L'ominazione
di Giacomo Giacobini
La pubblicazione del saggio di T.H. Huxley intitolato Evidences as to Man's Place in Nature nel 1863 segna una tappa importante nella storia della ricerca sulle nostre origini. Nell'opera l'autore indica chiaramente le vie da seguire per ricostruire la filogenesi dell'uomo e per chiarirne la posizione sistematica: la ricerca e lo studio dei fossili umani e il confronto con gli altri Primati viventi, in particolare con le scimmie antropomorfe. Al di là di aspetti metodologici, il titolo stesso del libro di Huxley sottolinea il punto centrale di interesse di questo complesso di ricerche "che consiste nel determinare il posto che tocca all'uomo nella natura e nelle sue relazioni con la totalità delle cose". È il concetto stesso di uomo che venne mutato dall'evoluzionismo, in un primo tempo dal punto di vista solamente concettuale, poi, con la scoperta di una documentazione fossile sempre più ricca e continua, anche in modo inequivocabilmente dimostrativo. Ma la rivoluzione di pensiero prodotta dalle varie formulazioni di teorie evolutive, e in modo più determinante da quella darwiniana, fu in realtà l'inevitabile risultato di un dibattito molto più antico, che iniziò a svilupparsi nel corso del Seicento, quando giunsero nei serragli europei le prime scimmie antropomorfe, e che venne proposto all'attenzione dei naturalisti in modo provocatorio nella prima metà del Settecento, quando, con il sistema classificatorio ideato da C. Linneo, l'uomo entrò a far parte del regno animale.
A seguito di un periodo di intenso dibattito filosofico, in cui si erano contrapposte concezioni dell'uomo che lo volevano, con Cartesio, nettamente distinto dagli animali "macchine", oppure, con P. Gassendi, come già con Aristotele, parte integrante del mondo animale, l'uomo era divenuto oggetto di interesse più propriamente naturalistico nel corso della prima metà del XVIII secolo. La pubblicazione a Leida del Systema Naturae di Linneo nel 1735 segnò il primo inserimento formale dell'uomo all'interno di un preciso ordinamento zoologico. In questa prima edizione dell'opera, ancora semplice e in un certo senso rudimentale, Linneo classificò in un unico ordine, denominato Anthropomorpha, i generi Homo, Simia, Bradipus e Vespertilio. La classificazione apparve provocatoria e sollevò polemiche in ambienti filosofici e naturalistici, non solo per l'inclusione dell'uomo nel regno animale, ma anche per la sua associazione con le scimmie nello stesso ordine al quale venivano riferiti anche i bradipi e i pipistrelli. Nella decima edizione del Systema Naturae (1758), usualmente considerata quella di riferimento, questa posizione venne ribadita all'interno di un capitolo più articolato, utilizzando una terminologia parzialmente diversa. Linneo, seguendo la definizione di Aristotele, considerava caratteristiche distintive della nostra specie l'intelligenza, le dimensioni cerebrali, il linguaggio articolato e la stazione eretta. L'ordine al quale veniva attribuito l'uomo (genere Homo, specie sapiens) era ora denominato Primates e comprendeva anche i generi Simia, Lemur e Vespertilio. La specie Homo sapiens venne quindi suddivisa in sei varietà, delle quali quattro (americanus, europaeus, asiaticus, afer) con valore geografico; le altre due (ferus, monstruosus) rappresentavano piuttosto una deviazione dalla norma e corrispondevano a individui che potevano comparire isolatamente in regioni abitate dalle altre varietà (gli uomini "selvatici" europei, oppure gli albini, i monorchidi, i macrocefali). Si abbozzava così quella sistematica delle "razze" che avrebbe costituito una delle preoccupazioni principali dell'antropologia del secolo successivo, ovvero dell'Ottocento. Ma la classificazione di Linneo appare ancora più provocatoria per l'attribuzione al genere Homo di una seconda specie, Homo troglodytes, in cui è identificabile l'orango. Inoltre, in una nota, Linneo citava un altro animale di classificazione incerta, Homo caudatus, la cui esistenza era supposta in base a raffigurazioni secentesche e a racconti di viaggiatori. Le diverse edizioni del Systema Naturae e di altre opere di Linneo sintetizzavano quindi un'antropologia che appare ancora incerta e mutabile. Si andava definendo un concetto naturalistico di uomo che, affrontando il problema della sua unità e diversità, e quindi della sua sistematica, si sarebbe voluto basare su osservazioni dirette e obiettive, ma doveva comunque tenere conto di una serie di fattori: imprecisione di conoscenze, tradizioni, leggende, racconti di viaggiatori, indicazioni teologiche. I grandi viaggi dei secoli precedenti avevano rivelato infatti l'esistenza di una varietà di popoli con aspetto fisico diverso, in alcuni casi addirittura abitanti terre sino allora ignote. Gli esploratori del Nuovo Mondo non vi avevano trovato quegli uomini leggendari e mostruosi, ciclopi, cinocefali, antipodi, panoti, sciopodi, che Plinio il Vecchio aveva immaginato vivessero in terre lontane e che popolavano la fantasia dei viaggiatori. Non vi erano mostri, ma semplicemente selvaggi e, se si voleva stabilire una differenza, occorreva sottolinearla sul piano culturale e religioso. Il dibattito sull'unità della forma umana, e quindi sulla sua definizione, suscitato dalla scoperta di queste genti, veniva però inevitabilmente influenzato da interessi di natura economica, politica e militare. La scoperta di popoli fino allora ignoti poneva anche un altro problema, quello della loro origine. La derivazione di tutte le genti della Terra da un'unica coppia originaria poteva ancora apparire credibile nell'ambito di conoscenze geografiche limitate al Vecchio Mondo (la Bibbia era esplicita a questo proposito). Ma come era possibile che i discendenti di Adamo ed Eva avessero popolato anche un continente così lontano dall'Eden come quello americano, circondato da oceani? Questo aspetto del dibattito si ricollegava al precedente, favorendo posizioni contrarie all'unicità del genere umano e sostenendo l'origine distinta di alcune genti. Riprendevano così interesse ipotesi poligeniste, come quella proposta nel 1655 da I. La Peyrère nella sua opera Prae-adamitae, in cui, sulla base di argomentazioni teologiche tratte dalla Bibbia e dalle Epistole di s. Paolo, veniva affermata l'esistenza di gruppi umani in tempi precedenti la creazione di Adamo. Il dibattito sui "preadamiti", primi homines ante Adamum conditi, citati anche dubbiosamente da Linneo, avrebbe rivissuto a più riprese fino alla metà dell'Ottocento e rappresentato uno degli argomenti invocati per rendere compatibile con la cronologia biblica la scoperta di resti umani molto antichi.
Il confine tra il genere Homo e il genere Simia, nel Systema Naturae, è occupato da creature antropomorfe mal note e talvolta immaginarie. Con l'inizio dell'era moderna, i grandi viaggi avevano portato all'attenzione degli Europei i racconti di strani animali, scimmie a forma d'uomo o uomini a forma di scimmia, che vivevano nell'Africa equatoriale e nelle Isole della Sonda. Queste descrizioni, ancora vaghe e spesso fantastiche, incontravano in Europa una tradizione molto diffusa, quella relativa all'"uomo selvatico", sviluppata nell'immaginario e alimentata dalla sporadica scoperta e cattura di uomini e donne viventi allo stato selvaggio nelle foreste di varie regioni europee, evidentemente individui dispersi in età infantile e sopravvissuti vivendo allo stato di natura. Le raffigurazioni di uomini selvatici, così come quelle di scimmie umanizzate, presenti nelle edizioni cinquecentesche e secentesche dei trattati di storia naturale di K. von Gesner e di U. Aldrovandi, sono indicative della scarsa consistenza delle descrizioni disponibili e della parte rappresentata dalla fantasia nella realizzazione di quei disegni. Linneo stesso, comunque, considerò all'interno della specie Homo sapiens la varietà ferus (tetrapus, mutus, hirsutus), citando nove casi di osservazioni che erano state effettuate in Europa tra il 1544 e il 1731. Con la fine del Cinquecento, tuttavia, le notizie sull'esistenza di creature antropoidi in Africa e nelle Indie Orientali divennero più precise e comparvero raffigurazioni più credibili, soprattutto per quanto riguarda lo scimpanzé. Alcuni di questi animali venivano ospitati in serragli olandesi e inglesi sin dalla prima metà del Seicento e alla loro morte erano sottoposti ad autopsia. Linneo aveva quindi a disposizione descrizioni e raffigurazioni piuttosto precise, anche se non numerose, di questi animali. A queste descrizioni accurate si mescolavano però, e si sarebbero mescolate fino alla fine del Settecento, raffigurazioni imprecise basate su racconti più o meno fantasiosi di viaggiatori e spesso ancora influenzate dalla tradizione dell'"uomo selvatico". Mentre Linneo pubblicava edizioni successive e rinnovate del Systema Naturae, G.-L. Leclerc, conte di Buffon, iniziò la compilazione della sua Histoire naturelle, la cui pubblicazione si sarebbe protratta dal 1749 al 1789. Il terzo volume, dal titolo Histoire naturelle de l'homme, comparso nel 1749, affrontava il problema della definizione di uomo, della descrizione delle sue caratteristiche fisiche e psicologiche, della sua variabilità geografica e del suo rapporto con gli altri animali. Nasceva un'antropologia che, più sotto forma di relazione di viaggi che di trattazione sistematica, identificava "razze" utilizzando criteri fisici, etnologici, psicologici e geografici. Secondo Buffon, nelle diverse aree geografiche e nel corso del tempo il clima e le caratteristiche del territorio avevano determinato nei diversi gruppi umani variazioni che erano divenute costanti. Sviluppando il quadro dei confronti tra scimmia e uomo, Buffon sottolineò le rassomiglianze sul piano fisico e le differenze su quello intellettuale e morale. Ritenne così che l'uomo si distinguesse soprattutto per la capacità di pensiero e di linguaggio. Pochi anni dopo la pubblicazione del volume sulle scimmie dell'Histoire naturelle (1766) venne confermata l'esistenza dell'orango. Nel 1770 giunsero in Olanda le spoglie di alcuni esemplari e, nel 1776, venne esposto nel serraglio del principe di Orange a Het Loo un giovane esemplare vivente. L'anatomista P. Camper ebbe così modo di effettuare la dissezione di cinque esemplari, pubblicandone nel 1779 una descrizione molto accurata.
Alla fine del Settecento la conoscenza ormai relativamente precisa dello scimpanzé e dell'orango sollevò in modo acuto il problema di una rassomiglianza con la specie umana che appariva sempre più evidente. La dissezione anatomica invece di rivelare differenze sottolineava le affinità; appariva quindi importante cercare di identificare qualche carattere anatomico che permettesse una distinzione netta, qualitativa e non quantitativa, tra l'uomo e le scimmie antropomorfe. Camper credette di aver scoperto questo carattere quando notò che, contrariamente all'uomo ma analogamente agli altri Mammiferi, le scimmie antropomorfe possiedono l'osso intermascellare. Per alcuni anni "l'osso di Camper" parve rappresentare la soluzione del problema. Si trattava tuttavia di una differenza illusoria, come dimostrò nel 1786 un naturalista dilettante, J.W. Goethe: le scimmie esaminate da Camper possedevano ancora l'osso intermascellare in quanto si trattava di individui giovani. Anche l'uomo lo possiede, in fasi iniziali di sviluppo, ma poi esso gradualmente si fonde con le ossa mascellari contigue. Tuttavia, gli ambienti scientifici si dimostrarono sempre più sensibili al desiderio di distaccare l'uomo dalle scimmie, enfatizzando le differenze di comportamento e di intelligenza. Nel 1798 G. Cuvier pubblicò il Tableau élémentaire de l'histoire naturelle des animaux, in cui modificava la classificazione di Linneo separando l'uomo dalle scimmie e creando per queste ultime l'ordine dei quadrumani. Entrò così rapidamente in uso una nuova sistematica, già in precedenza proposta da J.F. Blumenbach (1775), in cui l'ordine dei primati veniva scisso in due ordini, quello dei bimani (Bimanes), comprendente l'uomo, e quello dei quadrumani (Quadrumanes), in cui erano collocate le scimmie, antropomorfe comprese. Al di là di un significato sistematico formale, la distinzione bimani/quadrumani presentava tutta una serie di implicazioni importanti, attenuando l'animalità dell'uomo e sottolineando, per esso, l'idea di un progetto speciale e distinto nato nella mente del Creatore. Questa nuova sistematica si diffuse rapidamente negli ambienti zoologici e antropologici ottocenteschi. Anche l'autore della prima teoria evoluzionistica organizzata scientificamente, J.-B. de Lamarck, l'accettò nella sua Philosophie zoologique (1809), integrandola in un sistema in cui l'uomo era considerato l'animale con l'organizzazione corporea più avanzata, raggiunta nel corso del tempo come risultato di modificazioni del suo comportamento. L'uomo era visto da Lamarck come il prodotto dell'evoluzione di quadrumani che in tempi antichi avevano gradualmente perso l'abitudine di arrampicarsi sugli alberi con i quattro arti, usando a un certo punto per la locomozione solo i piedi e trasformandosi così in bimani. Sostenuta dall'autorità di Cuvier e di Blumenbach, la distinzione bimani/quadrumani acquistò largo consenso soprattutto con la Restaurazione: fu vista da molti come uno strumento di reazione nei confronti delle rivoluzionarie e blasfeme idee trasformiste sostenute da Lamarck e da altri negli anni precedenti, trascurando il fatto che Lamarck stesso aveva utilizzato quella terminologia. Ma l'uomo doveva essere ben distinto dalle scimmie e la distinzione aveva rilevanza non solo naturalistica, ma anche morale e religiosa. La distinzione bimani/quadrumani si radicò così profondamente negli ambienti scientifici da essere ancora abitualmente utilizzata per tutta la seconda metà dell'Ottocento anche da darwinisti convinti. Intorno alla metà del secolo alcuni zoologi, tra cui in particolare I. Geoffroy de Saint-Hilaire, sostennero addirittura l'opportunità di creare per l'uomo un regno apposito, il "regno umano", distinto dal regno animale, come precedentemente suggerito da Voltaire e poi da L.-J.-M. Daubenton, B.-G.-É. de Lacépède, F. Viq d'Azyr ed E. Geoffroy de Saint-Hilaire.
Nel corso della prima metà dell'Ottocento la maggior parte degli ambienti scientifici era caratterizzata da una concezione tradizionale dell'uomo, fissista e creazionista, che non percepiva l'importanza delle idee di Lamarck. L'interesse scientifico per la nostra specie era dominato dall'interesse per la variabilità geografica della forma umana, che già aveva trovato in Buffon un attento osservatore. L'originaria sistematica di Linneo, che identificava quattro varietà umane distribuite in Europa, Asia, Africa e America, distinte per caratteristiche fisiche, psicologiche, etnografiche e sociali, venne gradualmente resa più complessa. Nel corso della seconda metà del Settecento vari altri autori, tra cui I. Kant, avevano proposto classificazioni delle razze umane; fu tuttavia con l'opera di Blumenbach De generis humani varietate nativa, pubblicata a Göttingen nel 1775 (e in una terza edizione, più articolata, nel 1795), che nacque una vera storia naturale dell'uomo. In quest'opera Blumenbach propose una definizione essenziale dell'uomo, erectus et bimanus, integrata da una descrizione basata su un'attenta considerazione dell'aspetto esterno e delle caratteristiche anatomiche, fisiologiche e psicologiche. In base alla valutazione di queste caratteristiche, propose di collocare l'uomo in un ordine suo proprio, quello dei bimani. Propose inoltre una classificazione in cinque razze (caucasica, mongolica, etiopica, americana e malese), ognuna ulteriormente suddivisa in sottogruppi, fornendo di ciascuna una minuziosa descrizione. Si trattava, in pratica, della classificazione in quattro varietà geografiche già proposta da Linneo, alla quale veniva aggiunta la razza malese. Alla fine del Settecento questo interesse per la sistematica delle varietà umane si associò allo sviluppo dell'antropometria, che con Camper e con Blumenbach iniziò a codificare misurazioni angolari e lineari del cranio e degli altri distretti scheletrici, integrando le osservazioni descrittive con dati quantitativi e rendendo quindi più oggettiva l'antropologia fisica. Per distinguere l'uomo dalle scimmie antropomorfe e per suddividerlo in gruppi (razze o addirittura specie) diversi, alcuni autori utilizzarono quindi metodi quantitativi. Secondo Camper, ideatore della misurazione dell'angolo facciale (che esprime il grado di proiezione in avanti della faccia), l'uomo è caratterizzato da valori variabili tra 70° e 80° nelle diverse razze, da quelle "inferiori" al tipo "europeo", con un'ideale irraggiungibile di 100° nel tipo "greco", attestato in campo artistico. Angoli più bassi sono tipici degli (altri) animali: l'orango ha un valore di 58°, mentre le scimmie africane non antropomorfe hanno un angolo di poco più di 40°. Per J.-J. Virey, che divideva l'uomo in due specie (a loro volta suddivise in sei razze), la "prima specie" (comprendente le razze bianca, gialla, ramata e bruno-scura) sarebbe stata caratterizzata da un angolo facciale di 85°-90°, la "seconda specie" (comprendente le razze nera e nerastra) da un angolo di 75°-80°. Per Camper e per Virey l'angolo facciale diveniva così una sorta di "zoometro", che avrebbe consentito di valutare il grado di animalità, e inversamente quello di umanità, di una specie. A seguito dei lavori di P. Camper e J.F. Blumenbach e, successivamente, di J.C. Prichard, L.-J.-M. Daubenton, E. Geoffroy de Saint-Hilaire, G. Cuvier e vari altri autori, la craniometria si sviluppò rapidamente, cosicché intorno alla metà dell'Ottocento gli studi craniologici prevedevano una decina di misurazioni diverse. Un'innovazione di particolare importanza craniometrica e tassonomica fu rappresentata dal calcolo del rapporto tra lunghezza e larghezza massime del cranio (indice cranico orizzontale). L'ideatore di questo indice, lo svedese A. Retzius, distinse così individui brachicefali e dolicocefali, caratterizzati rispettivamente da cranio corto e allungato. Questa innovazione, di rilevante interesse antropometrico, avrebbe avuto importanza notevole anche nel dibattito sull'interpretazione dei primi (reali e supposti) fossili umani scoperti all'inizio della seconda metà del secolo. Aveva infatti acquisito ampio consenso in quegli anni la cosiddetta "ipotesi di Retzius", sviluppata integrando dati linguistici, archeologici, storici e antropologici. Secondo questa ipotesi, l'Europa sarebbe stata popolata, durante l'età della pietra, da genti autoctone brachicefale. In seguito, il territorio europeo sarebbe stato invaso da una massiccia migrazione di genti dolicocefale "ariane", provenienti dall'Asia e apportatrici di un linguaggio di tipo indoeuropeo, che avrebbero introdotto in Europa l'età del Bronzo. Secondo Retzius, questa ipotesi sarebbe stata confermata dal fatto che gli attuali Baschi e Finnici, caratterizzati da un linguaggio estraneo al gruppo indoeuropeo (e quindi da considerare come relitti della popolazione europea autoctona), presentano un cranio corto. Tale ipotesi, di cui P. Broca dimostrò l'infondatezza nel 1867, avrebbe rappresentato uno dei principali argomenti invocati contro l'accettazione dell'alta antichità di reperti, come quelli di Neandertal ed Engis, caratterizzati da un cranio allungato. L'interesse per un'antropologia obiettiva, basata su rigorose osservazioni quantitative, si diffuse rapidamente, favorendo la creazione di importanti collezioni craniologiche. Nel 1859 la fondazione della Société d'Anthropologie de Paris celebrò il consolidarsi della disciplina, creando un'istituzione di importanza internazionale che, nello stesso anno, ebbe fra i principali argomenti di dibattito la question de l'homme fossile, sollevata dalle scoperte di J. Boucher de Perthes.
Il dibattito sulla valutazione e sulla sistematica della variabilità umana coinvolse inevitabilmente il problema dell'unità o pluralità dell'origine della nostra specie. Questo dibattito, precedentemente oggetto di un sapere filosofico e religioso, nella prima metà dell'Ottocento coinvolse in modo molto vivace anche gli ambienti scientifici. Secondo i monogenisti, da un'unica coppia umana sarebbe derivata (per evoluzione, piuttosto che per degenerazione) tutta l'umanità successiva, che avrebbe gradualmente sviluppato, migrando nei diversi territori, caratteri fisici adatti ai vari climi. In base al racconto biblico, gli episodi di dispersione del genere umano, in origine unitario, sarebbero stati tre: l'esilio di Caino nel Paese di Nod, a est dell'Eden; la migrazione dei discendenti dei figli di Noè dopo il Diluvio; l'episodio della Torre di Babele. Secondo i poligenisti varie coppie umane già differenziate per caratteristiche fisiche e psicologiche e adattate ai diversi ambienti sarebbero state create fin dall'inizio. Trasferito in ambienti scientifici, il dibattito assunse toni spesso polemici, mettendo in discussione non soltanto l'unità di origine della specie Homo sapiens, ma evidentemente anche la sua stessa unità biologica. Infatti molti poligenisti, rifiutando di riconoscere che l'interfecondità rappresenti un criterio di appartenenza alla stessa specie, ritenevano che le popolazioni umane viventi dovessero essere distribuite in specie distinte, tutte riferite al genere Homo. Nel corso della prima metà dell'Ottocento questi autori usarono, spesso senza un preciso significato tassonomico, i termini "specie", "razza" e "varietà", ma sempre per indicare gruppi separati da un'origine distinta. Alcuni studiosi di grande influenza, come G. Cuvier, B.-G.-É. de Lacépède, J.C. Prichard e W. Lawrence, presero posizione a favore del monogenismo e dell'unità della specie umana. La posizione di Cuvier appare particolarmente tradizionalista e guidata dal suo forte sentimento religioso, in quanto le tre razze (bianca, gialla e nera) in cui egli distinse la specie umana paiono voler corrispondere a quelle considerate dalla tradizione biblica come discendenti dei tre figli di Noè. Il primo autore di ambito scientifico a sostenere il poligenismo fu J.-J. Virey (1802), al quale seguirono G. Bory de Saint-Vincent, A. Desmoulins, K.A. Rudolphi, S.G. Morton, L. Agassiz e altri, che elaborarono ipotesi poligeniste differenti, basate sull'identificazione di un numero variabile di specie umane.
All'inizio della seconda metà dell'Ottocento lo studio dell'uomo dal punto di vista della storia naturale appare quindi ben sviluppato secondo due direzioni principali. Un primo aspetto è di interesse zoologico e riguarda la posizione sistematica della specie umana all'interno del mondo animale e i suoi rapporti con le scimmie. Un secondo punto di discussione è di natura antropologica e anatomica e concerne l'unità e la diversità umane e quindi la possibilità o meno di suddividere la forma umana attuale in unità tassonomiche (razze o addirittura specie) diverse. Appare tuttavia ancora sostanzialmente estraneo all'indagine scientifica e relegato a speculazioni di tipo filosofico e religioso un terzo problema, quello delle origini. La sequenza delle "tre età" (della pietra, del bronzo e del ferro) proposta da C.J. Thomsen nel 1819 era compresa entro un arco di tempo di poche migliaia di anni e dunque compatibile con la narrazione biblica, dal momento che l'età della pietra da lui definita si riferiva solo a quello che sarebbe stato poi denominato Neolitico. La scoperta di reperti dimostrativi di una presenza umana contemporanea a quella di animali oggi estinti veniva quindi accolta con ostilità o con indifferenza da una comunità scientifica che aveva nel complesso rifiutato le idee di Lamarck sull'evoluzione dei viventi e sull'origine dell'uomo. Intorno al 1850 il progredire delle conoscenze geologiche e paleontologiche rese sempre più farraginoso l'inquadramento delle serie fossili animali in un sistema compatibile con la tradizione biblica. In ambienti scientifici e soprattutto religiosi vennero pubblicati in quegli anni numerosi Esameroni o Cosmogonie che tentavano, talvolta in modo molto intricato, di adattare i dati paleontologici al racconto dei sei giorni della Creazione. Le principali teorie interpretative erano tre: quella letterale, secondo cui i giorni genesiaci dovevano effettivamente essere considerati periodi di 24 ore; quella concordistica, secondo cui i giorni corrispondevano ad altrettante epoche geologiche; quella ideale, secondo cui i sei giorni della Creazione avrebbero corrisposto ad altrettante "idee" nella mente del Creatore. Tutte queste cosmogonie prevedevano comunque che l'uomo fosse comparso con l'ultimo atto creativo ed escludevano quindi, in accordo con le convinzioni scientifiche di Cuvier e della sua scuola, la possibilità di ritrovamento di fossili umani. Escludevano cioè che forme umane primitive fossero vissute contemporaneamente ad animali oggi estinti. Cuvier stesso aveva dimostrato che alcuni reperti umani ritenuti fossili erano in realtà o recenti oppure da attribuire ad altri animali. Il caso più noto era il cosiddetto Homo diluvii testis, descritto dal medico e canonico zurighese J.J. Scheuchtzer nel 1726 e citato anche da Linneo, che in realtà era lo scheletro di una salamandra gigante fossile. Nel corso della prima metà dell'Ottocento, tuttavia, alcune scoperte non riconosciute dalla comunità scientifica avevano già messo in evidenza la contemporaneità dell'uomo con animali oggi estinti. Due sono i casi più noti e significativi, consistenti rispettivamente nella scoperta di un cranio umano fossile e di manufatti paleolitici. Il primo esempio è quello della scoperta, avvenuta ad opera di Ph.Ch. Schmerling e da lui pubblicata nel 1833, di un cranio umano infantile, poi riconosciuto come neandertaliano, nella Caverna di Engis, presso Liegi; il reperto era associato a resti di orso delle caverne e di rinoceronte. Il secondo esempio è quello della scoperta, effettuata da J. Boucher de Perthes fin dal 1838 nei depositi alluvionali della Somme, di una numerosa serie di manufatti litici da lui ritenuti "asce diluviane", in associazione con resti di specie estinte di elefante, rinoceronte e bisonte. Tra il 1850 e il 1860 nell'ambito della comunità scientifica si diffusero sempre più dubbi sulla immutabilità delle specie, associati a una crescente presa di coscienza della incompatibilità del racconto biblico con i dati paleontologici. Questa maturazione di pensiero, associata a nuove scoperte, portò alla fine del decennio al riconoscimento ufficiale, da parte di alcuni ambienti scientifici, dell'esistenza dell'uomo fossile.
Il 24 novembre 1859 Ch. Darwin pubblicò a Londra On the Origin of Species by Means of Natural Selection, fornendo così gli strumenti concettuali necessari per interpretare l'evoluzione dei viventi. L'unico cenno al problema dell'uomo nell'opera, volutamente trascurato da Darwin per la sua pericolosità, consiste nella frase "molta luce sarà fatta sull'origine dell'uomo e sulla sua storia", posta nel capitolo conclusivo. Nello stesso anno 1859 alcune personalità del mondo scientifico inglese, tra cui in particolare H. Falconer, Ch. Lyell e J. Prestwich, che avevano visitato i siti di raccolta di J. Boucher de Perthes, si pronunciarono a favore delle sue idee sull'antichità dell'uomo preistorico. Nel contempo, si andava diffondendo la notizia del ritrovamento, avvenuto tre anni prima nella valle di Neander, presso Düsseldorf, di uno scheletro umano il cui cranio colpiva per la presenza di caratteristiche "scimmiesche". Iniziò così un'epoca in cui il fervore per la ricerca di testimonianze culturali e scheletriche dell'esistenza di popolazioni umane molto antiche portò all'identificazione di sequenze culturali paleolitiche associate in modo sempre più preciso a forme umane fossili, la cui morfologia si andava gradatamente definendo. Nel 1868 la scoperta di cinque scheletri avvenuta nel Riparo di Cro-Magnon, nel villaggio di Les Eyzies-de-Tayac in Dordogna, permise di conoscere il tipo umano classico del Paleolitico superiore europeo, mentre la scoperta di due scheletri neandertaliani quasi completi avvenuta nel 1886 nella Grotta di Spy, presso Namur, consentì di definire meglio l'anatomia scheletrica dell'uomo di Neandertal, associandolo inoltre a quell'industria del Paleolitico medio descritta nel 1869 da G. de Mortillet e denominata Musteriano. Nel 1891 la scoperta da parte del medico olandese E. Dubois del Pitecantropo di Giava, oggi compreso nella specie Homo erectus, iniziò, pur sulla base di resti frammentari, a fornire un'idea dell'aspetto fisico di popolazioni ancora più antiche dell'uomo di Neandertal. Il concetto di uomo, in questa prima fase di indagine sull'anatomia e sulla cultura materiale dell'umanità paleolitica, è caratterizzato da una tendenza ad accentuare il divario tra l'uomo attuale e quello primitivo. Si tratta di una tendenza che sarà molto diffusa nelle trattazioni scientifiche, e ancor più nella letteratura divulgativa, fino all'inizio del Novecento con varie giustificazioni. Innanzitutto l'entusiasmo per il darwinismo, teoria che acquistava crescente consenso, e la fiducia in una scienza libera da imposizioni facevano sperare di poter ricostruire rapidamente una storia paleontologica dell'evoluzione umana, inducendo talvolta a dare eccessiva importanza ai caratteri di primitività individuati sui fossili umani via via scoperti. La polemica antidarwiniana, sviluppatasi in alcuni ambienti filosofici, religiosi e anche scientifici, indusse molti ricercatori a reagire, enfatizzando in modo anche provocatorio i rapporti di parentela con le scimmie, sottolineando le caratteristiche "pitecoidi" presenti sui fossili umani e "bestializzando" così le forme umane più antiche. Inoltre, gli studiosi di paleontologia umana e di archeologia preistorica degli ultimi decenni dell'Ottocento, che erano fortemente influenzati dal pensiero positivista, manifestavano la tendenza a distribuire le diverse forme umane del passato secondo una regolare curva ascendente, divenuta sempre più rapida nei tempi protostorici e storici grazie allo sviluppo della tecnologia e della conoscenza. Secondo il modello di sviluppo sociale pubblicato da L. Morgan nel 1877, questa evoluzione dallo stadio "selvaggio" allo stadio "barbarico" e, quindi, a quello "civile" sarebbe avvenuta in modo ineluttabile e indipendente dalle condizioni ambientali. Questo complesso di pregiudizi appare con evidenza leggendo alcune descrizioni dell'epoca relative all'aspetto fisico e al modo di vita del Pitecantropo, dell'uomo di Neandertal e perfino dei più moderni uomini di Cro-Magnon. Si tratta di descrizioni in cui ricorrono i termini "scimmiesco", "pitecoide", "bestiale", "rudimentale", "sgraziato". Molti ricercatori erano reticenti ad ammettere la piena umanità di questi antenati, sia dal punto di vista delle caratteristiche fisiche, sia da quello del comportamento. La descrizione classica dell'uomo di Neandertal proposta da P.-M. Boule risente di questi pregiudizi, insistendo sui suoi caratteri primitivi e presentandolo erroneamente come un essere dotato di una stazione eretta non perfetta e di un'andatura goffa. Ma anche nelle ricostruzioni del comportamento i preconcetti intervenivano decisamente. Lo stesso Boule, ancora a proposito dell'uomo di Neandertal, sottolineava come i suoi caratteri fisici fossero "in armonia con quanto l'archeologia ci dimostra per quanto riguarda le sue attitudini corporali, il suo psichismo e i suoi costumi. Non esiste quasi industria più rudimentale e più miserabile (...) di quella del nostro Uomo musteriano". È una descrizione che incontrò l'approvazione di molti colleghi, come il londinese G.E. Smith, che la definì "un quadro ben definito del rozzo e repellente uomo di Neandertal". Anche il riconoscimento di pratiche di sepoltura nel corso del Paleolitico, dimostrate per quanto riguarda il Paleolitico superiore già nel 1868 dalla scoperta degli scheletri del Riparo di Cro-Magnon, soffriva di questi pregiudizi. L'interpretazione di una delle prime sepolture paleolitiche dotate di corredo funerario venute alla luce, quella del cosiddetto "uomo di Mentone" scoperto da E. Rivière nella Grotta del Caviglione ai Balzi Rossi (Ventimiglia) nel 1872, risente di questo modo di pensare: lo scheletro venne descritto come quello di un individuo morto nel sonno e rapidamente ricoperto dal sedimento. Nel 1874, sei anni dopo la scoperta degli scheletri di Cro-Magnon, G. de Mortillet metteva ancora in dubbio la loro antichità, non potendo accettare l'idea che uomini paleolitici avessero sepolto cadaveri di propri simili. In alcuni ricercatori, preconcetti di questo tipo trovavano motivazioni anticlericali connesse con il rifiuto di riconoscere comportamenti che potessero essere interpretati come un nascente senso religioso presso le popolazioni paleolitiche. Ancora nel 1921, lo scheletro neandertaliano di La Chapelle-aux-Saints, scoperto nel 1908 in Corrèze, venne lugamente e accuratamente descritto da Boule nel suo famoso trattato Les hommes fossiles: dopo aver insistito sulle ottime condizioni di conservazione dello scheletro e aver notato che esso giaceva all'interno di una fossa scavata nel fondo della grotta, lo studioso aggiunse semplicemente che, secondo gli scopritori, "l'uomo di cui essi hanno ritrovato lo scheletro è stato sepolto intenzionalmente", senza commentare oltre questo aspetto della scoperta, di cui solo più tardi sarebbe stato riconosciuto l'eccezionale interesse paleoantropologico. I pregiudizi che facevano insistere sulla primitività degli uomini paleolitici emersero fortissimi, per altri aspetti, nel 1880, in occasione della pubblicazione del volume sulle pitture preistoriche scoperte due anni prima ad Altamira, quando l'autore, M. de Sautuola, venne accusato di aver falsificato le opere d'arte da lui descritte nella grotta. Solo scoperte successive, di inequivocabile interpretazione, obbligarono il mondo dell'archeologia preistorica ad accettare nel 1901 l'evidenza dei fatti.
Le ricostruzioni realizzate da artisti, che spesso fedelmente traducono le idee o le mode scientifiche del momento, ci mostrano all'inizio del Novecento raffigurazioni di uomini del Paleolitico superiore con aspetto fisico moderno ed "europeo" e con abbigliamento, armi e utensili ispirati a quelli delle genti "primitive" attuali e subattuali. Il riconoscimento della loro capacità di produrre opere d'arte di impressionante modernità e bellezza e la scoperta di un crescente numero di sepolture con corredo avevano ormai definitivamente trasformato queste genti in nostri antenati diretti. Negli anni 1908-1911 una serie fortunata di scoperte avvenute tra la Dordogna e la Corrèze portò al ritrovamento di cinque scheletri quasi completi di Nean-dertaliani. Sulla base dello scheletro di La Chapelle-aux-Saints, P.- M. Boule pubblicò così una descrizione accurata della morfologia scheletrica di questa forma umana, associata alla prima ricostruzione del volto effettuata con metodo scientifico, utilizzando le tecniche della medicina legale. Ne risultava una concezione dell'uomo di Neandertal di forte primitività, che lo distaccava nettamente dai nostri antenati del Paleolitico superiore. Iniziò così a porsi in modo preciso la domanda, ancora attuale, su quali fossero stati gli antenati delle genti del Paleolitico superiore europeo, ritenendo che i Neandertaliani rappresentassero un ramo collaterale estinto. E, ancor più, ci si domandò se quei pochi fossili umani più antichi dei Neandertaliani che allora erano noti, dal Pitecantropo di Giava alla mandibola di Mauer, fossero direttamente ancestrali rispetto all'umanità moderna, o se piuttosto anch'essi rappresentassero rami collaterali. Nel 1912 la scoperta dei resti di Piltdown parve rispondere a queste domande, confermando illusoriamente un'ipotesi già proposta da sir Arthur Keith nel 1910 in base a un riesame dello scheletro di Galley Hill, in realtà recente ma da lui riferito al Pleistocene inferiore. L'ipotesi prevedeva che gli antenati diretti dell'uomo moderno avessero già avuto in tempi molto remoti un grande cervello, come in effetti risultò evidente nell'uomo di Piltdown, Eoanthropus dawsoni. La concezione di un uomo delle origini caratterizzato da un grande cervello avrebbe avuto un'influenza importantissima sull'interpretazione dei fossili umani più antichi e sulla ricostruzione della linea evolutiva ominide fino al 1950, anno in cui K. Oakley pubblicò i suoi dosaggi di fluoro svelando il falso di Piltdown. Il rifiuto di Australopithecus africanus da parte della comunità scientifica, durato dal 1925, anno della pubblicazione della prima scoperta da parte di R.A. Dart, fino all'inizio degli anni Cinquanta, è la conseguenza più importante dell'ipotesi elaborata da Keith e dell'interpretazione del reperto di Piltdown. Ma anche il lungo dibattito avvenuto negli anni Settanta sulla iniziale datazione a 2,6 milioni di anni del cranio KNM-ER 1470, e quindi sulla presunta esistenza di una forma ancestrale di Homo a volume cranico elevato, contemporanea ad australopiteci molto antichi, è in fondo una conseguenza delle convinzioni di Richard Leakey (come già del padre Louis) sul ruolo collaterale degli australopiteci nel processo evolutivo umano. L'episodio dell'uomo di Piltdown è esemplificativo di un altro tipo di pregiudizi scientifici, legati a una concezione eurocentrica dell'evoluzione umana. Nel corso dell'Ottocento e all'inizio del Novecento, la serie di scoperte effettuate in Europa indusse a stabilire sequenze evolutive dei tipi umani e delle industrie paleolitiche basate su serie europee e applicate, talvolta in modo acritico, agli altri territori. Al volgere del secolo alcuni studi suggerirono addirittura di riconoscere in scheletri del Paleolitico superiore europeo non solo forme ancestrali di popolazioni locali successive, ma anche reperti con affinità esquimesi (uomo di Chancelade) e africane ("negroidi" di Grimaldi). Ma il caso di Piltdown è anche esemplificativo del desiderio di identificare in Europa radici molto antiche dell'umanità moderna, caratterizzate dal tratto più nobile dell'anatomia dell'uomo attuale: le grandi dimensioni e la complicazione dell'architettura del cervello. Nella prima metà del Novecento, in cui l'uomo di Piltdown influenzava le ricostruzioni di sequenze filogenetiche, le interpretazioni di anatomia evolutiva e anche l'attribuzione di uno status ominide a fossili africani molto antichi, la concezione dell'umanità paleolitica si presentava comunque eterogenea all'interno della comunità scientifica. Si svilupparono correnti di pensiero che vedevano nell'uomo di Neandertal un antenato diretto dell'uomo moderno, caratterizzato da manifestazioni culturali relativamente ricche. L'antropologo A. Hrdlička, critico nei confronti dell'uomo di Piltdown, fin dal 1927 sostenne l'ipotesi secondo cui in Europa, Asia e Africa l'umanità sarebbe passata attraverso una "fase neandertaliana", dalla quale sarebbe derivato, nei diversi continenti, l'uomo moderno. Questa ipotesi si contrapponeva alla visione di P.-M. Boule, che escludeva i Neandertaliani dalla nostra diretta ascendenza, prefigurando le discussioni sul destino dell'uomo di Neandertal e sull'origine dell'uomo moderno, le quali costituiscono uno degli aspetti principali dell'attuale dibattito paleoantropologico. All'ipotesi di Hrdlička si affiancava, sul piano culturale, l'attribuzione ai Neandertaliani di espressioni complesse di vita spirituale consistenti non solo nelle sepolture, ma anche in forme di culto di crani umani e di animali come l'orso delle caverne. Con gli anni Cinquanta la ricerca paleoantropologica entrò in una nuova fase, grazie allo smascheramento del falso di Piltdown e all'accettazione del ruolo ancestrale degli australopiteci. Lo sviluppo di ricerche in Sudafrica, e poi in Africa orientale, portò alla scoperta di una serie sempre più ricca e dimostrativa di australopiteci. A questo complesso di dati si sommò nel 1964 l'identificazione della nuova specie Homo habilis, che segnava l'inizio della linea evolutiva del genere Homo in una sequenza, oggi considerata semplicistica, che riconosceva tre cronospecie successive, habilis, erectus e sapiens. La scoperta di Homo habilis segna una tappa fondamentale nella ricerca paleoantropologica, non solo per l'importanza filogenetica del taxon, ma anche per la sua rilevanza ai fini del dibattito sulla definizione del genere Homo e sulla comparsa di caratteristiche "umane" in corso di filogenesi. La definizione della specie, fondata su caratteristiche anatomiche quali il forte volume cerebrale e le ridotte dimensioni dei denti, teneva anche conto di caratteristiche comportamentali dimostrate dall'associazione con strumenti litici. Il nome specifico habilis venne appunto scelto per sottolineare questa iniziale capacità tecnologica; si trattava di una concezione di uomo che teneva conto, come elemento fondamentale, della capacità di produrre strumenti e ribadiva quanto sostenuto da B. Franklin, da F. Engels e da molti antropologi del XX secolo. Ma come già per gli anatomisti di fine Settecento, che cercavano di identificare una precisa differenza qualitativa tra l'uomo e le scimmie antropomorfe, anche questo limite doveva rivelarsi sfumato. Le ricerche di J. Goodall sugli scimpanzé in Tanzania negli anni Sessanta e quelle successive di vari altri primatologi avrebbero infatti dimostrato che anche le scimmie antropomorfe sono in grado di costruire strumenti rudimentali. La stessa difficoltà di stabilire un confine preciso sarebbe stata dimostrata da ricerche sulla possibilità di impiego di un linguaggio concettuale da parte di scimpanzé e gorilla sin dalla fine degli anni Sessanta. D'altra parte, i confronti biomolecolari effettuati sull'uomo e sulle scimmie antropomorfe avrebbero evidenziato un'affinità maggiore del previsto tra i generi Homo, Pan e Gorilla. Questi risultati hanno portato nell'ultimo decennio a varie proposte tassonomiche innovative, alcune delle quali hanno incluso lo scimpanzé e il gorilla, insieme al genere Homo, nella famiglia Hominidae. In occasione del IV Congresso Internazionale di Paleontologia Umana, svoltosi nella Repubblica Sudafricana nel 1998, è stato addirittura proposto di formalizzare queste forti affinità, e quindi questa stretta parentela, attribuendo anche lo scimpanzé e il gorilla al genere Homo: Homo troglodytes e Homo gorilla. È una proposta per certi aspetti provocatoria, che curiosamente, a quasi 250 anni di distanza, si ricollega alla "scandalosa" classificazione di Linneo, che non solo includeva uomo e scimmie nello stesso ordine dei Primati, ma addirittura aveva identificato in una scimmia antropomorfa una seconda specie del genere Homo, denominandola appunto Homo troglodytes. Come scriveva Linneo a quel proposito, "genus Trogloditae ab Homine distinctum, adhibita quamvis omnis attentione, obtinere non potui".
G. Daniel, L'idea della preistoria, Firenze 1968; J.C. Greene, La morte di Adamo. L'evoluzionismo e la sua influenza sul pensiero occidentale, Milano 1976; D.J. Boorstin, The Discoverers, New York 1983; L.S.B. Leakey - V.M. Goodall, La scoperta delle origini dell'uomo. Dieci decenni di ricerche sull'evoluzione umana, Milano 1983 (trad. it.); J. Reader, Gli anelli mancanti. L'avventura della paleoantropologia, Milano 1983 (trad. it.); R. Lewin, Le ossa della discordia. L'enigma delle origini dell'uomo, Milano 1987 (trad. it.); C. Cohen, Les races humaines en histoire des sciences, in J.-J. Hublin - A.-M. Tillier (edd.), Aux origines d'Homo sapiens, Paris 1991, pp. 7-47; E. Trinkaus - P. Shipman, The Neandertals. Changing the Image of Mankind, New York 1993; O. Rickards - G. Biondi, Le razze umane. Le relazioni tra storia e scienze sociali negli ultimi decenni, in Prometeo, 56 (1996), pp. 34-41.
di Phillip V. Tobias
Fino al 1924 gli Ominidi più antichi e di aspetto più arcaico erano stati rinvenuti in Asia, più precisamente a Giava (Indonesia), mentre in Africa e in Europa erano documentate soprattutto forme più evolute di uomo. Era quindi comprensibile che a questo riguardo fosse nata la profonda convinzione che l'Asia dovesse essere stata la culla del genere umano. Questa convinzione perdurava malgrado l'intuizione espressa nel 1871 da Ch. Darwin in The Descent of Man: "è alquanto più probabile che i nostri primi progenitori siano vissuti nel continente africano piuttosto che altrove". Poiché le aspettative rispetto all'Africa erano state trascurate a favore dell'Asia, giunse come una notevole sorpresa la scoperta fatta a Taung, nella Provincia del Capo, che confermava la forte possibilità che l'Africa fosse stata il luogo di origine degli Ominidi. Agli inizi di novembre del 1924, M. de Bruyn, un impiegato della Northern Lime Company, aveva estratto con l'esplosivo, da un'imponente falesia calcarea a Buxton presso Taung, un cranio fossilizzato. Nel calcare della falesia si erano formate numerose cavità e fessure, alcune delle quali contenevano un deposito terroso consolidato, o breccia, insieme a ossa fossili sparse. Alcune ossa comprese nella breccia recuperate da de Bruyn giunsero al paleoantropologo R.A. Dart, a Johannesburg, il 28 novembre 1924. In poco più di tre settimane egli estrasse dalla matrice un cranio molto ben conservato, con i 20 denti decidui completamente cresciuti e consumati e i primi molari permanenti quasi del tutto sviluppati, oltre a un eccellente calco calcificato dell'endocranio. Sebbene precedentemente non fosse mai stata rinvenuta nessuna creatura simile, Dart riconobbe nel cranio caratteristiche intermedie tra quelle delle scimmie antropomorfe e quelle dell'uomo. Egli sottolineò, ad esempio, che i piccoli denti canini somigliavano più a quelli dell'uomo che a quelli delle scimmie antropomorfe, come pure alcuni caratteri della forma del calco endocranico e della base del cranio; inoltre individuò evidenze per affermare che il cranio era stato sostenuto da una colonna vertebrale piuttosto eretta, con una posizione vicina a quella degli esseri umani, piuttosto che da una colonna vertebrale obliqua come quella dei gorilla e degli scimpanzé. D'altra parte i molari erano grandi, mentre la capacità cranica, in termini assoluti, non era maggiore di quella delle scimmie antropomorfe. I tratti strutturali del fossile indussero Dart ad affermare che la creatura era un primate evoluto appartenente ad una specie estinta che, sebbene fondamentalmente scimmiesca, possedeva un certo numero di caratteri simili a quelli dell'uomo. Per classificare la popolazione alla quale era appartenuta la creatura, Dart creò un nuovo genere e una nuova specie ai quali diede il nome di Australopithecus africanus (dal lat. australis "meridionale" e dal gr. πίθηϰοϚ "scimmia"). Un giudizio retrospettivo mostra che le sue asserzioni sulla scoperta furono relativamente modeste: egli non si spinse, infatti, a collocare le australopitecine nella famiglia Hominidae, né nella famiglia delle scimmie antropomorfe Pongidae. Suggerì invece di collocarle in una nuova famiglia più evoluta di Primati, per la quale propose il nome di Homo-simiadae (1925). Mentre Dart esitò, R. Broom non ebbe dubbi che Australopithecus fosse un ominide (1933). Comunque, con l'eccezione di Broom e di pochi altri, le asserzioni di Dart furono attaccate e considerate stravaganti dal mondo scientifico, che dichiarò che i dati per distinguere A. africanus da una giovane scimmia antropoide erano troppo pochi. L'accanita e sostenuta opposizione allo stato di ominide di Australopithecus era basata su numerosi elementi.
1) Il cranio era stato trovato in Africa in un periodo in cui la scuola di pensiero prevalente poneva la culla dell'umanità in Asia.
2) Il cranio aveva una piccola capacità che indicava una dimensione del cervello non maggiore, in termini assoluti, di quella delle scimmie antropomorfe attuali.
3) Il fatto che un certo numero di studiosi, soprattutto in Inghilterra, avesse accettato l'autenticità e lo stato ancestrale del cranio di Piltdown era in accordo con il punto 2; e questo, cioè che Piltdown fosse ancestrale, escludeva che il cranio di Taung potesse essere stato quello del nostro progenitore.
4) I caratteri a "mosaico" presenti nel cranio di Taung, quali ad esempio i denti e la stazione eretta, accanto alle dimensioni del cervello da scimmia antropomorfa, costituivano un fenomeno in disaccordo con un altro paradigma prevalente, cioè che il cambiamento degli antenati dell'uomo nella direzione umana avesse interessato tutte le parti dell'uomo contemporaneamente.
5) L'esemplare era quello di un bambino che rappresentava una popolazione; il fatto lasciava adito a due incertezze: quanto della sua morfologia ritenuta umana era conseguenza del suo stato immaturo? Quale tipo di creatura adulta era caratteristico della specie alla quale apparteneva il "bambino di Taung"?
6) Un certo numero di autorevoli studiosi sostenne che la datazione del bambino di Taung fosse troppo recente per ammettere che la sua popolazione fosse stata progenitrice dell'uomo.
7) Ci fu anche chi ritenne che Dart non fosse l'uomo giusto per valutare il ritrovamento perché era giovane, relativamente di poca esperienza e incline ad eresie scientifiche (Tobias 1984).
8) Se le affermazioni di Dart fossero state esatte, non c'è dubbio che l'implicazione più importante sarebbe stata che il ritrovamento africano avrebbe costituito il vero "anello mancante" tra uomo e "animale" (nel vecchio senso di questi termini) e avrebbe fornito l'evidenza critica che la famiglia dell'uomo si era evoluta da origini non umane. Una simile nozione era in contrasto con il pensiero filosofico e teologico allora corrente.
9) Occorre, inoltre, tenere presente, come P.J. Bowler ha dimostrato, l'atteggiamento fortemente pregiudiziale verso l'Africa e la realtà africana che caratterizzava la cultura europea all'epoca, viceversa attratta dall'Asia e dall'Oriente; secondo Bowler questo illogico pregiudizio avrebbe predisposto gli studiosi europei ad accettare rapidamente i pretendenti asiatici, come l'uomo di Giava e l'uomo di Pechino, e a rigettare fermamente i diritti di A. africanus. R. Broom fu tra i primissimi ad essere del tutto convinto da Australopithecus; egli ne scoprì nel 1936 a Sterkfontein (Transvaal meridionale) il primo esemplare adulto e nel vicino giacimento di Kromdraai un'altra varietà che chiamò Paranthropus robustus (sebbene molti ricercatori siano in seguito arrivati a considerare anche questa forma di scimmiauomo come un membro delle australopitecine). Altri ricercatori giunsero a ritenere che Australopithecus non avesse alcuna rilevanza nell'evoluzione degli Ominidi. Nel 1945 G.G. Simpson lo incluse nella famiglia Pongidae (scimmie antropomorfe) e non in quella Hominidae. Nel 1947, dopo che R. Broom e G.W.H. Schepers (1946) ebbero pubblicato una più ampia descrizione delle australopitecine sudafricane, A. Keith, che inizialmente era contrario ad Australopithecus e alle asserzioni di Dart, cambiò idea e ammise di essersi sbagliato sui fossili sudafricani. All'affermazione di Keith si aggiunse l'autorevole sostegno di W.E. Le Gros Clark che, in una serie di studi magistrali pubblicati tra il 1947 e i primi anni Cinquanta, sottolineò efficacemente l'evidenza morfologica per cui Australopithecus doveva essere classificato tra gli Ominidi. Indirettamente, gli studi di S. Zuckerman e E.H. Ashton (1954; 1966) sulla variazione dello scheletro delle scimmie antropomorfe ancora esistenti spinsero la maggior parte dei ricercatori ad accettare il fatto che i caratteri anatomici delle australopitecine, considerati come modello strutturale globale, cadevano fuori del campo di variabilità di ampie campionature di scimmie antropomorfe. Gradualmente, l'equilibrio delle opinioni cambiò a favore dell'idea che gli uomini-scimmia fossili sudafricani fossero un miscuglio, finora senza precedenti, di caratteri scimmieschi e umani e che, in quegli aspetti in cui si distanziavano da una struttura scimmiesca, si orientassero verso una direzione umana. Dal 1950 in poi Australopithecus fu universalmente accettato come membro della famiglia Hominidae.
Alcuni sporadici annunci di ritrovamenti di australopitecine a Giava e in Cina non hanno riscosso ampio credito. La maggior parte dei ricercatori ritiene che Australopithecus, in base ai fossili attualmente disponibili, possa essere considerato come una fase africana dell'umanità emergente. Fossili assegnati a questo genere (incluse quelle specie e varietà alle quali, in diversi momenti, sono stati dati nomi come Plesianthropus, Paranthropus e Zinjanthropus) sono stati scoperti in Sudafrica (Taung, Sterkfontein, Cooper's B, Kromdraai, Makapansgat, Swartkrans, Gladysvale), in Malawi (riva settentrionale del Lago Malawi), in Tanzania (Garusi, Olduvai, Peninj, Laetoli), in Kenya intorno al Lago Baringo (Chemeron, Chesowanja) e intorno al Lago Turkana (Kanapoi, Lothagam, Koobi Fora, Nariokotome, Lomekwi, Kangatukuseo), in Etiopia (Omo, Hadar, Maka, Belohdelie). Ritrovamenti relativamente recenti (Brunet et al. 1995) hanno ampliato l'areale geografico di Australopithecus fino al Ciad settentrionale, dove nel 1993 è stata rinvenuta a Bahr el-Ghazal, vicino a Koro Toro, la prima mandibola di un australopiteco affine ad A. afarensis, in sedimenti datati tra 3 e 3,5 milioni di anni (m.a.). Nel 1994, nei sedimenti pliocenici datati tra 3,9 e 4,2 m.a. presso Kanapoi e Allia Bay, due località rispettivamente situate sulla riva occidentale e su quella orientale del Lago Turkana nel Kenya settentrionale, sono stati rinvenuti resti fossili riferibili a 21 individui, descritti con il nome di Australopithecus anamensis e considerati, per posizione cronologica e caratteri anatomici, possibili antenati di A. afarensis (Leakey et al. 1995). Leggermente più antichi (4,4 m.a.) sono i fossili appartenenti a 17 ominidi rinvenuti tra il 1992 e il 1994 vicino al villaggio di Aramis, nella media valle dell'Awash in Etiopia (White - Suwa - Asfaw 1994). Inizialmente indicati col nome di Australopithecus ramidus, per essi è stato in seguito proposto l'inserimento nel nuovo genere Ardipithecus. Cronologicamente, anche se le diverse specie del genere sono vissute in vari periodi, Australopithecus come genere si estende dall'ultima parte del Pliocene fino al Pleistocene inferiore. È stato possibile datare i siti dell'Africa orientale con le tecniche basate sui radioisotopi, sulla determinazione del paleomagnetismo e sul metodo delle tracce di fissione; per i depositi contenenti australopitecine della media valle dell'Awash in Etiopia e a Laetoli in Tanzania, questi metodi di datazione hanno fornito le date più antiche, 4 m.a. Le datazioni assolute più recenti per i depositi con australopitecine in Africa orientale sono comprese tra 1,5 e 1 m.a. In Sudafrica, soprattutto per l'assenza di minerali pesanti nei depositi calcarei delle grotte, non sono state ancora ottenute simili date assolute. Tuttavia si è giunti a datazioni relative attraverso il confronto delle specie associate a resti faunistici con quelle corrispondenti, ben datate, dell'Africa orientale. È stato così possibile suddividere i depositi sudafricani contenenti Australopithecus in un gruppo più antico (Makapansgat Members 3 e 4, Sterkfontein Member 4 e probabilmente Taung) e in uno più recente (Swartkrans e Kromdraai). Sia la fauna che la sequenza paleomagnetica a Makapansgat, il più antico sito con australopitecine del Sudafrica, danno per il Member 3 la data di 3 m.a. Così l'evidenza fossile finora recuperata in Africa indica per il genere Australopithecus un arco di tempo compreso tra 4 e 1 m.a. I tentativi di assegnare ad Australopithecus alcuni esemplari più antichi dell'Africa orientale non risultano convincenti. L'evidenza molecolare indica che gli Ominidi comparvero tra 6,4 e 4,9 m.a., dopo la loro separazione dalle grandi scimmie antropomorfe africane, molto probabilmente dal protoscimpanzé. Se Australopithecus fu il primo genere di Ominide, è probabile che restino ancora da scoprire fossili di australopitecine che precedono di 2,5 m.a. gli esemplari più antichi finora conosciuti.
Ai Primati bipedi evoluti con piccola capacità cerebrale i vari ricercatori hanno dato diversi nomi generici: Plesianthropus, Paranthropus, Praeanthropus, Meganthropus (dall'Africa ma non da Giava), Zinjanthropus, Paraustralopithecus, i quali sono stati riuniti da altri studiosi nell'unico genere Australopithecus. La scienza della tassonomia e la sistematica degli Ominidi non sono definitive e immutabili. Mentre i principi della classificazione sono stati mirabilmente codificati ed elaborati da G.G. Simpson (1945), un influente gruppo di paleoantropologi ha da allora utilizzato un nuovo sistema di analisi biologica, il cladismo, introdotto da W. Hennig (1955; 1966), che ha consentito approcci nuovi alla classificazione degli Ominidi. L'integrazione di dati molecolari con l'analisi delle interrelazioni degli ominoidei ha suggerito ulteriori riordinamenti (Goodman 1963; Groves 1989). Nelle sistematiche tradizionali gli ominoidei sono stati classificati come indicato nella Tab. 1. Nella più recente classificazione (Groves 1989), basata sui principi cladistici e in parte su nuovi dati molecolari, le famiglie 5 e 6 della Tab. 1 e i generi in esse compresi sono stati riordinati come riportato nella Tab. 2. In alcune versioni delle classificazioni più recenti, Australopithecus è stato riunito a Homo, lasciando così nel gruppo degli Hominini solo due generi: Paranthropus e Homo. Ma nella sua ricerca C.P. Groves (1986) ha trovato le ragioni per mantenere Australopithecus come un genere distinto; a questa posizione si farà riferimento in seguito. Sia nella classificazione tradizionale che in quella recente Australopithecus è dunque un membro del gruppo più strettamente associato a Homo, collocato nella famiglia Hominidae in ambedue e nel gruppo degli Hominini nella più recente. Nella prima il termine è usato nel senso più ampio (Australopithecus sensu lato), che comprende tutti i primi Ominidi bipedi con piccola capacità cerebrale; in quella più recente c'è un uso più ristretto, che limita il nome Australopithecus ai membri gracili o non robusti dei primi Ominidi. La recente reintroduzione del genere Paranthropus di R. Broom, che era stato lasciato cadere da W.E. Le Gros Clark (1955) e da Ph.V. Tobias (1967), è largamente basata sui principi cladistici di analisi. Quest'uso ha ottenuto recentemente consensi tra un certo numero di studiosi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ma non è universalmente accettato. Si preferisce qui, insieme a F.C. Howell e altri, lasciare Paranthropus allo stato di sottogenere all'interno del genere Australopithecus sensu lato.
Sono state identificate parecchie specie di Australopithecus. Una aveva denti laterali (premolari e molari) moderatamente grandi, grandi denti anteriori (incisivi e canini), faccia piatta o leggermente convessa, muso più sporgente o prognato, base del cranio piuttosto allungata e un poco più scimmiesca, muscoli masticatori moderatamente sviluppati, che di norma non si incontravano nella parte mediana della scatola cranica (per cui la cresta sagittale era generalmente assente), sviluppo contenuto dei seni nasali del cranio. Il drenaggio del seno venoso seguiva invece, in genere, il modello più comune nell'uomo moderno, che giunge cioè, attraverso seni trasversali e sigmoidi allargati, ai bulbi delle vene giugulari interne. Questa specie, presente a Sterkfontein e a Makapansgat in Sudafrica, e probabilmente anche in Africa orientale, viene chiamata A. africanus. Un'altra specie aveva denti laterali più grandi, denti anteriori sensibilmente più piccoli, una faccia concava, un po' verticale, da mesognata a ortognata, base cranica più corta e più simile a quella umana, robustissimi muscoli masticatori, che normalmente si incontravano nella parte mediana del cranio dando origine ad una cresta sagittale, forte sviluppo dei seni nasali del cranio, foro occipitale (foramen magnum) largo, mentre i seni venosi sagittali superiori e diretti molto spesso defluivano attraverso i seni venosi occipitali e marginali nelle vene giugulari. Questa specie, chiamata A. robustus o Paranthropus robustus, è conosciuta a Kromdraai e a Swartkrans nel Transvaal. La sua presenza nell'Africa orientale è ipotizzata, ma non provata. Alcuni studiosi considerano i fossili di Swartkrans rappresentanti di un'altra specie, A. crassidens, che tengono distinta da A. robustus di Kromdraai. Recenti studi su individui giovani di australopitecine hanno dimostrato che ci sono differenze tra A. africanus e A. robustus nei modelli di formazione dentaria e di modellazione delle ossa craniche durante la crescita. Una terza specie, rinvenuta soltanto in Africa orientale, era contraddistinta da un insieme di caratteri simili, anche se più esasperati, a quelli del sudafricano A. robustus. Così, mentre i denti anteriori erano piccoli, come in A. robustus, quelli laterali raggiungevano le maggiori dimensioni tra tutti gli ominidi ed erano del 25% più grandi di quelli di A. robustus di Swartkrans. Di conseguenza, i muscoli masticatori, le creste sagittali e la pneumatizzazione erano molto ben sviluppati. Questa combinazione di caratteri ha fatto in modo che questo gruppo di ominidi dell'Africa orientale sia indicato, nell'uso corrente, come australopitecine iper-robuste, per distinguerle dalle australopitecine robuste del Sudafrica. La specie è formalmente designata come A. boisei (o Paranthropus boisei), dal nome del mecenate C. Boise che finanziò gli scavi in Africa orientale; essa è stata identificata a Olduvai e Peninj in Tanzania, in alcuni siti del Kenya e della valle dell'Omo in Etiopia, mentre non è nota in Sudafrica. Alcuni studiosi affermano che un'altra specie, A. afarensis, è rappresentata da un gruppo di ominidi fossili rinvenuti a Hadar in Etiopia e a Laetoli in Tanzania; tale specie presenta un cranio molto primitivo e mascelle inferiori e denti che conservano molti caratteri delle scimmie antropomorfe: B. Wood, tuttavia, ha concluso che ci sono solo poche caratteristiche craniche in base alle quali A. afarensis possa essere diagnosticato e che, paradossalmente, la sua originalità è costituita dal fatto che i caratteri del cranio sono primitivi nell'ambito dell'intero gruppo degli ominidi. L'analisi cladistica ha indicato un'affinità relativamente stretta tra alcuni fossili di A. afarensis e A. boisei, in base alla presenza di modelli simili di seni del sistema venoso e, secondo Ph.V. Tobias, alla forma del foramen magnum. Alcuni studi ipotizzano che le ossa e i denti rinvenuti a Hadar possano rappresentare più di una specie. La sorte ultima e la definizione di questa nuova specie proposta restano ancora incerte. Altri studiosi hanno affermato di riconoscere anche un'altra specie, A. aethiopicus, in base ad un piccolo numero di esemplari provenienti dai siti intorno al Lago Turkana nel Kenya settentrionale e in Etiopia meridionale. Molti tuttavia non considerano provata l'argomentazione e ritengono che gli esemplari in questione amplino leggermente la variabilità all'interno della specie A. boisei.
Le caratteristiche principali che individuano Australopithecus sono: un cervello piccolo (misurato come capacità interna della scatola cranica), con valori medi per le varie specie compresi tra 400 e 500 cm³; un cranio con pareti relativamente sottili, anche se con spigoli piuttosto forti sopra le orbite, nella parte posteriore e lungo i margini delle zone con inserimenti muscolari; una testa che deve essere stata ben bilanciata sulla più alta vertebra della spina dorsale; un'apofisi mastoidea dietro i fori auricolari come quella dell'uomo più recente; canini piccoli, diversi da quelli delle scimmie antropomorfe; mandibole massicce generalmente senza mento osseo; molari e premolari molto grandi; colonna vertebrale, bacino e arti posteriori che indicano chiaramente una creatura bipede e con andatura eretta. Anche se la dimensione del cervello in termini assoluti era leggermente più grande della media degli scimpanzé, ma più piccola di quella dei gorilla, la taglia del corpo (come si deduce dalle ossa degli arti inferiori e del tronco) mostra che Australopithecus aveva, in proporzione, un cervello poco più grande di quello delle grandi scimmie antropomorfe. Australopithecus dunque rappresenterebbe lo stadio di ominizzazione nel quale erano state raggiunte la riduzione dei canini e la stazione eretta, ma era appena iniziato l'eccezionale ingrandimento del cervello, carattere distintivo dell'uomo.
I primi Ominidi, probabilmente del genere Australopithecus, comparvero alla fine del Miocene, quando l'Africa era sottoposta a movimenti tettonici (soprattutto nella parte orientale), in una fase climatica di inaridimento e di abbassamento termico. A partire da 4 m.a. è probabile che essi vivessero in una savana aperta, per lo più lungo le rive dei laghi e le sponde dei fiumi. Sotto questo aspetto il loro ambiente era diverso da quello forestale degli scimpanzé e dei gorilla attuali. Privo di grandi canini e in un ambiente senza ripari, Australopithecus deve essere stato completamente indifeso, eccetto che per le sue facoltà mentali e le sue abitudini di vita. Bisogna tuttavia ricordare che E. Morgan (1990), in accordo con M. Verhaegen (1987), ha messo in dubbio l'ipotesi della savana, attirando l'attenzione sull'assenza di adattamenti alla savana nella struttura e nella biochimica degli uomini moderni. Le prove dirette che Australopithecus abbia cominciato a dipendere da attività culturali, quali l'uso e la produzione di strumenti, sono scarse. A Makapansgat R.A. Dart rinvenne materiali che gli suggerirono l'ipotesi che nel Transvaal centrale Australopithecus avesse sperimentato strumenti in osso, corno e denti; egli chiamò l'insieme di questi presunti strumenti "cultura osteodontocheratica". D'altra parte, C.K. Brain ha dimostrato che numerosissime ossa spezzate di Makapansgat erano uguali a quelle prodotte dall'attività di carnivori, quali i grandi felini (leopardi o tigri dai denti a sciabola); così l'ipotesi di Dart resta senza conferme. Non sappiamo ancora se gruppi di australopitecine abbiano cominciato a sperimentare differenti materiali per far fronte alle sfide del loro ambiente. La documentazione archeologica non permette di concludere che le australopitecine abbiano dato inizio alla tendenza, peculiare degli ominidi, a dipendere, per le loro strategie di sopravvivenza, da adattamenti non genetici, ma culturali. In base alle osservazioni di J. Goodall e di altri studiosi sul comportamento delle grandi scimmie antropomorfe in natura, è ragionevole supporre che, per quanto concerne l'uso degli strumenti, Australopithecus fosse probabilmente capace di un comportamento complesso almeno quanto quello delle grandi scimmie antropomorfe. Ciò vale a dire che esso verosimilmente utilizzava strumenti in materiali deperibili, come cortecce, rami, ramoscelli e foglie, che di norma non si conservano. Anche se è possibile ipotizzare che le australopitecine robuste e iper-robuste fossero specializzate in un'alimentazione vegetale, la loro dieta era probabilmente onnivora, costituita anche da cibi di origine animale (uova di uccello, insetti, scorpioni, lucertole, tartarughe e serpenti), talora integrati con la carne di carogne. Non si hanno prove che le australopitecine si dedicassero alla caccia.
Le australopitecine fossili abbracciano il Plio-Pleistocene almeno da 4 m.a. fino a 1,3 m.a. I fossili di A. afarensis coprono il periodo tra 3,7 e 2,8 m.a., quelli di A. africanus tra 3 e 2,3 m.a., quelli di A. boisei tra 2,5 e 1,3 m.a., quelli di A. robustus tra 1,8 e 1,6 m.a. Queste fasce cronologiche si basano sulla più antica e sulla più recente documentazione fossile conosciuta, ma va sottolineato che esse non rappresentano necessariamente il momento della comparsa e della scomparsa delle rispettive specie. Anche se A. afarensis è la più antica specie di ominide identificata, le sue dimostrate affinità con A. boisei hanno indebolito, sebbene non eliminato, la pretesa che sia, come sostenuto una volta, il diretto antenato degli ominidi più tardi del genere Homo. Molti elementi sostengono, d'altra parte, la posizione ancestrale di A. africanus e probabilmente la maggior parte degli studiosi è concorde nell'affermare che A. africanus resta il pretendente più accreditato come diretto antenato delle prime specie di Homo. Anzi, alcuni studiosi, quali J.T. Robinson e T.T. Olson, vorrebbero riclassificare A. africanus all'interno del genere Homo, come H. africanus. Esiste comunque un sostanziale accordo nel sostenere che una delle specie di Australopithecus sia stata il diretto antenato delle successive forme di uomo.
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di Bernard Wood
Il genere Homo, introdotto da C. Linneo nel 1758, comprendeva inizialmente solo due specie, entrambe viventi. L'inserimento, nel corso degli anni, di alcune specie fossili ha via via modificato la situazione: si è infatti assistito alla tendenza, progressivamente più marcata, ad aggiungere altre specie al genere Homo, a cominciare dai Neandertaliani, mentre ricerche recenti hanno addirittura proposto di includervi H. antecessor. Questa tendenza ha determinato un costante ampliamento dei criteri di inclusione delle specie e, allo stesso tempo, un indebolimento della definizione del genere stesso. L'identificazione e l'interpretazione dei taxa (pl. di taxon, dal greco τάξιϚ "ordine") che attualmente rientrano nel genere Homo costituiscono la base di valutazione degli argomenti oggetto del dibattito attuale tra coloro che vorrebbero H. sapiens come unica specie in questo genere e altri secondo i quali Homo dovrebbe accoglierne più di una. Resta infine da considerare se Homo possa ancora essere considerato un taxon plausibile, visto che nella sua definizione prevalente sono incluse specie caratterizzate da una gamma estremamente vasta di adattamenti.
Nel 1959 L.S.B. e M.D. Leakey rinvennero il cranio fossile di un Ominide subadulto (OH 5) nel Bed I della Gola di Olduvai, in Tanzania. Si trattava di una versione ancora più potente del Paranthropus robustus, specie "robusta" delle australopitecine rinvenuta a Swartkrans nel Transvaal. Per il cranio OH 5 furono istituiti un nuovo genere e una nuova specie, che vennero denominati dai Leakey nel 1959 Zinjanthropus boisei, poi Paranthropus boisei. Un anno più tardi, nel 1960, i Leakey trovarono altri Ominidi fossili rappresentati da numerosi frammenti di entrambe le ossa parietali, da gran parte di una mandibola e da almeno tredici ossa delle mani di uno scheletro giovanile (OH 7). Sui parietali di OH 7 non vi era traccia di protuberanze ossee, che invece costituiscono un tratto così caratteristico di Zinjanthropus boisei, e i molari e i premolari erano molto più piccoli di quelli di una australopitecina "robusta". L'anno successivo furono portati alla luce altri reperti di un Ominide "non robusto" dal Bed I della Gola di Olduvai (OH 4 e 6: frammenti di cranio e alcuni denti; OH 8: piede di adulto; OH 14: frammenti cranici di un individuo giovanile; OH 16: volta cranica frammentaria e dentatura superiore di un giovane adulto) e dal Bed II (OH 13: cranio incompleto di un adolescente). Nel 1964 L.S.B. Leakey, Ph.V. Tobias e J.R. Napier, in un saggio pubblicato su Nature, proposero di riconoscere una nuova specie nei resti di Ominidi "gracili" rinvenuti a Olduvai e di attribuirla, quale H. habilis, al genere Homo. L'aggiunta di H. habilis al genere Homo rese necessario correggere la definizione di quest'ultimo formulata nel 1955 da W.E. Le Gros Clark: alcuni criteri, come quelli riguardanti le dimensioni cerebrali, furono resi meno rigidi perché potessero essere inclusi nel genere anche i crani di Olduvai, caratterizzati da una capacità cranica relativamente ridotta (600-700 cm³ ca.). Leakey e i suoi colleghi sostenevano che le capacità funzionali che si potevano inferire dai fossili di Olduvai attribuiti a H. habilis erano conformi ai criteri (abilità, stazione eretta, deambulazione bipede, ecc.) stabiliti per la definizione di Homo e che non fosse necessario pertanto modificare la definizione del genere. La proposta di istituire una nuova specie e di includerla in Homo suscitò tuttavia molte polemiche. Secondo alcuni i nuovi reperti non erano sufficientemente diversi da Australopithecus africanus per poter giustificare l'introduzione di una nuova specie. Altri, pur dimostrandosi favorevoli, sostenevano che la nuova specie non poteva essere inclusa in Homo. Per un terzo gruppo di studiosi, esemplari quali OH 13 erano "evoluti" abbastanza da poter essere chiamati H. erectus, mentre H. habilis non era che un miscuglio di reperti simili a quelli di A. africanus rinvenuti nel Bed I e a quelli di H. erectus trovati nel Bed II. In seguito furono inclusi nello specimen di H. habilis alcuni esemplari rinvenuti a Olduvai, i più significativi dei quali erano il cranio OH 24 e lo scheletro frammentario OH 62. Per diversi motivi tali esemplari hanno fatto comprendere meglio la natura di H. habilis. La scoperta di OH 24 fu importante perché il cranio somigliava a OH 13, ma dal momento che non era stato rinvenuto nel Bed II, bensì vicino alla base del Bed I, rappresentava l'esemplare più antico di H. habilis tra quelli rinvenuti nella Gola di Olduvai. Era quindi smentita l'ipotesi di un continuum temporale, ossia di un numero indefinito di variazioni nella morfologia dei reperti di H. habilis, procedendo dall'esemplare più "primitivo" rinvenuto alla base del Bed I ai fossili "più avanzati" del Bed II. Le implicazioni connesse a OH 62 erano invece alquanto diverse: le dimensioni degli arti erano chiaramente più primitive di quelle di ogni altra specie di Homo ed è stato sostenuto che fossero addirittura più arcaiche di quelle di Australopithecus afarensis (Hartwig-Schrerer - Martin 1991). Se OH 62 doveva essere riferito a H. habilis, era evidente che i ricercatori non potevano più essere sicuri che la stazione eretta e la deambulazione bipede potessero essere considerate parte del suo comportamento abituale. Il contributo più importante alla conoscenza di H. habilis proviene da Koobi Fora, sulla riva nord-orientale del Lago Turkana. Tra i reperti rinvenuti in questo sito figurano alcuni crani ben conservati (KNM-ER 1470, 1805, 1813), mandibole (KNM-ER 1802) e denti isolati; tutti questi reperti furono rinvenuti nel corso degli scavi effettuati nel 1972 o successivamente. In un primo momento molti di questi esemplari non furono attribuiti a H. habilis, bensì al gruppo relativo ai più antichi rappresentanti del genere Homo, designati col nome informale di "early Homo". Tra i fossili di Ominidi rinvenuti nei Members G e H della Formazione Shungura nella valle dell'Omo, attribuiti a H. habilis, vi sono un cranio frammentario, due mandibole e alcuni denti isolati. Sembra che un cranio frammentario e alcuni denti isolati, portati alla luce nel Member 5 di Sterkfontein, e il cosiddetto "cranio composito" (SK 847), trovato nel Member 1 di Swartkrans, somiglino a H. habilis. L'ipotesi di attribuire a H. habilis reperti fossili rinvenuti in siti al di fuori dell'Africa non ha invece raccolto il consenso generale. Si tratta, ad esempio, di alcuni resti rinvenuti a Ubeidiya, in Israele, e del materiale assegnato a Meganthropus palaeojavanicus portato alla luce in Indonesia, la cui attribuzione a H. habilis non è convincente.
Caratteristiche morfologiche - La morfologia cranica dei reperti attribuiti a ciò che taluni definiscono "early Homo" e altri H. habilis sensu lato è relativamente variabile. Il volume endocranico va da poco meno di 500 cm³ a circa 850 cm³ e tutti i crani che rientrano in questo gruppo sono più larghi alla base della volta cranica che nella porzione mediana della stessa. La morfologia facciale è variabile: in KNM-ER 1470 la larghezza maggiore è situata tra la regione medio-facciale e la piccola sporgenza nasale, mentre in KNM-ER 1813 la larghezza maggiore è situata nella regione facciale superiore. Anche le dimensioni e la robustezza delle mandibole sono variabili: quelle pertinenti a individui grandi hanno un corpo più robusto, con premolari dalle corone e radici complesse. Le nostre conoscenze circa lo scheletro postcraniale provengono tradizionalmente dai reperti rinvenuti nel Bed I della Gola di Olduvai ma, sebbene tali reperti siano stati attribuiti a H. habilis, è impossibile escludere con certezza che essi non possano piuttosto appartenere a Paranthropus boisei. Gli unici reperti postcraniali rinvenuti nella Gola di Olduvai sicuramente attribuibili a H. habilis sono infatti quelli relativi allo scheletro OH 62, citato in precedenza. La morfologia di questo esemplare è poco nota, ma è possibile determinare le lunghezze relative dei segmenti ossei degli arti superiori e di quelli inferiori, che mostrano come questo individuo avesse braccia più lunghe delle gambe rispetto a quanto non si riscontri in nessun'altra specie del genere Homo. Se OH 62 è attribuibile effettivamente a H. habilis, allora tale attribuzione implica che lo scheletro postcraniale di almeno una specie del genere Homo è indistinguibile da quello di Australopithecus e di Paranthropus.
Tassonomia - I ricercatori hanno messo in dubbio sin dal principio la credibilità di H. habilis. Stando alle principali critiche riguardanti il modello lineare e anagenetico di evoluzione prevalente in quel periodo, non vi era "spazio morfologico" sufficiente per un altro taxon tra A. africanus e H. erectus. I critici sostenevano che in realtà H. habilis fosse costituito da un insieme di fossili di A. africanus "evoluto", geologicamente più antico, e di reperti di H. erectus "primitivo", geologicamente più giovane. Tali teorie sono state confutate dalla dimostrazione che uno degli esemplari di Olduvai più "avanzati" dal punto di vista morfologico (OH 24) era il più antico anche dal punto di vista geologico. Inoltre i ricercatori hanno dimostrato che le caratteristiche di H. habilis non sono semplicemente un miscuglio di quelle di A. africanus e di H. erectus, bensì una particolare combinazione di caratteristiche morfologiche. La terza obiezione mossa contro la validità della specie H. habilis riguardava la presenza al suo interno di fossili troppo diversi da un punto di vista morfologico. Ciò determinava una variabilità eccessiva all'interno del taxon perché esso potesse essere considerato plausibile. Le opinioni su questo argomento sono orientate in direzioni diverse: secondo alcuni ricercatori per questi reperti è necessario mantenere un solo taxon, vale a dire H. habilis sensu lato, mentre altri propongono una distinzione in due taxa, secondo quanto illustrato nel paragrafo dedicato a H. rudolfensis.
Nella sua esauriente, benché indubbiamente peculiare, presentazione di testimonianze sull'evoluzione umana, V. Alexeev nel 1986 affermava che vi erano sufficienti differenze tra il cranio KNM-ER 1470 e i reperti attribuiti a H. habilis per giustificare l'attribuzione del primo a una nuova specie denominata Pithecanthropus rudolfensis. Tale proposta è stata oggetto di critiche da parte di alcuni ricercatori, secondo i quali V. Alexeev avrebbe infranto o piuttosto ignorato le norme sancite dal Codice Internazionale di Nomenclatura Zoologica. Non vi sono, tuttavia, motivi per supporre che la proposta di questo studioso non abbia rispettato sostanzialmente tali norme, pur non avendone seguite tutte le indicazioni. Qualora si accetti il fatto che H. habilis sensu lato assommi più variabilità di quanto accettabile all'interno di un'unica specie e che KNMER 1470 appartenga ad una specie diversa da quella dello specimen di H. habilis sensu stricto, H. rudolfensis potrebbe essere la denominazione di un secondo taxon di "early Homo". Alcuni studi, che hanno dimostrato come il grado di variabilità all'interno di H. habilis sensu lato risulti maggiore di quello prevedibile per una singola specie, hanno confermato tale ipotesi. È stato suggerito di dividere i reperti in due specie: H. habilis sensu stricto, il cui specimen comprende tutti i reperti attribuiti al taxon originale rinvenuti nella Gola di Olduvai, e un sottogruppo di reperti attribuiti a H. habilis sensu lato proveniente da Koobi Fora. L'esemplare KNM-ER 1470, che non risulta compreso nel sottogruppo precedente, diventa lo specimen del secondo taxon, denominato H. rudolfensis.
Caratteristiche morfologiche - H. rudolfensis differisce da H. habilis sensu stricto soprattutto perché i due taxa sono formati da una diversa commistione di caratteristiche primitive e derivate, vale a dire specializzate. Ad esempio, mentre la capacità cranica è maggiore in H. rudolfensis, la faccia di quest'ultimo ha la maggiore larghezza nella regione centrale, secondo una morfologia più primitiva di quella di H. habilis sensu stricto, nella quale la maggiore larghezza è situata nella regione superiore. La faccia primitiva di H. rudolfensis è collegata a una mandibola robusta e dotata di premolari, le cui corone sono più grandi e il cui sistema radicale è più complesso che in H. habilis sensu stricto. Benché possediamo alcune cognizioni sullo scheletro postcraniale di H. habilis sensu stricto (OH 62), non vi sono reperti postcraniali attribuibili in maniera attendibile a H. rudolfensis.
Questo taxon non fu proposto per accogliere nuove testimonianze fossili, ma venne istituito da C.P. Groves e V. Mazák nel 1975 sulla base di un riesame dei reperti rinvenuti a Koobi Fora e attribuiti a "early Homo". Lo specimen KNM-ER 992 è una mandibola adulta che era stata confrontata con H. erectus e attribuita da alcuni ricercatori a questa specie. Tra gli altri esemplari vi è il cranio KNM-ER 1805 che, secondo i risultati dell'unica analisi particolareggiata effettuata su di esso, dovrebbe essere chiamato H. habilis sensu stricto. La possibilità di stabilire se H. ergaster sia un taxon valido oppure no dipende dalla capacità di dimostrare se è possibile operare una precisa distinzione fra i reperti ad esso riferibili e quelli attribuiti a H. erectus.
Caratteristiche morfologiche - Le caratteristiche che possono distinguere H. ergaster da H. erectus sensu stricto si dividono in due gruppi. Nel primo rientrano gli elementi che rendono H. ergaster più primitivo di H. erectus sensu stricto, precisamente alcuni elementi della dentatura della mandibola, soprattutto i premolari inferiori. È stato detto che le corone e le radici di questi denti di H. ergaster sono più simili a quelli dell'ipotetico antenato comune degli Ominidi che a quelli di H. erectus sensu stricto. Il secondo gruppo è composto da quegli elementi che rendono H. ergaster meno specializzato o derivato, nella volta cranica e nella morfologia della base cranica, rispetto a H. erectus sensu stricto; H. ergaster, ad esempio, è privo delle caratteristiche derivate della morfologia cranica, quali un prominente toro angolare e sagittale.
Nel 1890 E. Dubois rinvenne un frammento di una mandibola nel sito di Kedung Brubus a Giava, ma fu poco meno di un anno dopo, nel 1891, nel corso di una campagna di scavi che aveva intrapreso a Trinil, lungo le sponde del fiume Solo, che i suoi operai portarono alla luce la calotta cranica, molto più primitiva, che sarebbe divenuta lo specimen di una nuova specie di ominide fossile. Nella prima pubblicazione sui reperti di Trinil (Dubois 1892) egli attribuì la calotta cranica al genere Anthropopithecus, ma due anni più tardi, nel 1894, cambiò la denominazione della specie in Pithecanthropus. La ricerca di resti umani fossili a Trinil si protrasse per un decennio; l'ultimo frammento di Ominide vi fu rinvenuto nel 1900. A rendere tanto importante la scoperta del cranio di Trinil furono la sua ridotta capacità cranica (850 cm³ ca.) e la sua conformazione primitiva, caratterizzata da una volta cranica bassa e da una regione occipitale molto angolata. Era stata la presenza di queste caratteristiche che aveva inizialmente indotto lo scopritore a pensare che si trattasse della calotta di una scimmia. La fase successiva delle ricerche di fossili umani a Giava cominciò nel 1936 e si protrasse sino al 1941; ripresi nel 1951, i lavori proseguono ancora oggi in modo discontinuo. Le ricerche furono concentrate in una zona a monte di Trinil, dove il fiume Solo scorre attraverso i sedimenti pliopleistocenici del cosiddetto Sangiran Dome. Qui il paleontologo tedesco R. von Koenigswald diede avvio alle proprie ricerche sull'evoluzione umana, portando alla luce un cranio la cui forma somigliava a quella caratteristica della calotta di Trinil, mentre il volume del cervello, circa 750 cm³, era ancora più piccolo. Nello stesso periodo il paleontologo svedese G. Andersson, insieme all'austriaco O. Zdansky, aveva condotto alcune campagne di scavo in Cina (1921-23), nella Grotta di Zhoukoudian nei dintorni di Pechino, rinvenendo soltanto manufatti di quarzo e alcuni resti fossili. Solo qualche anno dopo, nel 1926, studiando i reperti a Uppsala, Zdansky comprese che alcuni di essi, in un primo tempo ritenuti non-ominidi, erano in realtà umani. Si trattava di due denti inizialmente identificati come denti di scimmia, di un molare superiore e di un premolare inferiore descritti dall'anatomista D. Black nel 1926. I due denti vennero attribuiti, insieme al primo molare inferiore sinistro permanente ben conservato rinvenuto nel 1927, che ne divenne lo specimen, a Sinanthropus pekinensis (Black 1927). In quello stesso anno Black, un suo collega cinese, Weng Wanhao, e A. Bohlin ripresero gli scavi a Zhoukoudian. Il primo cranio fu rinvenuto nel 1929 e gli scavi si protrassero fino alla seconda guerra mondiale. La morfologia dei fossili rinvenuti nella Località 1, che sarebbe divenuta nota col nome di Zhoukoudian, era simile a quella dei reperti di Pithecanthropus erectus rinvenuti a Giava. In seguito, reperti con caratteristiche analoghe sono stati rinvenuti in altri siti. In Cina, ad esempio a Lantian, vennero designati col nome di Sinanthropus lantianensis da Woo nel 1964; in Africa meridionale i resti rinvenuti a Swartkrans nel 1949 e in anni seguenti furono attribuiti da R. Broom e J.T. Robinson nel 1949 a Telanthropus capensis; in Africa orientale quelli rinvenuti a Olduvai a partire dal 1960 furono descritti da G. Heberer nel 1963 col nome di H. leakeyi. Sulle sponde occidentali e orientali del Lago Turkana sono stati trovati, a partire dal 1970, i più antichi H. erectus/H. ergaster africani (Groves - Mazák 1975); successivamente sono stati rinvenuti a Melka Kunturé, a partire dal 1973, resti di H. erectus e di H. sapiens arcaico. In Africa settentrionale i resti di Tighennif sono stati denominati Atlanthropus mauritanicus da C. Arambourg nel 1954. Molti ritengono che anche i reperti portati alla luce a Ngandong in Indonesia negli anni 1931-33, denominati H. (Javanthropus) soloensis da W. Oppenoorth nel 1932, debbano essere attribuiti a questo gruppo. Nonostante il numero relativamente grande di crani rinvenuti a Giava, in Cina e altrove, la morfologia postcraniale di quello che sarebbe divenuto H. erectus non era ancora molto nota. Tale lacuna è stata successivamente colmata grazie ai rinvenimenti effettuati in alcuni siti in Africa orientale: un bacino e un femore messi in luce nella Gola di Olduvai (OH 28), una mandibola in buono stato di conservazione (KNMER 992), un cranio (KNM-ER 3733), una calotta (KNMER 3883) e due scheletri frammentari (KNM-ER 803 e 1800) trovati sulla sponda orientale del Lago Turkana e uno scheletro ben conservato rinvenuto sulla sponda occidentale dello stesso lago (KNM-WT 15.000), che si sarebbe rivelato una fonte particolarmente ricca di informazioni. Esistono alcune differenze morfologiche tra questi reperti e H. sapiens, ma tutti gli elementi della regione postcraniale indicano una stazione abitualmente eretta e una deambulazione bipede ad ampio raggio.
Caratteristiche morfologiche - I crani di H. erectus hanno tutti una volta cranica bassa, in cui il punto di maggiore larghezza è situato nella parte inferiore parietale del cranio. Al di sopra delle orbite vi è un toro continuo e di forte spessore, posteriormente al quale vi è un solco; un toro sagittale e uno angolare sono orientati verso il processo mastoideo. La regione occipitale ha un'angolazione molto acuta, con un solco assai marcato; la corticale interna ed esterna del tavolato della volta cranica ha forte spessore; la massima larghezza si trova nella parte superiore della faccia. Rispetto all'uomo moderno e arcaico sono rilevabili altre differenze: le dimensioni del palato sono simili, ma il corpo della mandibola, che manca di un mento ben marcato, è più robusto. Le corone dentarie sono generalmente più grandi, mentre il terzo molare è di solito più piccolo o delle stesse dimensioni del secondo; le radici dei premolari tendono ad essere più complicate; la corticale esterna dello scheletro postcraniale è in genere più spessa. Le ossa degli arti hanno diafisi più robuste: quelle del femore e della tibia presentano un appiattimento antero-posteriore relativamente più accentuato, definito nel primo caso platimeria e nel secondo platicnemia.
Tassonomia - Inizialmente questi reperti erano stati distinti in due sottogruppi regionali principali attribuiti a tre diversi generi: Pithecanthropus e Meganthropus a Giava, Sinanthropus in Cina, mentre i reperti nordafricani costituivano un quarto genere chiamato Atlanthropus. Nel 1943 F. Weidenreich fece formalmente confluire Sinanthropus in Pithecanthropus; nel 1944 e nel 1950, rispettivamente, Mayr propose che Pithecanthropus e Meganthropus confluissero in Homo; nel 1964 Le Gros Clark propose di inserire Atlanthropus in Homo. La definizione di Homo fu modificata in modo da poter accogliere i reperti relativamente primitivi di H. erectus; ciò significò soprattutto che nel genere Homo veniva ad essere compresa una gamma assai più ampia di morfologie craniche, di dimensioni cerebrali, di morfologie e di dimensioni mandibolari rispetto a quando H. neanderthalensis ne costituiva l'unico taxon fossile. Alcuni ricercatori ritengono che la parte più antica dell'ipodigma di H. erectus sia tassonomicamente distinta e la collocano in un'altra specie, denominata H. ergaster.
Dal complesso di caverne di Sima de los Huesos, nella Sierra di Atapuerca in Spagna, provengono alcuni reperti messi in luce nel livello 6 della Gran Dolina (TD), verosimilmente datati a 500.000 anni fa. Alcuni autori (Bermudez de Castro et al. 1997) sostengono che in tali reperti si nota una combinazione morfologica che non è presente in nessun'altra specie di Ominidi, con le corone e le radici dentarie relativamente primitive e in netto contrasto con la morfologia della faccia, straordinariamente simile a quella umana moderna. Secondo questi autori, poiché H. heidelbergensis ha alcuni caratteri derivati in comune con H. neanderthalensis, che non compaiono nei reperti rinvenuti alla Gran Dolina, vi sono buone ragioni per non attribuire questi ultimi a H. heidelbergensis. L'evidente assenza di questi caratteri derivati, insieme ad alcune differenze con H. ergaster, ha costretto gli autori a proporre l'attribuzione dei fossili della Gran Dolina a una nuova specie, denominata H. antecessor (Bermudez de Castro et al. 1997).
Il nomen di questa specie fu istituito da O. Schoetensack nel 1908 per una mandibola di Ominide rinvenuta l'anno precedente da alcuni operai in una cava a Mauer, nei pressi di Heidelberg, in Germania. La mandibola è priva di mento e ha dimensioni maggiori rispetto a quella dell'uomo moderno europeo. Il successivo rinvenimento di un fossile con analoghi caratteri arcaici è costituito da un cranio scoperto nel 1959 nella Grotta di Petralona in Grecia, al quale può essere attribuita solo un'età approssimativa (350.000-400.000 anni ca.). Un'età analoga è verosimile per i resti paragonabili con H. heidelbergensis messi in luce alla Caune de l'Arago presso Tautavel, in Francia, a partire dal 1964, mentre i reperti più frammentari, ma ugualmente arcaici dal punto di vista morfologico, rinvenuti a Montmaurin in Francia nel 1949, a Vertesszőllős in Ungheria nel 1965 (185.000 anni ca.), a Bilzingsleben in Germania negli anni 1972-77, 1983 e successivi sono apparentemente più recenti (250.000 anni ca.). Col passare del tempo, tali reperti sono stati considerati quasi tutti sottospecie di H. erectus e definiti H. erectus petraloniensis da Murrill nel 1983, H. erectus tautavelensis da J. Piveteau nel 1982, H. (erectus seu sapiens) palaeohungaricus da A. Thoma nel 1966, H. erectus bilzingslebenensis da E. Vlcek nel 1978. Tuttavia, sebbene siano notevolmente più arcaici dei tipi umani attuali e abbiano alcune caratteristiche arcaiche in comune con H. erectus, questi fossili sono totalmente privi dei tratti peculiari caratteristici di H. erectus. La prima testimonianza africana di H. sapiens arcaico è rappresentata da un cranio rinvenuto nel 1921 in una galleria della miniera di Broken Hill a Kabwe, nell'attuale Zambia. Il cranio fu attribuito da S. Woodward nel 1921 ad una nuova specie, H. rhodesiensis ed è datato a 250.000-300.000 anni fa circa. Altri reperti morfologicamente comparabili e datati alla stessa epoca furono rinvenuti in Africa meridionale a Florisbad (1932) e furono in seguito designati H. (Africanthropus) helmei, in Africa orientale a Eyasi (1935), denominati Palaeoanthropus njarensis, e in Africa settentrionale a Rabat (1933) e a Gebel Irhoud (1961-63). La testimonianza più antica di questo gruppo di reperti africani "arcaici" proviene da Bodo in Etiopia (1976) ed è datata a circa 600.000 anni fa, mentre tra gli esemplari di età intermedia (400.000 anni ca.) vi sono alcuni crani rinvenuti in Africa meridionale a Hopefield-Elandsfontein (1953) attribuiti a H. sudanensis da M.R. Drennan nel 1955, nell'Africa orientale a Ndutu (1973) e in Africa settentrionale a Sale (1971) e alla Carrière Thomas (1969-72). Le testimonianze asiatiche di una forma "arcaica" di Homo, che chiaramente non è H. erectus, sono state portate alla luce in Cina a Mapa (1958) e a Dali (1978) e in India a Hathnora (1982). L'età di questi fossili è compresa tra 200.000 e 100.000 anni.
Caratteristiche morfologiche - La morfologia del cranio è l'elemento che distingue questi reperti da H. sapiens: la volta cranica è di spessore marcato ed è spesso più piccola di quella degli esseri umani attuali, ma ha sempre una struttura più robusta, grandi arcate sopraorbitali e una regione occipitale ispessita. Per quanto riguarda la forma delle ossa degli arti, questa è molto simile a quella di H. sapiens, ma le diafisi delle ossa lunghe hanno in genere maggiore spessore e indici di robustezza più elevati di quella specie.
Tassonomia - Per dare una collocazione a questi reperti si è fatto ricorso a vari espedienti tassonomici. Sono stati istituiti nuovi generi, Palaeoanthropus njarensis per Eyasi da H. Reck e L. Kohl-Larsen nel 1936, Cyphanthropus rhodesiensis da W. Pycraft nel 1928 per Kabwe e nuove specie come H. (Africanthropus) helmei, identificato da T.F. Dreyer nel 1935 per Florisbad; H. saldanensis così denominato da M.R. Drennan nel 1955 per Hopefield. In altri casi è stata proposta l'inclusione in taxa già esistenti, come ad esempio H. sapiens per Hathnora. Per molti anni questi reperti sono stati convenzionalmente classificati come H. sapiens arcaico, ma ricerche recenti hanno dimostrato che gli esemplari appartenenti a questo gruppo, per quanto riguarda la morfologia del cranio, dei denti e del resto dello scheletro, sono distinti da H. sapiens e sarebbe quindi opportuno attribuirli ad una specie separata. Nel caso in cui si ritenesse necessario accogliere in un'unica specie tutti i reperti rinvenuti in Europa, in Africa e in Asia, la denominazione da utilizzare dovrebbe essere H. heidelbergensis, data da O. Schoetensack nel 1908.
Lo specimen di H. neanderthalensis, definito da W. King nel 1864, è costituito da reperti fossili appartenenti a un singolo scheletro di adulto, rinvenuto nel 1856 nella Grotta di Feldhofer, nella valle di Neander, in Germania. Altri resti con tratti morfologici tipicamente neandertaliani erano stati rinvenuti in precedenza, ma i loro caratteri furono riconosciuti solo successivamente: nel 1829 un cranio infantile fu trovato a Engis in Belgio e nel 1848 fu rinvenuto un cranio a Forbes Quarry (Gibilterra), denominato H. calpicus da A. Keith nel 1911. A trent'anni di distanza dall'identificazione dello specimen, la successiva scoperta di reperti neandertaliani ebbe luogo nel sito di Spy in Belgio. In seguito altri rinvenimenti furono effettuati in Moravia a Sipka (con H. primigenius, secondo la denominazione di H. Schaaffhausen del 1880); in Croazia a Krapina negli anni 1899-1906; in Germania a Ehringsdorf nel 1908; in Francia a Le Moustier nel 1908 e nel 1914 (con H. transprimigenius, così denominato da R. Forrer nel 1908); a La Chapelle-aux-Saints nel 1908, a La Ferrassie tra il 1909 e il 1912 e a La Quina nel 1911 (con H. chapellensis secondo Buttel-Reepen); nelle Channel Islands a La Cotte de Saint-Brelade (con H. breladensis, secondo la denominazione di R. Marett del 1911). Solo agli anni 1924-26 risalgono i rinvenimenti in Europa orientale a Kiik Koba in Crimea, mentre al di fuori dell'Europa sono stati rinvenuti resti fossili nella Grotta di Tabun, sul Monte Carmelo in Israele nel 1929 e a Teshik Tash in Uzbekistan nel 1938. Nel frattempo anche in Italia erano stati portati alla luce in due siti i resti di alcuni Neandertaliani: a Saccopastore negli anni 1929-35 e nella Grotta Guattari al Monte Circeo nel 1939. Dopo la seconda guerra mondiale sono venute alla luce ulteriori testimonianze, prima da Shanidar in Iraq tra il 1953 e il 1960, quindi, negli anni Sessanta, dai siti di Amud e Kebara in Israele e, più recentemente, da siti in Francia e in Spagna, ad esempio Saint-Césaire nel 1979 e Zaffaraya nel 1992. Ad eccezione della Scandinavia, sono stati rinvenuti reperti neandertaliani in tutta l'Europa, nel Vicino Oriente e in Asia centro-occidentale. È stato persino suggerito che vi potessero essere reperti del tipo H. neanderthalensis anche in Africa e nel resto dell'Asia, ma non sono mai state trovate testimonianze inconfutabili di una "fase neandertaliana" pancontinentale; sembra piuttosto che la diffusione dei Neandertaliani sia rimasta circoscritta all'Europa e alle regioni adiacenti. L'uso di dare sepoltura ai defunti, praticato dai Neandertaliani, ha consentito anche la conservazione di una certa quantità di scheletri infantili. È stato così possibile stabilire che la peculiare morfologia craniale e postcraniale dei Neandertaliani è presente sia nei reperti scheletrici di bambini molto piccoli che in quelli di adulti. Tali testimonianze dimostrano in maniera inequivocabile che questi caratteri sono determinati geneticamente e quindi non possono perdersi, come accade nel caso di quelli acquisiti. Molti elementi caratteristici della morfologia dei Neandertaliani sono riconoscibili anche in reperti scheletrici portati alla luce in siti quali Steinheim (Germania) e Swanscombe (Inghilterra), datati a circa 200.000-300.000 anni fa. È stato inoltre affermato che gli stessi caratteri sono già evidenti in parte dei reperti rinvenuti nel sito spagnolo di Sima de los Huesos ad Atapuerca. Se così fosse, l'origine dei Neandertaliani dovrebbe essere fatta risalire a circa 300.000 anni fa; le testimonianze di Neandertaliani geologicamente più recenti, rinvenute nel sito di Zaffaraya in Spagna, sono databili a poco meno di 30.000 anni fa.
Tassonomia - Sebbene la specie H. neanderthalensis sia stata istituita nel 1864, la sua effettiva distinzione rispetto a H. sapiens è stata per lungo tempo sostenuta solo da un ristretto numero di studiosi. Negli anni Novanta del XX secolo si è assistito a un aumento progressivo della tendenza ad accettare la particolarità morfologica dei Neandertaliani, al punto che molti ricercatori considerano improbabile l'ipotesi che da una forma così specializzata si sia potuta evolvere la morfologia dei tipi umani attuali. Recentemente alcuni ricercatori hanno prelevato brevi frammenti di DNA mitocondriale dall'omero dello specimen (Krings et al. 1997) e hanno dimostrato che la sequenza fossile nucleotidica non rientra nella gamma di variabilità della forma umana attuale; in base a questi dati hanno ritenuto pertanto improbabile l'ipotesi che i Neandertaliani abbiano potuto contribuire al patrimonio genetico degli esseri umani attuali. Il frammento del DNA mitocondriale esaminato è assai piccolo, ma se scoperte simili dovessero interessare altre parti del genoma verrebbe ulteriormente confermata la possibilità di assegnare i Neandertaliani ad una specie separata da quella degli esseri umani attuali.
I primi rinvenimenti in base ai quali è stato possibile supporre che la specie umana fosse sufficientemente antica da poter avere rappresentanti fossili si ebbero nel 1868, quando alcuni lavoratori scoprirono diversi resti scheletrici nel Riparo sotto roccia di Cro-Magnon, presso Les Eyzies-de-Tayac in Francia. Uno scheletro maschile (Cro-Magnon 1) fu considerato nel 1899 da G.V. de Lapouge lo specimen di una nuova specie, H. spelaeus, ma si comprese presto che non era sensato fare distinzioni tra questo reperto e H. sapiens attuale. I primi resti fossili africani pertinenti a popolazioni difficilmente distinguibili da esseri umani anatomicamente moderni furono rinvenuti nel 1924 a Singa nel Sudan. In seguito furono trovati altri resti a Dire Dawa in Etiopia (1933), a Dar es-Soltan in Marocco (1937-38), a Border Cave nel Natal (1941-42 e 1974), nei giacimenti di Omo (Omo 1 - Formazione Kibish) in Etiopia (1967) e di Klasies River Mouth nella Provincia del Capo (1968). Nessuno di questi siti risale a più di 150.000 anni fa, anzi la maggior parte risale a meno di 100.000 anni fa. Nel Vicino Oriente testimonianze fossili simili erano state portate alla luce nei siti di Skhul (1931-32) e Qafzeh (1933). In Asia e in Australia fossili umani anatomicamente moderni sono stati rinvenuti a Wadjak in Indonesia (1889-90), nella Grotta Superiore di Zhoukoudian in Cina (1930), nella Grotta Niah in Borneo (1958), a Tabon nelle Filippine (1962) e a Willandra Lakes in Australia (1968 e anni successivi). Poiché si ritiene che tutti questi reperti rientrino nella gamma di variabilità morfologica di tipi regionali pertinenti a popolazioni umane attuali, è improprio distinguerli tassonomicamente da H. sapiens. L'origine di H. sapiens è stata al centro di importanti discussioni. Vi sono due tipi di testimonianze, quelle fossili e quelle molecolari. Secondo quelle fossili, le evidenze più antiche di una morfologia umana anatomicamente moderna provengono da siti dell'Africa, alcuni dei quali sono stati menzionati sopra. Sempre in Africa sono state rinvenute testimonianze di un tipo umano che probabilmente prelude a quello anatomicamente moderno, costituite da alcuni crani per la maggior parte più robusti e dall'aspetto più arcaico di quelli di esseri umani anatomicamente moderni, ma che non sono sufficientemente arcaici da giustificare l'assegnazione a H. heidelbergensis. Esemplari appartenenti a questa categoria sono stati rinvenuti nella Cave of Hearths nel Transvaal (1947), a Gebel Irhoud in Marocco (1961 e 1963), a Omo 2 (Formazione Kibish) in Etiopia (1967), a Laetoli 18 in Tanzania (1976), ad Eliye Spring (KNM-ES 11.693) in Kenya (1985), a Ileret sempre in Kenya (KNM-ER 999 e 3884, rispettivamente nel 1971 e nel 1976). Questi reperti risultano morfologicamente molto simili agli esemplari rinvenuti a Florisbad e a Rabat che sono trattati nel paragrafo dedicato a H. heidelbergensis. Vi fu indubbiamente una serie di adattamenti graduali nella morfologia che rende difficile stabilire il limite tra H. sapiens arcaico e H. heidelbergensis, ma è chiaro che se non viene stabilito tale limite, la variabilità morfologica riguardante H. sapiens sensu lato risulterà così grande da diventare difficilmente credibile (Bräuer 1992). Una discussione dettagliata sull'evidenza molecolare riguardante l'origine degli esseri umani moderni è stata riassunta molto bene da M. Stoneking (1993).
Attualmente sono due le principali discussioni in corso sul genere Homo. La prima non riguarda i limiti del taxon, bensì il numero di specie che lo compongono: poiché vi sarebbe stata una maggiore possibilità di adattabilità e di mutamenti morfologici tra Ardipithecus, Australopithecus, Paranthropus e Homo, è difficile, se non impossibile, identificare confini tra le specie costituenti Homo. Si suggerisce quindi che l'unica specie nel genere Homo dovrebbe essere la specie-tipo H. sapiens (Linneo 1758). La seconda discussione riguarda da una parte il campo di variabilità del genere Homo e la tendenza a far divenire meno rigidi i criteri per includervi altre specie, dall'altra la scoperta secondo cui alcune delle specie incluse in Homo non possono avere le capacità funzionali loro attribuite. Le specie "problematiche" sono H. habilis sensu stricto e H. rudolfensis. Quanto al primo, si credeva che i fossili originali attribuiti a H. habilis sensu stricto fossero la prova che si trattasse di un animale a stazione abitualmente eretta e a deambulazione bipede, dotato del tipo di abilità necessaria per costruire gli utensili in pietra rinvenuti a Olduvai. Purtroppo, da quando queste ipotesi furono formulate, quasi tutti gli studi eseguiti sui relativi reperti fossili rinvenuti nel Bed I della Gola di Olduvai hanno cercato di sottolineare che l'interpretazione di questi fossili sarebbe più appropriata se essi venissero attribuiti ad un animale che non era unicamente bipede, ma in cui la deambulazione bipede si combinava all'abilità di arrampicarsi. Similmente, non vi è nessun carattere distintivo tra la morfologia della mano di H. habilis sensu stricto e quella delle mani fossili attribuite ad Australopithecus e a Paranthropus. Non vi sono ragioni anatomiche che inducano ad identificarlo con il costruttore degli utensili litici rinvenuti nel Bed I della Gola di Olduvai; in ogni caso, ora i manufatti in pietra precedono H. habilis sensu stricto. In tal modo, H. habilis sensu stricto non è più conforme ai criteri funzionali suggeriti da L.S.B. Leakey, Ph.V.Tobias e J.R. Napier (1964) per poter essere incluso in Homo. Quanto a H. rudolfensis, sebbene non vi siano reperti "postcraniali" riconducibili a questo taxon, niente dimostra chiaramente una sua evoluzione significativa rispetto ad Australopithecus e a Paranthropus in termini di adattamento del regime alimentare. Così, con un giudizio retrospettivo, sembra che H. habilis sensu stricto e H. rudolfensis non siano sufficientemente evoluti per quanto riguarda le loro capacità di adattamento da giustificarne l'inclusione in Homo. Se così fosse, i confini di Homo dovrebbero essere modificati in modo che H. ergaster vi possa essere incluso, ma H. habilis sensu stricto e H. rudolfensis ne siano esclusi, oppure trasferiti in Australopithecus o collocati in un nuovo genere.
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di Silvana Condemi
Grazie al gran numero di testimonianze fossili a disposizione, la storia del popolamento dell'Europa può essere ricostruita con maggiore accuratezza rispetto alle altre regioni del Vecchio Mondo. Ancora in tempi recenti la presenza umana per il periodo compreso tra 1.000.000 e 700.000 anni fa era attestata solo dal rinvenimento di paleosuperfici e di manufatti litici, mentre non erano noti i tipi umani ad essi correlabili. Tale lacuna è stata colmata dal rinvenimento dei siti di Campo Grande presso Ceprano in Italia e della Gran Dolina di Atapuerca in Spagna: reperti fossili umani lì rinvenuti possono essere avvicinati dal punto di vista morfologico, nonostante le analisi siano ancora in corso, ai resti umani arcaici conosciuti in Africa (Ascenzi - Segre - Naldini-Segre 1996; Bermudez de Castro et al. 1997). Dal momento che la datazione proposta per la mandibola di Dmanisi in Georgia (1,6-1,8 milioni di anni) è stata ancora di recente rimessa in discussione, questo fossile non verrà trattato in questa sede. Il rinvenimento di fossili umani molto antichi in Europa solleva dunque numerose questioni circa il primo popolamento di questo continente. Essi apparterrebbero, secondo alcuni studiosi, a Homo erectus, mentre per altri dovrebbero essere attribuiti a H. sapiens arcaico; per altri ancora, infine, si tratterebbe di rappresentanti di una specie fossile particolare, chiamata H. heidelbergensis o ancora H. antecessor (Tabb. 1 e 2). Questa divergenza di opinioni si inserisce in un quadro più ampio: attualmente, infatti, nessun fossile europeo può essere riferito con certezza alla specie H. erectus. Per alcuni ricercatori questa specie non avrebbe mai popolato l'Europa, secondo altri sarebbe stata presente solo in Asia e per altri ancora designerebbe un H. sapiens arcaico; in quest'ultimo caso H. sapiens sarebbe una specie graduale che evolve nel tempo (Bonifay - Vandermeersch 1991; Hublin - Tillier 1991). Sia i limiti cronologici che quelli morfologici tra H. erectus e le forme più arcaiche di H. sapiens non appaiono stabiliti in maniera netta: i fossili europei del Pleistocene medio sono stati talvolta attribuiti a H. erectus, talvolta a H. sapiens. I caratteri tipici di H. sapiens arcaico non differiscono, in taluni casi, dai caratteri primitivi dei fossili considerati H. erectus. In Europa occidentale tale difficoltà di interpretazione trova un esempio nel cranio della Caune de l'Arago, attribuito da alcuni a H. erectus e da altri considerato come un H. sapiens già inserito nel ceppo dei Neandertaliani. Questa popolazione, che prende nome dal celebre fossile scoperto nel 1856 nella valle di Neander, costituisce l'elemento caratteristico del popolamento dell'Europa rispetto alle altre regioni del Vecchio Mondo. Dopo quasi un secolo e mezzo di studi sui reperti fossili, è possibile oggi affermare che la sua diffusione interessò, oltre l'Europa, anche il Vicino Oriente. La maggior parte degli studiosi ha considerato per molto tempo i Neandertaliani come una sottospecie di H. sapiens (H. sapiens neanderthalensis), sulla base dei caratteri comuni evidenziati fra Neandertal e H. sapiens sapiens (ad es., la grande capacità cranica) e su considerazioni di ordine culturale (ad es., la presenza di sepolture a loro associate). In quest'ottica appare evidente che sarebbe corretto considerare i Neandertaliani come i rappresentanti di una sottospecie di H. sapiens. Il problema delle relazioni tra H. erectus e H. sapiens in Europa (Tabb. 1 e 2) emerge quindi ancora una volta e riguarda la possibilità di riconoscere quei fossili europei appartenenti a H. sapiens dai quali si sarebbe poi differenziato il Neandertal. L'ipotesi secondo cui il Neandertal sarebbe una sottospecie di H. sapiens (H . sapiens neanderthalensis) è stata rimessa in discussione negli ultimi anni da alcuni ricercatori, i quali considerano i Neandertaliani una specie a parte (H. neanderthalensis) in quanto presentano tutta una serie di caratteri particolari. Anche in questo caso resta comunque aperto il problema della relazione tra H. neanderthalensis e la specie che l'ha preceduto (Tabb. 1 e 2).
Benché fin dai primi studi sui Neandertaliani (Fraipont - Lohest 1887; Boule 1911-13) siano state messe in evidenza le loro particolarità anatomiche, il riconoscimento di alcuni tratti unici, cioè di quelle peculiarità che consentano di identificarli senza alcuna ambiguità, resta ancora oggetto di controversia. La comunità scientifica, sotto l'influenza della teoria di A. Hrdlička, che fin dal 1927 aveva identificato il Neandertal come l'antenato delle popolazioni moderne, ha per lungo tempo considerato ogni carattere non riscontrabile sull'uomo moderno come un elemento tipico dei Neandertaliani. La localizzazione in area europea della quasi totalità dei reperti fossili aveva condotto a sopravvalutare il ruolo degli esemplari europei nella storia evolutiva dell'uomo. Oggi sappiamo che la popolazione neandertaliana si è diffusa solo in una piccola parte del mondo antico e pertanto non può essere ritenuta all'origine dell'intera umanità moderna. Le numerose scoperte di fossili in tutto il mondo permettono ormai di distinguere sui fossili neandertaliani i caratteri arcaici (plesiomorfi) da quelli tipici, specializzati, derivati (apomorfi). Poiché caratteri arcaici possono persistere sia in popolazioni di epoca diversa sia in luoghi geografici diversi, presi singolarmente essi non possono essere considerati discriminanti; lo sono, invece, i caratteri derivati osservabili in un singolo ceppo. Questa metodologia, detta "cladistica", apparentemente semplice, incontra difficoltà nella sua applicazione, la più importante delle quali deriva dalla necessità di avere esemplari di fossili arcaici in cui siano conservate tutte le regioni anatomiche dello scheletro, in modo da poter evidenziare la differenziazione tra caratteri arcaici (plesiomorfi) e derivati (apomorfi). Inoltre, poiché questa metodologia non tiene conto della possibilità di reversioni, può essere alterata la rappresentatività di alcuni caratteri. Ad esempio, l'ampio angolo dell'osso sfenoidale, che si osserva alla base del cranio neandertaliano, è stato sempre considerato un carattere arcaico, poiché si presenta molto aperto anche nei primati antropomorfi. Lo studio dei fossili europei prewürmiani (Steinheim, Petralona, Saccopastore 1 e 2), che precedono i Neandertaliani classici, ha mostrato però che essi presentano un angolo della base del cranio più piccolo, dunque più chiuso di quello dei Neandertaliani (Condemi 1991). Per questa ragione l'apertura dell'angolo alla base del cranio nei Neandertaliani deve essere considerata un carattere derivato, evoluto, anziché un carattere arcaico.
I caratteri derivati (apomorfi) dei Neandertaliani - La definizione dei Neandertaliani data da W.E. Le Gros Clark (1955), utilizzata per molti anni come punto di riferimento, è stata sostituita nel 1984 con quella di C.B. Stringer, J.J. Hublin e B. Vandermeersch, che hanno identificato il Neandertal sulla base di 21 caratteri, dei quali solo 5 sono considerati come probabilmente derivati e altri 5 come incerti. Recentemente è stato effettuato un gran numero di studi comparativi tra H. erectus sensu lato e H. sapiens sapiens, sulla base di singole ossa e/o di reperti più completi (Trinkaus 1988; Rak 1990; Stringer - Gamble 1993). Questi studi hanno il merito di avere affinato l'analisi morfologica, nonché di aver fornito un'idea precisa dei caratteri plesiomorfi e di quelli apomorfi presenti nei Neandertaliani, senza trascurare al tempo stesso la loro variabilità interna. Attualmente il Neandertal può essere identificato in base ai seguenti caratteri: 1) la presenza di tratti arcaici (plesiomorfi), ancestrali, che non si osservano in nessun altro fossile moderno: ad esempio la volta cranica bassa e allungata, l'assenza di protuberanze frontali, l'assenza di un mento osseo; 2) la presenza di tratti che il Neandertal condivide con H. sapiens sapiens: ad esempio la grande capacità cranica (capacità media 1518±169 cm³) e la forte curvatura dell'osso occipitale; 3) la presenza di tratti derivati, unici (apomorfi), diagnostici del Neandertal (Tabb. 3, 4 e 5).
La storia evolutiva e cronologica dei Neandertaliani si è svolta in un periodo di tempo di almeno 450.000 anni e può essere ricostruita identificando i caratteri apomorfi neandertaliani su un gran numero di fossili presenti in Europa occidentale. Il riconoscimento dei caratteri apomorfi sui fossili umani che precedono cronologicamente i Neandertaliani classici dimostra che il processo di differenziazione di questa popolazione europea era in corso già in età prewürmiana e contribuisce a individuare l'emergere del ceppo neandertaliano. Nei fossili prewürmiani si riscontra un aumento dei caratteri neandertaliani in progressione crescente dagli esemplari più antichi a quelli più recenti. Tutti i fossili prewürmiani europei, a partire da 450.000 anni fa, si possono quindi considerare come preneandertaliani. Tale termine indica perciò quei fossili che hanno preceduto sia cronologicamente che filogeneticamente i Neandertaliani classici del Würm. I diversi momenti cronologici dell'evoluzione che portò ai Neandertaliani possono essere illustrati attraverso tre gruppi di fossili europei (Condemi 1992; 1998): un gruppo di pre-Neandertaliani arcaici, un gruppo di pre-Neandertaliani recenti, un gruppo di proto-Neandertaliani.
I pre-Neandertaliani arcaici - Questo gruppo, molto eterogeneo, comprende i fossili arcaici europei anteriori allo stadio isotopico 12, nei quali sono evidenti alcuni dei tratti neandertaliani. I primi cambiamenti della morfologia si possono osservare sulla faccia e sulla mandibola (Tab. 6). I fossili della Caune de l'Arago, la cui età è valutata intorno a 450.000 anni, presentano nell'osso mascellare (Arago XXI) una fossa canina attenuata con l'apofisi frontale del mascellare in estensione e l'osso zigomatico appiattito e in posizione piuttosto laterale anziché frontale. Questa faccia, alla quale corrisponde una mandibola (Arago II e XIII) dove si registra uno spostamento all'indietro del foro mentoniero (in direzione del primo molare), anticipa già l'estensione della faccia, tipica dei Neandertaliani würmiani. I caratteri presenti negli esemplari della Caune de l'Arago si ritrovano anche in altri fossili europei, come sulla mandibola di Atapuerca (Sima de los Huesos, AT 75) e sulla faccia del fossile di Petralona. Ma in altre regioni del cranio questi fossili presentano caratteri molto arcaici: sui parietali esiste ancora un forte spessore nell'angolo asterico (Arago XIII, Petralona) e nella regione occipitale si osserva un robusto toro occipitale continuo nel quale lo spessore massimo si situa nella regione sagittale media (Petralona, Vertesszőllős).
I pre-Neandertaliani recenti - Possono essere inclusi in questo gruppo tutti i fossili dell'Europa occidentale compresi cronologicamente tra gli stadi isotopici 11 e 7. Essi mostrano la presenza sistematica di caratteri neandertaliani, non solo sulla faccia, ma anche sull'osso frontale e nella regione occipitale (Tab. 6). L'osso frontale mostra un toro continuo con la fusione totale della parte sopraorbitaria e della parte sopracciliare (Bilzingsleben B4, Biache-Saint-Vaast 2, La Chaise - Abri Suard). Sull'osso occipitale la squama presenta una fossa soprainiaca che sormonta un toro occipitale bilaterale, il cui spessore massimo è laterale rispetto al piano sagittale medio (Swanscombe, Steinheim, Bilzingsleben A3, Biache-Saint-Vaast 1, Reilingen). La morfologia dell'osso occipitale dei fossili dello stadio isotopico 7 non è praticamente distinguibile da quella classica (La Chaise - Abri Suard). Nei fossili che conservano l'osso parietale si osserva una modificazione nella forma e nella posizione delle protuberanze parietali che si situano in posizione intermedia tra quella alta dell'uomo moderno e quella bassa dei fossili arcaici di H. erectus sensu lato (La Chaise - Abri Suard). Parallelamente alla presenza di questi caratteri neandertaliani, persistono alcuni caratteri arcaici, come ad esempio la piccola capacità cranica (chiaramente osservabile su La Chaise - Abri Suard o su Biache-Saint- Vaast) e lo spessore importante delle ossa della volta cranica (Bilzingsleben, Biache-Saint-Vaast 2, La Chaise - Abri Suard).
I proto-Neandertaliani - In questi fossili, che rappresentano gli ultimi predecessori dei Neandertaliani, è presente, in particolare nella regione facciale, un gran numero di caratteri neandertaliani e si osserva inoltre una riduzione dello spessore delle ossa della volta cranica (Tab. 6). Tutti i fossili europei dello stadio isotopico 5 (Saccopastore 1 e 2; La Chaise- Abri Bourgeois-Delaunay, Ehringsdorf e Reilingen) sono inclusi in questo gruppo. Data la quantità di caratteri neandertaliani in essi riconoscibili, è possibile considerarli come Neandertaliani, anche se risultano distinti dalle forme classiche per la presenza di un certo numero di caratteri arcaici e di caratteri neandertaliani non completamente sviluppati, ad esempio nella faccia e nell'osso temporale. L'architettura cranica, tipica del Neandertal, si sviluppa tra gli stadi isotopici 5 e 4, in particolare con l'allungamento antero-posteriore della volta cranica, con il relativo importante aumento della capacità cranica e con la particolare posizione dell'apofisi zigomatica nel prolungamento del forame uditivo. Tutte queste modificazioni sono accompagnate da un'accentuazione dei tratti facciali.
Dalla scoperta dell'uomo di Neandertal nel 1856 fino agli anni Cinquanta del Novecento, le idee sull'origine dell'uomo moderno (H. sapiens sapiens), basate essenzialmente sui dati relativi al territorio europeo, sono rimaste in qualche modo immutate. Si supponeva che i Neandertaliani, ai quali era riferita una particolare industria detta "musteriana", si fossero estinti alla fine del Paleolitico medio, circa 40.000 anni fa. Essi sarebbero stati sostituiti dagli uomini moderni, autori delle industrie relative alle più antiche culture del Paleolitico superiore, denominate Castelperroniano e Aurignaziano. Il vantaggio di questa ipotesi era quello di integrarsi in uno schema lineare, costituito da fasi successive, che metteva in evidenza il progresso parallelo tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. Inserita in questo schema, la comparsa dell'uomo moderno rappresentava l'ultima fase evolutiva, sia dal punto di vista biologico che da quello culturale; la presenza, inoltre, di manifestazioni artistiche legate all'uomo moderno sosteneva questa tesi, così come le ricerche e gli scavi condotti in tutta Europa. Nella seconda metà del XX secolo il modello europeo è stato rimesso in discussione. I fattori di questo cambiamento sono da ricercare nella scoperta di nuovi fossili attribuiti all'uomo moderno al di fuori dell'Europa, nelle nuove tecniche di datazione che hanno profondamente modificato le nostre conoscenze sulla cronologia dei fossili umani e infine nei progressi della genetica. Nel Vicino Oriente gli scavi realizzati tra il 1930 e il 1937 nella Grotta di Skhul (Monte Carmelo) e in quella di Qafzeh (presso Nazaret) hanno portato alla luce alcuni fossili umani associati a livelli archeologici musteriani. Mentre questa industria in Europa è sempre associata ai Neandertaliani, negli scavi condotti a Qafzeh con metodologie moderne tra il 1965 e il 1979 (Vandermeersch 1981) sono stati rinvenuti altri fossili umani la cui analisi ha indicato l'indiscutibile appartenenza, nonostante la presenza di alcuni elementi ancora arcaici, a H. sapiens sapiens. È stato dimostrato così per la prima volta che l'industria musteriana non era tipica dei Neandertaliani, ma poteva essere prodotta anche da H. sapiens sapiens. L'evoluzione culturale e quella biologica non possono quindi essere più considerate coincidenti. Le nuove datazioni, effettuate a partire dagli anni Ottanta, hanno interessato un altro aspetto importante legato alla scoperta dei resti umani fossili del Vicino Oriente di ambito musteriano. Infatti, prima della messa a punto dei nuovi metodi di datazione (termoluminescenza, risonanza magnetica di spin, ecc.), era possibile ottenere datazioni assolute per periodi fino a circa 40.000 anni fa grazie al carbonio-14 (¹⁴C) e, per quelli molto antichi, utilizzando il metodo del potassio-argon (⁴⁰K/⁴⁰Ar). Le datazioni realizzate con i nuovi metodi sui suddetti uomini moderni (talvolta chiamati impropriamente proto-Cro-Magnon) hanno indicato un'età di circa 100.000 anni, invalidando la cronologia delle successioni di popolazioni stabilita sulla base dei fossili europei. Contemporaneamente, alcune scoperte di H . sapiens sapiens effettuate in Africa orientale (Omo) e meridionale (Border Cave, Klasies River Mouth) venivano a confermare, anche se solo su basi stratigrafiche, la presenza in questi siti di uomini moderni almeno 100.000 anni fa. In Asia i documenti fossili di cui disponiamo sono scarsi, ma i dati provenienti dalla Cina mostrano che il fossile di Liujiang, scoperto nel 1958, avrebbe un'età di circa 63.000 anni. Allo stato attuale delle conoscenze, l'Europa è l'unica regione del Vecchio Mondo in cui gli uomini moderni siano apparsi tardivamente. Essi arrivarono in un territorio popolato da Neandertaliani, ma la sostituzione degli uni con gli altri non sarebbe stata rapida e brutale, come si supponeva agli inizi degli anni Ottanta: uomini moderni e Neandertaliani avrebbero coabitato in Europa occidentale per almeno tremila anni. In alcune zone periferiche europee, per esempio nella Spagna meridionale, i Neandertaliani avrebbero vissuto anche più a lungo; in altre regioni, per esempio nell'Europa centrale, non è escluso che essi abbiano contribuito geneticamente alle popolazioni locali. Stabilito dunque che la morfologia moderna si riscontra su fossili datati almeno a 100.000 anni fa e che questi individui erano gli autori dell'industria litica attribuita per tanto tempo esclusivamente ai Neandertaliani, le ricerche degli ultimi anni si sono concentrate sull'origine di H. sapiens sapiens. L'aspetto arcaico dei fossili di Qafzeh e Skhul lascia supporre che l'epoca in cui questa forma ebbe origine non sia troppo lontana dalla data citata. Anche i dati paleontologici si accordano con quelli forniti dalla genetica, che porrebbe l'origine di H. sapiens sapiens in un periodo compreso tra 140.000 e 290.000 anni fa. Tale cronologia incontra il consenso di una larga parte di ricercatori, mentre le opinioni risultano divergenti quando si affronta il problema della localizzazione geografica dell'area in cui è maturata la differenziazione dell'uomo moderno. A questo proposito vi sono due ipotesi principali. La prima, detta "dell'arca di Noè", suppone che la differenziazione di H. sapiens sapiens ebbe luogo in Africa; da qui l'uomo moderno avrebbe poi colonizzato tutto il Vecchio Mondo sostituendosi alle popolazioni locali (ad es., in Europa, ai Neandertaliani). Questa ipotesi, sostenuta soprattutto da G. Bräuer (1984; Bräuer - Smith 1992) e da C. Stringer (1992), si basa sui dati forniti dalla paleoantropologia e dalla genetica (analisi sul DNA mitocondriale e cellulare), nonostante questi ultimi siano stati in parte messi in discussione. Secondo l'altra ipotesi, detta "del candelabro" e sostenuta da M. Wolpoff (1989; 1996), l'emergere di popolazioni moderne in diverse regioni del Vecchio Mondo sarebbe stato più o meno simultaneo. Quest'ultima ipotesi ha il merito di spiegare le continuità culturali osservate dal punto di vista archeologico nelle diverse regioni del Vecchio Mondo, ma coloro che non la condividono mettono in evidenza che l'unità della sottospecie sapiens non può essere compresa se si parte da emergenze locali. Per risolvere questo problema e mantenere l'unità delle popolazioni umane, a cui tutti gli studiosi sono legati, è stata recentemente proposta un'ulteriore ipotesi che in qualche modo combina le due precedenti: tale ipotesi, detta "ipotesi reticolata" (già difesa da F. Weidenreich nel 1946), ammette la continuità regionale delle diverse popolazioni con possibilità di flusso genetico incrociato. Allo stato attuale delle conoscenze questa questione rimane aperta e potrà essere risolta solamente con l'aiuto di analisi genetiche più precise e con il ritrovamento di nuovi reperti fossili.
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