L'Italia e le sue regioni - Postfazione
Le domande alle quali il lettore si aspetta di trovare risposta in un’opera ricca come questa sono tante e va a merito degli autori poter constatare, alla fine, che le risposte ci sono.
C’è in primo luogo il dilemma, che si è posto a lungo e che riaffiora anche oggi (in tempi di credito fortemente ridotto per l’ordinamento regionale), fra storicità ovvero artificialità delle regioni, sovraordinate dal Costituente alle autonomie nelle quali gli italiani si riconoscono di più, quelle dei loro comuni. C’è il tema, connesso, dell’identità delle regioni, se esse siano riuscite a dotarsene e quanto la storia pregressa abbia contribuito a formarla. C’è poi quello delle regioni come matrice invece di cambiamento, a cui la storia può aver offerto i suoi solchi o dalla quale all’opposto può essere stata essa stessa mutata. Ci sono i fattori che hanno plasmato le loro scelte e le loro azioni, fattori che nella prima parte della loro vicenda cinquantennale hanno avuto una prevalente tonalità unificante, nella più recente una direzione anche divaricante, contrastata peraltro ab externo dal neocentralismo finanziario di uno Stato soffocato dal debito pubblico. Ci sono infine le domande di sintesi: in che cosa le regioni hanno avuto successo, in che cosa hanno fallito, se la divisione mai sanata fra Nord e Sud ne sia stata ridotta o ribadita, se le diversità di cui sono state comunque portatrici hanno arricchito o indebolito l’unità degli italiani. Proviamo a scorrere tutto questo con ordine.
Che la regione fosse un’entità artificiale fu già sostenuto in Assemblea costituente e anni dopo fu uno degli argomenti usati da chi avrebbe negato che si potesse incardinare su di loro la programmazione dello sviluppo economico, in quanto si trattava in più casi di aree economiche non ottimali. Ora, che più regioni potessero essere aree economiche non ottimali è indubbio, ma alla luce del nostro passato è altrettanto indubbio che artificiali sarebbero state non quelle esistenti, ma quelle che si volessero riperimetrare in base alle ragioni degli economisti. Già, perché chi ha definito artificiali le regioni esistenti lo ha fatto in genere confrontandole con i più ‘naturali’ comuni. Ma il raffronto in questi termini è frutto di un uso ideologico, non scientifico della municipalità italiana, che porta a cancellare d’un tratto due ineludibili profili della nostra storia.
Il primo è quello che sta al centro del dibattito storiografico sul Risorgimento e cioè se il centralismo a cui esso approdò fu dettato dalla necessità di non lasciare spazio alle propensioni centrifughe che albergavano negli ex Stati preunitari e che avrebbero altrimenti corroso l’unità nazionale (la tesi di Rosario Romeo, che lo stesso Palmiro Togliatti inizialmente adottò in Assemblea costituente), ovvero se fu invece voluto per assecondare uno sviluppo capitalistico, che non lasciasse spazi alle rivendicazioni popolari (la tesi di Ernesto Ragionieri). Ebbene, senza entrare qui in quel dibattito (che peraltro gli studi suscitati dal 150° anniversario dell’Unità sembrano aver chiuso a favore di Romeo), è difficile non desumerne che le regioni una storia ce l’hanno alle spalle, quella degli Stati preunitari, di cui si sono suddivise il patrimonio (quale che esso fosse), ma sempre ereditando comunità che già allora avevano distinte fisionomie e propensioni. Se non fosse così, entrambe le tesi contrapposte perderebbero gran parte del proprio senso.
E qui entra in gioco il secondo profilo ignorato dall’ideologia del municipalismo, vale a dire la accertata propensione delle città a proiettare a dimensione regionale la loro cultura e il loro sviluppo. È una proiezione che già si manifesta con le nostre Repubbliche marinare, che certo hanno il loro epicentro nelle città, ma hanno un’estensione regionale: Venezia è, a dir poco, il Veneto, Genova la Liguria, Pisa la fascia costiera della Toscana. È l’Italia che insegna all’Europa moderna la scienza del governare, secondo Jean Charles Léonard Sismondi nella sua Histoire des républiques Italiennes du Moyen âge del 1818 (1807-08, 4 voll.; 1809-182, 16 voll.). E non a caso si richiama a Sismondi Carlo Cattaneo, il cui federalismo si basa su regioni che devono la propria fisionomia alle città più innovative e più capaci di diffondere attorno a la propria cultura. Le sue Notizie naturali e civili su la Lombardia (1844) sono il prototipo di questa sua visione, all’insegna di Milano e anche di altre città lombarde. Un secolo dopo è Lucio Gambi a dipingere in termini analoghi il rapporto città-regione. Ed è appena il caso di notare, infine, che la stessa analisi di Robert D. Putnam (Making democracy work. Civic traditions in modern Italy, 1993, trad. it. La tradizione civica nelle regioni italiane, 1993) sul capitale sociale delle nostre regioni assegna un valore cruciale alla cultura cittadina e procede poi lungo lo stesso percorso.
Insomma, l’ente regione non è un’invenzione dei costituenti. E sebbene il consenso suscitato fra di loro dalla sua istituzione fosse molto dovuto non a una presa d’atto della storia, ma alla forza con cui si fece valere l’ideologia organicista delle comunità intermedie, una storia c’era dietro i percorsi e gli sbocchi istituzionali che la vita regionale avrebbe avuto. Proprio per questo i quesiti che di conseguenza si pongono sono quelli enunciati all’inizio, a partire dal ruolo che la storia stessa ha giocato nel conformare l’identità di ciascuna regione rispetto a quello degli altri fattori che hanno concorso al medesimo fine.
Sono molteplici i legati del passato che, nel corso dei decenni successivi alla creazione degli enti regionali, emergono nelle loro vicende e nelle loro attività, dalle memorie locali alla gastronomia, dai dialetti alle tradizioni religiose, dal patrimonio etnografico a quello paesaggistico. Ma c’è una prima fase nella quale i legati storici sono sovrastati da fattori omogeneizzanti, ai quali caso mai essi reagiscono, spiegando così scarti e differenze nell’adozione dei modelli uniformi, che quei fattori portano con.
Grazie alla perdurante solidità, in quei primi anni, del tessuto connettivo dei partiti e dei sindacati, ci fu una sostanziale omogeneità del personale politico, alla quale si aggiunse una pari omogeneità del personale burocratico, largamente di provenienza statale. Il risultato fu una sorprendente uniformità della legislazione regionale, che sugli stessi temi, più che adattarsi alle pieghe delle rispettive realtà di ciascuna regione, sembrò adagiarsi su stampi unici, facilitando così il compito dello Stato che, per parte sua, in nome dei principi e degli interessi nazionali, provvide a tagliare buona parte dei rami che sporgevano da quel tronco uniforme. Ne sarebbe rimasto deluso Cattaneo, che predicava la legislazione regionale come veicolo di diversità in concorrenza fra loro, fra le quali lo Stato avrebbe potuto far emergere e accogliere poi le migliori in sede nazionale. Ma le regioni, che in sede di Costituente erano state spinte dalla visione cattolica delle comunità intermedie, negli anni Settanta ebbero dalla loro il vento, più di sinistra, della programmazione. Erano loro a rendere la stessa programmazione ‘democratica’, ma è ovvio che ciò poteva accadere soltanto all’interno di indirizzi unitari, capaci di assorbire il ‘tumultuoso disordine’ (come allora lo si definiva) del primo sviluppo postbellico. E questo fu un ulteriore e cruciale fattore omogeneizzante.
L’uniformità non fu totale e non mancarono, nel male e nel bene, delle significative differenze. Nel male, si fecero percepire i residui del secolare divario, messo a fuoco da Putnam, nel capitale di virtù civiche e quindi anche di efficienza burocratica. Nonostante la generalizzata provenienza statale del loro personale, le regioni non furono tutte eguali sul terreno dell’efficienza. E riemersero fra loro differenze lungo linee non molto diverse da quelle che avevano segnato, poco più di cent’anni prima, l’eredità lasciata dagli Stati preunitari. Erano linee che tagliavano l’Italia nella solita bipartizione fra Nord e Sud, attenuata però da regioni come la Basilicata e la Puglia, capaci di rendimenti competitivi con quelli settentrionali. Nel bene, maturarono modelli diversi, e fra loro utilmente competitivi, nell’assetto adottato per i diritti sociali. Ciò è vero in particolare per l’organizzazione sanitaria, che risultò ispirata alla sussidiarietà pubblico-privato in Lombardia e alla pervasività della programmazione pubblica nelle regioni – Emilia-Romagna, Toscana e Umbria – governate dalla sinistra.
Con il passare degli anni la forza degli iniziali fattori omogeneizzanti è venuta scemando. Le regioni sono rimaste affidate prevalentemente a se stesse e alle spinte provenienti dal loro interno, almeno sino a quando non è sopravvenuta, ab externo, la forza uniformante dello Stato in nome soprattutto (ma non solo) della stabilizzazione finanziaria dell’intero settore pubblico. Ma si è trattato a quel punto – e ci torneremo – di una torsione centripeta, che si è contrapposta a una contraria tendenza centrifuga, manifestatasi prima con la riforma del 2001 del titolo V della Costituzione, poi con il perseguimento di una forte devoluzione di poteri, definita addirittura federale dai suoi promotori. È stato nel perdurare di una tale tendenza centrifuga che sono emersi nel modo più nitido i tratti fisionomici delle diversità regionali, si sono venute impastando le eredità storiche antiche e recenti, fra le resistenze che esse hanno opposto in più casi al mutamento e lo stimolo che in altri invece ne è venuto ad accettarlo e ad adeguarvisi con appropriati adattamenti.
Davanti alla lunga crisi economica degli anni 2000 e agli impoverimenti che ne sono scaturiti, hanno preso piede in più regioni spinte identitarie autocelebrative ed escludenti, che soprattutto nel Nord hanno pesato poi in particolare sul trattamento degli immigrati. Certo si è che neoborbonici al Sud, assertori della sovranità del popolo sardo in Sardegna, cultori delle radici celtiche e dei riti druidici nelle regioni padane hanno fatto uso del patrimonio etnico, religioso e linguistico dei rispettivi territori per ricavarne ragioni di incomponibili diversità e quindi di chiusura in se stesse delle rispettive comunità.
Ma non ovunque queste spinte hanno prevalso, e in più regioni, a volte in quelle stesse in cui si sono manifestate, si sono affermati indirizzi diversi, per scelta condivisa fra le istituzioni e le comunità locali da esse rappresentate. Il patrimonio etnografico e linguistico locale è stato letto in questi casi come testimonianza non di identità esclusive, ma di identità formatesi al contrario attraverso l’integrazione fra le diverse genti che storicamente si erano venute insediando sul territorio regionale (ed è questo, a dire l’onesta verità, ciò che la storia insegna dell’Italia). Parallelamente – e non a caso – gli immigrati sono stati accolti in chiave piuttosto di solidarietà che di emarginazione. Si vedano le leggi regionali toscane in materia, esempio peraltro non unico di questo orientamento.
Sono differenze pesanti quelle così rilevate. Sono anche tali da mettere in dubbio l’unità nazionale, da mettere in dubbio, in particolare, che sia ancora unita un’Italia nella quale convivono regioni collocate su questi opposti versanti? Nonostante l’intento e in qualche caso la forza divaricante che hanno i movimenti neoidentitari qui menzionati, andrebbe oltre il segno ritenere che essi siano riusciti a incrinare l’unità italiana. Non lo hanno fatto neppure nelle regioni del cui governo sono o sono stati partecipi. Certo, in questi casi la regione ha fatto leggi per promuovere il localismo linguistico o per riservare ai suoi residenti questo o quel servizio. Ma a parte il controllo di costituzionalità che ha fermato sul nascere taluni eccessi (come il riconoscimento della sovranità del popolo sardo), è stata la consistenza dei legami che uniscono gli italiani e le regioni stesse fra di loro a ridurre gli effetti delle esclamazioni identitarie. Proprio in ragione della nostra storia, l’appartenenza di ciascuno di noi a comunità di diverso livello – locale, regionale e nazionale insieme – è radicata da secoli nella coscienza italiana e solo minoranze fortemente fanatizzate riescono a ignorarla. Ignorando, a quel punto, che è e rimane ‘in Italia’ il viaggio dei milioni di epigoni odierni di Goethe, così come sono apprezzati perché made in Italy i tanti prodotti artigianali, alimentari, industriali, di abbigliamento o altro, che escono dalle nostre diversificate tradizioni e culture regionali.
In questo contesto, ciò che le regioni più sensibili alle minoranze isolazioniste sono venute facendo sul terreno delle rivendicazioni identitarie è andato oltre il folclore e ha prodotto effetti, se non di corrosione, di disconoscimento dell’unità nazionale, solo là dove si è accompagnato a politiche più concretamente esclusive, e negatrici per ciò stesso dell’humus su cui si è formata e consolidata la nostra unità: un humus non etnico, ma culturale e valoriale, nutrito dall’incontro di quanti storicamente si sono trovati a convivere e lavorare entro quelli che sono oggi i nostri confini. Va aggiunto tuttavia che, quando ciò è accaduto, hanno anche pesato tensioni e questioni, che vanno oltre lo spazio delle regioni e investono l’intera comunità nazionale. Si tratti della disputa, riaccesasi in occasione del 150° anniversario dell’Unità, sulla natura effettivamente culturale della nostra unità, negata da chi legge nel Risorgimento la forte presenza di pulsioni etniche, prodromiche dell’esaltazione razziale del fascismo («una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», aveva scritto Alessandro Manzoni in “Marzo 1821”, anche se già Vincenzo Gioberti aveva motivatamente messo in dubbio questa sua visione dell’italianità). Si tratti invece delle inquietudini e delle insofferenze dei nostri giorni nei confronti degli immigrati, che attraversano larghi strati della popolazione e hanno bisogno di essere elaborate e filtrate non dalle sole regioni. È l’Italia intera che deve decidere se vuole essere ancora quel Paese aperto, che proprio sull’integrazione di culture e di stili diversi ha costruito la qualità inconfondibile della sua arte, dei suoi paesaggi e dei suoi prodotti, o se si avvia a una senile chiusura, che la renderebbe meno innovativa, meno popolata e conseguentemente meno capace, fra l’altro, di mantenere i suoi vecchi, percentualmente sempre più numerosi.
Là dove le regioni hanno nel loro insieme fallito è stato nel realizzare l’aspettativa riposta in loro da chi, come Gaetano Salvemini (1873-1957), aveva visto nel federalismo e quindi nella responsabilizzazione diretta dei ceti dirigenti meridionali il motore per risolvere lo storico divario Nord-Sud. Certo le regioni non avrebbero potuto farlo da sole, in assenza di politiche nazionali nel medesimo senso. E qui, al di là di ogni valutazione di merito, ha anche pesato il fatto che esse sono entrate in scena negli anni nei quali il fordismo stava esaurendo il suo ciclo e le politiche di industrializzazione modellate su di esso perdevano per ciò stesso efficacia. Ma il cambiamento che ne veniva apriva lo spazio per altre forme di sviluppo, che proprio un uso lungimirante e dinamico delle competenze regionali poteva favorire con efficacia: promuovendo i sistemi territoriali dell’innovazione, organizzando l’offerta turistica e culturale, mettendo a frutto il formidabile potenziale agroalimentare.
Ebbene, c’è chi nel Mezzogiorno lo ha capito e lo ha fatto, ed è grazie a questo che la mappa dello stesso Mezzogiorno la si riproduce oggi a macchie di leopardo, ritenendosi che esso non possa più essere descritto come un territorio compattamente e uniformemente arretrato. Se questo è vero, è non meno vero però che gli esempi di iniziative meridionali di successo e di aree del Sud uscite dall’arretratezza non bastano a cancellare i dati, che continuano a essere raccolti in termini aggregati e che segnalano proprio negli ultimi anni una crescente caduta degli indici di sviluppo, dall’ampliamento della base imprenditoriale ai consumi culturali, sino all’andamento del reddito, che colloca il Mezzogiorno italiano ai gradini bassi della scala europea, mentre larga parte del Nord è ai gradini più alti.
Le ragioni di questo insuccesso sono tante, anche se ruotano largamente attorno ai temi di Putnam, dal clientelismo nell’uso degli apparati pubblici alla contiguità frequente con la criminalità organizzata (che al di là della allocazione delle competenze istituzionali in materia, si forma e si spezza in sede locale), dall’inefficienza e arretratezza amministrativa alla bassa qualità delle infrastrutture e dei servizi. Certo si è che un decollo possibile nonostante l’assenza della tradizionale base industriale è stato reso impossibile dalle caratteristiche non sufficientemente rimosse di una società arretrata più forte dei suoi innovatori.
Con il peso di questo perdurante squilibrio l’Italia e le sue regioni hanno vissuto gli anni più recenti segnati da un lato da regioni abilitate a sperimentare la loro accresciuta autonomia (grazie alla riforma del titolo V) in un contesto non più ispirato dalla forza omogeneizzante dei vecchi partiti, dall’altro da uno Stato che, mentre veniva meno questa forza, trovava quella più aspra e rigida del patto di stabilità e del coordinamento della finanza pubblica, accentuata da un uso sempre più penetrante delle altre competenze trasversali di sua spettanza, la tutela della concorrenza e quella dell’ambiente. Ben più di quanto fosse accaduto nella prima fase della loro storia – come già abbiamo avuto modo di notare – le regioni hanno espresso diversità grandi e piccole, buone e cattive, mentre quella dello Stato è stata una autentica caccia alle stesse diversità.
Ne è uscita prevedibilmente un’accentuata conflittualità, che gli avvocati hanno gestito con sicuro profitto davanti a una Corte costituzionale divenuta per ciò stesso più giudice dei conflitti che non delle leggi di diretto interesse per i cittadini. Mentre sul terreno che conta di più, quello degli indirizzi messi in campo per affrontare la gravissima crisi di questi anni, il potenziale virtuoso delle autonomie ha dato molti meno frutti di quanto abbiano fatto da un lato la difesa dei localismi in quanto tali, dall’altro le ragioni inflessibili dell’uniformità.
Vi sono state – e già ne abbiamo parlato – le manifestazioni delle diversità inclusive, che nell’orientare la cultura collettiva, nel regolare la gestione dell’immigrazione, nell’articolare le difese sociali hanno contribuito a fronteggiare i cambiamenti in corso ben più positivamente di quanto non abbiano fatto le autoaffermazioni identitarie in chiave etnica. Tuttavia, né le regioni né lo Stato sono andati molto oltre nel trarre profitto da un patrimonio di esperienza storica, che non offre soltanto piatti, dialetti, tradizioni religiose e memorie locali, ma fornisce precedenti illuminanti sulla connessione fra le qualità dei prodotti e dei servizi italiani più spendibili nel mondo e una creatività nutrita da varietà locali e da sapienti integrazioni fra queste stesse varietà. Qui dunque andavano e andrebbero cercati i percorsi ai quali ricondurre processi formativi, attività promozionali, approntamenti di infrastrutture di contesto, disegni sia infraregionali sia congiunti di gestione del territorio e della stessa economia. Ma qui la nostra architettura istituzionale pur così ricca è mancata, e non solo nel Mezzogiorno, all’appuntamento.
Le diversità fatte valere dalle regioni, più che esprimere potenzialità di sviluppo, hanno veicolato ora generosi, ora ingenerosi sentimenti locali e in molti casi non sono andate oltre la pura e semplice volontà di derogare agli stringenti vincoli di fonte nazionale. Da parte sua lo Stato, prima per il timore di perdere il controllo di autonomie rese più forti dal nuovo titolo V, poi per impellenti ragioni finanziarie, ha sistematicamente contrastato ogni e qualsiasi presa di distanza dalle sue regole uniformi, frustrando per ciò stesso l’uso delle medesime diversità che potrebbe promuovere sviluppo senza danno per gli interessi nazionali. La Corte costituzionale ha finito per orientarsi nello stesso modo, arrivando a scrivere che, dove sono in gioco beni o valori affidati allo Stato, solo lo Stato può stabilire le diversità consentite e non possono farlo le regioni, nemmeno quando lo facciano in modo e per ragioni condivisibili. È accaduto così che si è dichiarata illegittima una legge della Valle d’Aosta, che esentava dagli obblighi usuali sulle barriere architettoniche gli esercizi commerciali non raggiungibili via strada (in sostanza i rifugi alpini). La deroga può anche essere ragionevole – questo se ne desume – ma a stabilirla deve essere sempre e solo lo Stato nella sua onniscienza e onniveggenza, non il buon senso di chi ne vede i motivi nella sua esperienza quotidiana. Inoltre, ogni volta che una regione innalza i requisiti di efficienza per i distributori di benzina sul suo territorio, la si accusa di ostacolare in tal modo la concorrenza e di violare la competenza in materia dello Stato. Si rinuncia così, a beneficio per la verità non della concorrenza, ma dei concorrenti più deboli e meno efficienti, a far decollare best practices, che solo la competizione fra regioni diverse potrebbe introdurre.
Per chi crede al valore positivo delle diversità, al meglio che si può estrarre da ciascuna di esse nella sua specificità e, al medesimo tempo, agli esempi positivi che ne possono uscire a beneficio dell’insieme, una parabola come quella descritta non può non apparire come il progressivo essiccarsi di quell’humus prezioso, che in più momenti della nostra storia aveva alimentato il rigoglio italiano. La vera domanda diviene a questo punto se una conclusione del genere, tutt’altro che arbitraria, valga come un de profundis, o non sia piuttosto un campanello, magari una sirena d’allarme, a cui quell’humus può ancora reagire, riprendendo respiro e vigore.
Quando abbiamo celebrato nel 2011 la nostra Unità e con essa la nostra identità nazionale, ci siamo ben resi conto che la forza di entrambe dipende non soltanto dalla consapevolezza del passato comune che abbiamo alle spalle, ma anche, e forse ancora di più, dalla convinzione di un futuro che dovremo costruire insieme e dei rischi e dei benefici che condivideremo nel farlo. Non c’è infatti unione che regga quando si è smesso di credere nell’esistenza, e nella bontà, di un futuro comune. Ebbene, qui è la stessa cosa e per le stesse ragioni. Nella storia passata, le nostre diversità hanno funzionato in modo virtuoso, generando innovazione, crescita e rafforzata reputazione italiana a beneficio di tutti, quando a guidarle è stato non il passato, ma il futuro: un futuro aperto dalle tecnologie che inventavamo, dai modelli architettonici che producevamo e poi andavamo a realizzare in tutta Europa, dai prodotti finanziari con cui rafforzavamo e moltiplicavamo i commerci. Quando è stato così abbiamo primeggiato in Europa. Quando non lo è stato, siamo scivolati nell’arretratezza e dalle nostre diversità sono emerse memorie distinte, tradizioni distinte, identità, ora nostalgicamente, ora ringhiosamente passatiste.
Questa opzione è ancora davanti a noi. Che ci sia basta da sola a provarlo la ripetuta esibizione che veniamo facendo delle ‘eccellenze’ italiane, dei borghi in cui si può tornare a trovarle, delle specificità regionali e locali di cui molte di loro sono espressione. Che non sia nulla più di un’opzione lo dimostra il fatto che queste eccellenze sono esempi che non sono seguiti, best practices che non si diffondono, manifestazioni di una vitalità individuale che non riesce a diventare collettiva. Perché sia così lo si deve a molte e distinte ragioni, che confluiscono tuttavia in una, e cioè nel clima generale che insieme producono. La tensione verso il futuro che rende possibili le eccellenze non si innerva nella realtà italiana che esse hanno intorno. Al contrario, tutti gli indicatori ci dicono invece che essa è marchiata in questi ultimi anni da scarsa fiducia, da assenza di prospettive, da una conseguente aspirazione all’eguaglianza appagata piuttosto da un generale appiattimento che non dall’emersione differenziata dei migliori.
Scrivono nell’Introduzione le ottime coordinatrici dell’opera, Mariuccia Salvati e Loredana Sciolla, che il loro scopo era quello di offrire un’analisi della cultura regionale, che non fosse limitata alla cultura delle élites, ma andasse a una dimensione più vasta, alle rappresentazioni e agli atteggiamenti mentali delle stesse popolazioni. È proprio l’analisi di entrambi i livelli a farci capire quanto essi interagiscano fra loro e quanto serva quindi uno scambio positivo fra propositi delle élites e propensioni degli altri, affinché vi sia una mobilitazione di risorse e di energie verso fini di miglioramento individuale e collettivo.
In quanto un mutamento del genere riesca ad avvenire, è evidente che l’uniformità cessa di essere un valore universalmente prioritario e che lo stesso Stato può abituarsi ad apprezzare il gusto delle diversità, senza il quale il pluralismo regionale perde totalmente il suo significato. Ma certo tocca alle stesse regioni immettere quel gusto nelle rispettive diversità e non farle percepire soltanto come devianze che non aggiungono valore all’insieme. Ne era convinto Carlo Cattaneo in un tempo nel quale la qualità delle diversità regionali non era certo migliore di quella attuale. Eppure lui, magari per la fiducia che riponeva nella forza motrice delle città e dei tessuti urbani che si andavano formando, su di esse faceva la sua scommessa per l’Italia futura. Il minimo che si possa dire oggi è che sulla stessa dinamica dovremmo poter contare anche noi. Certo, se, nonostante ciò, dovessimo un giorno concludere che quello delle regioni è solo un peso – di personale, di costi e di procedure – che imponiamo al nostro bilancio e a noi stessi, non potremmo che liberarcene. Ma è altrettanto certo che a quel punto l’Italia, se di sicuro perderebbe dei vizi, avrebbe già perso le sue vere virtù.
Noi italiani abbiamo proceduto per secoli e ancora procediamo su un difficile crinale, quello sul quale riescono a legarsi le nostre diversità e le nostre virtù. I quattro volumi che qui si concludono dovrebbero aiutarci non solo a metterlo a fuoco, ma anche a capire come percorrerlo e come rientrare in carreggiata dopo le scivolate in cui, più volte nella nostra storia, ci è capitato e continua a capitarci di incorrere.