Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il mondo musicale italiano dell’Ottocento è dominato dall’opera lirica, che rappresenta non soltanto il principale divertimento di fasce sociali sempre più ampie ma anche una vera e propria “industria musicale” che coinvolge numerose persone e che rappresenta l’Italia all’estero. Nel corso dell’Ottocento, e in particolare dopo il 1848, l’opera diviene inoltre veicolo d’ideologia politica. Il sistema produttivo rimane quello impresariale sorto nel Seicento, ma a poco a poco agli impresari si affiancano gli agenti e infine gli editori che influenzano non poco il mercato.
L’opera lirica ha un ruolo centrale nella vita musicale italiana dell’Ottocento, anzi si potrebbe dire nella vita sociale; essa costituisce infatti il principale divertimento di fasce sempre più ampie di popolazione, ed è di fatto un elemento di unità in un Paese diviso. Rispetto ad altri Paesi europei, in particolare la Germania, la musica lirica è infinitamente più diffusa e apprezzata di quella sinfonica e cameristica e anche la musica sacra, che tanti capolavori aveva prodotto nei secoli precedenti, si riduce a mera routine.
Senza cadere in luoghi comuni, quali quello che vede nell’Italia il Paese del belcanto o simili, si può tranquillamente affermare che il melodramma è parte integrante dell’identità nazionale: le stagioni d’opera si svolgono infatti secondo le stesse modalità in tutti gli Stati preunitari; opere e cantanti circolano per il Paese abbastanza liberamente e, addirittura, alcuni impresari hanno sotto la loro giurisdizione teatri esistenti in Stati diversi. A titolo d’esempio dell’unità del mercato italiano si può prendere il primo decennio di vita di un’opera famosa come il Rigoletto di Verdi e vedere la sua distribuzione sul territorio italiano, dal nord al sud. Il melodramma contribuisce poi a fornire all’estero un’immagine unitaria dell’Italia perché sin dalla sua nascita l’opera italiana esporta in tutto il mondo non solo modelli musicali ma anche organizzativi.
Il teatro d’opera nasce come spettacolo di corte offerto ai cortigiani da un principe-mecenate che ricava lustro e prestigio, all’interno della sua corte e fuori di essa. A questo modello di gestione si affianca quasi subito quello impresariale attraverso l’apertura, nel 1637 a Venezia, del primo teatro pubblico a pagamento. La caratteristica fondamentale del modello veneziano è che la gestione del teatro e l’organizzazione degli spettacoli sono affidate per lo più a persone diverse; i numerosi teatri veneziani sono infatti di proprietà di nobili famiglie che non li gestiscono direttamente, preferendo affidare la loro conduzione a un impresario.
Il modello impresariale si diffonde rapidamente e si afferma definitivamente nel Settecento, rimanendo sostanzialmente in vigore per tutto l’Ottocento.
Esistono alcune eccezioni di teatri gestiti direttamente dai proprietari, da associazioni di palchettisti o di cantanti. In linea di massima, però, è sempre l’impresario a mettere insieme una compagnia di cantanti e a offrirla alla proprietà di un teatro, impegnandosi a far rappresentare un certo numero di opere in un certo periodo, la cosiddetta stagione. L’impresario contatta inoltre il librettista e il compositore, e commissiona loro almeno un’opera nuova; altre volte fornisce solo una o più repliche di uno spettacolo già montato. Le condizioni dell’accordo sono in ogni modo determinate da contratti piuttosto dettagliati, che tendono a garantire la riuscita della stagione e a minimizzare i rischi per l’impresario. Nel 1823 appare il primo libro – una specie di manuale per i professionisti del settore – che codifica la tipologia dei contratti, dal titolo Cenni teorico-pratici sulle aziende teatrali dell’impresario Giovanni Valle, e alla fine del secolo ne viene pubblicato un secondo, La legislazione e la giurisprudenza dei teatri (1873) di Enrico Rosmini. Entrambi i testi sono una miniera di informazioni di prima mano sul mondo dell’opera.
L’impresario, malgrado il suo nome derivi proprio da “impresa”, non è un imprenditore in senso moderno, perché quasi mai fa affidamento solamente sui capitali personali: si può piuttosto definire un fornitore di “servizi”. Altra caratteristica fondamentale dell’organizzazione teatrale è difatti la commistione di privato e pubblico: la maggior parte dei teatri italiani è fornita di un finanziamento detto “dote”, elargito dalla municipalità, o da una società di nobili proprietari dei palchi, o – nei casi di teatri di corte come il Regio di Torino e il San Carlo di Napoli – dai regnanti. Sulla base della dote offerta l’impresario organizza la stagione, determinando il cast, le spese per l’orchestra, le scene e i costumi, e calcolando anche il suo margine di guadagno.
Per tutto l’Ottocento, dunque, l’opera rimane un “affare di stato”, nel senso che le classi dominanti forniscono i mezzi per la sua realizzazione e la controllano. L’opera è uno strumento di consenso, di controllo sociale e di affermazione politica; dallo splendore di una stagione si giudica il decoro della società che ne fruisce.
La conseguenza più notevole di tutto ciò è che la logica di guadagno dell’impresario si scontra con le esigenze di lusso e decoro perseguite dai proprietari e dai fruitori. Ad esempio i prezzi dei biglietti rimangono piuttosto bassi fino al 1830, quando le caratteristiche aristocratiche del modello produttivo iniziano ad affievolirsi. Il controllo della stagione da parte dell’autorità avviene direttamente, nel caso di teatri gestiti dalla corte, e indirettamente attraverso la “Deputazione dei pubblici spettacoli” o altri organismi similari, che nascono in tutte le città d’Italia.
Una deputazione dei pubblici spettacoli gestisce ad esempio La Fenice di Venezia, uno dei più prestigiosi teatri italiani, e con essa si scontrerà più volte Giuseppe Verdi, ad esempio per Rigoletto. La deputazione non ha solo compiti di controllo amministrativo ma anche politico e, insieme alla polizia, si occupa della censura – non tanto politica quanto morale – dei testi.
Alla polizia è invece demandato l’ordine pubblico e il tranquillo svolgimento dello spettacolo. L’opera è talmente “affare di stato” che la polizia è autorizzata a intervenire nei confronti di cantanti capricciosi, di impresari insolventi, di allestimenti poveri. Si contano casi di cantanti imprigionati o minacciati di esserlo, ma altrettanti casi di cantanti che resistono baldanzosamente dinanzi a qualsiasi autorità, come quella prima donna che, alla richiesta di un bis, si rifiuta anche davanti alla minaccia di una notte in guardina, affermando “piuttosto piangere possono farmi, che cantare”.
Anche il comportamento all’interno del teatro è regolato da complesse leggi, scritte e non scritte. Innanzitutto, come è stato più volte affermato, la forma stessa dei teatri d’opera “all’italiana” con una platea e diversi ordini di palchi, rispecchia l’ordinamento gerarchico della società. Il secondo ordine di palchi è riservato in genere alla nobiltà e qui trova posto anche l’eventuale palco reale, o comunque quello destinato alle autorità, che è un po’ più grande degli altri. La platea, che per tutto il Settecento è occupata soprattutto dalle cosiddette “cappe nere” – vale a dire i servitori di maggior rango –, nel corso dell’Ottocento si apre al pubblico pagante, composto da membri della piccola borghesia. Viene abolito l’ingresso gratuito per lo stuolo dei servitori che attendevano gli ordini dei loro padroni nei corridoi dei palchi. Un’altra modifica indicativa è la trasformazione, attraverso l’abbattimento dei muri divisori, dell’ultimo ordine di palchi in galleria che sottolinea l’ingresso a teatro delle classi popolari. In alcuni teatri, più aristocratici e quindi conservatori come La Fenice, tale modificazione nelle strutture avverrà solo alla fine del secolo.
Se il sistema produttivo non muta sostanzialmente nel corso del XIX secolo, gli avvenimenti storici provocano tuttavia alcuni mutamenti. Un’importante cesura è costituita dai moti del 1848 che provocano una crisi generale dei teatri: alcuni rimangono chiusi, altri diminuiscono la frequenza degli spettacoli. Tale crisi si prolunga almeno fino al 1854 e provoca un abbassamento delle retribuzioni, che erano invece aumentate dopo il 1815. Inoltre il mercato si liberalizza e i governi intervengono meno sulle scelte degli impresari, i quali nel 1860 riescono a strappare l’abolizione dell’obbligo d’ingaggiare cosiddetti artisti di “cartello”, cioè noti, diminuendo notevolmente i costi.
Negli anni a cavallo del 1848 il melodramma diventa inoltre veicolo di ideologia politica.
Ogni accenno a “patrie oppresse”, a “invasori”, a “tiranni” viene sottolineato da applausi e battimani. In alcuni teatri, come il San Carlo, viene proibito di applaudire se non dopo che il sovrano ha dato lui stesso l’esempio. La censura moltiplica i suoi sforzi, eliminando ogni allusione sospetta e sono severamente vietati gli assassini di sovrani, e ogni offesa alla religione. I grand-opéra con i loro conflitti ideologici non hanno vita facile sulle scene italiane, e così molti melodrammi, specie quelli derivati dal teatro francese come Lucrezia Borgia di Donizetti, Rigoletto e Un ballo in maschera di Verdi.
Nelle satire del tempo, l’impresario viene spesso dipinto come un individuo ignorante, privo di scrupoli e avido di denaro, secondo una tradizione che affonda le sue radici nel Settecento. Nella realtà molti di essi pur non essendo colti, sono dotati di fiuto per gli affari e di istinto teatrale. Il loro ruolo va oltre quello dell’organizzatore, e riunisce in sé quello del talent scout, del committente e, addirittura, quello del sociologo; l’impresario infatti conosce il pubblico delle diverse città, conosce i cantanti, i compositori, gli scenografi e le direzioni dei teatri. All’occasione prega, minaccia, incoraggia, talvolta imbroglia. E soprattutto viaggia, e scrive, scrive fiumi di lettere, cercando di dominare un mercato in continua espansione.
Angelo Brofferio
Dagherrotipi morali: l’impresario
In tutte le imprese del mondo l’impresario è un animale di sangue freddo che ha quattro gambe, quindici occhi e cento mani... novantanove spalancate per prendere, ed una sempre serrata per pagare. Tale è l’impresario in genere: ma l’impresario in specie, voglio dire l’impresario di teatro appartiene a una razza sui generis che vuol esser ben bene definita. Hanno osservato i zoologi che l’impresario di teatro, oltre alle quattro gambe, ai quindici occhi e alle cento mani sopra mentovate, è notevole nella scienza naturale per due lunghi nasi, dodici grandi bocche e ventiquattro superbi orecchi.
Un’altra specialità che distingue l’impresario di teatro da tutti gli altri impresari, è la seguente. Quello che prende l’appalto di fieno, di calce, di corame, d’olio, di sapone, di mastico, è intelligente di mastico, di sapone, d’olio, di corame, di calce, d’olio. Per l’opposto quello che prende appalto di teatro non ha ombra di intelligenza nella mercanzia che appalta, [...] è ignorantissimo insomma di letterati ed artisti, ed è per questo motivo probabilmente che la natura lo ha decorato di quei ventiquattro meravigliosi orecchi.
Galleria del bon-ton, Palermo, Oretea
Mentre i nomi degli impresari settecenteschi per lo più sono caduti nell’oblio, l’Ottocento ha tramandato alcuni dei più celebri, e quasi leggendari, come Domenico Barbaja, Alessandro Lanari e Bartolomeo Merelli.
Barbaja malgrado l’ignoranza testimoniata dalle lettere, riesce a lungo a detenere contemporaneamente l’appalto della Scala e del San Carlo, vale a dire dei più importanti teatri d’Italia, e dei principali teatri di Vienna, meritandosi il soprannome di “Napoleone degli impresari”. È lui a lanciare il giovane Gioachino Rossini, commissionandogli opere per il prestigioso San Carlo (come ringraziamento il compositore gli sottrae l’amante, la cantante Isabella Colbran, ma i rapporti tra i due rimangono buoni).
Il fiorentino Lanari (1787-1852) si distingue per aver favorito l’approdo in Italia dei grand-opéra di Meyerbeer, ma si lascia sfuggire l’astro nascente Verdi, col quale litiga ferocemente in occasione del Macbeth. Per lungo tempo ha sotto la sua giurisdizione un vero e proprio “impero” che comprende i teatri La Pergola di Firenze, La Fenice di Venezia, il San Carlo di Napoli, il Comunale di Bologna, il Municipale di Reggio-Emilia, il Sociale di Mantova, il Filarmonico di Verona, l’Argentina e l’Apollo di Roma. È proprietario inoltre di una fiorente sartoria teatrale.
Merelli (1794-1879), il più colto dei tre, librettista e amico di Donizetti, affianca all’attività di impresario quella di agente, e per lungo tempo tiene l’esclusiva delle rappresentazioni alla Scala.
Anche nell’Ottocento, i cantanti costituiscono la principale attrattiva del melodramma. È stato calcolato che il costo dei solisti oscillasse tra il 45 percento e il 55 percento del costo totale della messa in scena. Al predominio dei castrati, che contraddistingue l’opera settecentesca, si oppone quello delle prime donne, e, nella seconda metà del secolo, quello del tenore. Dalla passione per la voce asessuata si passa dunque a quella per una sessualmente connotata, ma la bellezza vocale rimane la dote primaria per un interprete. Numerose testimonianze sottolineano la capacità del pubblico italiano di giudicare la bravura dei cantanti e il culto tributato a qualità vocali ritenute eccezionali. Si danno casi di cantanti apprezzate pur essendo bruttissime, come Rosmunda Pisaroni, celebrata interprete rossiniana; mentre difficilmente si può fare carriera solo sulla base dell’avvenenza fisica, o di una protezione illustre. Per tutto il secolo rimane in vigore la consuetudine di celebrare le prime donne con sonetti o altre composizioni poetiche, stampate magari su seta, e i principali interpreti, oltre a potersi fregiare del titolo di “assoluto”, hanno diritto a una serata in loro onore, la cosiddetta “beneficiata”, il cui incasso è aggiunto al normale onorario o, talvolta, viene diviso con l’impresario.
Rispetto al Settecento, il ruolo sociale del cantante muta di gran lunga. Se in quel secolo i maggiori interpreti facevano a gara per fregiarsi del titolo di “virtuoso della cappella” di questo o quel signore, nel XIX secolo essi mostrano una maggiore autonomia e consapevolezza di sé come liberi professionisti. Primedonne celebri come Maria Malibran o Giuditta Pasta sono in grado di imporre un’elevata retribuzione, di rifiutare certe parti, anche d’introdurre cambiamenti in una partitura. La ricerca storica non ha finora indagato a sufficienza il ruolo giocato dai cantanti nella creazione dei melodrammi, ma questo è sicuramente rilevante. Un’interprete come Giuditta Pasta, ad esempio, influenza non poco la creatività di compositori come Donizetti e Bellini, che per lei scrivono la parte principale di Anna Bolena, di Norma e della Sonnambula.
La Pasta è anche un esempio di come la professione teatrale e musicale si rivesta di una nuova rispettabilità, in particolare per quanto riguarda le donne che prima venivano considerate alla stregua di cortigiane. Di estrazione piccolo-borghese, e non umile come accadeva precedentemente, ella si ritira ancora giovane facendo un buon matrimonio, e inaugura la schiera di prime donne maritate con professionisti di grido o addirittura con aristocratici.
Già a partire dal primo decennio dell’Ottocento per i cantanti italiani si apre il mercato estero, dapprima europeo, poi anche americano. L’opera è un fenomeno così tipicamente “italiano” che quasi sempre opere francesi o tedesche circolano sui palcoscenici internazionali in traduzione italiana. Alla fine del secolo i migliori cantanti aspirano tutti a una carriera internazionale, e personaggi come Enrico Caruso incrementano il mito del tenore italiano; d’altro canto anche cantanti stranieri cominciano a diventare stelle di prima grandezza. L’internazionalizzazione del mercato diventa rilevante a partire dagli anni Sessanta: cantanti come Jenny Lind “l’usignolo svedese”, Nellie Melba, Rosa Ponselle (quest’ultima di origine italiana), raggiungono la fama toccata un tempo solo agli italiani. L’Italia resta comunque la Mecca dell’opera, come dimostra l’alto numero di cantanti stranieri, soprattutto inglesi, che tentano di debuttare sulle scene nostrane, addirittura dietro pagamento di somme cospicue.
Una circostanza che differenzia a poco a poco il sistema produttivo ottocentesco da quello settecentesco è il ruolo assunto dai giornali e dagli editori. Nei primi decenni dell’Ottocento le partiture delle opere circolano manoscritte; esse appartengono agli impresari, che le noleggiano ai teatri, o talvolta sono di proprietà dei teatri stessi.
Compositori come Bellini sono molto sensibili alla problematica del diritto d’autore, ma almeno fino a Verdi – raramente un compositore riesce a ottenere la proprietà delle sue opere, e frequentissimi sono gli episodi di “pirateria”.
Nel 1825 il milanese Giovanni Ricordi acquista il fondo dei manoscritti del Teatro alla Scala, dando inizio a un’avventura che fa diventare la sua casa editrice la più importante d’Italia e Milano il centro della vita teatrale. Ricordi acquisisce anche la proprietà delle opere dei principali compositori, legando il suo nome soprattutto a Verdi, e su questa preziosa base costruisce il suo impero, continuando a noleggiare le partiture, e pubblicando a stampa riduzioni pianistiche, scelte di arie, variazioni e pots-pourris su motivi d’opera.
Sulle orme di Ricordi, altri editori (a Milano Francesco Lucca, un tempo suo collaboratore, e poi Edoardo Sonzogno; Giudici e Strada a Torino; a Firenze Giovan Gualberto Guidi, il primo a pubblicare partiture tascabili; Ratti e Cencetti a Roma; Teodoro Cottrau a Napoli) daranno vita a una fiorente industria editoriale, la cui esistenza si ripercuoterà anche sul sistema teatrale. Al contrario degli impresari, gli editori hanno tutto l’interesse a influire sulla scelta di un’opera, e a favorire la nascita di un repertorio, un gruppo più ristretto di opere che vengono rappresentate più e più volte senza sostanziali variazioni, secondo la volontà dell’autore o quanto meno nella forma codificata dalla stampa. Dopo secoli di manomissioni, interpolazioni e riscritture, si afferma per la prima volta il rispetto del testo. Ricordi, sul modello dell’Opéra di Parigi, comincia anche a pubblicare le cosiddette “disposizioni sceniche”, cioè le indicazioni per la messinscena, dalle scene ai costumi, alla gestualità degli interpreti.
Al contrario degli impresari che si facevano interpreti del gusto del pubblico, gli editori tentano di influenzarlo. Gli strumenti di questa “battaglia” sono i giornali musicali, che nascono sempre più numerosi. A partire dal 1810, quasi tutti i quotidiani hanno una rubrica musicale o teatrale, dapprima di taglio aneddotico, poi più tecnico, che testimonia l’importanza del melodramma nella società del tempo. Negli anni Quaranta sorgono i primi giornali specializzati, primo fra tutti la “Gazzetta musicale di Milano” di Ricordi, pubblicata a partire dal 1842. Da lì a poco anche Francesco Lucca, editore rivale, dà alle stampe il proprio giornale, “L’Italia musicale”. Le due testate tendono chiaramente a sostenere le opere pubblicate dai rispettivi editori. Ricordi ha in Verdi – e più tardi in Giacomo Puccini – il suo fiore all’occhiello, mentre Lucca e la moglie Giovannina Strazza si specializzano in compositori d’oltralpe, come Meyerbeer, Jacques François Fromental Halévy e infine Wagner. Sul finire del secolo il primato di Ricordi viene ostacolato dall’abilità di Edoardo Sonzogno, che si assicura la proprietà per l’Italia della Carmen di Bizet e, attraverso astute iniziative pubblicitarie come il “Concorso Sonzogno per nuove opere”, lancia la cosiddetta “giovane scuola” (Mascagni, Cilea, Leoncavallo, Giordano).
L’unità d’Italia coincide con una crisi creativa dell’opera italiana e con profondi cambiamenti nel suo sistema produttivo. Dopo il 1867 il governo cede la proprietà di molti teatri ai rispettivi municipi, i quali non sempre sono in grado o vogliono fornirli di una ricca sovvenzione. Altri problemi sembrano più urgenti da risolvere rispetto all’organizzazione di una stagione: si devono costruire scuole, strade, ospedali. Ancora a fine secolo le ingenti somme approntate dal municipio di Palermo per l’erezione del Teatro Massimo suscitano l’indignazione di tanti, tra i quali lo scrittore Edmondo De Amicis. Nel 1868 inoltre il Parlamento istituisce un’imposta del 10 percento sugli spettacoli.
Mentre diminuiscono le somme destinate alla lirica, sorgono nuovi edifici destinati a un pubblico più eterogeneo e meno esigente, i cosiddetti politeama, che ospitano spettacoli vari, dall’opera all’operetta, al varietà e addirittura al circo. Il numero dei teatri cresce e soprattutto nel Sud si assiste a un proliferare di nuove strutture.
Secondo un censimento effettuato nel 1871 dei 1.055 teatri esistenti, siti in 775 comuni, solo una decina sono quelli di cartello, cioè di rilievo, corrispondenti grosso modo agli odierni enti lirici. Dagli anni Novanta si accentua la differenza tra questi e i teatri minori, di provincia, che riescono a malapena ad allestire un’opera per stagione.