L’islamismo oggi
L’ultimo decennio del 20° sec. ha evidenziato i limiti e le crisi dell’islamismo militante, sia dal punto di vista ideologico sia sotto il profilo dell’azione politica. In quegli anni divenne evidente che la speranza di costituire in un qualsiasi Paese uno Stato islamico attraverso sollevazioni popolari era da considerarsi ormai tramontata. La rivoluzione islamica in Iran del 1979, che in un primo momento era apparsa come un possibile modello di riferimento, si era poi rivelata inadatta (viste le sue motivazioni, le sue peculiarità confessionali e i suoi caratteri nazionali) a innescare movimenti analoghi in altri Paesi musulmani. Lo spettacolare omicidio del presidente egiziano A. al-Sadat (1981), che nelle intenzioni degli esecutori avrebbe dovuto essere seguito da un’insurrezione più o meno generalizzata, aveva anch’esso registrato una sostanziale indifferenza della grande opinione pubblica.
Alle frange più estreme dell’islamismo radicale non restò dunque altra scelta che quella di una profonda revisione dei propri metodi e obiettivi. È proprio alle soglie del nuovo millennio che comincia a profilarsi quella trasformazione dell’islamismo che alcuni studiosi, per differenziare questa fase dalle fasi precedenti, sono propensi a definire neofondamentalismo. La caratteristica principale di questa evoluzione è consistita in un ulteriore allontanamento da ogni presupposto tradizionale e religioso dell’islam, che i neofondamentalisti ignorano e verso il quale provano scarso interesse, per ribadire la natura ormai esclusivamente ideologica e politica del movimento. Fallito ogni tentativo di suscitare consensi attorno alla realizzazione di un non meglio definito Stato islamico, i vertici delle organizzazioni più radicali hanno fatto ricorso ad azioni di crescente spettacolarità mediatica, scollegate fra loro e senza una finalità politica immediata, con l’unico scopo di accreditarsi come unici veri difensori dei valori islamici e di delegittimare i regimi colpevoli di collusione con l’Occidente (in primo luogo Arabia Saudita, Egitto e Pakistan).
La prima conseguenza di questa mutazione è stata il progressivo declino delle istanze nazionali, che sino ad allora avevano polverizzato i movimenti islamisti in una galassia di organizzazioni locali, per far posto a un progetto che richiamasse sempre più l’attenzione sul carattere internazionale e antioccidentale dell’azione islamista. Attori principali di questa nuova tendenza sono il saudita O. Bin Laden e l’egiziano A. al-Zawahiri. Pur se caratterizzati da origini e da formazioni diverse, entrambi hanno sperimentato la lotta armata nel corso del jihad antisovietico in Afghanistan negli anni Ottanta del Novecento, proseguendo successivamente l’esperienza nel periodo di esilio e peregrinazioni in Sudan, Yemen ed Europa, fra il 1992 e il 1995. La svolta internazionalista fu evidenziata da alcune azioni militari e attentati terroristici di particolare rilievo, messi a segno per indicare nel «nemico lontano», gli Stati Uniti, il nuovo obiettivo della lotta islamista: in questa logica vanno inquadrati gli attacchi contro i soldati statunitensi a Mogadiscio (Somalia) nell’ottobre 1993; l’incursione a Khobar (Arabia Saudita) del giugno 1996; i sanguinosi attentati contemporanei contro le ambasciate statunitensi in Kenya e in Tanzania del 7 agosto 1998; l’attacco alla nave da guerra USS Cole nel porto di Aden (Yemen) dell’ottobre 2000. Nel 1998, Bin Laden e al-Zawahiri furono fra gli ispiratori e i firmatari di un documento volto a costituire un Fronte islamico internazionale contro gli ebrei e i crociati.
Il documento, infarcito di citazioni del Corano e di insegnamenti del profeta scelti in maniera estremamente selettiva, rappresentava un nuovo ed efficace modello comunicativo, con il quale si intendeva risvegliare l’orgoglio musulmano allo scopo di riscattare le secolari umiliazioni subite a opera dell’Occidente. L’intento era quello di suscitare, sfruttando una morale islamica universalmente condivisa, quei consensi che le opposizioni islamiste nazionali non erano riuscite a ottenere. La finalità primaria di tutto il movimento rimaneva pur sempre l’abbattimento di alcuni regimi islamici, ma per sensibilizzare le masse e chiamarle alla mobilitazione si voleva utilizzare la sponda della guerra al nemico occidentale.
Il Fronte non era e non intendeva essere una concreta realtà politica o organizzativa. In realtà, dietro di esso c’era il nuovo protagonista dell’islamismo radicale estremo, emergente in quegli anni, anche se pressoché sconosciuto alle opinioni pubbliche: al-Qa‛ida. Le origini di questa entità (il cui nome in arabo significa «la base») vengono fatte risalire all’incirca al 1988, quando Bin Laden creò uno strumento informatico (qa‛ida al-ma’lumat, corrispondente all’inglese database) nel quale registrare i dati relativi ai vari militanti e alle organizzazioni con cui era entrato in contatto durante il periodo dei combattimenti in Afghanistan. Attorno a questo archivio elettronico si è andata con il tempo costituendo una concreta organizzazione, anche se vi sono dubbi sul fatto che essa possa essere considerata una precisa e definita struttura. Più che una «centrale del terrore», come viene descritta in molte fonti informative, al-Qa‛ida è probabilmente costituita da una serie non sempre omogenea di legami e contatti, di volta in volta attivati per l’esecuzione di azioni mirate.
La necessità da parte di al-Qa‛ida di compiere gesti sempre più appariscenti si concretizzò nella realizzazione di un clamoroso e spettacolare atto terroristico, che portò l’attacco al cuore stesso della potenza egemone dell’Occidente. L’11 settembre 2001 un gruppo di attentatori suicidi si impossessò di alcuni aerei di linea e li fece abbattere contro obiettivi di rilevante significato simbolico nel territorio degli Stati Uniti. Gli attentati ebbero una risonanza mondiale inaudita, innescando una serie di conseguenze politiche internazionali di vastissima portata. La popolarità di al-Qa‛ida e di Bin Laden crebbe vertiginosamente, centrando in tal modo uno degli scopi principali dell’azione. Alcuni mesi dopo l’evento (dicembre 2001), al-Zawahiri cercò di sfruttarne la portata propagandistica con la diffusione di uno scritto, Cavalieri sotto la bandiera del profeta, la cui principale preoccupazione sembra essere stata quella di ridurre le distanze fra le masse islamiche e le avanguardie rivoluzionarie di cui egli si è sentito il primo ideologo. In questo atteggiamento si può rilevare tutta la fragilità della scelta strategica di al-Qa‛ida, che al di là di una indubbia ma superficiale popolarità, sembra ancora non aver acquisito il consenso sperato. È in questo quadro che va probabilmente interpretato il successivo crescendo di azioni terroristiche di ampia portata contro i Paesi occidentali, come gli attentati di Madrid (marzo 2004) e di Londra (giugno 2005), precedute e seguite da una sequenza di imprese analoghe in Paesi musulmani.
Questa impennata dell’estremismo terrorista ha apparentemente portato a un vicolo cieco. Da una parte, la violenza del jihad globalizzato non ha guadagnato alla causa islamista fette significative dell’opinione pubblica; dall’altra, quella stessa opinione pubblica si è sentita minacciata dalla durezza delle reazioni occidentali, sviluppando una notevole diffidenza nei confronti di riforme democratiche imposte dall’esterno. In questo modo, gli unici ad aver tratto vantaggio dalla situazione sembrano essere i regimi locali, che hanno potuto intensificare la repressione delle opposizioni islamiste in nome della lotta al terrorismo, e al contempo rimandano l’ormai improrogabile riforma politica interna col pretesto che non si possono meccanicamente trapiantare in tempi rapidi i sistemi sociali e di governo elaborati dall’Occidente. Una ulteriore confusione è imputabile al fatto che talvolta questi regimi vengono definiti come moderati, solo perché alleati dell’Occidente nella politica internazionale.
Così, per es., il rapporto fra l’Arabia Saudita e i suoi oppositori viene spesso rappresentato come uno scontro fra l’islamismo moderato e l’islamismo radicale. Invero, i sauditi rappresentano l’ideologia rigorista della setta wahhabita e sono stati i principali responsabili della diffusione nel mondo islamico di un fondamentalismo puritano. Essi però non hanno mai favorito le tendenze rivoluzionarie dell’islamismo nel campo sociale e politico. Timorosi verso ogni tendenza che mirasse a scardinare gli ordini costituiti, hanno costretto all’opposizione le ali oltranziste dei movimenti islamici, pur condividendo con essi la medesima impostazione di fondo. Si è acceso così un dibattito serrato sul concetto della guerra legittima (jihad) e sulla sua utilizzazione. Inteso nella sua accezione moderna di lotta armata contro i poteri costituiti, il jihad è stato condannato dai wahhabiti e da altri cosiddetti moderati, più per motivi di opportunità politica che non per coerenza teologica, mentre l’islamismo estremista ne ha fatto l’essenza del suo messaggio rivoluzionario. Una divaricazione ancor più evidente si è manifestata allorché il concetto di jihad è stato associato alla violenza degli attentatori suicidi, che l’islam tradizionale non aveva mai autorizzato e che era rimasta sconosciuta anche al precedente radicalismo. I wahhabiti negarono che gli attentati suicidi potessero essere equiparati a un martirio, mentre i movimenti rivoluzionari cercarono (il primo esempio risale al 1989) di legittimare in base ai principi islamici l’utilizzo di questa forma estrema di lotta.
Ben diversa è la situazione di un’altra variante dell’islamismo, che più propriamente potrebbe aspirare alla qualifica di moderato. Si tratta di una serie di formazioni politiche, di associazioni private, di organizzazioni non governative e di tendenze ideologiche che non si identificano nella causa della violenza armata. Pur potendo contare su una base sociale più ampia rispetto al radicalismo estremo, questi movimenti sono apparsi del tutto impotenti nella fase attuale. I loro rappresentanti non sono riusciti in genere a evidenziare con chiarezza la loro distanza dall’islamismo rivoluzionario, finendo con l’assumere posizioni incerte e non di rado ambigue. Alcuni studiosi, come il linguista egiziano N. Abu Zaid (contro il quale i fondamentalisti hanno imbastito un processo che l’ha condotto all’esilio in Europa), hanno persino messo in dubbio che vi sia reale distinzione fra islamismo radicale e islamismo moderato, sostenendo che fra queste due tendenze vi è una semplice diversità di intensità, e non di genere. In ogni caso, molti islamisti-riformisti si sono dimostrati inefficaci nelle loro proposte politiche, che tentano di coniugare in maniera non del tutto convincente concetti tipici dell’ideologia occidentale (democrazia, giustizia sociale, diritti umani) con elementi caratteristici della civiltà islamica. L’intento è quello di non fare apparire le riforme come incompatibili con i principi dell’islam, ma il risultato è stato finora modesto e non ha trovato una larga condivisione.
Esemplare è, a questo proposito, lo scenario dell’islam trapiantato in Occidente. Le comunità musulmane immigrate in Europa o in America, strette fra il richiamo delle proprie origini e il desiderio di integrazione, sono alla continua ricerca di una nuova identità. Gli intellettuali d’origine islamica, ma nati nell’Occidente o cresciuti nella sua cultura, si sforzano in varia misura di reinterpretare il passato islamico alla luce del pensiero europeo. Le proposte sono ovviamente diverse, e oscillano fra una vera e propria metamorfosi dell’identità islamica e un atteggiamento più conservatore, ma nessuno di questi intellettuali sembra poter rappresentare davvero l’universo delle comunità immigrate, e del resto le loro idee hanno una scarsa ricaduta nei Paesi d’origine. L’equivoco di fondo che pesa su tutti questi tentativi è quello di ritenere che una certa occidentalizzazione della mentalità islamica porti necessariamente la società musulmana ad atteggiamenti più moderni e liberali. In realtà, come numerosi studi hanno messo in luce, l’islamismo deve molto del suo bagaglio culturale e ideologico all’odierna civiltà occidentale, e l’occidentalizzazione non è dunque incompatibile, anzi in molti casi addirittura favorisce l’assunzione di idee nonché di atteggiamenti tipicamente fondamentalisti.
Delusi dall’immobilismo politico-sociale dei loro Paesi d’origine, ma decisi a non confondersi semplicemente con la civiltà che li ospita, molti giovani musulmani scelgono la via di una comunità virtuale, realizzata attraverso lo strumento più appariscente della globalizzazione: Internet. I siti islamici cui questi giovani accedono in modo crescente propongono di solito un islam convenzionale, generico e conformista, che si avvicina più alle idee dell’islamismo che non a quelle della religione tradizionale.
È proprio sul concetto di tradizione che si è radicato uno degli equivoci più diffusi a proposito dell’islam contemporaneo. L’islamismo è stato in genere etichettato dagli studiosi occidentali come un movimento tradizionalista, laddove invece tutta la sua storia ha rappresentato un rovesciamento dei valori della cultura islamica tradizionale. Questo malinteso ha finito per influenzare settori sempre più ampi delle odierne società musulmane, che così vedono nelle idee dell’islamismo (non ha importanza se moderato o radicale) un rassicurante ritorno alle proprie radici, ignorando che esso rappresenta al contrario una profonda frattura rispetto al passato dell’islam. In modo analogo, anche molti intellettuali contemporanei che intendono trovare ricette alternative all’islamismo si sono fatti ingannare da questo errore di prospettiva e tendono a confondere le idee apparentemente conservatrici del radicalismo moderno con la tradizione secolare dell’islam.
Ma islamismo e tradizione non stanno dalla stessa parte. Quest’ultima non si identifica né con il progressismo dell’islam laicizzante, né con le ideologie politiche e sociali del fondamentalismo, né con l’apparente conservatorismo religioso di alcuni Stati, né tantomeno con i programmi rivoluzionari della violenza islamista. La tradizione sopravvive principalmente nel mondo del sufismo e delle confraternite, che ancora governa ampi consensi nelle società musulmane, un mondo flessibile e accomodante, rispettoso di principi, ma aperto agli adattamenti, rigoroso, ma non rigorista. È da presumere che una parte significativa del futuro si giocherà proprio fra gli elementi rimasti fedeli alla tradizione e tutte queste altre varianti moderne dell’islam.
Si vedano anche e