Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Durante il Rinascimento e nella prima metà del Seicento la filosofia universitaria si sviluppa in un serrato confronto tra le differenti anime della classicità e del Medioevo. In questo composito scenario la matematizzazione della fisica costituisce il principale elemento di discontinuità rispetto al passato. La dinamica dialettica che sorge dalla globalità di questi fattori riplasma la cultura universitaria in una molteplicità di forme, fornisce alcuni degli elementi portanti dei sistemi filosofici dell’età moderna e, dai primi decenni del Settecento, è a propria volta forgiata da questi ultimi.
L’invenzione e il diffondersi della stampa a caratteri mobili costituiscono un evento che, a partire dalla seconda metà del Quattrocento, rivoluziona la propagazione del sapere in Europa. Gli humanistae (ossia i docenti, anche universitari, e i maestri di materie letterarie e morali; da cui il termine “umanista”) ne fanno ampio uso, pubblicando una moltitudine di edizioni e traduzioni di opere di autori antichi e tardoantichi. I teologi e gli artistae (ossia i docenti, presso le “facoltà” universitarie delle “arti”, della fisica generale e delle sue parti) non sono però da meno dei loro colleghi humanistae. Essi non solo pubblicano un numero esponenzialmente crescente di opere originali, ma curano l’edizione di molti testi di autori del XIII e XIV secolo. Il sorgere della Riforma protestante e gli scontri dottrinali che ne seguono stimolano ulteriormente l’interesse verso i padri della Chiesa, dando così un impulso alla pubblicazione delle loro opere. Lo zelo editoriale riguarda anche le opere di Aristotele e dei suoi commentatori. Nel 1495-98 Aldo Manuzio pubblica la prima edizione delle opere di Aristotele in greco. Negli anni successivi vengono pubblicati, in originale e in traduzione, i testi dei commentatori greci, in larga misura di orientamento neoplatonico. In risposta a questa “offensiva” platonizzante, nel 1550-52 viene stampata da Tommaso Giunta una nuova traduzione di tutte le opere note di Aristotele corredata da una traduzione parzialmente nuova dei commenti di Averroè.
Nella storia del pensiero universitario del XVI secolo occupano un posto particolarmente rilevante le tensioni e i moti religiosi. Ancor prima del sorgere della Riforma protestante, nel 1513 il papa Leone X promulga una bolla che da un lato conferma come dogma di fede le tesi per cui l’anima è forma del corpo, è immortale, è creata direttamente da Dio ed è una per ogni corpo umano; dall’altro obbliga i docenti di materie filosofiche a difendere filosoficamente tali tesi allorché essi trattano l’argomento. La stessa Riforma protestante si inserisce nelle tensioni politico-religiose che caratterizzano il XV e l’inizio del XVI secolo. Da un lato essa eredita le spinte anti intellettualistiche – e per ciò stesso anti-universitarie – monastiche e umanistiche. Nelle prime fasi della riforma Martin Lutero (1483-1546) scrive che presto non resteranno al mondo né tomisti, né albertisti, né scotisti, né ockhamisti, ma tutti saranno semplicemente figli di Dio e veri cristiani. D’altro lato, è però anche certo che il conflitto tra protestantesimo e cattolicesimo era stato preparato da almeno due secoli di dibattiti concernenti precisamente le questioni oggetto delle controversie tra riformatori e cattolici. Lo stesso Lutero non è né un semplice avversario della cultura universitaria, né un pedissequo seguace di una delle correnti fondamentali della filosofia e teologia universitarie quattrocentesche; al contrario, così come gli altri principali autori universitari tardomedievali, è un pensatore capace di accogliere dottrine diverse dalle diverse scuole e correnti e di formulare una sintesi propria.
In ambito cattolico, l’interazione tra i moti di riforma precedenti il sorgere del protestantesimo e quelli conseguenti alla necessità di confrontarsi con le varie forme assunte da quest’ultimo genera numerose trasformazioni. La più radicale consiste nell’ulteriore consolidamento dell’assolutismo papale e nella completa assimilazione in esso del cattolicesimo. Componente fondamentale di questo processo è la costituzione presso la curia romana di organismi deputati a vigilare sull’ortodossia di dottrine e persone, tra i quali la Santa Inquisizione (1542) e la Congregazione dell’Indice (1571). L’istituzione di questi organismi si ripercuote sul ruolo – ecclesiastico, politico e sociale – delle facoltà di teologia in genere e, in particolare, della facoltà di teologia dell’università di Parigi. Esautorate della funzione di arbitri, o almeno di periti, in campo dottrinale, tali facoltà diverranno progressivamente mere ripetitrici di posizioni stabilite altrove. Altrettanto importanti per il destino delle facoltà di teologia degli “studi pubblici” furono l’istituzione dei seminari per la formazione del clero e la creazione di facoltà teologiche interne ai singoli ordini religiosi. Benché tali strutture si siano diffuse e consolidate con relativa lentezza, esse hanno in ultimo sottratto alle facoltà “pubbliche” di teologia sia il compito di formare l’alto clero, sia il dinamismo degli autori più innovativi. Le concrete modalità di sviluppo della “Riforma cattolica” produssero effetti anche sulla storiografia filosofica e teologica. La lieve prevalenza dei teologi tomisti su quelli scotisti al concilio di Trento (1545-1563) fece sì che i documenti conciliari fossero formulati nel lessico tomista. Ciò non cancellò la maggior diffusione, durante tutto il secolo successivo, dello scotismo rispetto al tomismo, ma, nel lungo periodo, contribuì alla formazione dell’equivoco storiografico secondo il quale la Chiesa cattolica avrebbe stabilmente avuto in Tommaso d’Aquino (1225-1274) il proprio principale punto di riferimento.
Quanto detto non deve indurre a ritenere che in ambito cattolico fossero assenti istanze propulsive. Fin dalla fine del XV secolo gli orientamenti di politica culturale dei diversi ordini religiosi fanno capo a due grandi famiglie: lo scotismo e il tomismo. Nessun ordine religioso fa proprio né l’albertismo, né il nominalismo, che – come scuole – scompaiono rispettivamente alla fine del XV secolo e negli anni Trenta del XVI. Al contrario, a partire dalla fine del XVI secolo, si assiste a una moltiplicazione delle forme assunte sia dallo scotismo che dal tomismo. Nell’ambito degli “studi pubblici” conserva grande vitalità una forma autonoma di aristotelismo. Frutto paradossale di disposizioni pontificie quattrocentesche, esso non è una scuola (o più scuole) in senso stretto, bensì un fascio di tradizioni dottrinali che mantengono un legame forte – per quanto non esclusivo – con i testi aristotelici e, al contempo, traggono da essi spunti e ispirazione per una molteplicità di dottrine in ambito gnoseologico, epistemologico e morale. Complesso è anche il rapporto tra le facoltà universitarie e le tradizioni dottrinali sostenute dai singoli ordini religiosi. Ove esistono facoltà di teologia pienamente operative, si conservano cattedre di teologia sia in via Thomæ che in via Scoti. Ove tali facoltà sono solamente collegi d’esame, le cattedre in questione vengono incardinate nelle “facoltà” delle arti. Si assiste anche all’attivazione di cattedre di metafisica in via Thomæ e in via Scoti, anch’esse incardinate nella facoltà delle arti.
Anche la Riforma protestante segna profondamente la vita degli atenei dei Paesi nei quali si diffonde. Essa cancella istantaneamente non solamente gli studi degli ordini religiosi, ma anche gli internati e le cattedre degli studi “pubblici” riservati a uno specifico indirizzo speculativo, l’utilizzo delle opere di Aristotele come testi di base dell’istruzione universitaria, la metodica della disputa e gli stessi gradi accademici. I primi due mutamenti risultarono definitivi, ma gli altri tre ebbero vita breve. Nel giro di pochissimi anni, a seguito principalmente dell’opera di Filippo Melantone (1497-1560), le lezioni tornano ad avere come punto di riferimento, almeno in ambito logico, i testi di Aristotele, la disputa viene reintrodotta come strumento didattico e prova d’esame e i gradi accademici vengono ripristinati. Va tuttavia aggiunto che nelle università protestanti penetrarono profondamente sia istanze anti- intellettualiste, sia metodiche e ideali umanistici. Sul piano dottrinale, una volta scomparse le distinzioni tra antiqui e moderni, o tra albertisti, tomisti, scotisti e nominalisti, il mondo protestante si divide nelle diverse confessioni riformate, che non riescono a confluire in un filone unico; come conseguenza, a partire dalla seconda metà del Cinquecento le stesse università protestanti cominciano a differenziarsi sulla base dell’indirizzo confessionale.
Gli anni a cavallo tra XVI e XVII secolo vedono il declino del genere letterario del commento e lo sviluppo del manuale sistematico. Con l’espressione “manuale sistematico” non si intende qui un testo in cui l’intero ambito del sapere sia dedotto a partire da uno o più principi primi. Si intende, invece, un’opera in cui la disposizione degli argomenti affrontati trova giustificazione non nell’ordine dei temi discussi in un testo anteriore, bensì nella volontà di rendere manifesta al lettore la natura stessa degli oggetti esaminati e dei nessi che li collegano. Il manuale sistematico non è un’invenzione della fine del Cinquecento, nondimeno le tendenze culturali e politiche del XV secolo avevano favorito il genere letterario del commento. Nella prima metà del Cinquecento il genere del commento è ancora largamente in uso, tuttavia nella seconda metà del secolo la situazione muta. In ogni disciplina la quantità di dati e posizioni da presentare al lettore va aumentando esponenzialmente. A causa di ciò, diviene sempre più difficile sia rispettare la sequenza dei temi stabilita dall’opera che gli statuti universitari pongono come testo di riferimento, sia presentare i nuovi orientamenti come semplici possibili delucidazioni di quel testo. Contemporaneamente al sorgere di questo disagio, gli autori del Cinquecento discutono con impegno crescente la questione delle corrette procedure di acquisizione ed esposizione delle discipline. Questi dibattiti suscitano forti aspettative di rigore metodologico e spingono a considerare i testi di Aristotele come bisognosi, in sede di esposizione, di opportune “risistemazioni”.
Sia in ambito cattolico che in ambito protestante, ulteriori forze spingono nella direzione del cambiamento. Nei territori cattolici, l’opera dei docenti delle facoltà delle arti ha dissipato l’equivoco – opera dei tomisti quattrocenteschi – secondo il quale il pensiero dello Stagirita coincide, nei suoi tratti essenziali, con la dottrina cattolica. Ciò si traduce dapprima nella ricerca di commenti, antichi o di nuova stesura, che permettano di superare tale divario, poi nella formulazione di una nuova prospettiva. In essa Aristotele mantiene il ruolo di punto di riferimento principale, ma la “vera” filosofia viene esposta non più nella forma di un commento alle sue opere, bensì in modo “diretto”. In ambito protestante, la riflessione di Pietro Ramo (1515-1572) circa il metodo dell’acquisizione e dell’esposizione del sapere imprime negli autori calvinisti un forte impulso a esporre i contenuti delle discipline secondo uno schema indipendente dalle opere di Aristotele. Gli autori luterani, pur ostili al pensiero di Ramo, sviluppano anch’essi testi sistematici sia a seguito dell’esempio costituito dalla pubblicistica cattolica sia, soprattutto, nel contesto dei dibattiti che li contrappongono ai calvinisti.
Come conseguenza di queste istanze, nel volgere di pochi anni si compie il passaggio dal commento al riordinamento delle materie in forza delle interne esigenze delle stesse, fino al vero e proprio “corso”, suddiviso in “discussioni” (disputationes). Durante il Seicento dalle stamperie europee esce una moltitudine di corsi di filosofia e (ancora però legati a qualche opera di riferimento) teologia. Essi possono essere di varia natura: completi o dedicati a singole parti della disciplina; sintetici o ponderosi; di basso profilo o di grande impegno speculativo; in latino o – nel caso di testi filosofici – in volgare. Essi si differenziano anche quanto a contenuto. Alcuni autori non si richiamano ad alcun pensatore determinato. È questo solitamente il caso di opere filosofiche elaborate nell’ambiente di uno studio “pubblico”. Altri si rifanno esplicitamente a qualche “maestro” medievale: Giovanni Duns Scoto, Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, Egidio da Roma, Giovanni Baconthorpe. In ambito cattolico, anche autori quali Anselmo d’Aosta, Bernardo di Clairvaux o Dionigi il Certosino vengono presi, in teologia, come punti di riferimento. È questo, per lo più, il caso di opere elaborate nel contesto di un ordine religioso e, non di rado, a seguito di una sollecitazione proveniente dai vertici dell’ordine stesso. Anche in ambito protestante si danno distinzioni e divisioni, e anche in questo caso le sollecitazioni originate dalla competizione tra le diverse “autorità religiose” rivestono un ruolo fondamentale.
Lo sviluppo della filosofia in ambito universitario dal tardo Medioevo al XVII secolo è un fenomeno complesso e dinamico. Nondimeno, nella prima metà del Seicento ha luogo un cambiamento di portata tale da permettere di collocare precisamente in quegli anni il punto di separazione tra due epoche: l’età dell’aristotelismo e l’età moderna. Questo cambiamento ha luogo innanzi tutto nell’ambito della fisica. La fisica di matrice aristotelica presenta due caratteristiche fondamentali. In primo luogo, interpreta i fenomeni naturali come effetto della natura di sostanze e della conseguente presenza o assenza nei corpi di certe proprietà. In secondo luogo, essa concepisce il moto uniforme non come uno stato, bensì come una forma di mutamento. Negli ultimi anni del Cinquecento e nei primi anni del Seicento un gruppo di autori, tra i quali emerge per chiarezza e linearità Galileo Galilei, sviluppa una fisica che prescinde dalla prospettiva di fondo della fisica di matrice aristotelica e respinge la tesi ora ricordata circa la natura del moto uniforme. Alla prima oppone la tesi secondo la quale i fenomeni naturali sono spiegabili in termini di dimensione, figura e movimento. Alla seconda oppone il principio di inerzia: il moto uniforme di un mobile non richiede alcun agente applicato continuativamente a esso. Ciò permette a Galilei di superare gli ondeggiamenti degli autori universitari a proposito dell’applicabilità della matematica alla fisica e di trasformare quest’ultima in una scienza espressa in un linguaggio formalizzato le cui asserzioni e previsioni sono confrontabili con il dato in modo relativamente diretto.
La svolta impressa alla fisica da Galilei non nasce dal nulla. Gli elementi che costituiscono le dottrine del pensatore pisano sono stati preparati da numerose tradizioni speculative e culturali tardomedievali e rinascimentali. Il tomismo, facendo propria la tesi averroista della coimplicazione di materia ed estensione, offriva remotamente la possibilità di intendere la matematica come una scienza degli enti reali materiali distinta dalla filosofia naturale. Lo scotismo forniva la tesi dell’attualità minima della materia a prescindere dalla forma e la convinzione secondo la quale la conoscenza delle essenze delle cose sensibili sia sempre puramente indiziaria. Nei decenni centrali del XIV secolo i cosiddetti calculatores, in Oxford, avevano già tentato di fondere fisica aristotelica e fisica archimedea. Nel Cinquecento l’aristotelismo padovano aveva descritto il processo di acquisizione della scienza nei termini di un iter che si compone sia di induzione che di deduzione. Infine, gli umanisti avevano riportato alla luce le opere di Archimede e dei matematici greci, le quali avevano a loro volta suscitato un clima di rinnovato interesse per la matematica anche in ambito universitario. La svolta stessa, inoltre, risponde alle aspirazioni non solamente degli uomini di cultura in genere, ma anche degli autori universitari. In effetti, le dottrine galileiane divengono immediatamente oggetto di discussione in ambito universitario precisamente perché l’universalità degli studiosi di filosofia naturale aspirava a strumenti teorici di indagine dei fenomeni fisici più potenti di quelli a disposizione.
Le reazioni degli scrittori universitari alla svolta costituita dalla matematizzazione della fisica sono, nel corso del Seicento, complesse e diversificate. Alcuni ignorano completamente la nuova fisica. Altri prendono in esame le nuove dottrine al fine di confutarle. Altri accolgono alcune specifiche dottrine della nuova fisica – in particolare di ambito cinematico e dinamico –, tuttavia le collocano entro un quadro dottrinale di riferimento di tipo tradizionale. Altri ancora accolgono le nuove dottrine disponendole però in un quadro espositivo tradizionale. Altri, infine, riorganizzano la stessa esposizione del sapere. Benché, come si è detto, non manchino tentativi di confutare la nuova fisica, la maggioranza degli autori tende a creare sintesi tra le antiche e le nuove prospettive. Gli stessi fautori della nuova fisica usualmente non respingono le strutture concettuali della fisica aristotelica, ma le interpretano in termini meccanicistici. Alcuni scrittori si muovono in un contesto istituzionale relativamente libero, quale quello di alcuni studi “pubblici”; altri sono soggetti a una forte pressione disciplinare. Ad esempio, l’ostilità dell’influente filosofo e teologo calvinista Gijsbert Voet (1589-1676) portò, alla fine degli anni Quaranta del Seicento, al bando del cartesianesimo dalle università olandesi. La decisione dei vertici della Compagnia di Gesù – formulata negli anni Quaranta del Seicento e mantenuta fino agli anni Settanta – di obbligare i membri dell’ordine ad aderire ad Aristotele ostacolò gli sforzi degli studiosi della Compagnia di conciliare aristotelismo e nuova fisica, li costrinse a trattare i fenomeni fisici in termini di “fatti singolari” e li portò a separare la ricerca matematica da quella fisica. Ancora negli anni Novanta del Seicento la Curia romana – Sant’Uffizio in testa – era contraria alla fisica matematizzata e voleva giungere alla proibizione delle opere non solamente di Galilei, ma anche di pensatori quali René Descartes (1596-1650) e Pierre Gassendi (1592-1655). Ciononostante, a partire dagli anni Ottanta anche in ambito cattolico, e in particolare entro la Compagnia di Gesù, le tendenze eclettiche prendono il sopravvento: le dottrine della fisica aristotelica vengono interpretate o in termini non fisici, o in termini non aristotelici, mentre lo spazio dedicato a matematica, fisica e scienze naturali nei corsi sistematici a opera di autori universitari diviene sempre più ampio, pur conservando la trattazione entro la physica generalis delle sostanze spirituali intese come enti naturali.
La svolta costituita dalla matematizzazione della fisica costituisce certamente la più importante discontinuità nella storia della filosofia tra il Trecento e il Settecento. Essa genera, anche tra le fila degli autori universitari, la convinzione che il piano complessivo delle scienze costruito sulle opere di Aristotele dovesse essere ridisegnato. Nondimeno, essa non fu l’unico tra i fattori che determinarono le caratteristiche del pensiero universitario a cavallo tra XVII e XVIII secolo. In primo luogo, gli statuti di molti studi “pubblici” continuarono a prescrivere la lettura e l’interpretazione dei testi canonici – Aristotele, Galeno, Avicenna – fino al pieno Settecento. In secondo luogo, il diffondersi della nuova fisica non ebbe alcun effetto, fino agli inizi del Settecento, sul numero delle cattedre dedicate alla metafisica o a materie teologiche, a proposito delle quali va piuttosto osservato il crescente attrito tra la tradizionale teologia dogmatica e l’ermeneutica biblica e, entro quest’ultima, l’accrescersi della gravità delle questioni relative alla storicità dei testi biblici e alle modalità della loro formazione. Da ultimo, va segnalato che nella seconda metà del Seicento gli studi “pubblici” entrano in uno stato di crisi profonda, sia a causa della rigidità dei loro statuti che per effetto delle politiche protezionistiche messe in atto da diversi paesi europei. In ambito cattolico poi gli studi “pubblici” subiscono anche la concorrenza di quelli appartenenti a ordini religiosi – in particolare alla Compagnia di Gesù –, i quali conoscono, tra la metà del Seicento e la metà del Settecento, il loro periodo di maggior splendore.
Nel primo quarto del XVIII secolo una nuova generazione di docenti di fisica, formatisi sostanzialmente al di fuori dell’insegnamento degli studi “pubblici”, sale sulle cattedre di queste istituzioni portando i metodi, i contenuti e i dibattiti della scienza sperimentale del tempo: dapprima quelli tra i fautori della fisica cartesiana e i fautori della fisica newtoniana; poi quelli tra i fautori della fisica newtoniana e i fautori della fisica leibniziana. I cattedratici del Settecento interpretano il proprio ruolo di espositori di opere “canoniche”, utilizzandole come semplici punti di partenza per trattare in autonomia gli argomenti sollevati in esse.
Con ciò, non si deve credere che la nuova fisica sperimentale abbia portato alla scomparsa della fisica in senso “filosofico” e della metafisica. Le questioni circa l’atomismo e il corpuscolarismo, la natura delle forze, i diversi tipi di forze, il rapporto della forza con la materia, la conservazione o dispersione della forza, sono trattate, nei decenni a partire dalla fine del Seicento, come temi autenticamente filosofici. Le celebri quattro antinomie esposte da Immanuel Kant nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura ben riassumono lo stato del dibattito circa i principali problemi affrontati dalla fisica nel Settecento, anche in ambito universitario: se il mondo sia finito o infinito nel tempo e nello spazio; se vi siano o non vi siano cose non ulteriormente scomponibili; se si dia nella natura solo causalità deterministica o anche indeterminazione; se si dia o non si dia un ente necessario che sia causa del mondo. Altrettanto emblematiche sono le formulazioni che lo stesso Kant assegna alle prove dell’esistenza di Dio: ontologica, cosmologica e fisico-teologica.
Sarebbe tuttavia scorretto deliminare il pensiero filosofico universitario settecentesco all’ambito della fisica. Ne è una prova l’ampiezza dell’opera di Christian Wolff (1679-1754), per decenni un punto di riferimento per la cultura dell’intera Europa. E non va trascurato neppure l’ideale enciclopedico che caratterizza non pochi docenti settecenteschi. Accanto a costoro vanno segnalati anche quanti, prevalentemente all’interno degli ordini religiosi cattolici, reinterpretarono le nozioni fondamentali della filosofia naturale aristotelica in modo da sottrarle ai risultati raggiunti dalla nuova fisica e da ogni verifica sperimentale. L’opera di questi autori ha un significato prevalentemente ideologico, nondimeno anch’essa contribuisce allo sviluppo della storia della filosofia, ponendo la possibilità di una filosofia naturale esplicitamente distinta da una fisica matematizzata e non passibile di falsificazione sperimentale.