L'islam: Abbasidi e Fatimidi
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gli Abbasidi governano dal 750 al 1258, quando i Mongoli trucidano il loro ultimo califfo. Mezzo millennio in cui l’economia e la cultura fioriscono prodigiosamente ma che, dall’assassinio di al-Mutawakkil (861) ad opera dei suoi militari turchi, conosce un progressivo quanto inarrestabile decadimento istituzionale. La nascita degli Stati nazionali, se può apparire un elemento negativo, col moltiplicarsi delle corti genera tuttavia maggiori committenze, in grado di condurre a significativi nuovi progressi le arti e le scienze.
Gli Abbasidi – malgrado amassero presentarsi come “dinastia benedetta” rispetto agli Omayyadi, da essi pretestuosamente accusati di indifferenza religiosa – inaugurano la loro gestione del califfato di al-Andalus con una strage dell’ampia famiglia dinastica sconfitta. Tale atto sanziona anche la fine dell’assoluto predominio arabo della umma (malgrado anche gli Abbasidi fossero arabi e imparentati addirittura con gli Omayyadi), a causa dell’ingresso dei convertiti non-arabi nella gestione della società islamica.
Fondamentalmente iranici sono i due pilastri su cui s’appoggia il nuovo potere. Persiano è infatti in gran parte l’apparato militare – chiamato Khurasanìyya per essere stato formato nell’ambiente arabo-persiano del Khorasàn, la regione a nord-est della Persia – e persiana è la macchina burocratica, la cui efficienza è garantita dalle indubbie doti della famiglia dei Barmecidi (dal nome del loro epigono Barmak). La stessa cultura, ivi compresa quella religiosa, è non poco influenzata dalla religiosità sasanide, malgrado non debba essere trascurato il possente contributo dei dotti siriaci, greci, copti o israeliti.
Dal II secolo islamico (seconda metà dell’VIII - prima metà del IX secolo) si cominciano a scrivere testi di carattere religioso ma, in loro funzione, anche di carattere biografico, geografico, storico-annalistico e giuridico.
Il patrimonio conoscitivo delle popolazioni assoggettate e di quella indiana (l’ingresso armato nel subcontinente avviene già in età omayyade, quando nel 711-712 si conquista il Sind, attuale provincia delPakistan) è possibile grazie alla massiccia opera traduttoria in gran parte dei convertiti, che arricchisce lo scarno patrimonio arabo, fondamentalmente costituito da poesia, epica e da studi di genealogia degli Arabi, oltre a quel minimo di medicina popolare nota come “medicina del Profeta”.
L’iranicità del califfato è sottolineata dallo spostamento del baricentro politico-economico dal Mediterraneo verso le regioni mesopotamico-iraniche, con la fondazione da parte del califfo al-Mansur di Baghdad (762), destinata a diventare sotto tutti i profili la più autorevole concorrente di Costantinopoli, non solo sul piano militare o economico ma anche culturale.
Si deve infatti ricordare la Casa della Sapienza (Bàyt al-Hìkma), sviluppata dall’832 dal califfo al-Ma’mun dal primo nucleo privato voluto dal padre, Harùn al-Rashid a imitazione della sasanide Giundishapùr, organizzata nel 271 come centro di traduzioni dal greco e siriaco in lingua medio-persiana e come biblioteca e centro medico, al fine di applicarne i benefici ai ricoverati.
Anche la Bàyt al-Hìkma è infatti un nosocomio in cui s’insegna e pratica la medicina greca, persiana e indiana, perfezionando il cammino intrapreso fin dal 706 a Damasco nel primo ospedale islamico, sorto per volere dell’omayyade al-Walid I – il primo centro medico in Europa sarà nell’898 il senese Spedale di Santa Maria della Scala –, così come una biblioteca ricca di circa mezzo milione di volumi sacri e profani, provenienti da ogni dove e inseriti in un catalogo generale dopo essere stati tradotti in arabo.
La Bàyt al-Hìkma è anche un osservatorio astronomico in cui agiranno matematici e scienziati la cui fama giunge abbastanza presto nel mondo cristiano: al-Khuwarizmi – cui si deve il termine “algoritmo” –, al-Kindi – noto nell’Europa latina come Alkindus –, i fratelli matematici del IX secolo noti come Banu Musa, Hunayn ibn Ishaq – latinizzato in Johannitius –, l’astronomo e matematico Thabit b. Qurra – Thebit – o al-Razi – noto ai latini come Rhazes.
Biblioteca non unica, perché a Cordova il califfo omayyade andaluso, al-Hakam II ne vanterà una di 400 mila volumi, meno ricca di quella d’un suo suddito, mentre la Dar al-Hìkma della Cairo fatimide (1005-1068) ne conterà 600 mila esemplari. Cifre che umiliano le scarne dotazioni librarie del mondo cristiano latino coevo, tra l’altro d’impianto quasi esclusivamente religioso.
Ciò è reso possibile dall’ampia disponibilità di ottima carta, i cui procedimenti di fabbricazione sono appresi l’indomani della battaglia del Talàs, grazie al know how trasmesso da prigionieri di guerra cinesi. È la sagacia barmecide a far immediatamente sorgere le prime cartiere a Samarcanda e a Baghdad, poi moltiplicatesi in tutto il mondo islamico arabo, persiano, indiano, egiziano, siriano, siciliano e di al-Andalus.
L’espansione abbaside prosegue verso Oriente, mentre al califfato sfugge totalmente l’estremo occidente maghrebino e l’iberico al-Andalus, dove nel 756 riesce a insediarsi l’omayyade ‘Abd al-Rahman ibn Mu‘awiya, scampato ai massacri abbasidi.
L’area di maggior impegno diviene quella al di là del fiume Oxus (la Transoxiana), dove è presente il variegato elemento turco, ma quella forse di maggior interesse diviene dal IX secolo l’immenso bacino del Tarìm, nel Turkestan orientale, in cui si ha il fruttuoso contatto tra la cultura tibetana, mongola, cinese e persino coreana.
I traffici si sviluppano con progressione geometrica, facendo affluire enormi ricchezze materiali nel califfato, tanto che i commerci abbasidi si estendono dal Nord Africa alla Cina, in cui a Canton sarà consentita dall’imperatore la costruzione d’un emporio che peraltro non avrà sempre vita facile.
Il ruolo abbaside viene contestato fin dall’inizio dagli Alidi che reclamano per sé il titolo califfale che ritengono debba spettar loro di diritto e che getteranno le basi dello sciismo dopo l’818, quando fallisce la politica di riconciliazione apparentemente perseguita dal califfo al-Ma’mun.
Il rigido centralismo califfale è incrinato nell’800 da Harùn al-Rashid, che vuole attribuire al turcoIbrahìm ibn al-Aghlab l’emirato ereditario d’Ifrìqiya (odierna Tunisia, Tripolitania più le propaggini orientali algerine) perché vi stronchi l’insurrezionalismo endemico dei Kharigiti. Se quest’atto può però essere interpretato come un esempio di virtuoso decentramento, le prime vistose crepe nell’edificio istituzionale, evidenziate già con la strana morte di al-Mahdi e col violento contrasto alla fine dell’VIII secolo fra al-Hadi e suo fratello Rashid, si aprono con la devastante guerra civile tra l’810 e l’813 che contrappone i figli di quest’ultimo – al-Amìn e al-Ma’mun – al primo dei quali il comune padre aveva voluto affidare la dignità califfale e tutti i domini africani e asiatici, e al secondo il ricco Khorasàn.
La vittoria di al-Ma’mun è una vittoria di Pirro. Distrutta di fatto la Khurasanìyya (i cui appartenenti, identificandosi col potere, si facevano chiamareAbnà ad-Dàwla, “Figli della dinastia”) e sradicata per evidente gelosia da Rashid la troppo popolare famiglia dei Barmecidi, è necessario reclutare un nuovo esercito. Il fratello di al-Ma’mun (poi suo successore), al-M‘utasim, ritiene opportuno giovarsi dell’elemento turco, in parte di condizione libera ma per lo più di condizione servile. Ne fa un’arma estremamente efficiente ma il legame che si crea fra loro è assolutamente personale, del tutto differente da quello della Khurasanìyya che aveva combattuto con la dinastia abbaside per una causa ritenuta giusta e dalle vigorose connotazioni etiche e sociali. La iattanza manifestata fin dagli esordi dal nuovo esercito induce al-M‘utasim ad allontanarlo dagli abitanti di Baghdad, trasferendolo con sé nella nuova città di Samarra (835), rimasta capitale abbaside fino all’892.
Lo strapotere dell’elemento turco (in realtà anche sogdiano, corasmio, cazaro, curdo, armeno, arabo e berbero) si mostra già con l’elezione, da essi imposta, di al-Mutawakkil che però paga con la vita la sua volontà di condurre in prima persona i giochi politici. Quando egli cade assassinato dai suoi “Turchi” nell’861, anche la fine per il califfato è segnata, sebbene i “Comandanti dei credenti” sopravvivano per altri quattro secoli circa, ridotti però a puro simbolo di un’unità della umma perduta per sempre, neppure in grado talora di comandare i servitori del loro stesso palazzo.
I fenomeni centrifughi non devono tuttavia essere visti come un segno di assoluta decadenza. Se questa può essere ipotizzata sul piano politico-istituzionale, sotto un profilo sociale, economico e culturale non si assiste ad alcun ripiegamento, con le periferie finalmente in grado di affrontare i loro problemi, troppo spesso trascurati dalla rapacità sfruttatrice del potere centrale, liberando concrete energie propositive troppo a lungo compresse in un impero dalle enormi dimensioni ma non più bene organizzato come in epoca barmecide.
Il drammatico declino califfale è dimostrato dalla rivolta servile che tra l’869 e l’883 squassa il meridione mesopotamico, giungendo a un passo dal conseguire la vittoria finale, prima di essere stroncata da uno strenuo impegno che costa lutti, risorse e immagine.
Alle contrade di al-Andalus – logicamente ostili agli Abbasidi fin dal 756 – s’aggiungono nell’877 anche quelle dell’Egitto, governato dal turco Ahmad ibn Tulun e dai suoi successori, nonché il Nord Africa in cui nel 909 s’afferma la dinastia sciita-ismailita degli Arabi Fatimidi ai danni dei sunniti Aghlabìdi.
I Fatimidi – diversamente dagli altri sciiti che avevano come loro campione il cugino del Profeta, Alì – si richiamano a Fatima, figlia di Maometto. Pur originari della Siria, trovano terreno fertile per la loro ambiziosa causa nell’Ifrìqiya in cui i Berberi, ostili al potere aghlabide, rispondono con entusiasmo alla loro propaganda clandestina, determinando la vittoria finale fatimide nella battaglia di al-Urbus nel 909.
Per abbattere gli “usurpatori” abbasidi, gli imamfatimidi dovevano necessariamente muovere verso Oriente, conquistare l’Egitto e la Siria e infine aggredire l’Iraq per vibrar loro il colpo finale.
Dopo alcuni tentativi, l’Egitto è infine conquistato nel 968 e la cittadella del Cairo e la moschea-università di al-Àzhar diventano l’anno dopo la capitale (invece di al-Mahdiyya) e il simbolo spirituale e religioso del nuovo potere.
Mentre le regioni nord-africane vengono affidate ai vassalli berberi Ziridi, la successiva tappa siriana si rivela costellata di mille difficoltà, in buona parte causate dalla estrema frammentarietà del quadro istituzionale, etnico, sociale e religioso, in cui si confrontano sedentari e nomadi, cristiani, ebrei e musulmani – tanto sunniti quanto sciiti – nonché Arabi, Turchi, Cazari, Turcomanni e Selgiuchidi, i quali ultimi, dal 1055, diventano i nuovi potenti “protettori” del califfo abbaside, in sostituzione degli sciiti Buwayhidi che avevano imposto nel 946 la loro “tutela” a Baghdad.
La potenza selgiuchide vanifica il piano dei Fatimidi, riuscendo ad allontanarli da Damasco e occupando Gerusalemme, il cui governo è affidato nel 1086 ad Artuq ibn Ekseb. I Fatimidi riescono a prendere con un colpo di mano la Città Santa nel 1098 ma, a distruggere per sempre ogni loro speranza, sopraggiungono infine del tutto inattesi i crociati. L’averne sottovalutato le motivazioni, le indomite doti di combattenti e l’armamento pesante ma assai efficiente contribuisce al loro insuccesso mentre garantisce ai cristiani d’Europa una protratta fama di invincibilità.
I Fatimidi debbono rassegnarsi ad attendere tempi migliori e persino a rifluire verso sud, dopo aver perso nel 1099 Gerusalemme ad opera dei guerrieri venuti d’Europa.
La dinastia comincia a perdere buona parte del favore fino ad allora manifestatole dai suoi sudditi egiziani già sotto il dissennato governo dell’imam al-Hakim – che nel 1009 distrugge la chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme (poi ricostruita dai Bizantini a seguito d’un accordo col successore di al-Hakim) – concluso bruscamente da un complotto ordito forse dalla sorella Sitt al-Mulk. Il declino viene accelerato da una serie di eccezionali quanto drammatiche calamità (carestie, pestilenze, siccità) che si susseguono fra il 1065 e il 1072.
Un governo militare quanto mai efficiente, affidato dall’imam al-Mustansir al suo governatore armeno di Acri, Badr al-Jamali e, alla sua morte, al figlio di questi, al-Afdal, rimanda la resa finale dei conti, mentre gli Ziridi si rendono inaspettatamente indipendenti in Ifrìqiya, venendo legittimati assai volentieri dal califfo abbaside ma subendo le devastanti ritorsioni fatimidi che gli scatenano contro i feroci nomadi Arabi delle tribù dei Banu Sulaym e dei Banu Hilàl.
Costretti a barcamenarsi fra crociati e Zengidi sunniti di Norandino, afflitti da brutali contrapposizioni familiari, i Fatimidi debbono infine accettare nel 1169 il vizirato del curdo Shirkùh, vassallo di Norandino e, alla sua morte poco più di due mesi dopo, del nipote Saladino, che mette fine alla dinastia fatimide nel 1171, subito dopo la morte senza eredi dell’imam al-‘Adid.
Da tutto questo complesso e dinamico quadro i califfi abbasidinon possono trarre vantaggi, costretti anzi a subire tra il 945 e il 1055 l’umiliante tutela degli sciiti Bùyidi (o Buwàyhidi) e, successivamente, quella dei sunniti turchi Selgiuchidi.
Neppure costoro però – che pure avevano vibrato colpi decisivi all’Impero bizantino a Manzicerta (1071) – sanno impedire ai Mongoli di Hulegu di mettere a ferro e fuoco l’Oriente islamico e di piombare nel 1258 sulla “Città della pace”.
Con l’uccisione di al-Musta‘sim perisce dopo 626 anni anche l’istituto califfale, malgrado un suo succedaneo sopravviva al Cairo per legittimare il potere dei Turchi Mamelucchi. Rivendicato infine dai Turchi ottomani che mettono fine al sultanato mamelucco, esso dura a Istanbul fino al 1924, anno in cui è dichiarato estinto nell’ambito della famiglia ottomana.