Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Molto tempo fa ho avuto fra le mani un libro sulla spedizione dei Mille, che poi con grande dispiacere non sono più riuscito a ritrovare. Il libro conteneva le schede biografiche e, quando possibile, la fotografia di tutti i 1089 garibaldini che sbarcarono a Marsala l’11 maggio 1860. Per comodità le schede erano suddivise per regioni, rendendo immediatamente visibile la netta predominanza dei lombardi, ex sudditi di Francesco Giuseppe di fresco liberati e ancora accesi d’entusiasmo nazionale, e fra loro in particolare dei bergamaschi, infiammati sostenitori, com’è noto, dell’unità d’Italia. In un’appendice al libro erano confinati quei Mille che non risultano nati in nessuna regione italiana. L’appendice s’intitolava Stranieri; e il primo era “Garibaldi Giuseppe, nato a Nizza (Francia)”.
Si può sorridere, ovviamente, di un approccio così rigido. Si può osservare che Nizza all’epoca di Garibaldi era una città mezzo ligure, e comunque appartenente al Regno di Sardegna: i confini cambiano, e con essi le identità dei luoghi. D’altra parte è pur vero che in un certo senso, Garibaldi era straniero: quando nacque, nel 1807, Nizza era stata annessa, con gran parte del Piemonte e della Liguria, alla Francia napoleonica, e il maire lo registrò all’anagrafe come il cittadino francese Joseph-Marie Garibaldi. Ma questo non sarebbe un buon sistema per giudicare dell’italianità: non sarebbero italiani, su questa base, nemmeno Alcide De Gasperi e Cesare Battisti, nati sudditi austriaci. Prima dell’esistenza di uno stato italiano unitario è molto difficile individuare un criterio a prova di stupido per stabilire chi possa essere definito italiano; ma sembra comunque evidente che lo ius sanguinis è un titolo sufficiente, anche in assenza dello ius soli. Il papà di Garibaldi era di Genova e la mamma di Loano, e questo basta per essere italiani, non solo secondo il buon senso ma anche secondo la legge attualmente vigente, quand’anche si fosse nati in Cina. Eppure, chi scrive non può fare a meno di ricordare il senso di spiazzamento che provava, a scuola, quando apprendeva che Ungaretti o Marinetti erano nati ad Alessandria d’Egitto. Che ci facevano là? E soprattutto, si poteva considerarli davvero italiani?
Sembra insomma che mentre la nostra legge sulla cittadinanza ammette solo lo ius sanguinis e ignora lo ius soli, nell’inconscio collettivo degli italiani avvenga il contrario, tanto che fatichiamo persino ad ammettere che si possa essere italiani se si è nati fuori dai confini dello stato: frutto di una pedagogia che per tanto tempo ha predicato l’identità tra popolo italiano e confini d’Italia, sovrapponendo perfettamente i due concetti, a costo di non poche forzature. Così, nella coscienza collettiva, non sono italiani gli istriani oggi cittadini di Slovenia e Croazia, meno che mai gli svizzeri del Ticino o gli abitanti della Corsica, e neppure i cittadini di San Marino. Esser nati sul territorio della Repubblica e da genitori italiani, e quindi possedere dalla nascita la cittadinanza italiana, è la definizione di italiano che oggi troverebbe il più ampio consenso. Tutti gli altri sono stranieri.
Nella lingua italiana di oggi, l’opposizione fra italiani e stranieri appare totalmente formalizzata: un appellativo esclude l’altro. Frutto d’una pedagogia, si diceva; e potremmo aggiungere d’una pedagogia bellicosa, che fra italiani e stranieri ha voluto vedere non solo un’antitesi, ma una naturale ostilità, soprattutto in momenti cruciali del nostro passato nazionale. Spogliando le occorrenze del termine nella letteratura italiana, si ha la sensazione che soprattutto a partire dalla fine del Settecento il termine straniero acquisti via via una risonanza politica negativa, e sia sempre più accostato all’idea dell’invasione e della tirannide. È già così, vagamente, in Metastasio, che in Alessandro nell’Indie fa esclamare con terrore alla sorella del re Poro, testimone dell’invasione macedone: “il suono intesi / de’ stranieri metalli”. È così nell’Alfieri, grande intenditore di tirannide, che parlando dell’invasione araba della Spagna visigota la descrive come un precoce esempio dell’errore, poi ripetuto di frequente nella storia d’Italia, per cui un popolo volle “cacciare i tiranni indigeni, e chiamarne de’ nuovi stranieri”. In Foscolo invece, per ragioni biografiche evidenti, l’accostamento è al tema dell’esilio, con l’ossessione della propria morte in terra straniera: dall’Ortis (“il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere”) al sonetto In morte del fratello Giovanni (“Straniere genti, almen l’ossa rendete/ allora al petto della madre mesta”).
Con il Risorgimento l’identificazione dello straniero col nemico si fa totale. Ne è un esempio evidentissimo l’Inno di Garibaldi composto da Luigi Mercantini nel 1858, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza e dell’impresa dei Mille, col ritornello “Va fuora d’Italia, va fuora o stranier!”, e il verso che recita “Più Italia non vuole stranieri e tiranni”. Lo straniero, nella percezione risorgimentale, è tiranno egli stesso ma soprattutto manutengolo di tiranni. Il senso della solidarietà tra i popoli oppressi può ben spingere il Giusti a scoprire quanto sia assurdo odiare il caporale boemo, vittima quanto lui della tirannide asburgica (“qui, se non fuggo, abbraccio un caporale/ colla sua brava mazza di nocciòlo, / duro e piantato lì come un piolo”), ma il sostegno delle baionette austriache ai duchi di Parma o di Modena, e di quelle francesi al papa-Re, fissa per sempre l’associazione fra potere tirannico e potere straniero.
Sostegno dei despoti, lo straniero è poi soprattutto invasore in proprio. L’Italia è uno dei pochi paesi la cui identità moderna si è costruita intorno al fatto d’essere stata ripetutamente invasa. L’Inghilterra si vanta di non aver mai più subito un’invasione straniera dopo il 1066. Da noi, dopo quella data, ci sono state l’invasione dei Normanni, le calate di Federico Barbarossa e dei suoi successori, l’invasione di Carlo d’Angiò, quella di Carlo VIII, ripetute invasioni francesi e asburgiche fino a Napoleone e oltre, e poi l’invasione austriaca fermata sul Piave, quella nazista dopo l’8 settembre, e infine quella degli Alleati: l’ultima, finora, e una di quelle accolte con più sollievo da gran parte della popolazione. Le invasioni in Italia sono ossatura di manuali scolastici e spunto di riflessione storiografica, tanto che un fortunato libro di Girolamo Arnaldi s’intitola proprio L’Italia e i suoi invasori, e rilegge tutta la storia della Penisola attraverso questa peculiare prospettiva.
Terra di conquista dunque, l’Italia, ma anche di reazione e di resistenza, dove la lagnanza sulla debolezza d’un paese femmineo e sempre pronto a farsi sottomettere si alterna con l’orgogliosa chiamata alle armi contro lo straniero. Nel Risorgimento nasce e si divulga una visione della storia nazionale tutta costruita intorno a vacui – e per lo più inventati – episodi di resistenza isolata all’invasore straniero, da Pier Capponi a Ettore Fieramosca, da Francesco Ferrucci a Balilla. L’applicazione al passato dello schema risorgimentale “italiani vs stranieri” comporta di necessità l’introduzione della nuova figura del traditore, che tale, ovviamente, non era nella logica del suo tempo. Così, nel racconto della disfida di Barletta diventa infame traditore quel Grajano d’Asti che combatte nelle file francesi, cancellando il fatto che Asti era all’epoca, e da un bel pezzo, possedimento degli Orléans e fedelissima ai suoi principi; diventa traditore e sinonimo di fellonia il Maramaldo, e addirittura austriaco l’occupante di Genova contro cui fischia il sasso di Balilla, Botta Adorno, a onta del fatto che quel generale era al servizio sabaudo oltre che imperiale e, soprattutto, di nascita era genovese.
Tutte mistificazioni consolatorie, dunque; ma non del tutto inani, giacché in epoca risorgimentale suonavano comunque premessa a una fiera stagione di riscatto nazionale contro gli eredi degli antichi invasori. Un automatismo così radicato nella psiche italiana dell’epoca da condizionare le scene iniziali dell’Aida di Verdi, composta tra il 1869 e il 1871, quando l’entusiasmo per le guerre d’indipendenza cominciava a spegnersi di fronte alle difficoltà reali d’un paese arretrato e d’un bilancio in dissesto. Scrivendo su committenza del khedivé una storia ambientata varie migliaia di anni prima, Verdi e il suo librettista Ghislanzoni non trovano di meglio che immaginare un paese aggredito da invasori stranieri ed evocare la fiera risposta della nazione all’appello del sovrano. E al pubblico italiano di allora dovettero suonare familiari, ed evocativi d’un clima recentissimo, l’allarme del messaggero nel I atto (“Il sacro suolo dell’Egitto è invaso / dai barbari Etiopi. / I nostri campi / fur devastati… arse le messi”), la rappresentazione dello slancio collettivo per respingere il barbaro invasore e l’urlo della folla unanime: “Guerra! Guerra!”
A proposito di riscrittura della storia sotto il segno della dicotomia tra italiani oppressi e stranieri invasori, non è fuori luogo commentare qui l’Adelchi manzoniano, del 1822. Per scrivere il dramma Manzoni compì letture storiche approfondite, e nello stesso anno pubblicò anche un testo storico sull’argomento, il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia. Il tutto in una Milano dove la dominazione austriaca era divenuta ben più oppressiva di quanto non fosse stata al tempo di Maria Teresa e di Giuseppe, suscitando contro il dominatore straniero un risentimento crescente. Per Manzoni era ovvio che anche i Longobardi erano stati dei dominatori stranieri, che la popolazione italiana dell’epoca, ridotta in servitù dai barbari, li aveva odiati e non si era mai fusa con loro: di qui le pagine potenti dell’Adelchi sulla contrapposizione fra i biondi padroni stranieri e il volgo disperso dei Romani sottomessi. Senonché impostare la questione in questo modo significa stravolgere completamente la realtà storica: oggi non c’è più dubbio – ma qualcuno, come il Sismondi, l’aveva intuito già al tempo del Manzoni – che i Longobardi e i Romani al momento della caduta del regno si erano già fusi in un unico popolo, e che nell’Italia di allora non c’era alcuna traccia dell’antagonismo razziale descritto nell’Adelchi. Tant’è vero, aggiungiamo, che oggi per molti abitanti di quei luoghi essere lumbard significa essere autoctono e indigeno per eccellenza, e non certo straniero usurpatore.
A proposito di Milano sotto la dominazione straniera, è da ricordare qui un passo significativo dei Ricordi di Massimo d’Azeglio. Massimo rammenta che da giovane, dopo aver viaggiato in altre zone d’Italia e appreso a conoscere una vita culturale più libera di quella concessa dai Savoia negli anni della Restaurazione, trovava soffocante l’atmosfera torinese: “ed io, un odiatore di professione dello straniero, lo dico colla confusione più profonda, se volevo tirar il fiato, bisognava tornassi a Milano”. Passo significativo, si diceva: sia perché ci ricorda che anche un moderato come d’Azeglio, all’epoca, trovava del tutto ovvio vantarsi di odiare lo straniero, sia perché in questa prospettiva la dominazione straniera diventa uno stigma che stinge sulle parti d’Italia che la subiscono, fino a renderle esse stesse, in una certa misura, straniere. Milano italiana, sotto il regime straniero diventa una città straniera, in cui c’è da vergognarsi di respirare meglio che nell’italiana Torino.
Ma sotto questa uscita di d’Azeglio non ci sarà anche qualcos’altro? Non ci sarà cioè, a livello puramente inconscio, quel campanilismo italico per cui ogni italiano si sente veramente a casa soltanto nella propria città, e prova particolare ostilità proprio verso le città più vicine e concorrenti? E non ci sarà il dubbio che l’Italia, indiscutibilmente esistente per lingua e per civiltà, da altri punti di vista non fosse però ancora davvero una? Massimo d’Azeglio è pur l’autore di una delle frasi più famose e più ripetute sui limiti del Risorgimento: “abbiamo fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”. Quel dubbio molti lo condividevano, nella classe dirigente che fece l’unità d’Italia, anche se speravano che l’entusiasmo avrebbe colmato le distanze. È ben per questo che nell’Inno di Garibaldi si legge anche: “Le genti d’Italia son tutte una sola, son tutte una sola le cento città”, che, a ben vedere, non è tanto una certezza quanto un augurio, o forse, ancor più precisamente, un wishful thinking.
Nient’affatto inconsciamente invece Francesco II da Gaeta assediata denunciava il dramma del suo regno “in preda a tutti i mali della dominazione straniera”, le sofferenze dei suoi sudditi “calpestati dal piede di straniero padrone”, e chiamava il mondo a testimone dello strazio d’un paese in cui “un generale straniero pubblica la legge marziale”. Il generale straniero era poi il modenese Cialdini. Francesco II, s’intende, sapeva bene cosa faceva quando sceglieva di impiegare un linguaggio così forte, ed era lo stesso sovrano che pochi mesi prima, quando sperava di salvare il suo regno nell’ambito d’una federazione con il Piemonte, dichiarava di condividere anche lui le aspirazioni nazionali di tutti gli italiani. Ognuno, insomma, tracciava la linea fra la nazione e lo straniero là dove gli conveniva in quel momento, giocando sulle contraddizioni d’un paese dove la nazione esisteva ed era cosciente di sé da molti secoli, ma era rimasta segmentata in stati, cittadinanze, fedeltà contrapposte.
Beninteso, nel 1860 per il Borbone chiamare stranieri gli italiani del Centro-Nord era, in gran parte, una mistificazione a uso della propaganda; ma se era possibile, è perché l’Italia era ancora, non straniera, ma certo sconosciuta a se stessa. Il romagnolo Farini, nominato da Cavour luogotenente a Napoli dopo il ritiro di Garibaldi a Caprera, mentre attraversava il paese al seguito dell’esercito diretto alla capitale scriveva in una lettera diventata famosa: “Che paesi sono mai questi, il Molise e Terra di Lavoro. Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica”. La pubblicistica neoborbonica, e anche quella onestamente meridionalista, hanno menato grande scandalo per questo sfogo, che indubbiamente pare prefigurare certe volgarità contemporanee, anche se bisogna pur ricordare che Farini parlando di barbarie e facendo paragoni con i beduini si riferiva ai briganti, che tagliavano “le teste, le orecchie a’ galantuomini”. Ma il paragone con l’Africa emergeva, in quei mesi, anche in un altro senso, meno offensivo ma pur sempre scoraggiante, a sottolineare come per chi veniva dal Nord il Mezzogiorno fosse una terra incognita. Scriveva la “Gazzetta di Torino”: “È un po’ come l’Africa per i geografi: ne conosciamo i confini ma poi se vogliamo spingere un po’ più in là l’occhio e il pensiero, che cosa ci troviamo innanzi? come i geografi nell’Africa, le terre ignote”.
La stessa sensazione di estraneità, l’impressione di trovarsi in un paese sconosciuto, colpiva quei meridionali che a decine di migliaia, dopo il 1848, erano emigrati in Piemonte, per trovarvi accoglienza tutto sommato generosa, lavoro e sussidi, e anche, nell’opinione pubblica, le prime manifestazioni di ostilità e di razzismo. Scrivendo a un amico rimasto a Napoli, Francesco De Sanctis si disperava per l’aridità culturale della vita piemontese. “Qui è il Giappone, mio caro; non vi è ombra di vita intellettuale; io mi ci sento impaludare”. La vita intellettuale, poi, c’era, ma d’un genere che De Sanctis non capiva e temeva: era una cultura scientifica e tecnologica, che lasciava la sua impronta sul sistema educativo, con “tutte queste scuole meccaniche” che a giudizio dell’intellettuale napoletano, abituato a una più libera discussione umanistica, impedivano alla mente di aprirsi a “più ampi orizzonti”.
Il riferimento al Giappone può sembrare idiosincratico; eppure lo si ritrova applicato a un paese assai meno distante da Torino di quanto non fosse Napoli. Urbano Rattazzi, primo ministro dopo le dimissioni di Cavour nell’estate 1859, non trova altra immagine per esprimere quanto sia disarmato il governo, chiamato a gestire d’urgenza la procedura d’unificazione delle province lombarde, di cui non sa niente e non riesce neppure a procurarsi informazioni: “Non ho ricevuto una carta, non un rapporto, per me la Lombardia è sempre il Regno del Giappone”. Quest’insistenza sul paragone giapponese si comprende quando ricordiamo che il Giappone era allora una scoperta recentissima: solo nel 1853 la squadra americana del commodoro Perry era approdata nella baia di Edo, costringendo lo shogun a mettere fine al secolare isolazionismo del paese del Sol Levante, sicché si può capire che quella metafora sia venuta spontaneamente alla penna di uomini diversi come De Sanctis e Rattazzi. Rimane il fatto che tra Africa e Giappone la generazione del Risorgimento non misurava certo i termini quando doveva esprimere il proprio sgomento di fronte alla diversità e all’ignoranza reciproca fra le diverse parti del paese.
L’Italia appena unita doveva affrontare molti problemi: dallo spaventoso buco di bilancio, che Quintino Sella si sforzerà di sanare a spese delle classi più povere introducendo la tassa sul macinato, alla miseria d’un mondo contadino che l’assenza di una politica coerente di riforma agraria costringerà ben presto all’emigrazione di massa. Ma c’era anche un problema apparentemente meno drammatico, e tuttavia irrisolto, quello degli italiani stranieri a se stessi. Lo si risolse, nel mezzo secolo che seguì l’unificazione, insistendo sulla propaganda per cui lo straniero, anche ora che il paese era quasi tutto libero, era ancor sempre in alcuni lembi d’Italia l’oppressore che veniva da Oltralpe e parlava un’altra lingua. Si mobilitava l’opinione pubblica all’odio contro lo straniero col miraggio delle terre irredente; salvo ritornare nel momento più catastrofico, quello di Caporetto, ad agitare la paura ancor più ancestrale, quella dello straniero invasore, come nella Canzone del Piave: “Il Piave mormorò: Non passa lo straniero!”
Mantenendo così in vita, artificialmente, un sentimento che nell’età risorgimentale era stato assai più spontaneo e assai più motivato, si riuscì a modificare definitivamente il significato d’una parola che fino a non molto tempo prima era usata in tutt’altro modo dai parlanti italiani. In origine la parola straniero non voleva dire, e per molto tempo non ha voluto affatto dire non italiano; la lingua italiana non era attrezzata, come invece è stato dal Risorgimento a oggi, per contrapporre italiani e stranieri come due elementi alternativi. Quest’uso – e un’evoluzione analoga, beninteso, potrebbe essere tracciata in altre lingue – è strettamente connesso con l’affermarsi del nazionalismo moderno.
Che cosa voleva dire, allora, straniero nell’italiano delle origini? Ci sono casi in cui conviene prendere un problema un po’ alla lontana. Nelle lingue indoeuropee arcaiche il concetto di straniero tende a coincidere con quello di ospite, e non ha a che fare con la nazionalità né con la lingua, ma con la situazione di chi si trova lontano da casa sua, ed è accolto da qualcuno del posto, stabilendo dei legami di reciprocità. Per citare un grande linguista, “la nozione di straniero non si definisce nelle antiche civiltà con criteri costanti, come nelle società moderne. Qualcuno che è nato altrove, a condizione di essere legati a lui da certe convenzioni, gode di diritti specifici” (E. Benveniste). Così il greco xénos non è in origine lo straniero nel senso che noi attribuiamo a questa parola, ma l’“ospite” cui si riconosce uno statuto giuridico; e lo stesso avviene nel latino arcaico, dove la parola che indica lo straniero è hostis. Nel latino classico hostis si tradurrà nemico, ma in origine non ha affatto una connotazione di inimicizia: ancora nelle Leggi delle XII tavole indica lo straniero cui in Roma si riconoscono diritti di eguaglianza. Aggiungiamo che nelle lingue germaniche la situazione è identica, a tal punto che lo stesso termine designa ancor oggi l’ospite, inglese guest; mentre il latino a un certo punto crea per questo una parola specifica, hospes, che è comunque un composto di hostis.
Curiosa situazione, quella dei Romani d’età classica, che non potevano dire straniero senza precisare se fosse uno straniero amico, un “ospite”, oppure uno straniero ostile, un “nemico”! In realtà, il latino si attrezzò, forgiando altri termini per indicare lo straniero; e influenzando così anche il futuro sviluppo della lingua italiana, giacché il latino classico e postclassico è la lingua in cui parlavano e pensavano anche gli intellettuali del Medioevo e del Rinascimento. Ebbene, come si dice straniero nella lingua di Cicerone e di Cesare? Viene subito in mente barbarus, tanto più che nel Cinquecento – e ci ritorneremo – il termine venne ampiamente usato come sinonimo di straniero dagli intellettuali italiani, travolti dalla catastrofe delle invasioni francesi e spagnole. Ma in realtà barbarus per i romani non fu mai sinonimo di straniero, perché indicava tutto ciò che non era romano ma neanche greco (e anzi, nel suo senso originario barbaro per i Greci includeva anche i Romani, i quali lo sapevano benissimo, e un po’ ci pativano).
Escluso dunque barbarus, in latino classico i termini di gran lunga più diffusi per indicare lo straniero sono advena, “colui che viene dal di fuori, colui che non è cittadino del luogo in cui si trova”, e lo speculare peregrinus, “colui che si è allontanato dalla sua patria, che si trova fuori dalla sua città”. I due termini, advena e peregrinus, sono simmetrici come etimologia, l’uno dal punto di vista del luogo d’arrivo, l’altro dal punto di vista del luogo di partenza, e sinonimi nell’uso effettivo, anzi si trovano spessissimo accoppiati, come in Plauto (“hominem peregrinum atque avena”) o in Cicerone, che anzi appare cosciente dell’affermarsi di questi nuovi appellativi in sostituzione dei vecchi: “nos hinc Roma qui veneramus, iam non hospites, sed peregrini atque advenae nominabamur”. Ora, quello che accomuna questi termini dell’uso latino classico e li rende interessanti per il nostro discorso è che essi non hanno minimamente a che fare con l’ethnos, con la lingua, e neanche, in età imperiale, con la sudditanza da un medesimo principe, ma continuano a indicare, come il vecchio hostis, colui che non è del posto, o meglio, non è della città. E perfettamente sinonimi sono gli altri termini, meno diffusi, che designano lo straniero, tutti riconducibili all’idea di uno che viene da fuori. Termini destinati, come vedremo, a grande successo quando il mondo moderno dovrà attrezzarsi per designare lo straniero: termini come alienus, alienigena, che ritroviamo oggi nel vocabolo che in inglese indica più efficacemente lo straniero in senso giuridico, alien; termini come come exterus, externus o extraneus, che sono all’origine diretta non soltanto del nostro ministero degli Esteri, ma anche e soprattutto del nostro straniero.
Fra tutti questi termini, quello che si radicò maggiormente nel latino classico è peregrinus, e questo accadde perché fu scelto dai giuristi per esprimere un concetto fondamentale della Weltanschauung romana. Si è visto che già l’hostis era per i Romani arcaici chi non era della città: e così anche in seguito la distinzione più importante continuò ad essere quella fra chi era cittadino e chi non lo era. Cittadino romano, s’intende: Civis Romanus sum. Per chi voglia apprendere rapidamente e in modo grafico quanto il possesso della cittadinanza fosse determinante nel mondo romano, assai più dell’appartenenza etnica, linguistica o religiosa, rimandiamo allo straordinario dialogo contenuto in Atti degli Apostoli, 21-22. Paolo predica a Gerusalemme; gli Ebrei, allarmati, lo fanno arrestare dal comandante romano, che lo chiude nella torre Antonia e si prepara a farlo frustare. “Appena fu legato, pronto per essere frustato, Paolo disse all’ufficiale che gli stava vicino: ‘potete voi frustare un cittadino romano senza fargli prima il processo?’ L’ufficiale corse subito a informare il comandante. Gli disse: ‘Che cosa stai facendo? Quell’uomo è un cittadino romano!’ Allora il comandante venne da Paolo e gli chiese: ‘Dimmi un po’: sei davvero cittadino romano?’ Paolo rispose: ‘Sì’. Il comandante disse ancora: ‘Per poter essere cittadino romano, io ho dovuto pagare una grossa somma di denaro’. ‘Io invece disse Paolo ‘sono cittadino fin dalla nascita’”. Dopo questo dialogo surreale, Paolo venne immediatamente slegato e trattenuto non in prigionia, ma quasi come un ospite, mentre la pratica veniva trasmessa a Roma, perché solo l’imperatore poteva giudicare un cittadino romano. Basta confrontare questa vicenda con ciò che era accaduto pochi anni prima, in circostanze del tutto analoghe, a un poveraccio che era ebreo tanto quanto san Paolo, ma non poteva dire “Civis Romanus sum”, per capire che nel mondo romano il concetto di straniero non era declinato come nel nostro.
Gesù, nell’impero romano, non era un cittadino: era un peregrinus. Il diritto romano scelse infatti di applicare proprio questo termine – che in origine indicava colui che si era allontanato dalla sua patria – per designare gli abitanti dei paesi conquistati dai Romani, e che non detenevano la cittadinanza. È un procedimento molto indicativo di come funziona l’imperialismo romano: il Romano invade un paese altrui, se ne impadronisce, dopodiché informa gli abitanti che ora lì sono stranieri, perché quel paese è diventato Roma. È, in sostanza, il contrario del colonialismo europeo, che usava il termine indigeni per indicare i sudditi senza diritti, o meglio, con meno diritti; anche se non è forse un caso che l’impero zarista, erede della Roma d’Oriente, abbia invece usato una categoria mentale fondamentalmente analoga, definendo “allogeni”, cioè, paradossalmente, nati altrove, gli indigeni di lingua turca dell’immenso Turkmenistan colonizzato dai russi.
Oggi i peregrini hanno ricominciato a lasciare le loro città per venire nelle nostre, e poiché l’evoluzione della lingua ricalca pedissequamente il flusso della realtà, abbiamo avuto bisogno di un nuovo termine per designarli, che però, nonostante le apparenze, si rivela vecchissimo. Parlo, naturalmente, di “extracomunitario”. Un termine di cui bisognerà un giorno fare la storia, ma di cui si può già dire fin d’ora che ha scacciato straniero da diversi ambiti della nostra lingua quotidiana, soprattutto giornalistica e giudiziaria. In un momento in cui all’identità italiana si sta faticosamente sovrapponendo un’identità europea, la cittadinanza stessa diventa un concetto plurale, e l’esclusione dai diritti non può più riferirsi semplicemente all’opposizione fra noi e gli stranieri: passa invece attraverso formulazioni esoteriche com’è, negli aeroporti, il doppio binario “Schengen/non Schengen”, e com’era in origine anche il termine extracomunitario, prima dell’inatteso successo che ne ha fatto un vocabolo di base. Senonché, come si diceva, questo termine così nuovo è in realtà vecchissimo, dal momento che recupera la radice latina extra: la stessa che si ritrova all’origine etimologica della parola straniero. Compulsivamente, la lingua italiana continua ad attingere al tesoro degli antenati latini per esprimere in modi apparentemente nuovi un concetto che non è in fondo mutato: l’alterità più marcata è quella di chi viene da fuori rispetto alla nostra comunità, e non gode, a meno che noi non glieli concediamo, degli stessi diritti nostri di cittadinanza.
Torniamo, adesso, all’evoluzione del concetto di straniero nella lingua italiana antica e moderna. Per pensare questo concetto, gli intellettuali italiani del Medioevo e del Rinascimento disponevano di un’attrezzatura mentale basata fondamentalmente sul lessico latino. Un lessico tramandato, s’intende, non solo dai classici latini, ma anche e soprattutto dalla Bibbia. Se verifichiamo quale vocabolario impiega la Vulgata per il concetto di straniero, ritroveremo la terminologia classica del peregrinus, inteso però sempre meno in senso giuridicamente preciso, ma nel senso più generico possibile, di estraneo, come in Salmi 68.9: “Factus sum peregrinus filiis matris meae”. Nella Bibbia latina torna ad affievolirsi anche la distinzione tra peregrinus e hospes, sentiti di nuovo sostanzialmente come sinonimi, nel senso di qualcuno che non è a casa sua, come in un passo cruciale di Paolo (Hebr. 11.13), dove leggiamo che coloro che vivono nella fede non si aspettano ricompense terrene, “quia peregrini et hospites sunt super terram”.
Questo passo che ancor oggi si sente parafrasare nelle chiese cattoliche, quando si prega per la Chiesa pellegrina sulla terra, era citatissimo nel Medioevo, e spesso tradotto in volgare. Citiamo due parafrasi trecentesche, una da un Cassiano volgarizzato: “Io sono straniero nella terra e peregrino”; l’altra di Santa Caterina da Siena: “Noi siamo forestieri e peregrini in questa vita”. Due passi utilissimi per il nostro scopo, perché mostrano come di fronte alla coppia di sinonimi peregrini/hospites i parlanti italiani del tardo Medioevo rifiutassero di riconoscere lo stesso significato alla parola italiana ospite, e affiancassero invece a pellegrino altri due possibili sinonimi, destinati l’uno a grande, e l’altro a grandissimo futuro nella lingua moderna: forestiero e, appunto, straniero.
Beninteso, l’italiano continuava a usare in questo senso anche pellegrino, al modo classico. Così il Virgilio di Dante alle anime che aspettano di entrare in Purgatorio: “voi credete / forse che siamo esperti d’esto loco; / ma noi siam peregrin come voi siete”, e Petrarca nella Canzone all’Italia: “che fan qui tante pellegrine spade?” E non si tratta solo dell’italiano maneggiato dai più dotti; anche in un volgarizzamento della Legenda aurea si legge questo dialogo: “‘Noi siamo quinci di questa cittade’. E quelli disse: ‘Perché mentisti tu? Il parlare tuo mostra che tu se’ pellegrina’”. Ma la parola pellegrino, con lo sviluppo della pratica cristiana del pellegrinaggio, assume inevitabilmente un altro significato, ed è proprio dello sviluppo moderno della lingua lo sforzo di evitare le confusioni. Perciò la lingua parlata preferisce sviluppare i due termini appena citati, che – come si accennava prima discorrendo del termine extracomunitario – derivano entrambi dal concetto di “fuori”. Fuori in latino si dice extra, oppure foras e da qui vengono le parole straniero e forestiero.
Per un parlante di oggi, i due termini non sono più sinonimi. Forestiero è una parola sentita come arcaica, rimanda a un mondo di angusti localismi, e in pratica è uscita dall’uso. Straniero invece, lo abbiamo visto, indica molto precisamente ciò che non è italiano, e lo stesso avviene, in modo semmai ancor più formalizzato, con l’equivalente – dal punto di vista etimologico – estero. Nell’italiano antico, invece, fra questi termini non c’è alcuna differenza: l’intera sfera semantica che rimanda allo straniero e all’estero equivale a quella di forestiero, e significa semplicemente persona o cosa non del luogo. Con la conseguenza fondamentale che straniero non è mai il contrario di italiano, come invece ci sembra così naturale oggi.
Vediamo qualche esempio. Gli statuti di Galatina nel Salento, chiamata un tempo San Pietro in Galatina, entrati in vigore alla fine del Quattrocento, recitano: “qualunca stranieri anducesse pecora, capre in lo territorio de Sancto Pietro e tenesseli per tre iorni continui sia tenuto pagare la erbatica allo baglivo”.
Qui lo stranieri a cui si richiede il pagamento d’una tassa per l’uso dei pascoli locali è semplicemente chi non è cittadino di Galatina. Nel 1469 il re Ferrante d’Aragona concede il diritto di abitare a Napoli, a certe condizioni, a chi lo vorrà, “omnes cuiuscumque exterae nationis, etiam non Regni nostri”. Il contrasto fra le due parti della frase ha un effetto comico se le traduciamo nell’italiano di oggi, ma non nell’italiano di allora: exterae nationis suona molto solenne, ma qui indica solo chi non è cittadino della città di Napoli. Il Regno dunque è pieno di gente che, rispetto a Napoli, è di nazione straniera: e puntualmente un ufficiale regio, facendo riferimento a questa legge, dirà, in volgare, che essa riguarda tucti forestieri.
Quest’uso si ritrova identico anche nel pieno Cinquecento. Il Bandello in una lettera si raccomanda a un gran signore di Pavia, messer Antonio di Pirro, e lo adula ricordando che lui è famoso proprio perché a Pavia aiuta sempre gli stranieri: “chi dubiterà che voi per me non pigliate la protezione, se voi in Pavia sempre sète quello che degli stranieri pigliate la diffensione?” Poi aggiunge, in modo vagamente contraddittorio: “So che io appo voi non sono straniero, conoscendo quanto mi amate”. Dove il punto più interessante è che se presso quel signore pavese Bandello non è straniero, questo avviene soltanto perché è già di casa e benvoluto – non certo perché è nativo di Alessandria: in condizioni normali, essere suddito del ducato di Milano e nato a poche decine di chilometri non gli sarebbe bastato a non essere considerato straniero a Pavia.
Un’altra caratteristica sorprendente della parola straniero, oggi apparentemente così ben marcata, è la fatica che ha fatto per emergere come parola distinta rispetto ad altre due parole che condividono la stessa origine: estraneo e strano. Per noi oggi sono tre termini nettamente distinti, ciascuno dei quali ha una propria sfera semantica poco o per nulla sovrapposta alle altre due, tanto che nella coscienza dei parlanti si perde perfino la nozione del loro apparentamento etimologico; ma nell’italiano antico non era così, anche per l’estrema varietà delle grafie e delle pronunce. Intricatissima è la derivazione delle varie forme proposta dai linguisti: dal latino extraneus sarebbe derivato uno stragno, e un umbro straino, e da qui il nostro strano; poi l’incrocio con l’originale extraneus avrebbe dato una quantità di varianti tutte ben attestate, stranio, istrano, istraino, straneo, strannio, estrano e la forma dotta oggi vincente, estraneo; contemporaneamente l’influenza del francese d’oil estrangier ed estrange avrebbe dato l’istrangio di Guittone, lo strangio di Giovanni Villani, lo strangero dell’Anonimo genovese, lo straineri delle Poesie bolognesi, e finalmente il moderno straniero.
Questa molteplicità di forme, che è veramente singolare, rende molto difficile nell’italiano antico la differenziazione semantica fra termini della stessa origine. Si trattava, allora, di sinonimi a tutti gli effetti. Così, per esempio, è comunissimo l’uso di strano nel senso di straniero, forestiero: il Compagni in apertura della sua cronaca dichiara di voler descrivere Firenze “acciò che gli strani possano meglio intendere le cose avvenute”, e Dante osserva nel Convivio che “non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana”. Nell’uso di Dante, di chi cioè aveva una tale sensibilità linguistica da scrivere il De vulgari eloquentia, lo strano è qui già lo straniero nel senso moderno, chi cioè non parla la lingua del sì; così come in Petrarca, nella Canzone all’Italia, quando parla dei tedeschi che vengono dai deserti strani a inondare i nostri campi, o in Ariosto, quando parla di gente venuta “di Lamagna o d’altro stran linguaggio”, o in Aretino, per il quale “saria più tosto inimico d’Italia che italiano quello il quale desiderasse la rovina della fede romana per le mani degli strani”. Ma per Boccaccio, come per il Compagni appena ricordato, tutti quelli che non sono fiorentini sono le nazioni strane, ed è strano chi non è amico e di casa: “è strano non che gli amici, ma gli strani ripigliare”; nel Furioso, troviamo una magia che “così noceva ai suoi come agli strani”, e il tiranno Marganore che odia le donne e si diverte a vessare tanto le sue suddite quanto le strane.
D’altra parte, e specularmente, straniero continuerà a lungo a essere usato nel senso di estraneo, non di famiglia: nell’Introduzione della Prima giornata, Boccaccio scrive che a Firenze nel disordine provocato dalla peste “le più delle case erano divenute comuni e così l’usava lo straniere, pure che ad esse s’avvenisse, come l’avrebbe il propio signore usate”; ma ancora in Tasso ci sono passi in cui straniero è il contrario di concittadino o di consanguineo. Mentre per noi, insomma, straniero indica un’alterità molto forte, nell’italiano antico può indicare banalmente chi non è di casa, col risultato che quando si vuole davvero segnalare un’alterità totale bisogna, per dir così, rafforzarlo: in un volgarizzamento di Angelo Clareno si legge di certi briganti che “spogliarono uno frate straniero scognosciuto de lingua stranea e paese”, una formulazione che in italiano moderno sarebbe ridondante e qui invece è sentita necessaria per la debolezza della semplice definizione di straniero.
Le conseguenze di questa debolezza sono molto rilevanti. Se infatti straniero significa solo uno che non è di qui, è insomma del tutto equivalente a forestiero, all’italiano antico manca la terminologia che permetterebbe di pensare in termini binari a un’opposizione fra italiani e stranieri. E infatti sono molti gli esempi che mostrano l’inesistenza, o almeno la debolezza, di questa opposizione. Prendiamo, ad esempio, il caso della Consortia de li forestieri che organizzava, a Genova, tutti i mercanti provenienti dall’esterno. A fine Trecento il consorzio è articolato in quattro nazioni: milanese, romana, francese e tedesca. La stessa cosa vale per le nationes dell’Università di Bologna, che pure, in origine, si erano organizzate in cismontani e ultramontani: con lo sviluppo dell’immigrazione studentesca questa organizzazione bipartita esplode. Un testo del Duecento elenca, in quest’ordine, Lombardi, Tusci, e dunque gli italiani del Centro-Nord, poi Galli, Alamanni, Angligene, i transalpini, e finalmente Sciculi, Calabri, Appulienses, i meridionali.
Il problema non è soltanto linguistico e concettuale, ma assume una rilevanza politica. Nel basso Medioevo gli ambiti politici sono ancora in evoluzione, tutt’altro che cristallizzati, e in ogni caso ben lontani dal coincidere con quelli linguistici. Perciò, quando vogliono mettere in piedi delle strutture amministrative a base geografica gli italiani si trovano di fronte a un terreno vergine, e praticano un approccio estremamente flessibile. Lo si vede bene analizzando il modo in cui i nuovi ordini religiosi si articolano in province. L’ordine del Tempio prende piede in Italia fin dal 1169 con una provincia di Puglia, che è poi il regno normanno; l’Italia del Nord a quell’epoca dipende dalla provincia di Provenza, che si estende dalla Lombardia fino alla Catalogna. Più tardi si crea una provincia di Lombardia, che talvolta è addirittura detta d’Italia, ma il termine non va inteso nell’accezione moderna, perché non comprende mai il regno meridionale.
La stessa fluidità delle ripartizioni geografiche caratterizza l’espansione dei Francescani, che all’inizio si svolge tutta in Italia: le province più antiche sono Tuscia, Marca Anconetana, Lombardia, Terra di Lavoro, Apulia. Ma in realtà già l’espansione in Lombardia, per questi frati dell’Italia centrale, è vista come un’impresa avventurosa, che prelude direttamente all’espansione verso la Germania: ci si preoccupa di mandare in questi luoghi stranieri dei frati che sappiano le lingue, e quindi si incarica Giovanni da Pian del Carpine precisando che è “predicator in Latino et in Lombardico”, e dopo di lui un frate Barnaba, perché è “predicator egregius in Lombardico et in Theutonico”. Agli occhi degli italiani del Centro che costituiscono all’inizio quasi tutto il personale dell’ordine francescano, non c’è opposizione netta, almeno dal punto di vista linguistico, fra Lombardia e mondo germanico.
Tutto questo non significa che l’antica suddivisione geografica, ben nota ai dotti, fra Italia, Gallia e Germania non sia percepita, in certi momenti, come significativa. L’orizzonte geografico degli italiani del Medioevo e del Rinascimento è un orizzonte stratificato, in cui convivono eredità e percezioni alternative. Per motivi politici, è innanzitutto di fronte ai tedeschi che si manifesta un certo risentimento, che in epoca risorgimentale potrà essere interpretato, non senza forzature, come spirito nazionale. Durante la guerra contro il Barbarossa circolano canzoni contro i tedeschi, come il serventese di Peire de la Caravana “Lombartz, be.us guardatz”, che ricorre al più facile degli argomenti sciovinisti parodiando il linguaggio incomprensibile dei tedeschi:
“granoglas resembla
en dir broder guaz,
lairan quant s’asembla
com cans enrajatz.”
Ovvero, più o meno: “sembrano ranocchie / quando dicono Bruder, was?; / latrano quando si riuniscono / come cani arrabbiati”. L’esortazione a impedirne l’invasione (“No volhatz ja venha!”, non vogliate che vengano!) ci porta su un terreno, quello appunto dell’invasore transalpino, che non uscirà più dalle ossessioni italiane. Ma nell’analizzare questo testo che sembra giustificare tanti travisamenti risorgimentali, sarà meglio non dimenticare che è scritto in provenzale, non in italiano, ed è espressamente rivolto ai Lombardi: d’Italia e italiani non c’è menzione alcuna.
Il riferimento all’Italia si trova invece in un contesto dotto e propagandistico. Subito dopo la battaglia di Legnano i milanesi trasmettono al papa e a tutti i loro alleati il bollettino della vittoria, in cui raccontano la grande giornata e descrivono il bottino catturato: “Abbiamo lo scudo dell’imperatore, la bandiera, la croce e la lancia. Nelle sue casse abbiamo trovato molto oro e argento, e ci siamo impadroniti d’un tale bottino che nessuno, crediamo, potrà mai calcolarne il valore”.
Dopo questa rassegna non del tutto edificante, viene il tocco di genio: “Tutte cose che non consideriamo nostre, ma vogliamo che appartengano in comune al signor papa e agli italiani”. Tocco di genio, anche perché implica che gli italiani stiano tutti dalla stessa parte, cancellando quella spaccatura fra la Lega lombarda e le città filoimperiali che preludeva alla duratura spaccatura degli italiani fra guelfi e ghibellini.
Gli italiani, insomma, per riconoscersi come popolo hanno bisogno che venga loro ricordata, con forza e se possibile in modo drammatico, l’esistenza di popoli che sono davvero altri, e rispetto ai quali le differenze fra una città e l’altra si rivelano improvvisamente irrilevanti. La lotta contro il Barbarossa è certamente un primo momento in cui, in embrione, si manifesta questo fenomeno. Bisogna attendere il Petrarca della Canzone all’Italia, già più volte citata in queste pagine, per ritrovare espressa con tanta forza l’opposizione fra gli italiani e gli invasori stranieri, là dove il poeta lamenta l’Italia devastata dalla guerra e dai mercenari, “diluvio raccolto / di che deserti strani / per inondar i nostri dolci campi”, e si rallegra delle Alpi, schermo posto dalla Natura “fra noi et la tedesca rabbia”.
Siamo insomma di fronte all’emergere carsico di una coscienza nazionale che è tutt’uno con l’ostilità per gli invasori non italiani, e che nel corso del Medioevo ha soltanto occasioni isolate di manifestarsi. La guerra fra le città della Lega Lombarda e il Barbarossa, o le devastazioni dei mercenari trecenteschi, sono momenti forti ma, appunto, isolati. Bisognerà attendere le guerre d’Italia perché il lamento sull’Italia assoggettata allo straniero diventi parte integrante e permanente del patrimonio nazionale.
Prima d’allora c’era però, effettivamente, una situazione specifica in cui l’italianità si rivelava una connotazione forte. La sensazione che tutti gli italiani hanno qualcosa in comune e non sono stranieri fra loro emerge soprattutto fra gli italiani che si trovano fuori dalla Penisola, lontani da casa, al di là delle Alpi o del mare. Così Boccaccio ci descrive quel mercante ligure che ad Acri, in Terrasanta: “Andando d’attorno veggendo, e molti mercatanti e ciciliani e pisani e genovesi e viniziani e altri italiani vedendovi, con loro volentieri si dimesticava per rimembranza della contrada sua”; che è, fra l’altro, una delle primissime attestazioni in volgare della parola italiano come aggettivo sostantivato.
Ed è proprio fuori d’Italia che i mercanti italiani, pur organizzati in varie nationes rivali, cominciano a essere percepiti dalle autorità locali, più ancora che da loro stessi, come un gruppo unitario. Il Villani racconta che un giorno “il re di Francia fece pigliare tutti i prestatori italici di suo reame”; il Pegolotti elenca i diritti pagati dai mercanti a Nîmes e a Montpellier: “Ciascuno taliano denari 2 per libbra”; a Barcellona dal Quattrocento c’è un’imposta pagata dai mercanti della Penisola, che si chiama Dret dels italians.
Il diritto commerciale si rivela, insomma, uno dei fondamenti della creazione della nazione. A tal punto che anche in Italia cominciano qua e là ad emergere, in quest’ambito, normative che tra i forestieri distinguono, e di solito privilegiano, gli italiani: ad Arezzo nel 1337 si stabilisce “che niuno forestieri ytaliano, il quale s[i]a habitato in Areço familiarmente da doi anni in qua” possa essere espulso se non ha commesso un reato; a Genova, nel 1444, per la prima volta le disposizioni sui venditori ambulanti sono più restrittive verso quelli che vengono da extra Italiam.
L’unità degli italiani all’estero sarà per lungo tempo più visibile all’estero che in patria. Nella Madrid di Filippo II, come ricorda Matteo Sanfilippo nel suo Faccia da italiano, l’ospedale di San Pedro y San Pablo de los Italianos, fondato nel 1579, diviene il centro ufficiale della comunità immigrata, che ha un certo peso a corte, e la gestione del quale è affidata a un consiglio di sei governatori provenienti da Napoli, Sicilia, Milano, Genova, Roma e Firenze; il punto fondamentale è che l’elemento comune dell’italianità prevale rispetto all’essere, o non essere, sudditi del re. L’immigrazione ottocentesca, politica e operaia, seguirà spontaneamente questi stessi modelli organizzativi, creando strutture d’appoggio che quando nate dal basso saranno sempre italiane, e non legate ai singoli stati della Penisola. Quando Garibaldi nel 1828, poco più che ventenne e marinaio di mestiere, decide di fermarsi a Costantinopoli, dove rimarrà quasi tre anni, trova subito appoggio da parte del Circolo degli operai italiani residenti nella capitale ottomana.
Le guerre contro il Barbarossa, il Trecento delle compagnie mercenarie e del papato ad Avignone, la colonizzazione delle piazze commerciali estere da parte dei mercanti italiani: altrettanti momenti che hanno contribuito al coagularsi dell’identità italiana. Il Cinquecento, con il trauma delle guerre d’Italia e della permanente occupazione straniera, fu il momento in cui si consolidò definitivamente la coscienza di un’opposizione di fondo tra gli italiani e quelli che noi oggi chiamiamo gli stranieri. Senonché, se gli italiani si chiamavano indiscutibilmente così, il problema di come chiamare gli stranieri era tutt’altro che risolto. La lingua, infatti, faticò molto ad adottare un termine che potesse esprimere nettamente la situazione di chi non era italiano.
Nel Cinquecento, come abbiamo visto, l’area semantica di straniero era ancora in gran parte sovrapposta a quelle di strano e di estraneo. Non è però forse infondata l’impressione che, nel corso del secolo, dalla generazione dell’Ariosto a quella del Tasso, questo groviglio abbia faticosamente cominciato a districarsi. Accanto all’uso di strano come sinonimo di straniero e di estraneo, colpisce l’uso via via più frequente e consapevole di estrano, che un’ulteriore riverniciatura dotta trasformerà poi nel nostro estraneo. Nell’Ariosto estrano alterna ancora con istrano, la gente estrana con le strane genti, il cavalliero estrano si muta ancora, a distanza di pochi versi e in riferimento al medesimo personaggio, in un cavalliero strano. Nel Tasso le strane genti sono un esempio isolato, mentre estrano compare ripetutamente come sinonimo di straniero – termine, quest’ultimo, usato nella Gerusalemme più frequentemente che nell’Orlando. Un pagano si distingue dai cristiani per “l’uso de l’arme e ‘l portamento estrano”, o perché “d’arme e d’abito straniero”, frasi palesemente sentite dal Tasso come identiche; Elvezi e Inghilesi, in quanto lontani dagli alberghi italici, sono estrane genti. Ma soprattutto compare la contrapposizione fra la patria e gli stranieri, anzi il giogo straniero: “ché sotto il giogo di straniere genti / la patria ove regnasti ancor è serva”; e ci sono anche popoli “di patria e di fé stranieri”. In un poema come la Gerusalemme, che mette in scena un contrasto che più drammatico non potrebbe essere fra i nostri e gli altri, ma anche, a parti rovesciate, fra invasori e difensori della propria terra, si rivela così in filigrana l’evoluzione della lingua italiana, dettata non dalle intenzioni dichiarate del poeta, ma dalla congiuntura coeva d’Italia.
Stiamo attenti, però, a trarre troppe conclusioni dall’analisi di poche opere, sebbene capitali; perché si rischia la sovrainterpretazione. Se nel passaggio da Ariosto a Tasso gli usi sembrano razionalizzarsi e tendere verso la modernità, con Giambattista Marino tutto è rimesso in discussione. Nell’esplosione linguistica dell’Adone coesistono forme arcaiche e forme nuove, le nazion peregrine assimilate alle genti estrane e alle straniere genti, il natio, il domestico e il paesano contrapposti al peregrino, e ancora, gli strani confini, il lido estrano e l’estrania terra, le straniere e peregrine forme e la straniera e traditrice gente, la strania donna e l’estrano da incivilire, la strana e barbara ricchezza e le turbe... barbare e strane. Siamo ormai all’inizio del Seicento e l’emergere di una netta separazione semantica tra strano, estraneo e straniero è ancora ben di là da venire.
Tutto questo non significa che, almeno a partire dalle guerre d’Italia, gli italiani non avessero bisogno di un termine per indicare chiaramente chi italiano non era. È significativo che altri vocaboli siano stati allora sperimentati, con diverso successo, per riempire quell’area semantica. La nuova idolatria rinascimentale della civiltà classica, unita alla violenta ostilità suscitata dalle dominazioni straniere, portò alla riscoperta d’un lessico prima dimenticato, soprattutto da chi scriveva in volgare; e allora si parlò di nuovo di barbari. Non è così chiaro se Giulio II abbia davvero detto “fuori i barbari”: una fonte esplicita e diretta non c’è; ma ci si avvicina con Guicciardini, secondo il quale il Papa si adoperò con tutti i mezzi affinché “Italia rimanesse (queste parole uscivano frequentemente dalla bocca sua) libera da’ barbari”. Aggiungiamo quella pasquinata del 1510 in cui s’immaginava l’Italia gettarsi ai piedi del papa e implorarlo di sguainare la spada “contra’l barbaro furore” e di scacciare “questa barbarica aspra gente”. Il che non impedì all’umanista Marco Antonio Altieri di criticare invece Giulio II per aver inventato la Guardia Svizzera, affidando la propria sicurezza a “huomini barbari... nemici capitali di Roma e del nome italiano”.
Fuori i barbari, inutile dirlo, piacerà moltissimo nel Risorgimento. Il 31 marzo 1848, il giurista fiorentino Vincenzo Salvagnoli pubblicava un appello che invitava a contribuire alla santa battaglia combattuta in quel momento nei campi di Lombardia: “guerrieri d’Italia, tutti gli italiani: nemici d’Italia tutti gli austriaci, o tutti i partigiani degli austriaci, cioè i non italiani”, che se non altro era più esplicito, nel definire chi fosse o non fosse italiano, di quanto non fosse stata settecento anni prima la lettera dei milanesi all’indomani di Legnano. L’appello del Salvagnoli si concludeva ripetendo tre volte: “Fuori i Barbari! Fuori i Barbari! Fuori i Barbari!”, e lo stesso grido fu ripreso da innumerevoli articoli e fogli. In quella specie di tardivo epilogo del Risorgimento che fu, sotto taluni aspetti, la nostra Grande Guerra, l’appello tornò di attualità: nel 1915 si stampavano opuscoli antitedeschi intitolati Fuori i barbari!, e nello stesso anno il giovane musicista Mario Castelnuovo-Tedesco compose un inno intitolato appunto Fuori i barbari!
Ma barbaro era troppo connotato negativamente per poter diventare il normale identificativo dello straniero, anche in un’Italia abituata a un’accesa pedagogia sciovinista. Un termine che non aveva questo difetto e che ebbe successo dal Trecento fino all’Ottocento è oltramontano, vivido ed efficace nel rendere l’idea di chi per venire in Italia doveva appunto passare le Alpi; anche se non sarebbe certo plausibile applicarlo, oggi, alle moltitudini che sbarcano sulle nostre coste dopo aver avventurosamente attraversato il Mediterraneo. Il termine è oggi così totalmente morto che sorprende scoprire che rimase ampiamente in uso fin verso il 1850. Alla fine era molto usato soprattutto in contesti eruditi: dal XVIII secolo si trova continuamente menzione di letterati oltramontani, di giornali oltramontani, di professori oltramontani, di trattatisti oltramontani, di filologi oltramontani e di giornalisti oltramontani; e ancora in opere dei primi decenni dell’Ottocento capita che si polemizzi con qualche dotto oltramontano o che si suddividano architetti, scrittori e pittori in italiani e oltramontani.
Ma non si trattava soltanto di un uso erudito. In sé neutro, il vocabolo esprimeva con abbastanza forza il sentimento dell’alterità geografica da essere utilizzato in quei contesti politici che dal Trecento in poi esprimevano la coscienza di un’opposizione fra gli italiani e gli altri. In pieno Scisma d’Occidente, Caterina da Siena scrive a tre cardinali italiani per esortarli a schierarsi con quello che secondo lei è il vero papa, Urbano VI. I tre si sono schierati per l’avversario, Clemente VII, al secolo Roberto di Ginevra, e Caterina trova che non possono aver avuto nessuna buona ragione per farlo. Capisco ancora, scrive, quei cardinali francesi che si sono schierati con lui perché era dei loro; ma Urbano VI è italiano, “e voi Italiani, che non vi poteva muovere la passione della patria, come gli Oltramontani: cagione non ci veggo, se non l’amore proprio”.
Oltramontani sono, nella lingua corrente, prima i soldati di ventura che incrudeliscono sull’Italia trecentesca, benché chiamati e pagati dagli italiani, e poi, nell’epoca delle guerre d’Italia, gli strapotenti invasori stranieri. Così nel Berni (“però già ci soleva esser nemica / l’empia barbarie degli oltramontani”), e così ancora in quella pasquinata seicentesca in cui si dimostrava “che tutti gli Oltramontani sono inimici capitalissimi dell’Italia”. Come si vede, l’idea dello straniero invasore e tiranno, per natura nemico del Bel Paese, era già largamente radicata nella psiche nazionale ben prima di quel Risorgimento da cui abbiamo preso le mosse; semplicemente, non lo si chiamava straniero. Alla vigilia del Risorgimento l’uso polemico dell’opposizione fra oltramontani e Italiani era ancora vivo, come dimostra quell’articolo uscito nel 1831 nell’Antologia del Capponi, in cui si stroncava violentemente l’Introduction à l’histoire universelle del Michelet, accusando l’autore d’aver sottovalutato il contributo italiano alla civiltà umana. Nel Medioevo, epoca di “travaglio fra il male antico e il bene nuovo, venia tutto da Oltremonti il primo, e tutto dall’Italia il secondo [...]. Non gli oltramontani ma gli Italiani fecero il primo conquisto della civiltà cristiana sulla barbarie mussulmana”, e così via, dove è interessante la personificazione addirittura in luogo geografico dello straniero ostile (“l’Oltremonti non ne è grato né in parole, e molto meno in opere”).
Nei confronti di oltramontani e barbari, l’atteggiamento sprezzante è di rigore nell’età umanistica come alla vigilia del Risorgimento. Vespasiano da Bisticci, nelle sue Vite degli uomini illustri, si degna a un certo punto di elogiare un certo chierico d’Ungheria venuto a studiare a Ferrara: “Sogliono i più di questi oltramontani avere poco ingegno; costui superava non solo gli oltramontani, ma non era Italiano che s’accostasse al suo ingegno”. Era un disprezzo così scontato che ci si scherzava su: il tipografo italiano Pietro Perna, attivo a Basilea nel Cinquecento, scrivendo nel 1569 all’umanista Piero Vettori per chiedergli un consiglio circa la pubblicazione delle opere di Aristotele, badò bene di concludere la sua dotta lettera latina con qualche riga in italiano, per rassicurarlo che il mittente era pur sempre italiano anche lui: “e voi, Signor Pietro Vittorio, non farete questo servizio a un oltramontano barbaro; il qual però, quando oltramontano fosse, a domandar questo non sarebbe barbaro, ma quasi un vostro compatriotta”.
Come mai una parola così pratica e così diffusa come oltramontano, che per di più s’era già caricata dell’opportuna valenza spregiativa, scomparve dall’uso proprio intorno al 1850, cioè nel momento in cui l’Italia era chiamata con più vigore di prima a raccogliersi contro lo straniero? Un’ipotesi di spiegazione è possibile. Intorno all’epoca della Rivoluzione francese, l’appellativo si colorò di toni decisamente negativi soprattutto nella stampa reazionaria. Così nel 1790 gli Annali di Roma di Michele Mallio stigmatizzano con sdegno l’esterofilia italica che porta a preferire in tutto le cose oltramontane: “Un libro Italiano, benché di ottimo gusto, si prende appena in mano, si sbadiglia, e si getta via con disprezzo. Solo i libri Oltramontani formano le delizie d’Italia”, e via stigmatizzando l’oltramontana mollezza, la moda oltramontana, le acconciature oltramontane e gli oltramontani divertimenti: ma lo scopo del pubblicista controrivoluzionario è di scongiurare che con tutte queste novità penetrino in Italia anche i Lumi, la filosofia, l’irriverenza e l’irreligione.
Si può dunque ipotizzare che proprio per esser stato preso a bersaglio dai reazionari il termine non venne poi usato con piacere dalla pubblicistica risorgimentale. Le rare eccezioni sono in realtà conferme: nella storia del Senato romano di Luigi Pompilj Olivieri, del 1840, i popoli d’Italia del Medioevo sono contrapposti agli invasori oltramontani, ma considerando che si tratta d’un’opera pubblicata a Roma, anche qui dietro quegli invasori bisognerà vedere i giacobini e non le baionette degli austriaci. E la stessa matrice si ritrova nel Gioberti, che nel Primato morale e civile degl’Italiani esorta gli italiani a diffidare del pensiero di Berlino o di Parigi, a non adorare gl’iddii forestieri, a sentire e a filosofare italianamente, anziché attingere alla vena del senno oltramontano: perfino la medicina, secondo lui, deve riscattarsi dal materialismo oltramontano e rivolgersi verso i principii nazionali. Questa connotazione lo rendeva un bersaglio troppo angusto e troppo di parte: gli uomini del Risorgimento se la prenderanno con lo straniero, e non con gli oltramontani. Così facendo, la pubblicistica risorgimentale riuscirà a realizzare definitivamente anche un altro obiettivo, quello di modificare l’uso del termine straniero nella direzione che ancor oggi conosciamo. Francesco II, a Gaeta, sarà l’ultimo italiano in grado di usarlo in riferimento ad altri italiani.