: «Toccherà a voi, venerati Fratelli, prendere in mano l’Azione Cattolica e le questioni relative all’apostolato dei Laici», AAS, 58, 1966, p. 574.
58 Ai delegati vescovili e agli assistenti diocesani dell’Ac, 8 luglio 1966, ibidem p. 643.
59 Ibidem, p. 640.
60 Ibidem, p. 644.
61 Cfr. V. De Marco, Storia dell’Azione Cattolica negli anni Settanta, Roma 2007; per il contesto cfr. anche A. Melloni, Gli anni Settanta della Chiesa cattolica. La complessità nella ricezione del Concilio, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di F. Lussana, G. Marramao, Soveria Mannelli 2003, p. 223.
62 Il testo della lettera (10 ottobre 1969) in http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/letters/1969/documents/hf_p-vi_let_ 19691010_franco-costa_it (24 ottobre 2010).
63 In AAS, 63, 1971, p. 275. Sul rapporto tra Cei e Ac cfr. F. Sportelli, La conferenza episcopale italiana. 1952-1972, Galatina 1994.
64 Discorso alla Cei (19 giugno 1971), AAS, 63, 1971, p. 556.
65 Udienza ai delegati e presidenza Ac (22 settembre 1973), AAS, 65, 1973, pp. 535 segg.
66 La lettera del Consiglio permanente della Cei al presidente nazionale dell’Ac (2 febbraio 1976) in http://www.azionecattolica.it/aci/Chi_siamo/Documenti/Lo_Statuto/lostatuto/lettera_ cons_cei.htm (24 ottobre 2010).
67 Agli aderenti all’Ac (30 dicembre 1978), in http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1978/documents/hf_jp-ii_spe_19781230_azione-cattolica-ital_it.html (24 ottobre 2010).
68 Discorso al Consiglio nazionale dell’Ac (12 gennaio 1981), in http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1980/ january/documents/hf_jp-ii_spe_19800112_azione-cattolica_it. html (24 ottobre 2010).
69 Agli aderenti all’Ac (30 dicembre 1978), cit.
70 Ai partecipanti alla VI assemblea nazionale dell’Ac (25 aprile 1986), in http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ ii/speeches/1986/april/documents/hf_jp-ii_spe_19860425_vi-assemblea-aci_it.html (24 ottobre 2010).
71 Ibidem.
72 Ibidem.
73 Messa per l’Azione cattolica italiana. Omelia (26 settembre 1987), http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1987/documents/hf_jp-ii_hom_19870926_azione%20cattolica-italiana_it.html (24 ottobre 2010).
74 Discorso all’assemblea generale (26 aprile 2002), http:// www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/2002/april/documents/hf_jp-ii_spe_20020426_azione-cattolica_it.html (24 ottobre 2010).
75 Messaggio agli Assistenti ecclesiastici (20 febbraio 2003), http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/2003/ february/documents/hf_jp-ii_spe_20030220_azione-cattolica-italiana_it.html (24 ottobre 2010).
76 Gli statuti dell’Azione cattolica italiana, a cura di E. Preziosi, Roma 2003. Il testo dello statuto e materiali relativi, compresa la lettera del cardinale Ruini, anche in http://www.azionecattolica.it/aci/Chi_siamo/Documenti/statuto_ag (24 ottobre 2010). Cfr. E. Preziosi, Il rinnovamento “lungo” dell’Azione cattolica italiana. L’evoluzione degli statuti”, «Studium», 99, 2003, pp. 593-612.
77 Premessa allo Statuto, p. 24.
78 g.m.v., Nel segno di una fede amica dell’intelligenza, «L’Osservatore romano» 5-6 maggio 2008.