Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Parte integrante della Danimarca fino al 1944, l’Islanda esce traumaticamente dal suo isolamento internazionale in seguito all’occupazione del territorio da parte delle truppe statunitensi durante la seconda guerra mondiale. La presenza americana, pur contestata da parte della popolazione e delle forze politiche, causa un forte mutamento della società islandese. Nel dopoguerra, i governi devono affrontare la crisi del settore ittico, che provoca una grave depressione economica, mai pienamente risolta, e tensioni con gli Stati europei in merito all’estensione delle acque territoriali. Negli ultimi anni il Paese conosce la stabilità politica, contemporaneamente all’incremento del settore turistico, che in parte equilibra le perdite dovute al settore ittico.
Nella prima metà del XX secolo, l’Islanda è ancora possesso della Danimarca, seppure sotto la formula, sancita nel 1918, dell’“unione personale”. L’isola gode di una relativa tranquillità istituzionale e, durante la prima guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra, rimane estranea alle tensioni internazionali, favorita da una posizione decisamente isolata e dall’essere priva di risorse significative. Questa situazione muta radicalmente con lo scoppio della seconda guerra mondiale, quando la collocazione geografica si rivela di importanza strategica, coinvolgendo l’isola nel conflitto. Durante la prima guerra mondiale, del resto, la Danimarca rimane neutrale, coinvolgendo in questa scelta anche l’isola islandese; nel primo dopoguerra, i Paesi del Nord Europa, sostanzialmente defilati, non sono attivi protagonisti delle tensioni che anticipano lo scoppio della seconda guerra mondiale. Quando però la Germania nazista invade la Norvegia e la Danimarca, allora anche l’Islanda si ritrova a partecipare al conflitto. L’isola viene occupata, nel maggio 1940, dalle truppe inglesi, che intendono in questo modo evitare che la Germania, già sul suolo danese, entri in possesso dell’isola, facilitando ulteriormente i suoi approvvigionamenti attraverso il Mare del Nord. Agli Inglesi si sostituiscono, l’anno successivo, le truppe statunitensi, che sfruttano l’Islanda quale sede di basi aeree da cui partire per le operazioni in Europa. Nessuna azione bellica, comunque, coinvolge direttamente l’isola. L’occupazione americana segna una svolta nella storia del Paese: i 50 mila soldati statunitensi, infatti, costituiscono più di un terzo della popolazione complessiva (allora di 120mila abitanti), introducendo abitudini fino a quel momento ignorate, destinate a mutare in profondità la società islandese. Le vicende della guerra inducono gli Islandesi a proclamare la propria indipendenza dalla Danimarca, con un plebiscito del maggio 1944 che impone la forma repubblicana dello Stato. Un altro effetto della guerra è la rinuncia alla neutralità, sancita con l’ingresso nella NATO nel 1949. Questo atto segna una svolta significativa della politica islandese, che in tutta la storia precedente non era mai stata costretta a scegliere una stabile alleanza militare, non possedendo, del resto, neanche forze armate organizzate. In effetti, il ruolo dell’Islanda quale membro della NATO non comporta una sua attiva partecipazione militare, ma solo la messa a disposizione di una base aerea a Keflavik, in seguito a un accordo con gli Stati Uniti del 1951, rinnovato nel 1974. La presenza della base e, soprattutto, dei militari statunitensi (membri dell’aviazione, della marina e dell’esercito, tutti situati nella base di Keflavik), crea ostilità tra la popolazione, in alcuni casi, nonostante la spinta alla modernizzazione economica e sociale che la loro presenza produce, dando luogo a veementi manifestazioni di protesta, in particolare nel 1956, che peraltro non hanno condotto a una modifica degli accordi.
Il principale problema che investe la politica islandese nel secondo dopoguerra, e che interessa in egual modo sia la politica interna sia quella estera, è quello economico. Priva di particolari risorse e costretta a una impegnativa politica di importazioni, l’economia islandese si fonda quasi totalmente sull’attività della pesca in quanto le acque islandesi sono le più pescose d’Europa. L’allevamento, infatti, di dimensioni ridotte, rifornisce soprattutto il mercato interno, mentre i prodotti della pesca (soprattutto merluzzi e aringhe) costituiscono il 75 percento delle esportazioni e stimolano l’industria interna, per lo più dedita alla conservazione e all’inscatolamento dei prodotti ittici; a questo dato si devono aggiungere le esportazioni relative alla tecnologia della pesca, settore in cui l’Islanda è sempre stata all’avanguardia. La volontà dei governi islandesi è dunque quella di estendere il limite delle loro acque territoriali il più possibile, consapevoli di quanto sia vitale la massimizzazione del profitto dell’attività della pesca per equilibrare la bilancia dei pagamenti. L’estensione unilaterale delle acque territoriali crea però forti tensioni con la Comunità europea e in particolare con la Gran Bretagna, portando il Paese addirittura alle soglie del confronto armato. Nel 1958, tra i mesi di aprile e settembre, il governo britannico scorta con navi armate i propri pescherecci che si addentrano nelle acque che gli Islandesi hanno dichiarato territoriali.
L’economia del pesce produce in questi anni molte crisi di governo. Alla fine degli anni Sessanta, per un deciso calo delle esportazioni del pesce, entra in crisi una coalizione formata da conservatori e da socialdemocratici. Una reazione si verifica nel 1971, quando un nuovo governo, una singolare coalizione che vede i liberali progressisti governare insieme al Partito Agrario e ai comunisti di Alleanza del Popolo, decide di estendere a 20 chilometri il limite delle acque territoriali nazionali. Inizia quella che è stata definita “guerra del merluzzo”, con la Gran Bretagna, che decide ancora di far scortare i propri pescherecci da navi armate e la Corte Internazionale dell’Aia che condanna la decisione del governo islandese. Quest’ultimo cerca di resistere facendo pressione sugli Stati Uniti e sulla NATO, prospettando per la prima volta la possibilità di denunciare l’accordo per la base aerea di Keflavik. Il governo, di fronte alle pressioni internazionali, entra in crisi, anche per l’incapacità di far approvare adeguati provvedimenti antinflattivi. Il nuovo governo, guidato dal conservatore Hallgrimsson, in carica dal 1974, reagisce in modo addirittura provocatorio; avanza infatti la proposta di portare a 200 chilometri l’estensione delle acque territoriali islandesi. La nuova “guerra del merluzzo” è ancora più aspra della precedente, sia perché provoca incidenti con i pescherecci inglesi, sia perché incrina i tradizionali rapporti d’amicizia anche con gli Stati scandinavi e la Germania. Il ritorno a rapporti diplomatici stabili avviene nel giro di quattro anni: dapprima la firma di un accordo con la Gran Bretagna, nel 1976; successivamente il cancelliere tedesco Helmut Schmidt (1918-) visita l’isola, e infine, nel 1980, un accordo viene firmato anche con la Norvegia.
Nello stesso anno un nuovo governo pone termine al periodo di instabilità politica, con una grande coalizione comprendente i comunisti, i socialdemocratici e gli agrari. Contemporaneamente viene eletta la prima donna alla presidenza del Paese, la signora Vigdis Finnbogadottir (1930-), confermata successivamente per altre due volte, nel 1984 e nel 1988. Anche questa coalizione non riesce a guadagnare consensi, sempre a causa della crisi economica, accentuata dall’abbassamento dei prezzi delle aringhe; l’unica soluzione che appare possibile al governo è la svalutazione della moneta, insieme a una rigorosa politica salariale, che non riesce però a contrastare questo dato ormai strutturale dell’economia. Inoltre, nello stesso governo si registrano divergenze sull’annosa questione della base di Keflavik, con i comunisti che ne chiedono lo smantellamento e altri ministri disposti addirittura a potenziarla. Una svolta è segnata dalle elezioni del 1983, sia per la comparsa di nuovi soggetti politici, come il Partito delle Donne, sia per il cambio di alleanza al governo, formato dai conservatori e dal Partito del Progresso, il cui leader Steingrímur Hermannson guida l’esecutivo. La politica di austerità del governo e una nuova svalutazione della moneta provocano diversi e reiterati scioperi, che non portano però a un cambio dell’esecutivo fino alle elezioni del 1987. Intanto il Paese è al centro dell’attenzione internazionale per avere ospitato, nell’ottobre 1986, il vertice tra il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e il presidente dell’Unione Sovietica Michael Gorbacëv; già in passato, nel maggio 1973, si era tenuto sempre a Reykjavik l’incontro tra Richard Nixon e Georges Pompidou. Del resto l’Islanda, situata tra il continente americano e quello eurasiatico, ha sempre svolto un ruolo di mediazione e ha importato tecnologia sia dagli Stati Uniti sia dall’Unione Sovietica. L’Islanda, negli anni successivi, affronta la crisi economica, senza riuscire peraltro a superarla con decisione. Nell’aprile 1987 vengono sconfitti i partiti di governo ma la nuova coalizione, formata da ben tre partiti (dell’Indipendenza, del Progresso e Popolare-Socialista), si scontra con le medesime difficoltà, riproponendo le misure deflazionistiche e i provvedimenti di svalutazione. Negli anni Novanta prosegue la recessione, annullando l’ottimismo che per breve tempo, all’inizio del decennio, era stato prodotto da una fugace ripresa. Le misure restrittive, d’altronde, diventano sempre più necessarie quanto più procede l’integrazione europea, dalla quale l’Islanda non può rimanere totalmente esclusa, anche se l’isola non fa comunque parte a pieno titolo dell’Unione Europea, non potendo accettare il principio dell’importazione sul suo territorio dei prodotti ittici degli altri Paesi. L’Islanda fa invece parte a pieno titolo dell’ONU, della NATO e dell’OCSE. La politica estera non conosce più in questi anni tensioni con i Paesi europei e, nonostante un’economia strutturalmente debole, la coalizione di governo è confermata sia nelle elezioni del 1995 sia in quelle del 2000. L’opinione pubblica, dopo aver manifestato per anni il proprio dissenso verso una classe politica incapace di proporre soluzioni efficaci per i problemi economici, sembra essersi rassegnata alla difficile situazione dovuta alla perdita di valore della risorsa economica più preziosa dell’isola. A confermare questa tendenza all’immobilismo è anche la scarsa partecipazione alle elezioni della presidenza della Repubblica: Olafur Ragnar Grimsson (1948-), che ha sostituito nel 1996 la signora Finnbogadottir, è riconfermato nel maggio 2000 perché lo sfidante, Assthòr Magnùsson, non è riuscito a presentare in tempo le firme necessarie a sostenere la sua candidatura.
È anche vero che, negli ultimi decenni, l’Islanda è diventata sempre più meta turistica e, tra i mesi di giugno e di settembre, le attività legate al turismo producono importanti entrate economiche. L’attività turistica, infatti, provoca la riconversione di molte iniziative imprenditoriali e offre al Paese nuove prospettive di sviluppo.