Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Quasi tutti i Paesi europei tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX secolo elaborano quadri legislativi finalizzati al conseguimento di un sistema di istruzione primaria e obbligatoria a gestione statale. Ne deriva un significativo avanzamento del processo di alfabetizzazione delle popolazioni. Il conseguimento di un’istruzione generalizzata caratterizza fortemente il Novecento. Sul finire del secolo le politiche educative giungono a confrontarsi su livelli altamente specialistici di conoscenza e sulle competenze del capitale umano, il cui apporto risulta determinante per lo sviluppo civile ed economico.
Nel corso del XX secolo gli Stati europei portano a compimento l’aspirazione illuminista di un livello di istruzione sempre più generalizzato tra la popolazione, e sempre più specialistico tra le eccellenze, realizzando sistemi istituzionali di insegnamento organizzati e programmati. Lo sviluppo economico e industriale, unitamente all’allargamento del suffragio, richiedono un ripensamento degli assetti sociali, e soprattutto una maggiore alfabetizzazione delle classi subalterne, unitamente a un’adeguata formazione del ceto medio e impiegatizio. Tale esigenza è testimoniata dal crescente peso acquisito dalla voce “istruzione” nei bilanci nazionali nei primi decenni del secolo. Con la diffusione dell’istruzione obbligatoria di massa inoltre, i governi percepiscono tutti i vantaggi derivati, sul piano disciplinare, da una società scolarizzata. Lo sviluppo dei sistemi d’istruzione rispetta l’articolazione delle classi sociali. In virtù dello sviluppo delle scienze e del commercio internazionale, la formazione della classe borghese arricchisce la propria impostazione umanistica con nuovi saperi, senza perdere l’esclusività dell’accesso alle professioni e la garanzia di un livello formativo elitario. Parte rilevante della classe lavoratrice acquisisce una formazione di base sufficiente all’inserimento nel meccanismo taylorista della nuova dimensione di fabbrica; al tempo stesso una componente del mondo operaio necessita di maggiore competenza tecnica, alla quale si risponde con prolungamenti dei processi educativi mediante istituti di formazione professionale. Anche tra gli agricoltori lo sviluppo tecnologico legato al rimodernamento dell’agricoltura determina la nascita di istituti orientati alla formazione agraria.
Il carattere selettivo è tuttavia unito a un sistema scolastico ben strutturato nei Paesi giunti a un avanzato livello di sviluppo industriale. In Germania per tutta la prima metà del Novecento la selezione sociale comincia dagli studi elementari. Gli studenti di estrazione borghese frequentano una scuola “preparatoria” per poi accedere al Gymnasium (istituto di studi classici), al Realgymnasium o alla Realschule (per le ragazze è prevista invece una scuola analoga denominata Lyzeum), mentre la classe lavoratrice frequenta la Volksschule per otto anni, potendo scegliere al quarto anno di accedere alla Mittelschule di maggiore difficoltà. Per il nascente ceto impiegatizio, sono previsti due istituti di insegnamento tecnico e commerciale. La selettività del sistema tedesco viene irrigidita negli anni Trenta, per iniziativa del governo nazionalsocialista, nei confronti delle ragazze, dirottate verso la scuola secondaria unificata, nella quale apprendere le abilità materne o materie finalizzate alla gestione domestica. In Inghilterra nel 1902 (Education Act) e nel 1904 si definiscono scopi e prospettive della scuola pubblica elementare non centralizzata, con precise disposizioni a favore della mobilità sociale. Il processo di organizzazione del sistema scolastico inglese giunge a prevedere nel 1944 una scuola statale elementare unica per tutti che dà accesso alle grammar schools (scuole superiori di indirizzo classico) o alle scuole secondarie di indirizzo tecnico o moderno. Le politiche dell’istruzione in Francia sono inizialmente rese complesse dalla difficile relazione con la presenza ecclesiastica in campo educativo. Con una legge del 7 luglio 1904 gli ordini religiosi sono esclusi dall’insegnamento. La scuola francese, pur garantendo l’istruzione elementare obbligatoria e gratuita per tutti, si presenta nella prima metà del secolo con forti tratti di selettività, in particolare nell’accesso alle scuole superiori o ai lycées, e soprattutto con l’eredità napoleonica di un forte centralismo amministrativo.
Nei territori europei industrialmente meno avanzati, il governo dell’istruzione all’inizio del Novecento è invece sostanzialmente delegato alle istituzioni religiose: Chiesa cattolica in Europa meridionale, Chiesa ortodossa in Russia e nei Balcani. Rispetto alle nazioni industrialmente più progredite, Italia, Spagna e Portogallo mostrano segni di ritardo nell’articolazione e diffusione dei sistemi formativi. In Italia fino alla riforma della scuola del 1923 (Riforma Gentile) rimane in vigore l’ordinamento scolastico stabilito dalla Legge Casati del 1861. Per quanto concerne le scuole elementari, all’inizio del secolo la gestione è delegata agli enti locali, mentre l’istruzione secondaria è controllata in buona parte dallo Stato. La Riforma Gentile centralizza l’amministrazione dell’intero processo educativo, introducendo un esame di Stato destinato a garantire una certificazione uniforme del titolo di studio. Alla preparazione classica e umanistica, privilegiata nella prospettiva della riforma, viene aggiunta tuttavia la possibilità di frequentare il liceo scientifico, l’istituto magistrale superiore triennale, e scuole complementari biennali successive alla scuola elementare per chi non intende iscriversi a istituti superiori. Permane in ogni caso l’elemento religioso: con i Patti Lateranensi del 1929, i sacerdoti possono insegnare la dottrina cattolica in tutte le scuole. In Spagna bisogna attendere la Costituzione del 1931 per avere una separazione tra Stato e Chiesa, con la dissoluzione della Compagnia di Gesù e la proibizione dell’insegnamento ai religiosi. Viene istituita, con grande ritardo sul resto d’Europa, l’istruzione obbligatoria tra i sette e i dieci anni. Questi risultati tuttavia vengono vanificati nel 1933 dal rovesciamento del governo e successivamente dagli anni della guerra civile (1936-1939). Il Portogallo, nonostante l’introduzione nel 1911 dell’istruzione elementare gratuita e obbligatoria e la creazione di due scuole magistrali, rimane fino agli anni Settanta una delle nazioni meno istruite d’Europa (nel 1974 gli analfabeti costituiscono ancora il 34 percento della popolazione).
Per le nazioni di giovane costituzione, polietniche e polilinguistiche (Belgio, Cecoslovacchia, Jugoslavia), le politiche per l’istruzione mirano tra l’altro al difficile compito di costruire un’identità nazionale.
Il modello dell’istruzione elaborato e implementato nel campo socialista, si muove invece nella direzione di un superamento tanto della selezione di classe quanto dell’influenza religiosa nei processi educativi. Nel 1917 in Russia, a seguito della rivoluzione d’ottobre, viene proclamata l’intenzione di istituire l’istruzione universale obbligatoria (con lo zarismo l’80 percento dei bambini in età scolare non frequentava alcuna scuola), avviando un processo di alfabetizzazione che coinvolge anche la popolazione adulta (fino ai cinquant’anni). Al contrario di quanto accade in Germania e Italia, l’Unione Sovietica opta per una decentralizzazione o democratizzazione del sistema formativo, mediante i dipartimenti locali dell’istruzione del popolo, pur sempre coordinati da un dipartimento centrale per la definizione delle linee politiche generali. La Chiesa ortodossa viene privata del proprio tradizionale ruolo educativo, e la religione eliminata dai percorsi di studio; è inoltre vietata la proprietà privata delle scuole. In tutti i gradi di istruzione viene inizialmente implementato un modello scolastico unico (sono infatti soppresse le tasse scolastiche), laico e del lavoro, ispirata ai principi della libera formazione della personalità, della partecipazione democratica e della connessione tra istruzione e lavoro. Questo modello si sviluppa negli anni successivi con interventi destinati alla corretta formazione ideologica, e l’accentuazione del carattere politecnico degli studi, avviando una fase di intensa sperimentazione di alternanza scuola-lavoro. Al modello sovietico si adeguano dopo la seconda guerra mondiale anche gli altri Paesi socialisti europei.
Nel secondo dopoguerra anche in Europa occidentale matura l’attenzione verso una sorta di democratizzazione dell’istruzione, ma permangono oggettive difficoltà finanziarie per la realizzazione di tutti i propositi espressi nella direzione del miglioramento del sistema educativo, anche a causa di un impressionante aumento della popolazione scolastica. Tra il 1955 e il 1970 gli studenti dei corsi secondari raddoppiano o triplicano in tutti i Paesi europei. Gli iscritti alle università in alcuni casi arrivano a quadruplicarsi. Le difficoltà dei sistemi di istruzione a rincorrere i cambiamenti sociali esplodono nel periodo delle grandi contestazioni studentesche della fine degli anni Sessanta, determinate da un’insofferenza nei confronti dei sistemi di selezione sociale, territoriale, sessuale presenti all’interno delle politiche educative vigenti. Negli ultimi decenni del secolo, in tutta Europa si assiste a un innalzamento medio della qualità dell’istruzione, che tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta produce una parziale mobilità sociale.
Tendenzialmente nell’Europa di oggi l’assetto dell’istruzione, pur rimanendo diversificato, si compone di strutture educative per l’infanzia, scuole elementari, istituti superiori (distribuiti in uno o più livelli formativi, o articolati in indirizzi di studio) e strutture universitarie. Tuttavia questi organi non esauriscono l’azione formativa all’interno del quadro sociale. Nel 1972 il Rapporto della Commissione Internazionale per lo Sviluppo dell’Educazione dell’UNESCO pone energicamente al centro del dibattito internazionale sulle politiche dell’istruzione il tema della “educazione permanente” (lifelong learning), legata in prima istanza all’esigenza di formazione continua all’interno di un mercato del lavoro soggetto a rapidi mutamenti. Una delle esperienze più interessanti derivate dal concetto di formazione permanente consiste nell’istituzione delle università della terza età, diffusesi tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, che non risponde alle esigenze di professionalizzazione dettate dallo sviluppo del sistema produttivo, bensì all’aspirazione a una realizzazione personale.
Attualmente le politiche dell’istruzione e dell’investimento in capitale umano sono ritenute centrali per un progetto che debba portare l’Europa a divenire “società della conoscenza”, obiettivo delineato dal Consiglio Europeo di Lisbona nel 2000, come risorsa decisiva della competitività dell’Unione Europea. Le prospettive sulle quali orientare i percorsi formativi sono centrate sull’adeguamento alle innovazioni del mercato del lavoro prodotte dalle nuove tecnologie dell’informazione e telecomunicazioni, dalla mondializzazione dell’economia, dallo sviluppo tecnico e scientifico.
I processi economici e i mutamenti sociali del secondo dopoguerra determinano un radicale cambiamento nella sfera delle politiche educative. Se le generazioni di studenti della fine degli anni Quaranta si preparavano a sostituire un’élite logorata dalla seconda guerra mondiale, l’allargamento ai ceti medi nei primi anni Sessanta (sono gli anni in cui in tutto il mondo occidentale si comincia a teorizzare la produttività del “capitale umano”), e ancor di più verso la fine di quel decennio, determina un’inevitabile revisione di ruolo e funzioni dei laureati, che assistono alla progressiva collocazione negli strati intermedi e sul finir del secolo anche medio-bassi, del mercato del lavoro, e dei contenuti della cultura universitaria, che passa da una solida gerarchia delle conoscenze, alla frammentazione dei saperi, con l’apertura di numerosi indirizzi di studio di natura specialistica. Per altro verso, l’allargamento dei processi di istruzione universitari ha certamente contribuito all’innalzamento generale dei livelli culturali tra le popolazioni europee.
Senza dubbio la trasformazione delle istituzioni universitarie, invocata dagli imponenti movimenti studenteschi degli anni Sessanta, nella direzione dell’“apertura” a più ampie fasce di popolazione, appare come una delle più significative sul piano della ricaduta sociale. In Italia risale al 1969 la liberalizzazione degli accessi, cui seguono evidenti innalzamenti dei tassi di iscrizione (ma anche di abbandono degli studi) e si registrano determinanti innovazioni sul piano dell’organizzazione e della didattica universitaria. In seguito alle grandi contestazioni le università tendono ad adottare forme di democrazia gestionale e didattica.
Nel corso degli anni Novanta si assiste tuttavia a una leggera controtendenza, con il ritorno a prassi più o meno strutturate di contenimento delle iscrizioni ai corsi di laurea. Di fatto, ancora il bilancio di fine secolo non ci restituisce una composizione studentesca molto differente da quella dei primi anni Settanta. L’accesso agli studi universitari rimane per buona parte riservato ai figli provenienti da classi sociali medie o alte, con deboli percentuali di partecipazione delle classi più disagiate.