Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’esplorazione di nuovi spazi sconosciuti è da sempre uno stimolo alla conoscenza. Anche l’uomo del Medioevo non si sottrae a questa attitudine, lanciandosi per mare alla scoperta di nuove terre al di là dell’Atlantico. La scoperta di nuovi territori porta con sé l’esigenza di codificare l’immagine della Terra in continua evoluzione attraverso carte “stradali” e mappe simboliche.
La scissione altomedievale dell’unità politica e culturale dell’impero romano porta tra le conseguenze, la difficoltà nella comunicazione e nello scambio di informazioni anche per quel che riguarda le scoperte geografiche. Di fatto, durante il Medioevo aumenta la conoscenza delle terre emerse inesplorate grazie alle intraprendenti iniziative di alcuni gruppi di viaggiatori (come gli esploratori bizantini in Asia e gli audaci navigatori irlandesi e vichinghi nell’oceano Atlantico), che tuttavia restano spesso a esclusivo appannaggio degli interessati, senza produrre un tangibile aumento di conoscenze.
Un esempio che ben testimonia questa mancanza di circolazione delle informazioni, si può riscontrare nel fatto che le spedizioni navali dei popoli del Nord alla scoperta dell’Islanda, della Groenlandia e dell’America, avvenute prima dell’anno Mille, vengono registrate e tramandate solo attraverso una letteratura postuma.
Senza servirsi di astrolabi, quadranti e bussole, i popoli del Nord percorrono immensi tratti di mare aperto sfidando l’oceano Atlantico, il confine occidentale del mondo conosciuto; nessuno al tempo infatti sa cosa ci sia oltre quella immensa distesa di mare apparentemente senza fine. Le prime esplorazioni di cui abbiamo notizia hanno come base di partenza l’Irlanda e sono condotte a bordo del curach, una piccola imbarcazione rivestita di pelli con tre o quattro remi, uno degli scafi più leggeri e maneggevoli mai costruiti dall’uomo, praticamente inaffondabile.
Quando viene descritto per la prima volta dal poeta latino Rufo Festo Avieno verso il 500, il curach solcava il mare già da qualche secolo, svolgendo un ruolo di primo piano nello sviluppo sociale ed economico di queste regioni. Strettamente legato alla storia dei popoli celtici, il curach è l’imbarcazione su cui nel V secolo san Patrizio torna in Irlanda dalla costa occidentale della Britannia e la barca sulla quale Sidonio Apollinare racconta che i pirati del Nord erano soliti attraversare il mare. È storicamente documentata anche una versione più grande dell’imbarcazione, dotata di una vela quadrata fissata a un albero centrale, con timone e àncora in ferro.
Spinti dal desiderio di scoprire luoghi isolati ove dedicarsi alla meditazione, gli eremiti irlandesi raggiungono con questi mezzi le Ebridi, le Orcadi, le Shetland e le Far Öer. Il monaco Dicuil, divenuto uno degli uomini di cultura alla corte di Carlo Magno, fornisce informazioni su una spedizione effettuata dai suoi confratelli alle isole Far Öer nell’825. Tra questi navigatori cristiani si distingue anche san Brandano, che nella prima metà del VI secolo raggiunge le Ebridi e al quale la tradizione attribuisce moltissimi viaggi per mare. La figura di questo santo marinaio è ricordata anche per una fantomatica Isola di San Brandano apparsa spesso nelle carte nautiche britanniche dell’epoca per poi scomparire solo a partire dal XIX secolo.
L’era del curach termina comunque con le invasioni dei Vichinghi in Irlanda, verso la fine dell’VIII secolo, in conseguenza delle quali cessano le condizioni pacifiche che avevano consentito lo spostamento dei monaci irlandesi oltremare, almeno sicuramente sino in Islanda dove – secondo la cronaca dello stesso Dicuil – approdano nel 795. Non è possibile sapere se, partendo da quest’ultima base, i monaci irlandesi abbiano raggiunto anche la Groenlandia, dove arrivarono invece certamente i Norvegesi. La Groenlandia stessa viene usata come base dai Vichinghi per ulteriori avanzamenti che probabilmente li portano a toccare le coste dell’America, secondo quanto racconta anche la Groenlandinga saga, la fonte più antica e affidabile da cui attingere notizie sui viaggi dei Norvegesi. La stesura di questo testo viene posta al XII secolo, ma le vicende che narra sono precedenti. Il suo protagonista è Bjarni Herjolfsson, figlio di un colono norvegese in Islanda. Abile marinaio, capace di conoscere la posizione in mare guardando il sole e di mantenere la rotta seguendo opportunamente i venti, si sarebbe trasferito in Groenlandia da dove sarebbe partito per il mare aperto avvistando e raggiungendo la costa settentrionale dell’America.
Per quanto concerne la letteratura, occorre rifarsi alle grandi opere enciclopediche dell’alto Medioevo per trovare delle informazioni di geografia. Beda il Venerabile, attenendosi a Isidoro di Siviglia, compone un’opera ambiziosa nella quale affronta temi che vanno dalla creazione del mondo alle considerazioni sugli elementi di cui è composto, con minuziose osservazioni sul firmamento, sui pianeti, sulle eclissi, sui circoli polari e sui tropici, compresa una trattazione su venti, maree e zone climatiche. Nel De rerum naturis, scritto tra l’842 e il 846, Rabano Mauro, oltre ad affrontare l’argomento dei fenomeni atmosferici, descrive alcune regioni della Terra con le relative caratteristiche: mari, coste, porti, deserti sono presentati attingendo spesso alle conoscenze popolari mediate attraverso numerosi riferimenti alla Bibbia. All’867 risale il De divisione naturae di Giovanni Scoto Eriugena che, adottando la forma del dialogo tra maestro e allievo, tocca anche il tema della geografia matematica di origine ellenistica, con precise osservazioni sulla misura della circonferenza terrestre e sul metodo seguito da Eratostene nel II secolo a.C. ad Alessandria d’Egitto per calcolarla. Esistono inoltre importanti testimonianze di letteratura di viaggio, come il De locis sanctis: il testo racconta il viaggio del vescovo franco Arculfo verso Gerusalemme attorno al 670, ma è redatto in un secondo momento dall’abate Adamnano di Iona. È l’opera che inaugura la serie di diari di viaggio in Terrasanta. Da registrare anche la Chosmographia id est mundi scriptura risalente alla metà dell’VIII secolo e composta da Aethicus Ister che narra di un immaginario viaggio intorno al mondo, in cui al contempo si forniscono informazioni sulla struttura della Terra e del Cosmo assieme a descrizioni di carattere regionale. Chiude questa panoramica il Liber de mensura orbis terrae del già citato Dicuil, che risale al primo quarto del IX secolo. Ispirandosi al De mensuratio provinciarum, trattato scritto nel IV secolo da Giulio Onorio, Dicuil intende fornire al lettore una serie di informazioni relative alle distanze tra i luoghi, con notizie su fiumi, laghi e montagne.
La rappresentazione della Terra: mappe simboliche e carte di viaggio
Una delle problematiche geografiche ereditate dall’antichità è inoltre quella della rappresentazione della Terra. Già con gli antichi pitagorici la Terra comincia a essere pensata come un globo all’interno della più ampia sfera dei cieli; questa visione viene poi accettata da filosofi, astronomi e geografi dell’età ellenistica e romana e quindi dagli studiosi altomedievali che la descrivono secondo due precisi modelli.
Da una parte c’è l’orbis quadratus, frutto delle ipotesi avanzate dal geografo Cratete di Mallo, secondo il quale la Terra presenta una divisione in quattro aree dovuta all’estensione degli oceani; due regioni sono nell’emisfero settentrionale e due in quello meridionale, quest’ultimo opposto al Mediterraneo è abitato dagli antípodes, uomini che vivono a testa in giù.
L’altro schema di rappresentazione molto diffuso è la cosiddetta mappa a T, l’orbis Terrae, che mostra un cerchio diviso dal bacino del Mediterraneo e dal fiume Nilo in tre parti corrispondenti agli attuali continenti (Asia, Africa, chiamata spesso Lybia, e Europa) circondati da un unico oceano, visto come un grande fiume circolare che accerchia le terre note. La prima raffigurazione della Terra di questo genere compare nel De natura rerum di Isidoro di Siviglia, un testo assai diffuso nell’Europa medievale che ha indotto molti studiosi a ritenere erroneamente che si fosse tornati a credere a una Terra piatta.
L’equivoco trae ulteriore alimento dall’intervento letterario di due autori cristiani: Lattanzio nelle Institutiones divinae parla di un universo a forma di tabernacolo (cioè quadrangolare) ispirandosi alla descrizione biblica dell’ecumene; qualche tempo dopo anche il bizantino Cosma Indicopleuste nella sua Topographia christiana raffigura la Terra come un tabernacolo a forma di parallelepipedo, con fondo piatto, un’alta montagna a dominarne il profilo e un arco a sovrastare la base rettangolare che raffigura l’ecumene. D’altro canto, se nel VII secolo Isidoro di Siviglia riporta la misura della circonferenza terrestre rifacendosi al calcolo del geografo siriano Posidonio di Apamea di 180 mila stadi, riferendosi alla circonferenza della “ruota terrestre”, oppure, secondo altri, della “sfera”, evidentemente i due autori cristiani non dovevano godere di troppo credito presso gli intellettuali del tempo.
A questo va aggiunto il fatto che le mappe a T sono considerate al tempo né più né meno che uno schema rappresentativo della Terra nel suo complesso, una carta simbolica senza finalità geografiche. Allo stesso modo vanno interpretate le carte regionali, che in maniera schematica intendono soprattutto fornire informazioni essenziali ai viaggiatori. Ne è un esempio la cosiddetta Tabula Peutingeriana, copia medievale della più antica carta stradale in nostro possesso. Essa prende il suo nome dal dignitario di Augusta Karl Peutinger, che nel 1507 ricevette in dono questo rotolo di pergamena lungo poco meno di 7 metri, largo 34 cm e tagliato in 11 fogli, di cui manca il primo con la rappresentazione delle regioni più occidentali del bacino del Mediterraneo. Presumibilmente risalente alla tarda antichità, la Tabula Peutingeriana è solo a prima vista una carta che si limita a mostrare tutta la rete stradale romana; in realtà, anche il lettore più distratto vi poteva trovare una miniera di informazioni su città, laghi, fiumi, montagne e confini territoriali in piena sintonia con i precetti forniti da Strabone, che aveva definito la geografia una forma di conoscenza non teorica ma, al contrario, utile e pratica, al servizio dell’uomo di governo (Geografia I, 16).
Nonostante i limiti di chiarezza, in questi documenti dobbiamo scorgere i progressi di una disciplina in continua evoluzione. Se le mappe disegnate e i testi scritti sono due strumenti della geografia della Grecia classica finalizzata a rappresentare l’ecumene o una parte di esso in uno spazio geometrizzato e narrato, le carte dell’alto Medioevo mettono insieme entrambi questi strumenti, perseguendo da un lato una finalità pratica, dall’altro simbolica, L’obiettivo di queste carte non è quindi raffigurare la realtà fisica o la forma dell’ecumene, ma rappresentare tutto ciò che è funzionale a chi deve spostarsi da un luogo all’altro, segnalando in ciascuna zona le città, i popoli, i fiumi e insieme mettendo spesso simbolicamente in risalto la posizione di Gerusalemme al centro della Terra. È per questo che le mappe medievali, ancora oggi, costituiscono documenti preziosi per ripensare la storia dell’uomo e di alcuni luoghi, percepibile anche osservando strade e simboli che parlano della trasformazione dei territori e del diverso sviluppo economico di determinate città.