di Franco Venturini
All’alba del suo secondo mandato presidenziale, nei primi mesi del 2013, Barack Obama era ancora
un messaggero di speranza per gran parte del mondo. Soprattutto per gli alleati europei degli Stati Uniti, come rilevò il German Marshall Fund of the United States nel suo annuale rapporto. Certo, non tutto nella politica internazionale di Washington stava andando bene: la spaventosa guerra civile in Siria proseguiva senza che qualcuno riuscisse a fermarla, sui programmi nucleari dell’Iran non si registravano progressi, il dopoguerra in Libia si confermava sinonimo di un caos che era già costato la vita all’ambasciatore Chris Stevens, e in Egitto l’esperimento di democrazia islamica guidato da Mohammed Mursi era sull’orlo del fallimento. Ma nel complesso l’immagine di un presidente idealista che faceva il possibile davanti alle convulsioni del mondo rimaneva fortemente impressa nelle opinioni pubbliche internazionali.
Il 2013, però, aveva in serbo per il capo della Casa bianca un frenetico alternarsi di novità positive e negative, capaci di modificare il profilo esterno di Barack Obama senza che sia ancora possibile stabilire se sia destinata ad avere il sopravvento un’immagine rafforzata o danneggiata. Un’osservazione tuttavia già si impone: l’Obama che voleva riequilibrare la sua politica estera volgendola maggiormente verso l’Asia, e in particolare verso la rapida avanzata cinese, ha vissuto nello scacchiere strategico del Mediterraneo e del Medio Oriente i suoi momenti peggiori ma anche quelli migliori, le sue imbarazzanti ore di indecisionismo e anche le prospettive che, adesso, lasciano intravvedere possibili clamorose rivincite. L’America pronta a riorientare verso l’Asia la sua attenzione e i suoi mezzi si è manifestata per iniziativa di Pechino e non di Washington, quando Obama ha dovuto reagire (e lo ha fatto con impegno relativo) alle prepotenze territoriali e marittime della Cina nei confronti del Giappone e di Taiwan. Ciò non autorizza a pensare che la priorità asiatica annunciata da Obama sia una mossa tattica, destinata ad evaporare con il tempo: la Casa Bianca, chiunque vi risieda, dovrà presto o tardi (più probabilmente presto) dedicare maggiore energia alla difesa dei suoi interessi in sia e ai rapporti con la Cina. Ma il 2013 non è stato l’anno della svolta, e non sarà comunque facile per gli Stati Uniti prendere le distanze dal pentolone in permanente ebollizione delle guerre e delle minacce mediorientali.
Sul piatto negativo della bilancia di Obama pesano diversi elementi. In Libia, il trascorrere dei mesi ha portato soltanto un costante peggioramento della situazione, che rappresenta per l’Occidente, e in particolare per i paesi che avevano preso l’iniziativa della guerra anti-Gheddafi, un rebus di assai difficile soluzione. Inediti, invece, sono risultati nel corso dell’anno gli avvenimenti egiziani e l’impressione insieme di confusione e di debolezza espresse dagli USA. La caduta di Mursi era probabilmente inevitabile, ed era anche scontato che a provocarla, assieme alle folle scese in piazza, fossero i militari egiziani, tradizionalmente legati a Washington e ai finanziamenti statunitensi. Eppure, il generale Abdel Fattah al-Sisi ha fatto di testa sua, respingendo i consigli americani; ha trasformato il suo nuovo potere in una dittatura con scarse prospettive democratiche; si è fatto finanziare dalle monarchie del Golfo. A ogni mossa, Obama è rimasto a guardare, dissipando, forse solo provvisoriamente, la forte influenza statunitense sul paese nordafricano.
Quanto alla Siria, in agosto Obama si è scoperto prigioniero della ‘linea rossa’ che egli stesso aveva tracciato. Dopo che i generali di Assad avevano fatto uso di armi chimiche contro i ribelli e la popolazione civile, ha dovuto annunciare un castigo militare che in realtà non voleva infliggere, per non esporre l’America a un nuovo coinvolgimento armato nella regione più instabile del mondo. Il risultato: settimane di tergiversazioni, con il presidente che ha perso molto del suo carisma dedicandosi alla politica del rinvio, e lo status degli Stati Uniti danneggiato pesantemente in tutta l’area.
Ma proprio da qui, dal disastro Siria, Obama ha preso poi la rincorsa per rovesciare la situazione a suo favore. Con l’aiuto di una Russia desiderosa di rompere l’isolamento è arrivato il patto, ratificato dalle Nazioni Unite, per la distruzione di tutti gli armamenti chimici di Bashar al-Assad. Nel frattempo la guerra civile è continuata: una soluzione politica appare ancora lontana. Ma gli Stati Uniti hanno finalmente ‘fatto qualcosa’. Subito dopo il passo avanti in Siria, è stata messa a profitto la nuova disponibilità negoziale iraniana. A Ginevra ha visto la luce un complesso accordo anti-armi nucleari che in sei mesi di tempo dovrebbe disegnare un’intesa globale con Teheran. Una svolta storica, se realizzata. Intanto Israele, benché irritato per il primo patto con l’Iran, sta trattando con i palestinesi sotto il continuo stimolo americano.
Se anche una sola di queste tre scommesse venisse vinta, come si potrebbe non ‘riabilitare’ con gli interessi l’Obama apparso debole e indeciso per gran parte del 2013?