L’imperialismo
Le espressioni «colonia», «impero» e «imperialismo» indicano concetti simili ma non coincidenti. Chiarire la distinzione è necessario, se si intende giungere al nocciolo del concetto di «imperialismo». Le colonie sono coeve alla formazione dei soggetti internazionali. Dall’antichità almeno sino al dicembre 1960 (quando l’assemblea generale delle Nazioni Unite ne ratificò l’illegittimità), esse sopravvissero nelle forme che la storia conosce. Non furono quasi mai permanenti, né rappresentarono realtà comparabili. Il concetto di «impero» risale anch’esso a tempi remoti e non coincide con il concetto di «imperialismo». Si può parlare di impero egiziano o di impero romano o di Sacro romano impero, senza che ciò porti, se non incidentalmente, a vedere in ciascuna di queste definizioni un contenuto «imperialistico». L’unico aspetto comune era il controllo su un territorio diverso dalla «madrepatria». Imperialismo indica dunque qualcosa di intrinseco e pur diverso da impero, secondo una lettura affiorata durante il 19° sec. e discussa con veemenza dalla fine del sec. 19° ai giorni nostri. Nel sec. 21° si può ancora pensare che esistano territori che possono essere colonizzati (l’area asiatica settentrionale fra Russia e Cina, oppure diverse regioni dell’Africa), ma si può dubitare (non escludere) che esistano ancora imperi. Non si può invece affermare che l’imperialismo sia scomparso, nelle sue varie forme, dalla vita internazionale. Deriva da questa permanenza la necessità di individuare i caratteri fondamentali di ciò che è sintetizzato con questa definizione.
Bisogna anzitutto chiarire che il problema ha aspetti politici, ma soprattutto aspetti economico-finanziari. Durante i primi decenni dell’esplosione imperialistica, cioè dal periodo napoleonico al 1870, il rapporto imperialistico venne vissuto senza troppe remore. Occupare, sfruttare, dominare un territorio diverso da quello della cosiddetta «madrepatria» era, per usare l’incipit di una poesia scritta nel 1899 da R. Kipling, portare «il fardello dell’uomo bianco». L’espansione coloniale e lo sfruttamento delle risorse umane e materiali che essa generava erano concepiti, in sintesi, come un dovere degli europei (ai quali nel 1898 si erano aggiunti gli americani), che assumevano il compito di esportare potere e dominio ma anche la «civiltà» bianca. Questa definizione, come tante altre che si potrebbero richiamare, rispecchiava la persuasione di una superiorità culturale e tecnologica che metteva a tacere gli scrupoli umanitari. Ma si trattava di un’illusione che apparteneva solo a una visione astratta e poetica della «missione civilizzatrice» dell’Occidente. L’inizio della resistenza dei popoli colonizzati e l’ostilità critica verso le spese coloniali, dalle quali pochi traevano beneficio, avrebbero assai presto avviato il dibattito sul senso del colonialismo nella sua declinazione imperialistica. In India, dalla metà dell’Ottocento, in Etiopia, nel 1896, in Cina, dal 1900, le popolazioni indigene si ribellarono al dominio dall’esterno e, almeno nel caso dell’Etiopia, lo resero per allora impossibile.
L’avvio critico venne dato da uno studio del britannico J.A. Hobson che nel 1902 pubblicò un saggio dal titolo Imperialism nel quale, pur senza delegittimare il colonialismo, ne discuteva l’opportunità, argomentando che esso era il frutto della spinta che alcuni gruppi di interesse ben definiti gli davano, per ricavare profitto dalle risorse coloniali. Seguirono le critiche derivanti dallo sviluppo di concetti che K. Marx aveva messo in evidenza sia nella prefazione al volume Zur Kritik der politischen Ökonomie (1859) sia nella prima parte del libro primo di Das Kapital. Nel 1910 R. Hilferding, nel volume Das Finanz kapital, definì l’imperialismo come espressione della necessità del sistema finanziario occidentale di trovare rimedi efficaci alla caduta del saggio di profitto negli investimenti tradizionali; al suo seguito in primo luogo Lenin, nel 1916, scrisse il saggio su L’imperialismo, fase suprema del capitalismo; e R. Luxemburg interpretò l’imperialismo come rimedio all’inevitabile crisi del capitalismo. Erano, queste, tesi che mettevano in luce l’aspetto legato all’analisi della finanza globale, più che quelli legati alla sostanza effettiva del rapporto imperialistico. Che qualcuno beneficiasse dell’imperialismo lo sostenne anche J. Schumpeter che indicò come suo primum movens la volontà di potenza delle caste militari. La fine della Prima guerra mondiale segnò il momento di svolta, con il riconoscimento wilsoniano del principio di autodeterminazione e con il diffondersi, dall’India alla Cina, all’Egitto, al Medio Oriente, all’Africa di movimenti anticoloniali. Dopo di allora la difesa del sistema coloniale (non necessariamente quella dell’imperialismo) divenne solo una lotta di retroguardia poiché, a parte l’espansionismo mussoliniano, nessuno statista considerò più le imprese coloniali come una prospettiva realistica. Tutti si affrettarono o a nascondere ambizioni analoghe sotto forme ambigue (come il regime dei «mandati», creato con la Società delle nazioni o, in seguito, il regime di amministrazione fiduciaria, legittimato nella carta dell’ONU), oppure a travestire le funzioni precipue dell’imperialismo sotto altre forme, meno giuridicamente visibili: dal neocolonialismo dei regimi «referenziali» agli accordi d’area, alla prassi delle grandi organizzazioni bancarie, finanziarie e tecnologiche, estesa non più a rapporti bilaterali ma a processi multilaterali, confluenti infine nella cd. globalizzazione.
L’esaurirsi della spinta a crescere territorialmente non paralizzò, infatti, la volontà di mantenere il controllo su ciò che già si possedeva, anche a costo di lunghi e logoranti conflitti, come, per fare solo qualche esempio, quelli che ebbero luogo in Algeria, in Vietnam, in varie parti dell’Africa, in Indonesia. Ma perché combattere per mantenere ciò che era ormai diventato un peso economico e militare? È sufficiente ricorrere alla nozione di politica di potenza, in anni di «guerra fredda» (1945-89)?
Una riflessione sul concetto di imperialismo suggerisce che le interpretazioni tradizionali, prevalentemente collegate all’analisi e soprattutto al problema del saggio di profitto in declino o all’esistenza di gruppi di potere interessati alle imprese imperiali, colgono solo alcune parti del fenomeno. A tale proposito è utile ragionare sul fatto che il rapporto imperialistico è sopravvissuto alla crisi e alla fine del colonialismo. Ciò significa che nella sua intima sostanza esso è collegato a una serie di problemi più complessi o comprensivi. Pare necessario, in proposito, risalire alla circostanza che il colonialismo contemporaneo nacque e prosperò parallelamente alla Rivoluzione industriale, in funzione della necessità di determinate merci (o materie prime) e del calcolo comparativo dei costi e dei trasporti concorrenziali. Il problema delle forniture di cotone grezzo per l’industria tessile, che per prima si sviluppò con la Rivoluzione industriale alla fine del sec. 18°, aiuta a chiarire questo punto in tal senso. Chiuso, o più difficile, o più costoso il mercato del grezzo americano, i britannici si volsero prima verso l’India e, dopo la rivolta del 1856-57, verso il grezzo egiziano. Non a caso le azioni della società per la navigazione nel Canale di Suez furono acquistate, nel 1874, dagli inglesi che nel 1882 estesero all’Egitto la loro occupazione militare.
Senza che sia necessario tener presente un solo genere merceologico, ciò che spicca nell’insieme è che al cuore del problema era la necessità di favorire la circolazione delle «merci» e di poterne manovrare con libertà i «costi»: costi della materia prima, della sua prima lavorazione, del trasporto, del controllo del mercato, della trasformazione in manufatti, del trasferimento di tecnologie, della formazione di personale qualificato. Se si estende questo profilo analitico da una sola categoria merceologica a tutte quelle che da allora caratterizzarono sistemi di scambio diseguali, si colgono gli infiniti aspetti del rapporto esistente fra madrepatria e colonia e si deve concludere che il fulcro della politica imperialistica era dato dalla necessità di far sì che tutti gli anelli della catena funzionassero a dovere. Il che solo in parte dipendeva dall’esistenza di un controllo politico-militare, ma contribuisce a spiegare le motivazioni della politica coloniale come politica di potenza.
Questo insieme di temi consente di separare il concetto di impero da quello di imperialismo. L’impero precede, accompagna o segue determinati investimenti? La teoria secondo la quale (così Lenin sull’espansione coloniale italiana in Libia) gli investimenti in un territorio risucchiassero poi la pressione sul potere politico per un controllo militare del territorio stesso non è generalizzabile. Basti pensare, per rimanere ancora nell’ambito dell’impero ottomano, alla competizione fra Gran Bretagna, Francia e impero germanico prima del 1914 per avere la visione della misura nella quale gli investimenti non precedettero l’occupazione. La ferrovia Berlino-Baghdad non era concepita per conquistare l’impero ottomano ma per controllarlo e per aggirare il vincolo di Gibilterra e Suez nei commerci austro-germanici verso Oriente. Il vantaggio prodotto dall’imperialismo fu la crescita impetuosa del sistema industriale e finanziario europeo e statunitense. Tuttavia questi limiti, che accreditano l’insieme come un processo di crescita diseguale, debbono almeno in parte essere corretti, se non altro per il fatto che l’imperialismo innestò nella vita di regioni arretrate, o abbandonate a signorie locali senza controllo, innovazioni strutturali relative sia alla tecnologia, sia allo sfruttamento, anche locale, delle risorse agrarie e delle materie prime (esemplare il caso del petrolio), sia alla, spesso lenta ma inarrestabile, evoluzione dei sistemi sociali, come mostrano i casi della Cina, dell’India, del Brasile e di molti altri Paesi in via di sviluppo. Crescita diseguale, dunque, e a costi diseguali, per un sistema di trasferimento di merci e prodotti; ma anche crescita tendente a una riduzione delle diseguaglianze in un sistema globalizzato. Nel 2010 è la Corea del Sud che delocalizza la sua produzione nella miseranda Haiti, speculando sulla forte diversità dei costi del lavoro. Così come imperialismo alla rovescia è quello che chiama mano d’opera illegale, senza il vincolo dei costi e delle garanzie sociali.
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