Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nello scontro con Togliatti, De Gasperi risulta vincitore e va al governo, portando lo Stato verso la Repubblica e la Costituente. Nel 1947 la rottura a livello internazionale tra le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale si ripercuote anche nella politica interna italiana, determinando una crisi nel PCI e conseguentemente l’inizio di una stagione di governi “centristi” che tendono a schierare l’Italia sempre più verso Occidente. La morte di Stalin e l’inizio di una politica di distensione consentono, se non al PCI almeno al PSI, di riscattarsi e di proporsi come potenziale alleato della DC nel governo. Inizia la stagione dei governi di centrosinistra che vede protagonisti Fanfani e Moro, che tuttavia falliscono nel loro tentativo di riforma e di modernizzazione dello Stato. Il malcontento sociale sfocia nelle proteste del Sessantotto e nei terribili anni di piombo dominati dal terrorismo e dalla crisi petrolifera. Negli anni Ottanta sfuma del tutto l’ipotesi di una collaborazione tra DC e PCI e nell’ultimo decennio le inchieste giudiziarie sulla corruzione dei partiti vengono a stravolgere del tutto le forze politiche della cosiddetta prima Repubblica.
Il 2 giugno 1946 un referendum popolare istituisce la Repubblica in Italia. Il margine di voti per questa scelta non è ampio, ma sufficiente a conferire legittimità al risultato. In realtà il Paese si è spaccato in due. Le regioni del nord, salvo il Piemonte, e quelle del centro hanno dato un ampio margine di voti alla Repubblica, il Mezzogiorno e le isole hanno votato per la monarchia. Questa spaccatura non si riflette tuttavia direttamente sul voto che gli elettori hanno contemporaneamente dato per eleggere l’Assemblea Costituente, che si è invece distribuito con una logica diversa tra continuità e rinnovamento proposta in modo radicale dai partiti di sinistra, con approcci diversi. Per la continuità si è pronunciata la maggioranza dell’elettorato. Alle sinistre (Partito Socialista e Comunista) è andato poco più del 40 percento dei voti, mentre le forze moderate avevano totalizzato il rimanente, con l’emersione tra esse del nuovo partito cattolico, la Democrazia Cristiana, con il 35 percento dei suffragi. Il referendum repubblicano pone ora queste forze moderate, risultate maggioritarie, nella condizione di proseguire nella continuità senza la monarchia che fino ad allora ne era stato un pilastro, e di rispondere ai bisogni di ricostruzione, di sviluppo economico e di perequazione sociale che il Paese richiede.
Proprio il problema della continuità dello Stato era il tema centrale della lotta politica degli anni precedenti. Alcune forze politiche, in particolare il Partito Socialista e il Partito d’Azione (che si è tuttavia dissolto alla vigilia delle elezioni per l’Assemblea Costituente) hanno fatto del tema della Repubblica il punto focale di un programma di radicale rifondazione delle strutture statali. Diversamente si è mosso il Partito Comunista, che era poi l’unica forza potenzialmente rivoluzionaria. Legati da stretti vincoli con l’Unione Sovietica, i comunisti non perdono mai di vista, nella loro azione politica, i vincoli di carattere internazionale dell’Italia di allora: un Paese sconfitto, occupato da un esercito angloamericano, destinato, secondo l’accordo intercorso tra le potenze vincitrici a Jalta e poi a Potsdam, a far parte dell’area d’influenza di questi ultimi. I comunisti non intendono mai promuovere all’interno un rivolgimento radicale che contrasti con gli equilibri internazionali in cui l’Italia è inserita. Il segretario del Partito Comunista, Palmiro Togliatti (1893-1964), si confronta del resto con il leader della Democrazia Cristiana Alcide De Gasperi (1881-1954), che tenacemente opera proprio al fine del rinnovamento civile e sociale nell’ambito della continuità dello Stato, senza sostenerlo in questi suoi obiettivi, ma senza neppure pregiudizialmente ostacolarlo.
Il problema assume rilevanza decisiva proprio in vista delle elezioni del 2 giugno. L’obiettivo che De Gasperi e gli altri leader dei partiti moderati, segnatamente i liberali, si pongono è quello di garantire il libero svolgimento delle elezioni. La loro preoccupazione nasce dalla situazione che si è verificata nel nord del Paese. Nella restante parte d’Italia i poteri dello Stato erano già rientrati nel loro alveo tradizionale. Non così al nord dove l’insurrezione nazionale del 25 aprile 1945 è stata guidata dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), con le sue rappresentanze a livello di comuni e province e anche di luoghi di lavoro, nella forma di comitati composti pariteticamente dai partiti antifascisti. Questo insieme di organi ha anche la direzione politica delle formazioni partigiane e, a liberazione avvenuta, assume la gestione dei poteri dello Stato. La preponderanza, nella lotta partigiana e nella composizione stessa dell’insieme dei CLN dei partiti di sinistra, in particolare del Partito Comunista, non conferisce a essi, nell’esercizio delle funzioni dello Stato, lo stesso carattere di imparzialità della vera e propria struttura statale, e ciò in vista di una consultazione popolare decisiva del 2 giugno, è motivo forte di preoccupazione da parte moderata. La svolta è avvenuta nel dicembre 1945 quando, su iniziativa liberale appoggiata da De Gasperi, Ferruccio Parri, esponente azionista che, in quanto capo delle forze partigiane nella lotta di liberazione il 25 aprile ha assunto la guida del governo, viene costretto a dimettersi. Togliatti non difende allora Parri: consente la liquidazione dei CLN e patrocina una soluzione in cui emerge alla guida del governo Alcide De Gasperi, che diventerà poi presidente del Consiglio fino al 1953. Il primo governo De Gasperi porta dunque alla Repubblica e alla Costituente, e ambedue questi eventi sigillano anche l’avvenuta stabilizzazione della continuità dello Stato.
Il 1947 è l’anno di un’ulteriore svolta. La rottura dell’alleanza tra le potenze vincitrici e l’avvio della guerra fredda che ne consegue spaccano il sistema politico italiano, allineando le sue diverse componenti ai due schieramenti contrapposti che si confrontano a livello internazionale. La spaccatura investe anche il partito socialista, che si divide in due tronconi: quello principale guidato da Pietro Nenni (1891-1980), rimane filosovietico; quello facente capo a Giuseppe Saragat (1898-1988) si schiera con l’Occidente. La stessa spaccatura non può non trasferirsi a livello della maggioranza di governo. Nel giugno 1947 De Gasperi rompe la maggioranza con il PCI e il PSI e costituisce un governo democristiano con la presenza di personalità liberali, come Luigi Einaudi (1874 -1961). Si deve a quest’ultimo, che assume la carica di ministro del Bilancio, una drastica svolta nella politica economica, che stabilizzerà il nostro sistema monetario ed è la premessa di quello che sarà lo sviluppo positivo della nostra economia.
L’anno che segue la rottura della collaborazione con i socialcomunisti e vede poi con il dicembre 1947 lo stabilizzarsi di quella collaborazione che caratterizzerà la vita della Repubblica per un decennio – la cosiddetta maggioranza “centrista” a cui, oltre alla DC presero parte i liberali (PLI), i repubblicani (PRI) e i socialdemocratici di Saragat (PSLI, poi PSDI) – è gravido di tensioni che tengono il Paese sull’orlo della guerra civile, come mosteranno poi i giorni che seguono l’attentato a Togliatti del giugno del 1948. Il risultato delle elezioni generali politiche convocate per il 18 aprile 1948 sembra incerto e ciò alimenta le tensioni. Risulta largamente favorevole alla DC che consegue più del 49 percento dei suffragi, mentre gli altri tre partiti del centro realizzano complessivamente un altro 14 percento. La sconfitta della sinistra è netta. Se il 2 giugno aveva comportato la ratifica definitiva della continuità dello Stato, il 18 aprile sancisce la collocazione dell’Italia nell’ambito della comunità occidentale, che rimarrà un’opzione fondamentale, mai più rimessa in discussione nei decenni seguenti.
De Gasperi, nella legislatura che segue, condurrà l’Italia nell’Alleanza atlantica e la renderà protagonista, assieme ad altri paesi dell’Europa continentale, nella fondazione delle prime istituzioni comunitarie europee. La legislatura degasperiana è anche densa di riforme socioeconomiche, quali la riforma agraria, l’intervento straordinario del Mezzogiorno, il rilancio delle partecipazioni statali, con il rafforzamento dell’IRI e la fondazione dell’ENI. Questo intreccio tra la politica liberista impostata da Einaudi e gli interventi statali nella vita produttiva dà forza al nostro sistema di economia mista ed è la premessa della sua grande espansione degli anni Cinquanta che fa definitivamente entrare l’Italia nel novero dei paesi industrializzati, permettendole, già nel 1952, la liberalizzazione degli scambi (ministro del Commercio con l’estero, è Ugo La Malfa), primo passo di una linea a seguito della quale il Paese abbandonerà per sempre ogni ritorno al protezionismo.
I primi anni Cinquanta sono anche i più duri della guerra fredda e il clima politico ne risente, facendosi ancora più serrato il confronto tra la maggioranza di governo e il Partito Comunista. All’interno si rafforzano i partiti di destra e la Santa Sede spinge per la creazione di un fronte anticomunista di centrodestra. La pressione vaticana sulla Democrazia Cristiana e su De Gasperi è pesante. Quest’ultimo tiene tuttavia fermo il suo schema di alleanza con i partiti di centro, respingendo ogni rapporto con la destra, composta da partiti monarchici e dal MSI (Movimento Sociale Italiano), di ispirazione neofascista. Vuole anzi garantirne la permanenza al governo con una legge elettorale maggioritaria, che ha in parlamento la tenace opposizione delle sinistre. La sua opera riformatrice si arresta e non affronta i problemi del rinnovo delle istituzioni, della riforma burocratica, dell’attuazione della Costituzione (Regioni, Consiglio Superiore della Magistratura, Corte costituzionale), impedito dall’onda di destra che investe il mondo cattolico. Il congegno elettorale previsto dalla nuova legge elettorale non scatta, poiché i partiti di centro apparentati non ottengono il previsto 50,01 percento e si fermano alla soglia del 49,5. Tuttavia in base al sistema precedente, che non era proporzionale puro, conseguono lo stesso un’esigua maggioranza nelle due Camere. De Gasperi non riesce però a riformare un governo e passa la mano ad altri esponenti della Democrazia Cristiana.
La seconda legislatura è dunque nuovamente di segno centrista quanto alla maggioranza di governo, segnatamente con i governi presieduti da Mario Scelba (1901-1991) e Antonio Segni (1891-1972), ed è in grado di iniziare l’opera di attuazione costituzionale, e di aver parte attiva nella costituzione della Comunità Economica Europea e del conseguente mercato comune (MEC) che doveva poi entrare in funzione nel gennaio del 1959. La seconda metà degli anni Cinquanta è intanto attraversata da avvenimenti interni e internazionali che lasciano il segno sulla politica italiana. È l’epoca del grande balzo in avanti dell’economia italiana, designato come “miracolo economico”, che si accompagna a una trasformazione sociale profonda. Si ampliano i margini di occupazione nel settore produttivo e in quello dei servizi e decrescono invece nell’agricoltura, che ancora nel 1947 conta il 46 percento della forza lavoro occupata. Si riscontrano grandi flussi di immigrazione interna: dalle campagne alle città, dalle isole e dalle regioni meridionali, così come dal nord-est verso il nord-ovest, dove, intorno al vecchio triangolo industriale Milano-Torino-Genova, si manifesta la crescita produttiva. Il progresso genera squilibri tra Nord e Sud, tra città e campagna nelle strutture urbane, nelle reti di trasporto, nei servizi, nell’assistenza pubblica, essendo ancora l’Italia lontana dall’aver sviluppato un sistema di welfare. Alla ricostruzione e al successivo sviluppo economico avrebbe dovuto subentrare una fase intensa di modernizzazione. Questa tensione che va maturando a livello socio-economico si trasferisce nell’arena politica e produce necessariamente una spinta a sinistra.
Diminuisce nel frattempo la tensione internazionale che aveva congelato i primi anni Cinquanta. Dopo la morte di Stalin la dirigenza sovietica affida la guida dell’URSS a Chruscev che apre una politica di “distensione” con l’Occidente e, nel 1956, al XX Congresso del PCUS, denuncia la natura tirannica dello stalinismo. I contraccolpi della distensione si fanno sentire sulla politica interna italiana. Se da una parte la denuncia dello stalinismo mette in difficoltà il PCI, dall’altra rende più agevole al PSI sganciarsi dal precedente allineamento filosovietico. Inizia a configurarsi l’ipotesi di un governo di centrosinistra aperto alla collaborazione del Partito Socialista. Questo è il tema della seguente legislatura che prepara la stagione dei governi organici di centrosinistra. L’apertura a sinistra è duramente contrastata soprattutto da una parte della Curia vaticana, il cosiddetto “partito romano” che determina forti resistenze nella DC, e del ceto industriale, nonché dalla diffidenza del maggiore alleato atlantico, gli Stati Uniti. L’avvento al pontificato di Giovanni XXIII, l’elezione di John Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti, gli interessi della grande industria, che incomincia a guardare con favore a una redistribuzione del reddito capace di aumentare il livello dei consumi, spiana gli ostacoli maggiori sulla strada del centrosinistra. Dove non è riuscito Amintore Fanfani (1908-1999), arriverà l’altro leader democristiano Aldo Moro (1916-1978). E ciò attraverso una legislatura travagliata che inizialmente oscilla da sinistra a destra e poi (per l’improvvido intervento del nuovo presidente della Repubblica Giovanni Gronchi) vede un governo, guidato da Fernando Tambroni (1901-1963) che, senza maggioranza parlamentare, si appoggia all’MSI, provocando una notevole reazione nel Paese. Si produce così una forte contrapposizione tra destra e sinistra, con moti di piazza, e infine si ritrova l’equilibrio politico prima centrista, poi, al tempo del quarto governo Fanfani, con il primo governo di centrosinistra (1962).
La genesi del centrosinistra è accompagnata da un grande fervore di dibattiti che producono idee e propositi riformatori. È in realtà l’ultima stagione italiana in cui la classe politica si dà un programma di modernizzazione del Paese. Quando, nella legislatura seguente, che inizia nel 1963, si costituisce il primo governo organico di centrosinistra, con la presidenza di Aldo Moro e la vicepresidenza di Pietro Nenni, di questo programma resta assai poco. La corrente maggioritaria della DC, i cosiddetti “dorotei”, bloccano il processo di rinnovamento, sotto la guida del nuovo presidente della Repubblica, Antonio Segni. La modernizzazione necessaria richiede un rinnovamento profondo nel modo di governare. Occorre scegliere tra opzioni diverse, il che comporta sempre una perdita immediata di consensi, per acquisirne altri sui risultati ottenuti. Questa sfida non è raccolta. Il MEC espone sempre più l’industria italiana alla concorrenza europea, in una situazione sociale in movimento, con un sindacato industriale capace di imporre una crescita del salario reale, che negli anni Cinquanta era rimasto fermo. Il centrosinistra non riesce così ad essere quello che si era proposto, ossia promotore di un effettivo processo di modernizzazione, divenendo invece un mero allargamento della maggioranza parlamentare.
La lunga crisi politica italiana inizia proprio da questo nodo irrisolto. Negli anni seguenti molti aspetti decisivi della vita sociale incominciano a uscire dal controllo del governo come effetto dell’inerzia di questo e della stessa classe politica. Processo che nel Sessantotto troverà la sua data emblematica. Il Sessantotto è l’anno degli studenti che irrompono sulla scena civile con domande nuove di rilevanza politica. L’insorgenza studentesca è, in quell’anno, un fenomeno che attraversa tutto l’Occidente, l’Europa e gli Stati Uniti. Ha natura antropologica e riflette i mutamenti socio-economici e culturali che il dopoguerra, con la sua rapida crescita ha portato con sé e in cui quella generazione è cresciuta. Lascia ovunque traccia nel costume e nei comportamenti sociali, ma i suoi effetti sono più profondi là dove la protesta studentesca innesca parallelamente altri conflitti sociali, specie quelli di natura sindacale soprattutto in Francia e in Italia. Salvo che in Francia il conflitto sindacale si chiude nel corso del mese di maggio, per non riaprirsi più, e la causa prima della protesta studentesca, la riforma universitaria, è intrapresa subito, a partire dal mese di settembre. In Italia, invece, la spinta sindacale si protrae per più di un decennio, determinando per contraccolpo uno sviluppo del movimento studentesco in una galassia di movimenti extraparlamentari, che prenderanno forma anche eversiva, portando infine al terrorismo.
Gli anni Settanta sono turbolenti. Il Paese è squassato all’interno, privo di bussola politica, e subisce l’effetto degli avvenimenti esterni, tra cui i due shock petroliferi. Il pendolo politico torna a oscillare da sinistra a destra, da destra a sinistra, prima di tornare in equilibrio, pur sempre precario, all’inizio del decennio successivo. Le elezioni politiche del Sessantotto hanno sigillato il fallimento del centrosinistra con la sconfitta dei socialisti, unificati per la prima volta in un solo partito. È anche la sconfitta di Moro, il leader democristiano artefice del centrosinistra. Questi peraltro si rende conto che le falle che si aprono a livello sociale, le rivolte studentesche, ma soprattutto le grandi vertenze sindacali avviate nell’autunno del 1969, pongono il problema di inglobare nell’area della responsabilità politica di governo il partito comunista. Prende allora forma il cosiddetto “consociativismo”: il PCI rimane fuori dal governo, ma una modificazione dei regolamenti parlamentari lo rende indispensabile per realizzare l’attività legislativa nelle due Camere. L’istituzione delle Regioni lo chiama poi a gestire quelle in cui i comunisti hanno la maggioranza (l’Emilia Romagna, la Toscana e l’Umbria) a cui in seguito se ne aggiungeranno altre. Lo “statuto dei lavoratori” poi garantirà l’azione delle organizzazioni sindacali nelle fabbriche. Contro questo complesso di provvedimenti, della fine degli anni Sessanta, tornano a muoversi le forze sociali e politiche della destra. Anche a livello della società civile la reazione di destra assume caratteristiche senza precedenti. Nasce infatti una nuova destra urbana, che non è più né filomonarchica, né filofascista, e pratica piuttosto l’adagio: “legge e ordine”. Ciò si manifesta anche elettoralmente nel 1972 e porta Giovanni Leone (1908-2001) alla presidenza della Repubblica, essendo scaduto il settennato di Giuseppe Saragat, mentre Giulio Andreotti costituisce un governo con Giovanni Malagodi (1904 -1991), segretario del Partito Liberale.
Questo governo ha maggioranza centrista, ma è sostanzialmente di centrodestra e affronta le conseguenze del crollo del sistema monetario postbellico, a seguito della fine della convertibilità del dollaro, dichiarata da Nixon nell’agosto del 1972. L’azione del governo lascia che la lira si svaluti pesantemente sul mercato dei cambi. Inizia allora una politica di ricorrenti svalutazioni della moneta nazionale, di contro a una crescita dell’inflazione. La spirale salari-prezzi cauterizza i costi interni, la svalutazione ricorrente ristabilisce condizioni di competitività delle merci sui mercati esteri. La crescita del salario reale che il sindacato ha perseguito alla fine degli anni Sessanta trova così un vincolo insuperabile.
Con il primo shock petrolifero la spinta inflativa pare insostenibile e si ritorna a formule di centrosinistra, che tuttavia sono incapaci di indicare una strada per l’avvenire al sistema politico italiano. Torna ad affacciarsi l’ipotesi di destra e sarà Fanfani, tornato alla segreteria della DC, a cavalcarla. Prende l’occasione dal referendum tenutosi nella primavera del 1964 sulla legge che aveva istituito il divorzio e che il Partito Radicale era riuscito, sensibilizzando l’opinione pubblica, a far approvare dal parlamento, e compatta un blocco conservatore e clericale contro questo elementare diritto civile, ma ha dalla sua parte solo l’MSI, oltre alla DC; va incontro a una netta sconfitta, con il 60 percento dei suffragi a favore del divorzio.
Il 1964 vede anche l’inizio della spirale terroristica nera e rossa. Sfuggita al controllo degli apparati d’ordine pubblico, origina il sospetto diffuso che ciò sia dovuto a una strategia volta a provocare una domanda di segno conservatore a favore della legge e dell’ordine, cioè di una soluzione autoritaria. Provoca invece una reazione di segno contrario, fortemente spinta dal voto libero sul divorzio. Le elezioni amministrative del 1975 vedono un traumatico spostamento elettorale a sinistra. Fanfani esce dalla scena e vi fa ritorno Moro, che riprende la guida del governo e intraprende un processo di “rifondazione” della DC piuttosto orientato a sinistra. Dal canto suo il segretario del PCI, Enrico Berlinguer (1922-1984), offre al governo la collaborazione del suo partito, fondata su un “compromesso storico” tra comunisti e cattolici, a cui le altre forze politiche avrebbero dovuto allinearsi.
Nelle elezioni politiche del 1976 la DC mantiene le sue posizioni, ma la crescita del PCI raggiunge il 33 percento. Il Partito Socialista dal canto suo si presenta agli elettori con la pregiudiziale che non sarebbe tornato al governo senza i comunisti. Moro prende in mano le redini della politica italiana e, garantendosi a destra con la candidatura a capo del governo di Andreotti, apre un dialogo con il PCI, volto a portarlo prima nella maggioranza di governo, poi nello stesso governo. Va cioè incontro alla formula del “compromesso storico” di Berlinguer, accettando sostanzialmente quel terreno di incontro, a condizione che tutta la DC se ne sia parte in causa, mantenendo così interamente le redini del gioco politico. Incomincia un defaticante processo di avvicinamento, che a livello parlamentare si concretizza nella cosiddetta “solidarietà nazionale”, cioè il sostegno, prima indiretto, poi diretto, di tutte le forze politiche – PCI compreso – a un monocolore democristiano, che produce invero una nuova stagione di riforme. Nei suoi tre anni di governo, tra il 1976 e il 1978, Moro getta i lineamenti definitivi del welfare italiano. Ma sul terreno politico l’operazione procede lentamente, provocando nuovi problemi e contrasti. Il PCI si fa carico di abbassare il livello della conflittualità sociale, incominciando dalle rivendicazioni salariali. Ne deriva una reazione dalla sua sinistra, che nel 1977 prende forme eversive e alimenta la diffusione endemica delle azioni terroristiche. Dal canto loro i socialisti, che hanno eletto un nuovo segretario, Bettino Craxi (1934-2000), rivendicano la loro autonomia e la pretesa di svolgere un ruolo centrale nella politica italiana. La politica economica che continua a usare con disinvoltura lo strumento della svalutazione monetaria, incontra poi la crescente opposizione degli altri paesi della Comunità Europea, i quali predispongono un politica monetaria tra loro concordata, che prevede una contenuta oscillazione tra le diverse monete nazionali – il cosiddetto “serpente monetario” – cui l’Italia è chiamata ad aderire. Si creano così difficoltà politiche al PCI, perché ciò avrebbe implicato una più oculata politica di bilancio e un ulteriore contenimento della crescita salariale. Si aggiunga a tutti questi diversi fattori il mutamento della situazione internazionale, con l’inasprirsi dei rapporti tra i due blocchi, la rapida caduta cioè di quel processo di “distensione” sul teatro europeo, iniziata nella seconda metà degli anni Cinquanta e ora scalzata da una politica tendenzialmente sempre più aggressiva dell’URSS, che tra l’altro ha alterato sul teatro europeo l’equilibrio militare con il dispiegamento di una nuova stagione di missili a testata atomica, gli SS20. Su queste difficoltà crescenti viene infine a pesare drammaticamente il rapimento di Aldo Moro e poi il suo assassinio da parte delle Brigate Rosse. Con Moro il PCI perde il suo interlocutore primario, l’unico che avrebbe potuto essere capace di tessere la tela di un accordo di governo tra cattolici e comunisti. Si va così inevitabilmente, nel 1979, a un anticipo delle elezioni, che vedono un notevole ripiegamento del PCI, la maggiore e più rilevante inversione di tendenza nella parabola ascendente del partito dal dopoguerra.
La crisi internazionale avrebbe spostato l’intero asse della politica occidentale negli anni seguenti in direzione di un più fermo atteggiamento verso l’URSS. La DC si adegua a questi mutamenti con il suo Congresso del 1980, detto “del preambolo”, con cui pone fine alla prospettiva di collaborazione con il PCI. Con la morte di Moro la DC è tuttavia un partito che mostra una ormai evidente carenza di leadership. Incomincia a declinare anche elettoralmente, questa volta non verso il PCI, ma verso i suoi tradizionali alleati laici. Craxi poi, alla guida del PSI, gli contende anche la guida del governo. Nel 1978 a Leone succede al Quirinale Sandro Pertini (1896-1990). Questi romperà un tabù che dura da 35 anni. Nel 1979 egli dà l’incarico di formare il governo a Ugo La Malfa, che, tuttavia, non vi riesce. Nel 1982 lo affida al sucessore di questi alla guida del Partito Repubblicano, Giovanni Spadolini (1925-1994), il primo laico alla presidenza del Consiglio dalla caduta di Parri. Nel 1983 è Bettino Craxi a formare il governo, conservando a lungo la carica. Tra il 1982 e il 1987 si verifica un’inversione di tendenza nel Paese. L’inflazione viene domata anche grazie ai tagli apportati alla scala mobile salariale che contribuiscono a spezzare la spirale prezzi-salari. L’Italia è in grado di inserirsi positivamente nella assai favorevole congiuntura economica internazionale che prende forma con il 1984. Craxi che si è fatto garante del contributo italiano al riarmo missilistico della NATO, dà anche impulso alla politica europea, appoggiando quella fase di allargamento della Comunità Europea e l’attuazione al suo interno dell’Atto unico, l’unificazione cioè dei mercati delle merci, dei capitali e della forza lavoro, con cui l’Europa risponde al processo di liberalizzazione (la globalizzazione) che gli Stati Uniti patrocinano a livello internazionale. A questo trend positivo sul piano economico fa negativamente riscontro la non risoluzione del debito pubblico, divenuto incombente dopo il cosiddetto divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro, che ha messo quest’ultimo nella necessità di ricorrere al mercato finanziario per coprire i deficit di bilancio. Sul piano istituzionale e politico è maturata la convinzione della necessità di una diversa dialettica tra le forze politiche che dia maggiore stabilità all’azione di governo, connessa a una modifica dello stesso sistema costituzionale.
La crisi dell’URSS nel 1989 sembra dover accelerare la pregnanza di questi interrogativi politici. Le forze politiche, incominciando da quelle di governo, rimangono invece ferme. Craxi stesso, che fin dal 1979 aveva lanciato l’idea di una “grande riforma”, prende la strada di un accordo di potere con la maggioranza della DC. Si determina un distacco profondo tra “Paese reale” e “Paese legale”. Quando, nel 1992, la cittadella politica viene investita da una serie di inchieste giudiziarie sulla corruzione (Mani Pulite), essa non regge all’urto e le sue tradizionali forze politiche ne risultano travolte. Alle elezioni del 1994 si va con una legge maggioritaria e con due schieramenti politici contrapposti, di centrosinistra e di centrodestra. Essi sono costituiti dall’aggregazione dei frammenti delle decomposte forze politiche, variamente miscelati, che hanno dominato il cinquantennio precedente, nessuna delle quali tuttavia vi compare più come protagonista. Con le elezioni del 1994, l’Italia ruota intorno a un sistema di alternanza politica, che riuscirà a portare il Paese nella moneta unica europea, senza tuttavia riuscire a dare a esso una definitiva stabilità politica e istituzionale. Il problema non affrontato negli anni Ottanta non può dirsi ancora risolto un quindicennio più tardi, e si apre così una lunga fase di transizione politico-istituzionale in cui il Paese si travaglia a lungo.