di Anna Pascale
Caratterizzato da un’inedita organizzazione sociale (basata sul kibbutz) e ostracizzato dall’intero mondo arabo, Israele ha per molto tempo offerto di sé l’immagine di uno stato costretto in una condizione di isolamento diplomatico. Ciò è stato vero, in particolare, negli anni Settanta, quando le visite ufficiali avevano più che altro un valore simbolico. Negli ultimi decenni, però, la percezione di Israele a livello internazionale si è capovolta, e il paese è giunto a essere considerato l’alleato numero uno dello stato più potente al mondo, gli Stati Uniti. Le varie amministrazioni che si sono passate il testimone alla Casa Bianca erano concordi nel ritenere che la linea cruciale della politica estera americana passasse per Tel Aviv e Gerusalemme. Dello stesso parere sembra oggi il presidente Barack Obama. Sebbene il suo rapporto con Netanyahu non abbia assunto i connotati della vera amicizia, com’era accaduto in passato con altri presidenti, le numerose visite del segretario di stato John Kerry e il forte segnale mandato dallo stesso Obama, che ha compiuto il primo viaggio del secondo mandato in Terra Santa, avevano lasciato intuire un riavvicinamento tra Washington e Tel Aviv.
I più recenti sviluppi nella politica mondiale e in quella interna a Israele, suggeriscono tuttavia che la lealtà tra i due alleati stia venendo meno su due fronti: gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e la questione del nucleare iraniano. La linea assunta dall’esecutivo Netanyahu sul primo punto e l’autonomia con la quale gli USA hanno definito l’accordo con Teheran nel novembre 2013 hanno riaperto qualche contrasto.
Sugli insediamenti di Cisgiordania e Gerusalemme Est, i numeri spiegano la freddezza di Washington: ignorando del tutto la richiesta di congelamento delle colonie avanzata nel 2009 dalla presidenza statunitense, l’amministrazione Netanyahu ha emesso nel 2012 un numero di autorizzazioni statali per la costruzione di case al di là della Linea verde, superiore del 300% rispetto a quello del precedente biennio.
L’atteggiamento intransigente adottato dal premier israeliano rispetto alla questione del nucleare iraniano - punto centrale della campagna elettorale 2012-13 del Likud - ha portato, invece, alla marginalizzazione del ruolo del suo paese e impedito il coinvolgimento di Tel Aviv al tavolo delle negoziazioni. Netanyahu aveva espresso quattro condizioni, senza le quali un’intesa con Teheran sarebbe stata per Israele impossibile: fermare del tutto l’arricchimento dell’uranio, rimuovere dal territorio iraniano l’uranio già potenziato, chiudere l’impianto di Qom e arrestare la pista di arricchimento del plutonio. I leader delle potenze del gruppo P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania) hanno ignorato la posizione del primo ministro di Israele e rallentato la pressione sull’Iran in cambio di condizioni più favorevoli a Teheran. Netanyahu, le cui posizioni ignorano il ruolo internazionale dell’Iran del presidente Hassan Rouhani, ha manifestato una netta opposizione all’accordo che rischia di confinare Israele nello stesso isolamento dal quale l’Iran è appena uscito.
Eppure ora come non mai, vista l’incerta situazione di molti paesi mediorientali, Israele avrebbe bisogno di solidi alleati. In Egitto, la fine dell’ambiguo rapporto che si era creato tra Tel Aviv e la Fratellanza musulmana, ha lasciato spazio a una situazione ancora incerta sul fronte sicurezza.
Anche con il ben disposto stato confinante giordano le relazioni si stanno incrinando. La necessità di fondi per gestire il copioso afflusso di immigrati siriani e le cattive condizioni economiche del regno, costringono re Abdullah II a rafforzare i rapporti con le ricche monarchie del Golfo e l’annuncio della costruzione di un muro israeliano sulla valle del Giordano alimenta le tensioni.
L’incognita più inquietante proviene comunque dalla Siria, dove la guerra civile ha favorito lo sviluppo di cellule jihadiste e sul cui territorio si scontrano da ormai più di due anni i big dell’islam regionale (Arabia Saudita e Iran), sostenuti da un consistente gruppo di alleati internazionali animati da contrastanti interessi geostrategici.
In un tale scenario, lo stato di freddezza con gli USA, unita all’isolazionismo regionale, potrebbe avere gravi conseguenze soprattutto sul fronte sicurezza per il popolo israeliano e sul processo di pace con i palestinesi. Se da un lato l’allontanamento degli USA potrebbe indurre Israele a posporre ulteriormente la ricerca di una soluzione, dall’altro potrebbe produrre l’effetto opposto. Tel Aviv, in allerta per il timore di ritrovarsi sola contro tutti, potrebbe, in sede di negoziazione, scendere a compromessi finora inediti pur di beneficiare di nuovo del sostegno di Washington.