L'Europa tardoantica e medievale. I popoli delle migrazioni nelle regioni occidentali: I Vandali
Per ricostruire la storia dei Vandali, popolazione germanica in origine stanziata probabilmente nei territori scandinavi e baltici, non si hanno fonti storiche dirette, ma le loro vicende sono note attraverso le menzioni che sin dal I sec. d.C. offre Plinio (Nat. hist., IV, 99), quindi Tacito (Germ., II); più tardi le loro imprese emergono dagli scritti di tradizione romano-bizantina: nella seconda metà del V secolo la Historia persecutionis Africanae provinciae di Vittore, sacerdote cartaginese originario di Vita nella Bizacena, e in età giustinianea il De bello Vandalico di Procopio di Cesarea.
Il processo di migrazione dei Vandali dai territori nordici, comune alle altre stirpi germaniche, trova una prima sosta all’inizio del IV secolo, quando Costantino (306-337) concede loro di stanziarsi in Pannonia, per riprendere poi alla fine del medesimo secolo sotto la costante pressione degli Unni, in direzione dapprima della Gallia e quindi della Spagna ove s’insediano nel 411. Dopo un primo riconoscimento come foederati da parte di Onorio (395-423), nel 425 Gunderico, rex Vandalorum et Alanorum, di fatto controlla l’intera Penisola Iberica. Con Genserico, successo nel 428 al fratello nel governo del regno, inizia la conquista dell’Africa; è opinione degli studiosi che un primo stanziamento vandalo si ebbe già nel 430 in Numidia, occupando quindi la stessa città di Ippona dopo un lungo assedio – durante il quale moriva tra il 28 e il 29 agosto Agostino – anche se di fatto la conquista ufficiale dell’Africa romana si ha con la presa di Cartagine il 19 ottobre 439, data da cui inizia il calendario della nuova era vandala. Dall’Africa è più che logico pensare che Genserico aspirasse ad acquisire al suo regno le isole della Sicilia, della Sardegna e della Corsica, basi necessarie per l’espansione e l’affermazione del dominio nel Tirreno, ma anche Paesi ricchi di prodotti agricoli e fornitori di Roma. Pertanto i Vandali navigare per fluctus bella coeperunt, come riferisce Salviano, il presbitero di Marsiglia contemporaneo degli avvenimenti e già nel 438 una spedizione esplorativa aveva messo in allarme le coste siciliane.
Due anni dopo venivano saccheggiate Lilibeo e Palermo, deportati i rispettivi vescovi e il clero e confiscati i beni delle chiese. Dopo un’effimera pace ottenuta mediante l’intervento della corte di Ravenna che impedì la penetrazione vandalica in Sicilia, gli attacchi alle altre isole ripresero con violenza. Si giunge così al marzo del 455 quando l’imperatore d’Occidente Valentiniano III viene trucidato e al 2 giugno del medesimo anno quando Genserico entra con il suo esercito in Roma, sottoponendo la città al memorabile saccheggio: gli effetti della Vandalica rabies – come la ricorda un testo epigrafico del Portus Romae in relazione a un santuario in insula Portuensis prontamente ricostruito dal vescovo Pietro – dovettero essere certamente gravi per la capitale, ma è altresì possibile immaginarne le inevitabili ripercussioni nei Paesi dell’Occidente bagnati dal Mar Tirreno. L’affronto del re vandalo all’Impero aveva varcato ogni limite se la figlia stessa di Valentiniano III, Licinia Eudossia, era stata fatta prigioniera e, sicuro ormai della sua forza, Genserico ripeteva costantemente gli attacchi alle isole. È logico supporre che in questo arco di tempo sia avvenuta l’occupazione della Sardegna e che da questi territori fosse partita la spedizione verso la Corsica fermata da Ricimero. A ogni modo, la presenza vandala nel Tirreno era ormai consolidata, dato che anche le Baleari e le altre isole erano cadute sotto il loro potere e che i tentativi da parte imperiale di riconquistare i territori perduti non avevano conseguito i risultati sperati. La Sicilia, è vero, fu restituita a Odoacre – Genserico vi mantenne solo un piccolo presidio a Lilibeo – acquisendo definitivamente il ruolo di punto strategico nella difesa antivandalica, ma la Sardegna e la Corsica rimanevano sotto il dominio dei Vandali, riconosciuto e sancito negli accordi sia con Leone I che con Zenone e con Romolo Augustolo.
Il dominio vandalo fu caratterizzato dalle lotte di natura religiosa dei seguaci dell’eresia di Ario nei riguardi del clero e della popolazione cattolica: Vittore Vitense ne descrive le sofferenze luttuose, anche se è opinione comune che il suo racconto si riferisca unicamente agli eventi africani e che al contrario la politica di Genserico negli altri territori conquistati fosse improntata a una maggiore prudenza, essendo il sovrano interessato più ad assicurarsi una convivenza pacifica che a controllare il credo religioso. Del resto, la piena adesione del re vandalo all’arianesimo è stata giustamente valutata come la ricerca di una propria identità, come un riconoscimento nazionale di fronte alla romanità cattolica. Non a caso le ostilità più forti nei confronti dei cattolici furono esercitate a opera di Genserico, Unnerico e Trasamondo, i tre re che più degli altri cercarono l’affermazione del dominio vandalo nel Mediterraneo, mentre diminuirono con Guadamondo e cessarono del tutto con Ilderico che, figlio di madre romana, “fu in definitiva più romano che barbaro”.
Nel 477, alla morte del padre Genserico, salì al trono Unnerico, cui si deve la convocazione nel 483 di un concilio a Cartagine, al fine di portare nuovamente in discussione le tematiche condannate più di un secolo e mezzo prima al concilio di Nicea e di convincere i cattolici ad abiurare e passare fra i seguaci di Ario. I risultati dell’assemblea conciliare, anche se non mancarono pressioni regie sui 436 vescovi presenti e sull’andamento dei lavori, non furono favorevoli al re: pochi vescovi abiurarono, molti mantennero la loro fede. Le conseguenze non tardarono e i vescovi cattolici furono esiliati in Sardegna e in Corsica. Unnerico impose loro di tagliare nelle foreste alberi adatti alla costruzione di navigli e infierì anche contro la popolazione fedele ai propri vescovi secondo il racconto di Vittore Vitense e di Procopio di Cesarea. L’esilio dei vescovi dovette essere di breve durata poiché, morto nel medesimo anno 484 Unnerico, il suo successore Gundamondo, nel quadro di una politica conciliatrice con la Chiesa cattolica, li richiamò in patria. Ma due anni dopo, salito al trono Trasamondo, riprese la violenza contro il clero cattolico, vietando inoltre le sostituzioni con cui la Chiesa aveva ricoperto le cattedre dei vescovi passati all’arianesimo e quindi ordinando un massiccio esodo delle alte gerarchie ecclesiastiche fedeli alla Chiesa romana. Di nuovo come terra di esilio furono scelte la Corsica e la Sardegna e in particolare in quest’ultima giunsero, fra gli altri, il metropolita di Cartagine, Feliciano, il vescovo di Ippona, i vescovi Illustre e Gianuario, di cui non sono menzionate le rispettive sedi, e un monaco, Claudiano Gordiano Fulgenzio, vescovo di Ruspe, di cui si conoscono non solo l’attività letteraria, filosofica e teologica, ma attraverso le parole del suo biografo – si ritiene il monaco Ferrando – anche le vicende che per un periodo lo legarono alla città di Cagliari.
L’esilio di Fulgenzio era iniziato sotto favorevoli auspici, secondo le parole del biografo – favente aliquando sereni aeris tranquillitate Sardiniam reportatus – trovando riscontro nell’atmosfera festosa di accoglienza (Ferrandus diaconus, Vita Sancti Fulgentii Ruspensis). Sarà lo stesso vescovo cagliaritano Brumasio a venire incontro ai loro bisogni, non solo, ma anche il pontefice Simmaco, natione Sardus, inviando agli esuli parole di conforto e aiuti materiali. Narra infatti il biografo che Fulgenzio prese dimora a Cagliari, dapprima in una casa che si suppone nel centro abitato, ma poi, non volendovi più restare a lungo insieme ai molti compagni, cercò un luogo tranquillo lontano dallo strepito cittadino e avendolo trovato nei pressi della basilica del martire Saturno con il benestare del vescovo Brumasio vi costruì il suo monastero in cui trovarono alloggio oltre 40 monaci. Il complesso martiriale, ora attestato archeologicamente anche nelle sue fasi dei secoli V e VI, è caratterizzato da una serie di mausolei e di spazi funerari intorno all’edificio cultuale, ove trovarono sepoltura i membri della gerarchia ecclesiastica cagliaritana, dai vescovi ai chierici, ai notai, ai defensores, insieme a lavoratori, forse raccolti in corporazioni come quella dei salinarum pertinentes e a molti semplici fedeli: è interessante notare che una buona parte delle epigrafi funerarie superstiti appartengono al periodo della dominazione vandalica.
Si è forse vicino al vero nell’attribuire alla presenza dei vescovi esuli l’occupazione di spazi e cavità naturali aperti nel pendio della collina ai limiti occidentali della città, occupazione suggerita dalla dedica di un complesso cultuale ipogeo, dotato anche di spazi funerari, a s. Restituta cui – lo si ricordi – si vuole intitolata la chiesa primaziale di Cartagine, ma anche il battistero di Napoli e la chiesa di Ischia sicuramente risalenti al V secolo. Del resto anche per l’area campana è attestata la presenza di esuli africani, essendo stato riconosciuto come tale il vescovo Quodvultdeus, sepolto nella cripta riservata alle massime gerarchie ecclesiastiche nella catacomba di S. Gennaro e il cui ritratto è stato tramandato nel magnifico volto eseguito a mosaico con il colore della pelle che ne denuncia la chiara origine africana. Gli scavi nella medesima area, come ad esempio a Cuma, a Napoli, a Sessa Aurunca hanno restituito inoltre monete vandale e protovandale. In Sardegna, si è detto, giunse anche il vescovo di Ippona e una tradizione di studi ha attribuito alla sua azione la traslazione dei resti di Agostino dal primitivo sepolcro che si ritiene essere stato nella chiesa cattedrale della sua città, la Basilica pacis, ove, come scrive Possidio “per la deposizione del suo corpo fu offerto a Dio un sacrificio, al quale assistemmo e fu seppellito”. La traslazione in Sardegna si basa sul racconto di Paolo Diacono (Hist. Lang., VI, 48): … Liutprand quoque audiens, quod Sarraceni, depopulata Sardinia, etiam loca illa, ubi ossa sancti Augustini episcopi propter vastationem barbarorum olim translata et honorifice fuerant condita, foedarent, misit, et dato magno pretio, accepit et transtulit ea in urbem Ticinensem ibique cum debito tanto patri honore recondidit. Per la seconda traslazione a Pavia la data oscilla tra il 712 e il 734, mentre per la prima traslazione, oltre l’attribuzione al vescovo di Ippona già ricordata, basata su una lettera di dubbia autenticità scritta a Carlo Magno da Pietro Oldradi, arcivescovo di Milano, è stato proposto che essa sia avvenuta in occasione dell’occupazione araba dell’Africa settentrionale, pertanto sulla fine del VII secolo, a opera di cristiani in fuga. A ogni modo una lunga tradizione lega la presenza del corpo di Agostino a Cagliari, ove lo si vuole deposto in un ambiente ipogeo all’interno dell’ambito urbano di età romana, ai limiti dell’antico quartiere di Stampace, riconosciuto come centro politico della città.
Senza dubbio stretti legami con l’Africa segnatamente in età vandalica sono stati evidenziati dalle ricerche archeologiche nella città di Cornus, che hanno restituito alla luce il complesso episcopale della città dotato di tre edifici cultuali, un primo di carattere funerario, un secondo dedicato alla sinassi, un terzo riservato al battesimo, di una vasta area funeraria, della residenza vescovile e di spazi riservati ad attività artigianali. Di particolare interesse è risultata la documentazione materiale dei riti funerari che si svolgevano segnatamente in relazione a sepolture a cupa e a tumulo che ripetono forme di cultura prettamente africana che nel periodo di nostro interesse vede la costruzione di una grande mensa rettangolare a testimonianza dello svolgersi della liturgia funeraria comunitaria, che si è voluta collegare almeno in parte alla possibile presenza degli esuli. Un prezioso contributo in tal senso viene dall’epigrafia: il titolo funerario dell’inizio del VI secolo, dedicato a un Abus Iscribonissa, documenta senza ombra di dubbio la provenienza africana del giovane e forse più precisamente dalla Mauretania, in cui tale forma onomastica risulta essere presente. Si aggiungano inoltre le presenze abbondanti di monete di età protovandala e vandala recuperate nell’ambito di alcune strutture e soprattutto nell’area funeraria: del resto esemplari di monetazione vandala ovvero di imitazione locale sono stati segnalati anche in altre località dell’isola.
La documentazione archeologica nelle due isole, in particolare nella Sardegna, conferma il clima di relativa tranquillità cui si è già accennato, documentato da una cospicua attività edilizia cui si associa una ricca documentazione materiale. In particolare nelle produzioni ceramiche prevalgono le importazioni dall’Africa, mentre per i prodotti vitrei accanto a probabili produzioni locali sono testimoniati materiali di importazione dai diversi mercati mediterranei che consentono di riconoscere una continuità ininterrotta dei commerci. Non mancano i manufatti metallici e risulta attestata in quest’epoca la lavorazione del sughero per oggetti di corredo, come documenta una custodia di specchio conservata al Museo Archeologico di Sassari.
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