Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dietro un’apparente ben definita identità europea, il Novecento si apre con la crisi dell’eurocentrismo. Le due guerre mondiali rendono sempre più controversa la definizione di “Vecchio Continente”. Nonostante le politiche di integrazione, la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda la definizione di identità europea resta ancora oggi problematica.
Oswald Spengler
Il tramonto dell’Occidente
Una cultura nasce nell’attimo in cui una grande anima si desta dallo stato psichico originario dell’eternità eternamente fanciulla e se ne distacca, come una forma da ciò che è privo di forma, come qualcosa di limitato e di perituro dall’illimitato e dal permanente. Essa fiorisce sulla base di un territorio delimitabile in modo preciso, al quale rimane vincolata come una pianta. Una cultura perisce quando quest’anima ha realizzato l’intera somma delle sue possibilità sotto forma di popoli, di lingue, di dottrine religiose, di arti, di stati e di scienze, ritornando quindi nel grembo della spiritualità originaria. [...] quello che ci appare più chiaro nei suoi contorni è il ‘tramonto dell’antichità’, mentre già oggi avvertiamo chiaramente in noi e intorno a noi i primi indizi di un avvenimento ad esso del tutto analogo per corso e durata, che appartiene ai primi secoli del prossimo millennio: il ‘tramonto dell’Occidente’.
O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Milano, Longanesi, 1981
Solo apparentemente il Novecento si apre all’insegna di una chiara e positiva percezione dell’Europa, della sua tradizione e della sua identità. Alle voci e ai segni che sembrano trasmettere al nuovo secolo la stessa fede in un’Europa centro dello sviluppo economico e morale del pianeta che aveva animato l’Ottocento (come non ricordare la Tour Eiffel, proterva sfida di ferro alzata nella Parigi dell’Esposizione Universale del 1889?), si accompagnano e si contrappongono esperienze e riflessioni che parlano già apertamente della crisi in atto di ciò che, con linguaggio successivo, verrà chiamato “eurocentrismo”. Le correnti irrazionaliste e spiritualiste vive nella cultura europea nell’ultimo scorcio del secolo precedente – da Nietzsche a Bergson – incontrano ora una maggiore diffusione e un maggiore consenso nel pubblico medio. Le arti figurative, esse pure fortemente ridiscusse dalle sperimentazioni del tardo Ottocento, trovano nelle avanguardie del nuovo secolo (cubismo, surrealismo, dadaismo) i testimoni di una dissoluzione delle forme tradizionali a cui molto contribuiscono le suggestioni derivanti dalla scoperta di culture artistiche altre (quella africana in particolare) e distanti dai modelli europei.
Al rafforzamento di queste correnti culturali contribuiscono in maniera determinante i processi storici reali. La guerra russo-giapponese che nel 1895 si chiude con la clamorosa vittoria della potenza asiatica, la rivolta dei boxers che a Pechino, nel 1905, proclama violentemente l’insofferenza contro la presenza coloniale europea o, dall’altro capo del mondo, la forte autonomia degli Stati Uniti espressasi sotto la presidenza di Theodore Roosevelt, sono alcuni dei più evidenti segnali di uno scricchiolio nella capacità di controllo globale da parte delle potenze europee e di un incipiente rimescolamento degli equilibri planetari.
La prima guerra mondiale è, sotto questo aspetto, uno spartiacque che separa due Europe. Se la prima, nonostante i segni incipienti di malessere dei quali si è appena detto, rimane comunque ancorata alla propria eredità strutturale e spirituale, la seconda – quella che segue la catastrofe del 1914-1918 – non ritrova più elementi di certezza ed è costretta, faticosamente e talvolta invano, a ricostruire tutto il lessico della propria identità. Nel libro di Oswald Spengler Il tramonto dell’Occidente, che può a giusto titolo considerarsi come uno dei figli diretti di quel conflitto sono, del resto, riassunti in maniera esemplare i termini di questa crisi identitaria. L’assimilazione dell’Europa all’Occidente per un verso sembra ridare al Vecchio Continente un forte elemento di riconoscibilità simbolica, ma in realtà tende a schiacciarlo in una dimensione che nega quella fisionomia e quella vocazione di tramite, piuttosto, tra Oriente e Occidente che è nella storia dell’Europa, una volta che essa viene assunta nella totalità dei suoi elementi costitutivi. Per altro verso, la contrapposizione ai movimenti che, nel crescere ormai evidente di una società di massa, appaiono inclini a soluzioni egualitarie che livellano e mortificano la varietà e la diversità dei soggetti, fa dell’opera di Spengler un inevitabile apripista a quelle esperienze totalitarie di destra che tra le due guerre ritrovano nella difesa della tradizione europea uno dei loro elementi distintivi.
L’Europa e la sua identità diventano, dunque, uno degli elementi che caratterizza la cultura e l’azione politica del fascismo, del nazismo e, più tardi, del franchismo, tanto più dal momento in cui, con la grande crisi economica del 1929, appare evidente il tramonto di un modello economico e sociale profondamente debitore dello sviluppo dell’Europa ottocentesca e, parallelamente, avanzano – come noterà Antonio Gramsci nei suoi Quaderni – le forme nuove del fordismo e dei consumi di massa secondo il modello americano.
In questa congiuntura assumono uno straordinario rilievo figure intellettuali come Benedetto Croce, José Ortega y Gasset, Thomas Mann, con la loro ostinata rivendicazione di una identità europea che non abbandona il proprio radicamento nella tradizione liberale, pur nella consapevolezza di quanto quella tradizione sia obbligata ora a misurarsi con le tensioni del Novecento. Comune a questi autori – lo si rintraccia in particolare nella Storia d’Europa nel secolo decimonono di Croce – è la convinzione che la nazione rimanga, nonostante le manipolazioni ideologiche di cui essa è oggetto da parte dei regimi che hanno preso il potere in Germania, in Italia, in Spagna, il contenitore storico e morale ove possono realizzarsi quei grandi ideali di democrazia e di libertà che l’Europa ha iscritto nella sua carta di identità a partire, almeno, dal XVIII secolo.
Non vi è dubbio che la seconda guerra mondiale rappresenti una replica problematica, anche se non una smentita definitiva, di queste posizioni. Non a caso la principale riflessione sull’Europa emersa dalla tragedia della guerra – il Manifesto di Ventotene redatto da alcuni intellettuali antifascisti al confino sotto la guida di Altiero Spinelli – si mostra preoccupata di fondare la prospettiva di una nuova Europa fissando precisi elementi di discontinuità con ogni eredità nazionale, in nome di una diversa lettura e una diversa articolazione – il federalismo – della storia del continente.
La divisione politica dell’Europa che fa seguito agli accordi di Yalta e alla conclusione del conflitto non pone certo termine a una discussione tra federalisti e sostenitori di un modello di Europa fondato ancora sulle nazioni o sulle “patrie”. La discussione prosegue, tuttavia, vigorosa solo in quella parte dell’Europa nella quale cominciano a prendere corpo, con la nascita della CECA (Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio), le prime esperienze di integrazione economica e istituzionale, mentre alcune delle grandi questioni che avevano fino ad allora dominato il dibattito culturale intorno alla identità europea sembrano, quasi improvvisamente e quasi inevitabilmente, accantonate. La cosiddetta “Europa di Jalta” modifica radicalmente i termini della questione dell’identità europea quale essa si era posta fino a quel momento. La nozione stessa di Europa, la sua fisionomia spaziale e la sua identità storica sono oggetto, infatti, di una totale riscrittura che per un verso, enfatizza l’asse di distinzione Est-Ovest restituendo forza alla relazione Europa-Occidente, e, dall’altro, lascia contraddittoriamente aperto il problema di una ridefinizione concettuale, oltre che, ovviamente, di una sistemazione politica dello spazio tedesco.
A partire da questa premessa non può quindi sorprendere che si affermi nella costruzione di una comunità europea l’approccio cosiddetto funzionalista, rappresentato nella sua forma più alta dall’azione di uomini come Jean Monnet e RobertSchuman. Non privo di una profonda ispirazione etica il funzionalismo di Monnet e di Schumann lavora ai processi di integrazione europea nel quadro delle condizioni storicamente possibili a partire dagli anni Cinquanta: guerra fredda e contrapposizione di blocchi sul piano generale, ripresa della sovranità nazionale sul piano specifico delle dinamiche tra Stati. È a questi “padri fondatori” dell’Europa contemporanea che si devono le grandi tappe dell’integrazione economica e politica: dopo la CECA, l’Euratom, e i Trattati di Roma che nel marzo del 1957 danno vita alla Comunità Economica Europea.
I successivi anni Sessanta e Settanta sono caratterizzati da un difficile percorso di allargamento, in un senso, delle aree di competenza comunitaria rispetto alle prerogative nazionali e, in altro senso, dell’adesione di altri Stati al nucleo primitivo costituito, come è noto, da Italia, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Olanda, Belgio e Lussemburgo. Nel clima di quei decenni, dominati da temi nuovi – la dimensione planetaria del confronto tra USA e URSS, la decolonizzazione, l’affermarsi di nuovi protagonisti della scena mondiale come la Cina comunista e di aree endemiche di conflitto, come il Medio Oriente – il faticoso irrobustimento e allargamento delle istituzioni comunitarie è accompagnato, tuttavia, da un progressivo illanguidimento della riflessione intorno alla identità europea.
È, dunque, con il mutamento totale del sistema delle relazioni mondiali determinatosi a partire dal 1989 con la caduta del muro di Berlino, la successiva riunificazione tedesca e la dissoluzione del sistema sovietico, che si è riaperta una vivacissima discussione intorno alla identità dell’Europa, alle sue “frontiere” geografiche e storiche, politiche e ideali. I processi istituzionali che hanno portato nel 1993 alla nascita dell’Unione Europea e nel maggio 2005 al suo allargamento fino a 25 Stati membri si sono determinati, questa volta, in un contesto, per così dire, aperto e sono stati, quindi, direttamente investiti dalla riflessione sulla questione identitaria. Parallelamente il gravissimo conflitto interetnico e religioso che ha lacerato il territorio della ex Jugoslavia, l’instabilità delle realtà politiche emerse dalla fine dell’URSS, e le grandi migrazioni che hanno investito l’Europa partendo spesso dal suo quadrante mediterraneo, sono stati nell’ultimo decennio del Novecento dei fattori decisivi nel tenere vivo il dibattito sulla identità dell’Europa. Ne è stata direttamente investita anche la redazione di quel trattato per una Costituzione europea che molti hanno atteso come l’atto fondativo di una nuova Europa dei popoli e dei loro diritti. Il suo Preambolo, infatti, si è dovuto impegnare in un difficile enunciato sulle radici ideali e storiche del continente che tradisce tutta la complessità attuale del tema identitario.
Agli inizi del XXI secolo l’identità europea è diventata, infatti, un tema che comincia a interrogarsi su se stesso, sulla propria fondatezza teorica (quale senso ha la definizione di identità in un mondo segnato da continui attraversamenti e meticciati) e sulla propria fondatezza storica (come costruire un percorso identitario che tenga plausibilmente insieme diversi millenni di storie che cambiano continuamente teatro di azione e protagonisti dell’azione stessa). E mentre per alcuni autori è forse ancora possibile immaginare un’identità costruita sull’accettazione delle diversità (Europa una perché molteplice), per altri è la nozione stessa che deve essere ridiscussa criticamente e forse estinguersi.