Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La riconquista di Costantinopoli nel 1261 segna la rinascita dell’Impero bizantino, che, tuttavia, si trova fin da subito ad affrontare gravi problemi economici e, per tutto il XIV secolo, una situazione di ricorrente instabilità interna, provocata da dissidi dinastici e religiosi, con lo scatenarsi della controversia esicastica. Di questa situazione approfittano i Turchi ottomani, in grande espansione.
Michele VIII Paleologo, che nel 1261 riconquista Costantinopoli realizzando l’aspirazione dell’Impero bizantino in esilio, stanziato a Nicea da più di 50 anni, scopre ben presto i costi del proprio trionfo. Da un lato, la riconquista dell’antica capitale, spogliata di tutto durante la dominazione latina e bisognosa di un vastissimo programma di restauri e ricostruzioni, e la volontà di ripristinare i fasti dell’antica corte imperiale fanno immediatamente aumentare la pressione fiscale, soprattutto a detrimento delle floride province asiatiche (il vero motore dell’espansione nicena), e provocano una svalutazione monetaria. Dall’altro, il reinsediato imperatore deve fronteggiare una minaccia particolarmente insidiosa nella persona di Carlo d’Angiò, che nel 1266 ha sostituito Manfredi come re di Napoli e di Sicilia, e che, mirando in ultimo alla conquista di Costantinopoli, in breve tempo è divenuto un punto di riferimento per tutti i nemici del Paleologo.
Michele VIII, più che con operazioni militari, riesce ad avere la meglio sul proprio rivale attraverso un uso sottile della diplomazia. In primo luogo, cerca di delegittimare l’azione del proprio nemico intavolando trattative con il papato per riunificare le Chiese cattolica e ortodossa, fino a giungere alla proclamazione di unione in occasione del concilio di Lione nel 1274, anche se questo comporta una fortissima opposizione interna. In secondo luogo, nel 1282 Michele VIII riesce a suscitare, con abbondante profusione di denaro, la rivolta dei Vespri siciliani, destabilizzando così definitivamente le posizioni di Carlo d’Angiò, che da quel momento non rappresenta più un problema per Costantinopoli.
Al di là di queste manovre diplomatiche e di alcuni innegabili successi, il regno del primo dei Paleologhi è afflitto però da una serie di problemi strutturali. La questione principale che Michele e i suoi successori devono affrontare è legata alla soffocante pressione economica e commerciale esercitata dall’Occidente, in particolare da Genova e Venezia. L’apparato statale risulta poi logorato dalla sempre maggiore espansione della pratica della pronoia. Si tratta, sostanzialmente, della cessione, da parte dello Stato, delle rendite fiscali di un determinato luogo a un funzionario di vario tipo, spesso semplicemente un militare, che era così autorizzato a riscuotere il proprio stipendio direttamente dai contribuenti senza passare per la mediazione del Tesoro. La pratica era diffusa già in età comnena, ma diviene ereditaria solo a partire dall’epoca paleologa, e ciò fa sì che si possa parlare di “feudalesimo bizantino”.
Il successore di Michele, Andronico II, eredita dal padre uno Stato che dietro una facciata di apparente successo nasconde crepe sempre più profonde e insanabili. Si vanno guastando il tessuto sociale (con l’emergere di pochi latifondisti, che per giunta beneficiano di sempre più diffuse immunità fiscali ereditarie) e quello economico; per cercare di far quadrare in qualche modo il bilancio, Andronico procede a drastici tagli dell’organico militare. È sul fronte asiatico che la politica di disarmo ha i risultati più disastrosi.
Per tentare di arginare il flusso costante di bande turche che saccheggiano l’Anatolia e cominciano a insediarvisi, si deve far ricorso a una rinomata compagnia di mercenari catalani, che tuttavia in breve si rivela incontrollabile e, dopo aver devastato la Tracia, giunge a impossessarsi di Atene nel 1311, tenendola in proprio possesso per oltre 70 anni. A complicare ulteriormente la situazione si aggiunge la ribellione del nipote dell’imperatore, Andronico III, giovane scapestrato che tuttavia ha l’appoggio delle nuove generazioni della nobiltà bizantina, e, ricorrendo tra l’altro a demagogiche promesse fiscali, si è fatto numerosi proseliti anche tra la popolazione; nel 1328 riesce finalmente, dopo anni di guerra civile (di cui approfittano tutti i nemici dell’impero), a costringere il nonno ad abdicare. Il nuovo imperatore, insieme al proprio alter ego Giovanni Cantacuzeno, nel tentativo di stemperare le crescenti tensioni sociali, cerca di migliorare il sistema giudiziario; prova poi, con scarsi risultati, a riacquistare il terreno perduto in campo militare.
Alla morte di Andronico III, il megas domestikos Giovanni Cantacuzeno assume la reggenza per il piccolo Giovanni V Paleologo. Vi è subito una forte opposizione interna a tale ingombrante tutela, e quando i nemici del Cantacuzeno ottengono il controllo della capitale, quest’ultimo assume la corona (pur continuando a riconoscere i diritti di Giovanni V) e si appoggia alla nobiltà della Tracia nel tentativo di avere la meglio sui propri avversari. La nuova, lunga e rovinosa guerra civile fa maturare ed esplodere, una dopo l’altra, le differenti tensioni – ecclesiastiche, politiche, sociali – che vanno covando ormai da anni nel malandato Stato bizantino. Al dissidio propriamente politico si va intrecciando innanzitutto un violento scontro religioso. Questa volta oggetto del contendere è una pratica mistica ortodossa, l’esicasmo. I cosiddetti “esicasti” (da hesychia, “quiete”) propugnano una prassi che consiste nel ripetere continuamente in condizioni di particolare concentrazione la “preghiera di Gesù” (“Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me”): ciò dovrebbe condurre a contemplare la stessa luce divina increata vista dagli apostoli sul monte Tabor in occasione della Trasfigurazione. L’esicasmo, che nel XIV secolo ha grande successo soprattutto negli ambienti monastici, trova anche una serie di duri oppositori (come il monaco calabrese Barlaam), che vi vedono solo una pratica superstiziosa. Ciò dà origine a una battaglia, condotta inizialmente all’interno di concili e poi esplosa in termini più concreti quando il grande teologo Gregorio Palama, capofila degli esicasti, è imprigionato dal patriarca Giovanni Caleca, legato alla fazione politica avversa al Cantacuzeno.
In passato si è spesso sostenuto senza mezzi termini che i sostenitori di Giovanni Cantacuzeno fossero esicasti, quelli del suo principale avversario Alessio Apocauco antiesicasti; in realtà la linea di demarcazione non è sempre così netta, ma si può comunque affermare che il dissidio religioso e filosofico (Palama e i suoi sono vicini al neoplatonismo, i loro avversari all’aristotelismo) contribuisce ulteriormente a rendere torbide le acque e a esacerbare gli animi. Risulta invece più evidente il legame tra le due fazioni e i due poli opposti della società: Apocauco avversa duramente l’aristocrazia fondiaria, e fomenta più o meno direttamente le rivolte popolari di cui la più celebre è quella di Tessalonica, che per sette anni si trova nelle mani del partito dei cosiddetti Zeloti (peraltro nemici dichiarati degli esicasti, oltre che della nobiltà terriera), i quali la reggono con una forma di governo più volte paragonata a una “comune rossa”. Per l’impero, già squarciato e attraversato da tali dissidi e tensioni interne, è poi particolarmente nefasto il ricorso, da parte dei contendenti, ad appoggi esterni: se il Cantacuzeno si allea con elementi turchi (in particolare il sultano ottomano Orkhan) le cui truppe mettono a ferro e fuoco la Tracia, Apocauco e la corte di Costantinopoli si rivolgono invece a Serbi e Bulgari, che per il loro aiuto pretendono ampie concessioni territoriali. Dopo la morte di Alessio Apocauco, il declino della fazione costantinopolitana è inarrestabile e nonostante alcune mosse disperate – come l’ingaggio di inaffidabili mercenari turchi rivelatisi poi del tutto fuori controllo, o come le inaspettate aperture verso i palamisti –, niente può più impedire che nel 1347 Giovanni Cantacuzeno rientri nella capitale e riassuma le redini del potere, mantenendo come co-imperatore il giovane Giovanni V Paleologo.
Non sorprende che in breve sia divampato un nuovo conflitto interno tra i due sovrani, con tutto il consueto corollario di disgrazie per lo Stato (compreso l’inizio dello stanziamento degli Ottomani in Europa, a Gallipoli). Solo nel 1354 Giovanni V riesce, con un colpo di mano, a deporre il Cantacuzeno, aiutato dai Genovesi che per questo ottengono Lesbo, l’isola più grande fra quelle rimaste a Bisanzio. L’impero stremato e i Balcani nuovamente frammentati dopo la morte del grande sovrano serbo Stefano Dushan non possono niente contro l’avanzata degli Ottomani. Dopo la storica battaglia di Cernomen sulla Marizza (1371), in cui l’esercito di Murad I sbaraglia le truppe serbe e occupa stabilmente la Macedonia, anche Bisanzio, per sopravvivere, è costretta a sottomettersi ai Turchi, cui si impegna a versare un tributo annuo e a fornire contingenti di armati.