L'Italia romana delle Regiones. Regio I Latium et Campania: Campania
A partire da Sinuessa ha inizio il litorale campano (Strab., V, 4,3; Plin., Nat. hist., III, 59-60) fino al promontorio di Sorrento, cui venne annesso l’agro picentino, dal Sarno al Sele (Strab., V, 4, 13 e Plin., Nat. hist., III, 70, nella visione allargata della Campania di età augustea); a nord e all’interno i limiti sono dati dal Massico e dalla corona di montagne e colline che dividono la grande pianura dai monti dei Sanniti. Si vengono così a delineare i principali comprensori: a nord l’ager Falernus tra Sinuessa e il Savone, area nella quale gli Aurunci di età storica conservano il primitivo nomen degli Ausoni, poi la pianura campana vera e propria, attraversata dal basso corso del Volturno che con il Monte Tifata ne costituisce il limite settentrionale, chiusa a Mezzogiorno dal Vesuvio; a sud di questo la piana del Sarno su cui gravitano anche gli insediamenti della penisola sorrentina e, infine, l’agro picentino fino al Sele che funge da confine con la regio III. Entro questo ambito si colloca una serie impressionante di situazioni etniche e politico-sociali che fanno della Campania una delle regioni più complesse nel panorama dell’Italia preromana.
Una prima definizione deve riguardare il popolamento, quale risulta dalla coscienza antica trasmessa attraverso le varie manipolazioni fino ai testi conservati di Polibio e Strabone, la cui lettura critica e relativa Quellenforschung (dopo le note analisi soprattutto di J. Beloch e di J. Heurgon), si devono in epoca più recente a F. Lasserre e, principalmente, a E. Lepore. In primo luogo va considerato il carattere ristretto dell’accezione Campania, che riguarda la pianura intorno a Capua, tanto che, per effetto della capacità di coesione politica della città, il termine Campanus finì con essere usato per indicare l’ager o il civis di Capua.
Timeo (apud Strab., V, 4, 9 = FGrHist, 566 F 58) narrando l’eruzione dell’Epomeo a Pithecusa, avvenuta poco prima della sua nascita, afferma che gli abitanti, atterriti, fuggirono dalla παραλία verso la Καμπανία. Ancora nel II sec. a.C., Polibio (XXXIV, II, 7 Büttner- Wobst; apud Strab., V, 4, 2) distingueva le città della costa intorno al cratere (il Golfo di Napoli) dalla μεσόγαια (Pol., III, 91, 2: τὰ γὰρ πεδία τὰ κατὰ Καπύην). Altro punto da sottolineare è la polemica di Polibio contro Antioco, riportata da Strabone (V, 4, 3): per lo storico di Siracusa i più antichi abitanti della regione erano gli Ausoni, i quali erano anche chiamati Opici (seguito da Arist., Pol., VII, 1329 b 20); per Polibio, invece, Ausoni e Opici erano due entità distinte.
A parte la diversità di prospettive tra uno storico del V e uno del II sec. a.C., per un greco dell’età di Antioco era Opikòs ogni popolo dell’Italia antica che non fosse Tirreno o Messapo. Polibio non fa menzione degli Osci (a meno che non li ritenesse sinonimo di Opici); Strabone invece li conosce, sia quando dice che la fertilissima pianura campana è racchiusa dai monti degli Osci e dei Sanniti sia quando, da Timeo, secondo il Lasserre (Strabon, ed. Budé, t. III, Paris 1967, p. 213, nota) attraverso la mediazione di Artemidoro, secondo Lepore direttamente, deriva la successione etnografica, che costituisce argomento di notevole interesse. Facendo precedere il discorso dal frequente ἄλλοι δὲ λέγουσιν (dietro il quale si nasconde appunto Timeo), Strabone afferma che la Campania era dapprima abitata da Opici e Ausoni, successivamente da un ethnos osco (la correzione Σιδικινούς del tradito οὶ δ᾿ ἐκείνους, probabilmente una glossa da espungere, non è proponibile) che fu dapprima soppiantato dai Cumani. A questi ultimi, infine, subentrarono i Tirreni.
Ora, a parte il dibattito molto acceso, anche in epoca recente, sulla cronologia della presenza etrusca in Campania, che oscilla tra quella bassa di Catone e quella alta di Velleio Patercolo (frg. 69, HRR, p. 70; apud Vell., I, 7, 3-4), sembra abbastanza strano che Timeo sostenesse una sparizione di Cuma a opera degli Etruschi. L’aporia si può forse risolvere ricorrendo a un’altra testimonianza timaica, relativa a una più antica definizione geografica, importantissima, della Campania antica, che è quella di Campi Flegrei. Timeo, esplicitamente citato da Diodoro (IV, 21, 5 = FGrHist, 556 F 89), afferma che la pianura flegrea era così chiamata per la presenza del Vesuvio e che per essa Eracle aveva combattuto contro i Giganti; Polibio, dopo aver dato dell’ignorante a Timeo (II, 16, 15), continua a utilizzarlo (II, 17, 1) quando afferma che la pianura intorno a Capua e Nola si chiamava un tempo Flegrea, che era stata occupata dagli Etruschi e godeva di grande reputazione per la sua fertilità; ribadisce poi (III, 91, 7) che la pianura al centro della quale si trova Capua era chiamata, come altre, Flegrea, con riferimento a Flegra/Pallene in Calcidica dove era localizzata la lotta tra Zeus e i Giganti. Proprio quest’ultima saga mitologica diventa un osservatorio importante per comprendere il formarsi di certe tradizioni; è fuori di dubbio, infatti, che si debba connettere la battaglia dei Giganti e lo stesso toponimo Flegra alla mediazione euboica, al punto da indurre a ritenere che i Campi Flegrei siano una sorta di menzione antica della chora cumana, come Diodoro ammette (V, 71, 4) quando, proprio ricordando la lotta di Zeus contro i Giganti, dice che quello che in seguito si chiamò Κυμαῖον era in antico denominato Φλεγραῖον.
Non pare che si debba troppo meccanicamente concludere che queste tradizioni rimandino a un periodo in cui tutto il territorio dal Volturno al Vesuvio era controllato dai Cumani, perché osterebbe fortemente proprio la ricerca archeologica più recente, con la connessa rivalutazione della cronologia alta di Capua e del problema della presenza etrusca in Campania, anche se l’accordo non si può dire totale a questo riguardo; ragioni legate ad aspetti culturali sono tali da non porre minimamente in discussione il fatto che il territorio di Capua fosse fuori dal controllo greco-cumano. Più interessante può risultare il confronto tra i due passi di Timeo (apud Strab., V, 4, 3 e apud Diod. Sic., IV, 21, 5) da cui si potrebbe evincere che lo storico di Tauromenio seguisse lo schema “Opici cacciati dai Greci e Greci cacciati dagli Etruschi”, non perché credesse a una resa di Cuma agli Etruschi (abbastanza improbabile viste le sconfitte di questi ultimi nel 524 e nel 474 a.C.) e nemmeno perché ritenesse che Cuma fosse andata in crisi nel V sec. a.C., nonostante le vittorie, ma perché doveva in qualche modo prestare credito allo schema che vedeva una presenza tardiva degli Etruschi in Campania (come conseguenza della cacciata dalla Cisalpina), fatto questo che avrebbe comportato l’occupazione non di Cuma ma del territorio flegreo (connesso come abbiamo visto a Cuma) comprendente anticamente la pianura in cui si trovavano Capua e Nola.
Insomma Timeo poteva ritenere che l’originario Κυμαῖον non solo arrivasse ad abbracciare la Campania interna ma si estendesse fino al Vesuvio, in una visione presumibilmente piuttosto antica (se non tiene conto che tra Cuma e il Vesuvio si trovava Napoli) che sembra confermata dal μυθολογοῦσιν di Diodoro, vale a dire le fonti (cumane?) di Timeo. In Strabone, invece, si colgono da un lato ancora un’eco della tradizione, dall’altro l’adeguamento a una realtà più aderente, recente, che limita la flegrea alla zona compresa tra Cuma e Pozzuoli. Il parallelismo tra V, 4, 3 e V, 4, 4 mostra la dipendenza in entrambi i luoghi da Timeo: la pianura campana fu oggetto di contesa per la sua aretè (V, 4,3); il πεδίον di Cuma era chiamato Φλεγραῖον (ma il geografo non dice quale estensione aveva il Κυμαῖον anche se si può esser certi che non vi includesse le pianure dell’interno, in quanto non ne fa parola quando parla di Capua e della μεσόγαια in V, 4, 10) perché la terra fu oggetto di contesa per la sua aretè (V, 4,4). Quest’ultimo è già un tentativo di “razionalizzazione politica” del φλέγειν che accomuna Strabone a Polibio (e, dunque, entrambi a Timeo: non si dimentichi che non solo la menzione comprende il Vesuvio, in Timeo/ Polibio, ma anche le pianure intorno a Capua) mentre in V, 4, 6 Strabone passa a una “razionalizzazione fisica”, mostrando di credere che il mito dei Giganti sarebbe stato generato dai fenomeni vulcanici della zona di Pozzuoli, nello stesso tempo indicando una localizzazione più nettamente circoscritta (in pratica quella moderna) che ritroviamo anche in Plinio (Nat. hist., III, 60, dove i Campi Flegrei sono circoscritti all’area Pozzuoli-Cuma, mentre la piana di Capua ha assunto il nome di Campi Leborini che conserverà fino all’epoca moderna nella dizione Terra di Lavoro).
Insomma il motivo della aretè non sembra possa essere scisso dalla pianura campana, cui arriva il Φλεγραῖον, non in quanto realtà politica, cioè dominio di Cuma, ma come ricostruzione erudita che, partendo dal presupposto di un arrivo degli Etruschi molto tardi, tende a colmare il vuoto esistente tra la fondazione di Cuma e il successivo arrivo di quelli, immaginando che il cumano comprendesse un’area molto più grande di quella che effettivamente dovette abbracciare (se ciò non fu effetto di propaganda, non impossibile a ipotizzarsi, proprio nel movimentato quadro politico del VI e del V sec. a.C.). Si tratta comunque, ancora una volta, di distinguere tra ricostruzioni antiquarie, fortemente ideologizzate, e fatti “concreti”, non per affermare una generica superiorità della documentazione archeologica (anch’essa per nulla obiettiva) ma per mostrare i limiti e le autonomie di ciascun sistema interpretativo.
Un’altra prospettiva, poi, riguarda la Campania ed è quella di Ecateo (nei frammenti tramandati da Stefano di Bisanzio) secondo il quale Capua è “città d’Italia” e Capri “isola d’Italia”; in tale prospettiva si è scorto di recente (Lepore 1989) un “punto di vista” ionico che presuppone la mediazione sibarita. Ma, per tornare al discorso iniziale, si pone dunque, così come la ricerca linguistica ha da tempo sottolineato, il problema del rapporto Ausoni-Opici rispetto a quello Opici-Osci, nel quale la posizione centrale degli Opici può forse riflettere la coscienza di una fase intermedia, da intendersi non solo sul piano cronologico ma soprattutto culturale, entro i processi di trasformazione e diversificazione del quadro regionale locale sul lungo periodo. Lo schema (Opici autoctoni e Osco-Sanniti venuti da fuori) è ribadito da Strabone (V, 4,12) quando racconta il ver sacrum dei Sanniti che giungono in Campania e trovano gli Opici che vivevano kwmhdãn, anche se da un lato il racconto serve da aition della denominazione Sabelli da Sabini (improponibile, come si sa) e, dall’altro, il modello del ver sacrum – probabilmente assunto dai Mamertini durante l’occupazione dello Stretto di Messina dopo il 288 a.C. – è la colonizzazione greca (Heurgon 1956, 1971). Pur nello schematismo appiattito della fonte tarda, che riflette solo molto parzialmente la realtà, si dovrà parlare di un lungo fermentare di elementi di origine italica che portò alla oscizzazione della regione, alla penetrazione etnica e linguistica, alla conquista da parte di componenti sannitiche che riuscirono, attraverso assimilazione e sopraffazione, a organizzare quell’ambiente unitario pur nelle diverse componenti e articolazioni, che chiamiamo Campania (Lepore 1976).
Accanto a questo fondo italico in continua evoluzione, andranno poi considerate altre due importanti presenze: gli Etruschi e i Greci. Per quanto riguarda le presenze greche un primo problema è posto da un lato dalla frequentazione micenea ora attestata non solo a Ischia, ma soprattutto a Vivara, dall’altro la tradizione sulle navigazioni rodie (Pugliese Carratelli 1979), che si verrebbero a collocare tra il crollo dei regni micenei e la colonizzazione storica, prima dell’inizio delle Olimpiadi (Strab., XIV, 2, 10). Il popolamento antico nell’età del Ferro permette di osservare una certa serie di fenomeni articolati: la pianura intorno a Capua e l’agro picentino sono occupati da genti di cultura villanoviana (è oggetto di discussione il significato di tali presenze, se si debba intenderle come un vero e proprio movimento coloniale o come effetto di trasformazioni culturali) che sembrano, in ogni caso, dipendere da due filoni principali, quello interno (Chiusi, Etruria tiberina, valli del Sacco e del Liri fino a Capua) e quello marittimo (Etruria meridionale tirrenica, Pontecagnano).
Nel resto della regione prevale il rito inumatorio utilizzato da un “mondo contadino statico e poco strutturato” (d’Agostino 1974) fino a quando, sotto la spinta delle presenze etrusche e della colonizzazione greca non si avvia un macroscopico processo di trasformazione. Che quel mondo fosse caratterizzato da una staticità non eccessiva, lo dimostra, comunque, il caso di Cuma pre-ellenica, postazione indigena costiera aperta ai traffici marittimi, dai quali era stata toccata sin dalla prima metà dell’VIII sec. a.C., che fu sopraffatta dai coloni euboici. Al primo stanziamento di questi a Pithecusa (da molti comunemente definito un emporion) seguì la fondazione di Cuma (terzo quarto dell’VIII sec. a.C.) e lo strutturarsi della chora politica di questa città, con la successiva (VII-VI sec. a.C.) fondazione di epineia a Miseno, Pozzuoli, Partenope, sicché tra gli Etruschi che occupavano la valle del Volturno e i Greci stanziati tra Cuma e il sito della futura Napoli si produsse quella barriera che causò la compressione del mondo indigeno nelle vallate dell’interno.
La capacità reattiva del fondo italico, qui forse più che altrove in Italia meridionale, è mostrata dalla nascita di una serie di insediamenti ai margini della pianura campana (noti esclusivamente grazie alle necropoli) come Calatia (Maddaloni), Suessula (Cancello), fino all’ingresso delle Forche Caudine alle cui estremità si trovavano Saticula (Sant’Agata dei Goti) e Caudium (Montesarchio), quest’ultima strettamente collegata con Abella (Avella). In tutti questi siti l’archeologia delle necropoli mostra, nel corso del VII sec. a.C., processi di differenziazione nel quadro di una più vasta unità etnica. È tuttavia a partire dal VI sec. a.C., soprattutto grazie al diffondersi della scrittura, che si osserva un netto prevalere della componente etrusca nell’organizzazione di numerosi centri come Pompei, Stabia, Vico Equense, Fratte di Salerno, accanto a documentazioni recuperate in centri esistenti da tempo come Capua, Nola, Suessula, Pontecagnano. L’uso del greco è attestato a Nocera, Fratte e Pontecagnano (vi si riconosce l’origine poseidoniate) mentre due iscrizioni della prima metà del VI sec. a.C. rinvenute a Nocera e Stabia provano la precoce presenza della lingua osca, fornendo così un panorama quanto mai complesso delle stratificazioni etniche e delle tensioni sociali in tutto il territorio compreso tra il Volturno e il Sele; l’area a nord del Volturno, ai confini con il Latium, occupata dagli Aurunci, restò invece a lungo marginale.
II principale esito dello scontro tra Greci ed Etruschi successivo alla seconda battaglia di Cuma (474 a.C.) fu, come è noto, la nascita di Napoli, e il rapido consolidarsi di una comunità politica mercantile che si assicurò ben presto il controllo delle bocche di Capri e dell’Isola di Ischia, in pratica il dominio della navigazione nel golfo, avviandosi a svolgere un ruolo di primaria importanza nella storia economica della regione; soprattutto perché si pose come principale punto di riferimento del commercio dei prodotti agricoli delle zone interne (si pensi, solo per citare uno degli aspetti più macroscopici, agli interessi ateniesi durante l’età di Pericle e all’omaggio “diplomatico” alla sirena Partenope). Alla determinazione della fisionomia etnica, politica e sociale della Campania fu poi decisivo il concorso delle popolazioni sannitiche. La tradizione che arriva a Diodoro Siculo (XIII, 3, 1) permette allo storico di affermare che in quegli anni (arcontato di Theodoros ad Atene e consolato di Marcus Genucius e Agrippa Curtius Chilon a Roma: 438/7 a.C.) “si costituì in Italia l’ethnos dei Campani, che derivò il suo nome dall’aretè della piana circostante”. Si trattò dell’esito di un processo di lunga durata che determinò a un certo punto la saldatura tra plebe urbana aumentata per recenti infiltrazioni e plebi rurali della campagna circostante (Lepore 1989); il contraccolpo militare di poco successivo fu la presa di Capua nel 423 e quella di Cuma nel 421 a.C.; Napoli si arrese, accogliendo i Campani nella cittadinanza (da questo momento la demarchia è appannaggio di Greci e Sanniti: cfr. Strab., V, 4,7).
Un importante momento di ridefinizione degli assetti territoriali si avrà, nel quadro delle guerre sannitiche, con la colonizzazione latina. La concessione della civitas sine suffragio a Capua nel 338 a.C. e il foedus neapolitanum del 326 a.C. aprono la Campania alla penetrazione delle clientele romane che potranno fruire, a partire dal 312 a.C., di un collegamento importantissimo, quale quello che si costituì con la creazione della via Appia da Roma a Capua. Tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C. un massiccio programma di colonizzazione investì la Campania, soprattutto settentrionale (Cales, Suessa, Sinuessa), nella quale le recentissime indagini topografiche hanno permesso di riconoscere le sopravvivenze dei sistemi catastali e i minuziosi programmi di insediamento e di sfruttamento razionale del territorio. Al confine tra la Lucania e la Campania le colonie di Paestum nel 273 a.C., di Picentia nel 268 a.C. e quella di Benevento nello stesso anno completano il quadro della colonizzazione latina nella regione. Il ruolo dominante del porto di Napoli, per lungo tempo incontrastato, sarà fortemente ridimensionato con la fondazione della colonia romana di Pozzuoli (Puteoli, 194 a.C., dedotta contemporaneamente a quelle di Volturno e Literno) destinata nel volgere di pochissimo tempo a diventare uno dei porti di commercio (per il grano egiziano, per le spezie e gli schiavi orientali) più grandi del Mediterraneo; la via consolare Campana collegava Pozzuoli a Capua, che con Cuma, sempre più priva di importanza, costituiva un’unica grande prefettura.
Nella valle del Sarno, Pompei, porto di Nola, Nocera e Acerra conoscevano un notevole sviluppo proprio nei due ultimi secoli della Repubblica, grazie al commercio delle derrate alimentari che permetteva un grado di floridezza non piccolo a città come Nocera (meglio conosciuta archeologicamente), che contrasta con il profondo degrado sociale ed economico di aree come l’agro picentino in cui, dopo il passaggio di Annibale, si era verificata la dispersione della popolazione nella campagna e la fondazione di Salerno nel 197 a.C., in funzione di presidio militare contro i ribelli Picentini. Il nuovo ordine stabilitosi con il regno di Augusto vedeva Napoli ridotta al ruolo di tranquillo centro residenziale, tagliato fuori dai grandi traffici, e uno sviluppo impressionante su tutto il golfo di ville e centri di vacanze che ebbero il loro punto centrale in Baia e Capri, da quando l’isola fu annessa al demanio imperiale. I grandi lavori a Lucrino, con la costruzione del Portus Iulius di effimera durata, precedettero di poco il trasferimento a Miseno e la creazione della grande base navale, sì che l’area tra Pozzuoli e Miseno con le sue diversificazioni funzionali, apriva la Campania a una molteplicità di traffici e di transiti di genti diverse. La costruzione della via Domitiana, diverticolo dell’Appia che tagliava fuori Capua, inferse un duro colpo a questa città, ma anche Pozzuoli vide sempre più ridotto il suo ruolo a favore di Ostia, che a più riprese veniva protetta dall’insabbiamento grazie all’intervento imperiale, fino a quando l’emporio campano cessò di esistere, nel quadro di una regione profondamente colpita dal terremoto del 62 d.C. prima e dall’eruzione del 79 poi. La favorevole posizione sulla via Appia, specialmente dall’intervento traianeo in poi, permise a Benevento un notevole grado di sviluppo per la sua funzione di raccordo con le pianure dell’Apulia e con il porto di Brindisi. Fino alla Tarda Antichità la Campania continuò a svolgere il ruolo prevalente di produttore di frumento per le esigenze di approvvigionamento di Roma.
Gli scavi e le ricerche più recenti forniscono una buona base documentaria per lo studio del popolamento della regione nell’antichità, contribuendo a fissarne le grandi fasi cronologiche. Agli inizi dell’età del Ferro troviamo culture di incineratori a Capua e a Pontecagnano (Piana del Sele) e cultura a fossa soprattutto nella Valle del Sarno e nella zona di Cuma. La colonizzazione greca si attesta a Pithecusa e a Cuma, tra la metà e il terzo quarto dell’VIII sec. a.C., provocando sensibili fenomeni di trasformazione culturale nelle aree indigene documentate esclusivamente da sepolcreti come a Calatia, Suessula, Saticula, Caudium, Abella; forti elementi conservativi presenta il gruppo di Oliveto Citra-Cairano dove sono attestati inumatori nella zona irpina situata sull’asse Ofanto-Sele e nell’area aurunca gravitante sul Garigliano. Una vera esplosione di abitati si avrà nel VI sec. a.C. sotto la spinta della componente greca, ma soprattutto di quella etrusca, grazie al ruolo dominante che in quest’epoca assume Capua. Sorgono dunque siti importanti come Pompei, Stabia, Nola, Nocera, Vico Equense, Fratte di Salerno, caratterizzati da documentazione linguistica etrusca, greca e osca, oltre che da interventi architettonici monumentali (come mura di cinta o edifici sacri di un certo impegno). Con la fondazione di Dicearchia (Pozzuoli) nel 531 a.C. a opera dei Sami, di Napoli verso il 470 a.C. e la conseguente occupazione di Capri e Ischia si completa il dominio greco sul golfo; Napoli diviene presto il principale mercato della regione.
Durante il periodo di influenza sannitica, evidente per gli aspetti culturali (come le tombe dipinte di Capua, Nola, Sarno o le numerose testimonianze plastiche di terracotta o pietra legate ai luoghi di culto, come a Capua, Teano, il santuario di Mefite in Val d’Ansanto) e l’adozione del tipo di armatura sannitica (abbondantemente esemplificata oltre che da numerosi corredi tombali, anche dalla miriade di vasi figurati di questo periodo, prodotti nelle officine di Capua, Avella, Cuma) si assiste, come un po’ dovunque in Italia meridionale, anche a un grande incremento demografico e alla nascita di nuovi abitati importanti come Ercolano e Sorrento. Con la romanizzazione, tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C., nascono Cales (Calvi Risorta), Suessa (Sessa Aurunca), Teano (che era un centro di culto dei Sidicini sin da età arcaica), Sinuessa (Mondragone) e poi Benevento, siti che forniscono testimonianze, spesso notevoli, sugli impianti urbanistici delle colonie latine. Altri importanti centri, sorti nel II sec. a.C., sono Liternum (Literno) e soprattutto Puteoli, mentre Salerno nasce come presidio militare contro i Picentini che si erano alleati con Annibale. I dati caratteristici dell’età romana, a parte gli aspetti monumentali dei singoli centri, emergono con grande evidenza sia attraverso lo studio delle ville di produzione, soprattutto nel Casertano, sia grazie alle numerose testimonianze di grandi impianti di otium come Baia e Capri o di ville sparse sul litorale del golfo e lungo la penisola sorrentina sia, naturalmente, attraverso quello straordinario complesso costituito dagli abitati della “regione sotterrata dal Vesuvio”(Pompei, Ercolano, Stabia).
In generale:
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M. Frederiksen, Campania, Roma 1984 (sintesi storico-archeologica aggiornata).
Trattazioni generali:
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G. Pugliese Carratelli, Il mondo mediterraneo e le origini di Napoli, ibid. pp. 97-137.
E. Lepore, Il Mediterraneo e i popoli italici nella transizione del V secolo, in A. Schiavone (ed.), Storia di Roma, I, 1. Roma in Italia, Torino 1988, pp. 481-503.
D. Musti, La spinta verso il Sud. Espansione romana e rapporti internazionali, ibid., pp. 527-42.
Quadri di sintesi geografici e topografico-archeologici:
E. Kirsten, Süditalienkunde, I. Campanien und seine Nachbarlandschaften, Heidelberg 1975.
S. De Caro - A. Greco, Campania, Roma - Bari 1981.
Sintesi su aspetti storico-culturali:
B. d’Agostino, Il mondo periferico della Magna Grecia, in M. Pallottino et al. (edd.), Popoli e civiltà dell’Italia antica, II, Roma 1974, pp. 179-271.
Id., Le genti della Campania antica, in G. Pugliese Carratelli (ed.), Italia. Omnium terrarum alumna, Milano 1988, pp. 531-89.
Archeologia e ambiente naturale:
C. Albore Livadie (ed.), Tremblements de terre, éruptions vulcaniques et vie des hommes dans la Campanie antique, Naples 1986.
Per la disamina delle fonti:
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Id., Gli Ausoni e il più antico popolamento della Campania, in Archivio storico di Terra di Lavoro, 5 (1976-77), pp. 81-108.
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Per i Campi Flegrei:
G. De Lorenzo, s.v. Flegrei, Campi, in EI, XV, 1932, pp. 542-43.
E. Oberhummer, s.v. Phlegra, in RE, XX, 1, 1941, col. 265.
F. Vian, La guerre des Géants. Le mythe avant l’époque hellénistique, Paris 1952.
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F. Castagnoli, Topografia dei Campi Flegrei, in I Campi Flegrei nell’archeologia e nella storia, Roma 1977, pp. 47-79.
G. Pugliese Carratelli, Per la storia dei culti delle colonie euboiche in Italia, in CMGr XVIII (1979), pp. 221-29.
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Sulle origini della colonizzazione greca:
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Per la regione interna si vedano in particolare:
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A. Bottini - P.G. Guzzo, Greci e indigeni nel Sud della Penisola dall’VIII secolo a.C. alla conquista romana, in M. Pallottino et al. (edd.), Popoli e civiltà dell’Italia antica, VIII, Roma 1986, pp. 9-390.
Strutturazione del politico attraverso la documentazione archeologica:
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L. Cerchiai, Il processo di strutturazione del politico. I Campani, in AnnAStorAnt, 9 (1987), pp. 41-53.
Sul problema della presenza etrusca in età arcaica:
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M. Frederiksen, The Etruscans in Campania, in D. Ridgway - F. Ridgway Serra (edd.), Italy Before the Romans, London 1979, pp. 277-311.
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M. Frederiksen, Campanian Cavalry. A Question of Origin, in DialA, 2 (1968), pp. 3-31.
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La Campania tra età arcaica e classica:
A. Adriani, Sculture in tufo del Museo Campano, Alessandria d’Egitto 1933.
A. De Franciscis, Templum Dianae Tifatinae, Caserta 1965.
A.D. Trendall, The Red-Figured Vases of Lucania, Campania and Sicily, Oxford 1967.
W. Johannowsky, Note sui criptoportici pubblici in Campania, in Les cryptoportiques dans l’architecture romaine (Rome, 19-23 avril 1972), Rome 1973, pp. 143-57.
R. Bianchi Bandinelli - A. Giuliano, Etruschi e Italici prima del dominio di Roma, Milano 1976.
C. Albore Livadie, La situazione in Campania, in Il commercio etrusco arcaico. Atti dell’incontro di studio (Roma, 5-7 dicembre 1983), Roma 1985, pp. 127-45.
Problemi numismatici:
La monetazione di Neapolis nella Campania antica. Atti del VII Convegno del Centro Internazionale di Studi Numismatici (Napoli, 20-24 aprile 1980), Napoli 1987.
Pittura funeraria:
A. Pontrandolfo - A. Rouveret, Pittura funeraria in Lucania e Campania, in DialA, n.s. 1, 2 (1983), pp. 91-130. Fortificazioni:
G. Conta Haller, Ricerche su alcuni centri fortificati in opera poligonale in area campano-sannitica, Napoli 1978. Aspetti della vita economica e sociale in età ellenistica e romana:
J.H. D’Arms, Romans on the Bay of Naples, Cambridge (Mass.) 1970.
J. Andreau, Les affaires de monsieur Iucundus, Rome 1974.
W. Johannowsky, La situazione in Campania, in P. Zanker (ed.), Hellenismus in Mittelitalien. Kolloquium in Göttingen vom 5. bis 9. Juni 1974, Göttingen 1976, pp. 267-99.
D. Musti, Il commercio degli schiavi e del grano. Il caso di Puteoli. Sui rapporti tra l’economia italiana della tarda repubblica e le economie ellenistiche, in MemAmAc, 36 (1980), pp. 197-215.
Per gli aspetti produttivi:
J.-P. Morel, La produzione della ceramica campana. Aspetti economici e sociali, in A. Giardina - A. Schiavone (edd.), Società romana e produzione schiavistica, II, Roma - Bari 1981, pp. 81-97.
Id., La produzione artigianale e il commercio transmarino, in A. Momigliano - A. Schiavone (edd.), Storia di Roma, II. L’impero mediterraneo, 1. La repubblica imperiale, Torino 1990, pp. 399-412.
Topografia e urbanistica:
M. Borriello - A. D’Ambrosio, Baiae-Misenum, Firenze 1979.
P. Sommella, Forma e urbanistica di Pozzuoli romana, Napoli 1980.
E. Greco, L’impianto urbano di Neapolis greca. Aspetti e problemi, in CMGr XXV (1986), pp. 187-219.
I. Baldassarre, Osservazioni sull’urbanistica di Neapolis in età romana, ibid., pp. 221-31.