L'Europa tardoantica e medievale. I popoli delle migrazioni nelle regioni occidentali: I Longobardi
Popolazione di lingua germanica occidentale il cui etnonimo di “popolo dalle lunghe barbe” si sarebbe formato (Origo, 1; Hist. Lang., I, 8-9) durante una delle più drammatiche fasi iniziali della migrazione che l’avrebbe portata dalla Scandinavia al territorio dell’Elba inferiore (Hist. Lang., I, 1, 3, 7- 8, 11-13), quindi, dopo secoli di permanenza nell’attuale Sassonia, l’avrebbe fatta giungere sul finire del V secolo in Boemia e Moravia, poi nel territorio danubiano fra Vienna, Budapest e il corso della Sava (dal 510/12) e infine in Italia; qui ai contingenti di mercenari longobardi stanziatisi nel centro- sud al termine della guerra greco-gotica (552) si aggiunse nel 568, condotta da Alboino attraverso i passi delle Alpi orientali, l’intera gens Langobardorum, in realtà un coacervo di popolazioni a dominanza longobarda aggregatosi in rapporto alle esigenze politico-militari della migrazione, che era portatore della cultura di tipo merovingio-orientale formatasi durante il sessantennio di permanenza nelle province norico-pannoniche.
Le ricerche archeologiche hanno assunto un’importanza sempre maggiore per la conoscenza di storia e civiltà dei Longobardi, contribuendo a chiarire il passaggio dall’originaria cultura germanica, caratterizzata dal rito dell’incinerazione, a quella di area nord e sud-danubiana, nella quale l’affermarsi dell’inumazione segna l’approccio alla civiltà tardoantica che nel VII secolo, dopo l’iniziale germanizzazione delle popolazioni romaniche della penisola, avrebbe permeato sempre più la cultura dei Longobardi portando alla loro integrazione nell’ambiente mediterraneo testimoniata dalla latinizzazione e dalla progressiva acquisizione della religione cristiana. Paolo Diacono, che attinge all’Origo gentis Langobardorum, asserisce che la sovrappopolazione della Scandinavia, da lui ritenuta un’isola, costrinse i Longobardi a cercare nuove dimore (Hist. Lang., I, 1-2). Sotto la guida dei mitici Ibor e Aio che avevano con sé la saggia madre Gambara (Hist. Lang., I, 7-13) essi avrebbero abbandonato la regione di Schonen nella Svezia meridionale con cui andrebbe identificata l’isola di Scandanan (Origo, 1, 2) e avrebbero raggiunto la Scoringa (Hist. Lang., I, 7, 10), cioè la “terra degli spuntoni rocciosi” identificabile con l’isola di Rügen e, dopo il vittorioso scontro con i Vandali propiziato da Frea, la Mauringa, “regione palustre” corrispondente alla zona costiera del Mecklemburgo occidentale; quindi raggiunsero Golaida identificabile con il bacino inferiore dell’Elba la cui configurazione geomorfologica era sensibilmente diversa da quella attuale. Strabone, uno dei testimoni del fallito tentativo di Roma di creare una provincia germanica lungo il Mar Baltico, fissa la sede dei Longobardi nella regione dell’Elba inferiore (Geog., VII, 291) alla quale riporta anche la successiva testimonianza di Tacito (Germ., XL) sulla loro appartenenza alle stirpi sveve insediate fra l’altro nel Nord della Germania. Non contraddicono Claudio Tolemeo (Geogr., II, 9, 17), che ricorda i Longobardi fra le popolazioni sveve della Germania, Velleio Patercolo, ufficiale e storico di campo di Tiberio (Ex Historiae romanae libris, II, 106) che fu il primo a registrare la presenza longobarda nel 5 d.C., e Dione Cassio (Hist. rom., LXXI, 3).
Il sospetto che le origini scandinave testimoniate dalle fonti (Origo, 1; Hist. Lang., I, 1, 7) abbiano carattere mitico è contraddetto dalle analogie fra il diritto longobardo e quello delle popolazioni scandinave, dalle caratteristiche comuni alla mitologia longobarda e a quella dei popoli nordici (corrispondenze fra i berserkir “che ha una pelle d’orso” e gli úlfhedhnar “che ha una pelle di lupo” vichinghi e i cynocephali, guerrieri longobardi che indossavano maschere rituali, di tipo totemico, a forma di testa di cane), dalle radici nordiche delle designazioni gentilizie Gausi e Harodi delle dinastie longobarde, dal fatto che nel VI secolo è testimoniata la popolazione scandinava dei Winuwiloth (Get., III, 23), discendente dell’aliquota dei Winniles non emigrata dalla terra d’origine: il significato di “combattenti” ovvero di “cani folli” o “infuriati” o di “cani vittoriosi” attribuito all’etnonimo è da riferire al culto canino di tipo militare sviluppatosi allorché i Winniles, cambiando identità, passarono dall’adorazione di Frea, la dea-cagna (antenato-animale di origine soprannaturale in quanto madre del re Lamissione, quindi totem della stirpe), a quella di Wotan, da una divinità femminile simbolo di fertilità, come la dea Nerthus, adorata secondo Tacito da numerose genti insediate lungo il Baltico (Germ., XL) ad una divinità guerriera in rapporto alle esigenze della migrazione che provocò un ridimensionamento del ruolo della donna nella struttura sociale di tribù che per la prima volta si aggregarono, dando luogo a un embrione di struttura statuale di tipo militare.
Il mutamento di religiosità e la “militarizzazione” dell’ancestrale cultura mitologica sono correlati dalle fonti alla migrazione in area baltica, databile intorno al 100 a.C., ma si è ritenuto che i culti guerrieri abbiano preso forma solo nel V secolo, in rapporto alla migrazione dal territorio elbano e alla condizione di permanente belligeranza che ne scaturì. Solo allora i Winniles avrebbero assunto il nome di Langobardi (Origo, 1; Hist. Lang., I, 8-9) cui furono obbligati per aver ricevuto da Odino-Wotan, grazie alla mediazione della sacerdotessa Gambara e della dea Frea (che dunque propizia la transizione), la vittoria sui Vandali che si opponevano al loro transito verso nuove terre: “lunga barba” era uno dei tanti appellativi di Odino-Wotan di cui i Longobardi, individuati come isti longibarbae, si riconobbero adoratori. Le sfasature fra le indicazioni delle fonti e la loro esegesi riflettono difficoltà interpretative connesse alla complessità di vicende che furono molto più articolate di quanto appare: i movimenti e le azioni dei Longobardi nell’ambito della confederazione sveva che si oppose con successo al tentativo di Augusto e di Tiberio di costituire una provincia germanica lungo l’Elba riguardarono anche il bacino del Reno, ove sarebbe attestata la presenza di alcune comunità, nonché la partecipazione di contingenti alle imprese di Arminio (che portarono all’annientamento delle legioni di Varo) e alla guerra contro i Marcomanni del 166/7; sembrano confermate in ogni caso quelle capacità e forza che Tacito enfatizza nonostante lo scarso numero dei Longobardi (“Langobardos paucitas nobilitat: plurimis ac valentissimis nationibus cincti non per obsequium sed proeliis ac periclitando tuti sunt”).
La ricerca archeologica condotta nella Sassonia sin dal XIX secolo ha dimostrato che fra il I a.C. e il IV-V secolo d.C. insediamenti stabili furono costituiti su entrambe le sponde dell’Albis flumen: lungo quella orientale il confine con i Semnoni non è ben definibile per le affinità fra le culture dei due popoli, sulla riva occidentale, ove la delimitazione rispetto al territorio dei Cauci sembra più chiaramente individuabile, l’area insediativa è compresa tra l’Oste e lo Jeetzel, due affluenti dell’Elba. La regione è quella dell’attuale Lüneburger Heide denominata in età carolingia Bardengau, toponimo per il quale sono note le varianti Bardengave, Bardungave, Bardonga, Barthunga, ecc., composto da Gau e Barden che indicano rispettivamente il distrettobase dell’organizzazione amministrativa della Sassonia e la popolazione longobarda. La regione il cui capoluogo fu Bardowick, nota anche come Bardenwich o Bardenowich, cioè Wik der Barden, fino al XIII secolo, quando incominciò a denominarsi Terra Luneborg, dominium Luneburg, donde il nome attuale, mantenne nel toponimo il ricordo della presenza dei Longobardi.
Nelle numerose necropoli a urne (ad es., Darzau, Rebenstorf, Rieste, Nienbüttel, Bahrendorf, Harsefeld, Putensen, Hamburg-Langenbeck, Hamburg-Harmstorf ) i corredi con armi di ferro, oggetti personali e gioielli della fase Seedorf (databili dalla metà del I secolo a.C.) risultano correlati a villaggi di 200-300 abitanti che praticavano l’allevamento e la coltura di frumento, orzo, avena, segale, miglio, meli, attestati dai rinvenimenti archeologici. In una fase molto antica gli uomini venivano sepolti almeno con la lancia; in un numero di tombe pari al 5-6% del totale compaiono quindi armamenti individuali più completi, formati tra l’altro dalla lunga spada a due taglienti, da un lungo coltello, dalla lancia, dallo scudo con l’umbone di ferro e con guarnizioni di ferro, bronzo e argento. La classe dirigente dagli evidenti connotati militari che domina su ampi strati socialmente ed economicamente inferiori e forse su popolazioni sottomesse cui sembrano riferirsi alcuni cimiteri privi di armi rispecchia la lenta formazione, propria di ambienti contadini, di un ordinamento sociale differenziato che nel II secolo esprimerà una vera e propria aristocrazia testimoniata dalle ricche sepolture principesche a inumazione di Apensen e Marwendel. Le urne sono talvolta costituite da vasi di bronzo (caldaie, bacili) importati dal territorio celtico e in epoca più recente dall’Italia; alla fine del II secolo si diffondono le urne a tazza.
La quasi improvvisa comparsa di una cultura attribuibile ai Longobardi nella fase Seedorf, la più recente fra quelle dell’età del Ferro nella Germania del Nord che ha inizio intorno al 120 a.C. (dopo le fasi Wessenstedt, 800-600 a.C.; Jastorf, 600-300 a.C. e Ripdorf, 300- 120 a.C.), ripropone il tema della migrazione del gruppo che ne è portatore e della sua possibile origine scandinava accettata dalla storiografia dalla fine dell’Ottocento e oggi nuovamente proposta secondo le indicazioni delle fonti (Origo, 1; Hist. Lang., I, 1, 7), nonostante lo scetticismo degli archeologi. Nell’ambito della continuità insediativa documentata dall’inizio dell’età del Ferro nel bacino inferiore dell’Elba, la comparsa di nuove suppellettili nella fase Jastorf sembra del resto attestare una precedente immigrazione di popolazioni sveve attraverso lo Schleswig-Holstein, territorio che insieme allo Jutland ebbe relazioni con l’area elbana. Verso la fine del IV secolo molte necropoli risultano non più utilizzate perché gli abitanti dei relativi villaggi si sono trasferiti altrove. La migrazione che non riguardò quanti diedero vita con altre genti alla popolazione della Sassonia, è databile tra gli ultimi 10-15 anni del IV e i primi del V secolo quando avrebbe regnato Agilmondo, il primo dei 17 re che precedono Rotari nell’elenco premesso all’Editto del 643, la cui elezione appare connessa all’esigenza di nominare un capo in rapporto alla difficoltà dell’impresa.
Da Golaida, i Longobardi, secondo Paolo Diacono, passarono nelle regioni di Anthaib, Bainaib, Burgundhaib (Origo, 2; Hist. Lang., I, 13) raggiungendo quindi il territorio dei Rugi, o Rugiland (Origo, 3; Hist. Lang., I, 19, 20), delimitato a sud dal corso del Danubio e compreso fra la regione montuosa di Brno, il margine orientale del Waldviertel, la zona della città di Krems a occidente e il corso della Morava fino al punto della sua confluenza con il Danubio a oriente. Nel loro spostamento verso l’area danubiana, non potendo praticare una rotta orientale per evitare l’impatto con popolazioni slave, seguirono il corso dell’Elba che con la propria vallata offrì un’eccellente via alla penetrazione verso l’interno del continente attraverso l’alta Sassonia. Nella zona intorno a Riesa e a Torgau in cui è documentata una cultura burgunda, sarebbe da porre Burgundhaib; Bainaib corrisponderebbe alla Boemia, ove non sono state rinvenute tracce di uno stabile insediamento dei Longobardi, ma dove alcuni piccoli cimiteri di fine V - primi decenni del VI secolo denunciano la presenza, al fianco di elementi locali e di stirpe turingica, di portatori della civiltà sviluppatasi lungo l’Elba che appare documentata dall’uso di deporre nella tomba le armi e di seppellire talvolta con il guerriero anche il cavallo, o i cavalli, e il cane. Anthaib corrisponde al dominio degli Anti, fra Danubio e Tibisco. La data dello stanziamento nel territorio abbandonato dai Rugi dopo le sconfitte loro inflitte da Odoacre, re degli Eruli, il 14 novembre 487, e dal fratello Ornulf l’anno successivo è stata fissata al 489 in base alla cronologia dei reperti rinvenuti a nord del Danubio, definita per confronto con il materiale della necropoli longobarda di Várpalota in Ungheria. Tuttavia la presenza dei Longobardi lungo la riva sinistra del grande fiume fu, molto probabilmente, instabile e itinerante fino al 508, anno nel quale, sconfiggendoli sotto la guida del re Tatone, essi si liberarono della sovrastante potenza degli Eruli impossessandosi del loro enorme tesoro.
Nel territorio nord-danubiano delle attuali Moravia e Austria Inferiore, i Longobardi rimasero parte fino al 526/7, parte fino al 546/7. Infatti non abbandonarono completamente l’area nord-danubiana anche se all’indomani della morte di Teodorico nel 526 e della crisi del regno degli Ostrogoti si trasferirono nelle province del Noricum Ripense, del Noricum Mediterraneum e della Pannonia I in cui avevano incominciato a infiltrarsi sin dal 510/12 sotto la guida del nuovo re Wacone, ultimo sovrano della dinastia lithinga che in quasi 30 anni di governo strutturò un ampio regno inserendolo nello schieramento politico bizantino, cosa che avrebbe comportato la partecipazione di contingenti longobardi alla guerra goto-bizantina dalla parte dell’Impero. A sud dell’isola fluviale di Csepel, presso il castrum romano di Aquincum che, con altri castelli, presidiava il limes all’altezza di Buda, lungo il Danubio e fino al lago Balaton, sono state trovate necropoli del tipo Vörs-Kajdacs, simili a quelle di tipo Szentendre scoperte nel territorio tra Vienna e Csepel-Aquincum-Budapest, che presentano un numero di sepolture inferiore circa del 50%. Poiché la gens Langobardorum lasciò le province sud-danubiane nel 568 (o 569, secondo il computo di O. Bertolini) per trasferirsi in Italia, ciò significa che le necropoli del tipo Vörs-Kajdacs furono usate per la metà del tempo d’impiego delle altre e, come mostra l’affinità con i manufatti rinvenuti a nord del Danubio, da Longobardi insediati nelle attuali Moravia e Austria Inferiore fin verso il 546/7 che le impiantarono forse a partire dal 535 (allorché gli attacchi bizantini ridimensionarono la potenza degli Ostrogoti) dopo il loro trasferimento nella Pannonia II e nella Valeria, province dalle quali, dopo il 565, si sarebbero ulteriormente spostati nella Savia, tra i fiumi Drava e Sava, la cui acquisizione fu resa possibile dall’alleanza che Giustiniano strinse con Audoino, padre di Alboino, proclamatosi re dopo la morte di Waltari, il figlio minorenne di Wacone in nome del quale lo stesso Audoino aveva assunto la reggenza alla morte di quest’ultimo intorno al 540. I limitati risultati dell’accordo con i Bizantini che non sostennero adeguatamente gli alleati germanici nel primo conflitto con i Gepidi del 551 (nel 547 e nel 549 lo scontro era stato evitato), risoltosi a vantaggio dei Longobardi anche per l’impegno di Alboino che uccise in battaglia Turismondo, figlio del re gepido Turisindo, né li remunerarono adeguatamente per l’appoggio dato nel corso della guerra contro gli Ostrogoti d’Italia, indussero Audoino a schierarsi con i Franchi che dal 553 combattevano contro i Bizantini nell’Italia nord-orientale.
Nella società testimoniata dalle necropoli di area danubiana (fra le quali vanno ricordate quelle di tipo Hegykö, riferibili a popolazioni germaniche poste probabilmente sotto il dominio longobardo) funzioni di rilievo sono svolte dagli arimanni, sepolti con le armi (spada, lancia, scudo) che ne simboleggiano lo status e la funzione militare, con il pettine d’osso e con una piccola borsa contenente oggetti d’uso personale che era sospesa alla cintura recante la fibbia e decorazioni in argento o in oro. Completano le deposizioni nella nuda terra o in sarcofago di legno, offerte di viveri e di bevande cui rimandano le bottiglie e le brocche di ceramica stampigliata o traslucida simile a quella dei Gepidi insediati nel bacino del Tibisco e in Transilvania e tipica del periodo danubiano e dei primi tempi dell’insediamento italiano, non oltre la fine del VI secolo. Le produzioni fittili di questo periodo sono rappresentate anche da vasi realizzati senza l’uso del tornio secondo le tecniche protostoriche impiegate negli insediamenti nord-danubiani e germanici: a brocche e boccali si accompagnano urne che documentano la pratica residuale dell’incinerazione abbandonata dai Longobardi tra V e VI secolo, nel corso della migrazione che già in territorio boemo e moravo rese possibile il loro approccio alla civiltà tardoantica permeata di forme di religiosità cristiana di cui sarebbero state mediatrici popolazioni germaniche già cristianizzate come Turingi, Eruli, Rugi, nonché Romani d’occidente e medio-orientali la cui presenza nello scacchiere danubiano sin dagli ultimi secoli dell’Impero è legata a rapporti economici ed esigenze di difesa militare.
La ricerca condotta nelle province norico-pannoniche ha evidenziato che le incinerazioni rappresentano una percentuale estremamente bassa del totale delle sepolture, costituite per il resto da inumazioni in nuda terra e, in una percentuale che si avvicina al 45%, da fosse profonde con sarcofagi di legno di vario tipo: casse e inumazioni dei più agiati, talvolta realizzate con il Totenbrett, una sorta di letto funerario su cui veniva steso il defunto, erano sormontate sovente da una struttura lignea che simulava la capanna usata in vita dal defunto. Peraltro l’acquisizione di elementi della cultura tardoantica e mediterranea coesiste in area danubiana con quella di pratiche desunte dai legami annodati con gli Ávari, popolazione nomade di abili cavalieri e allevatori di cavalli proveniente dall’Asia Centrale dalla quale i Longobardi ricavarono l’esperienza di un più appropriato e funzionale impiego della cavalleria.
In area sud-danubiana i corredi femminili sono caratterizzati da fibule a S usate in coppia per fissare l’abito o il mantello all’altezza delle clavicole, da due fibule ad arco uguali con cui poteva essere chiuso il mantello ma che forse avevano solo valore apotropaico, da cinture con fibbie di ferro, di bronzo o di metallo pregiato, da un cingulum o da catenelle sospese alla cintura cui erano appuntati amuleti e oggetti comuni come fuseruole, chiavi, coltellini, conchiglie, perle vitree, sfere di cristallo di rocca racchiuse da una montatura d’argento nonché le fibule ad arco in funzione di amuleti: si tratta dei cosiddetti “pendenti di cintura” diffusi in area merovingia che le donne longobarde usarono per decenni dopo l’arrivo in Italia. Presenti anche nei corredi italiani dei primi decenni come quelle ad arco alle quali le accomuna la realizzazione per fusione, le fibule a S sono formate dai corpi stilizzati di due rapaci e sono ornate a cloisonné da granati o paste vitree. Nelle fibule ad arco si riscontra in area danubiana, con quella a motivi geometrici, la decorazione nel I stile animalistico elaborato in Pannonia su modelli di area scandinava.
La migrazione dei Longobardi in Italia nel 568 o 569 trova le sue ragioni nella grave sconfitta da loro inflitta nel 567 ai Gepidi, alleati dei Bizantini, con il determinante appoggio degli Ávari, insediatisi da alcuni anni fra il bacino del Tibisco e il Mar Nero. La distruzione della popolazione avversaria di ceppo goto, creando una subordinazione di fatto dei Longobardi rispetto agli Ávari la cui abilità di cavalieri avrebbe potuto essere difficilmente contrastata dall’esercito di Alboino, costrinse infatti il brillante sovrano longobardo a trovare la via d’uscita alla pericolosa convivenza con gli scomodi alleati asiatici nella migrazione della sua gens verso una nuova area d’insediamento piena di attrattive: l’Italia era ben nota ai guerrieri longobardi perché alcuni contingenti vi avevano combattuto nel corso della guerra goto-bizantina ed erano stati fatti stanziare da Narsete nel Beneventano e in altre aree dell’Appennino centro-meridionale. A capo di un grande esercito a dominanza longobarda formato anche da un’aliquota degli sconfitti Gepidi, da Bulgari, Sarmati, Sassoni, Svevi e Romani delle province danubiane, Alboino raggiunse la penisola attraverso la valle del Vipacco nelle Alpi Giulie e le vie romane secondo un itinerario che da Savogna sull’Isonzo, per Forum Iulii (Cividale del Friuli) si pose sulla via Postumia fino a Verona e da qui, per la via Gallica, raggiunse Milano che fu presa il 3 settembre 569. Formavano la spedizione almeno 200.000 unità, un numero pari al doppio degli Ostrogoti presenti in Italia: aveva reso possibile l’incremento della gens Langobardorum la variabilità della composizione propria delle gentes germaniche, grandi gruppi instabili, aperti e in continuo cambiamento la cui coesione veniva assicurata dalla convinzione dei loro appartenenti di aver avuto in passato antenati comuni. L’aggregazione di una comunità a base polietnica che venne progressivamente ingrandendosi in rapporto agli sviluppi dell’ondata migratoria (Wanderlawine) divenendo sempre più eterogenea, si tradusse in un vero e proprio processo di etnogenesi reso ancor più serrato dalle esigenze militari della migrazione: l’equivalenza fra gens ed exercitus che venne determinandosi secondo un modello prospettabile anche per i precedenti spostamenti dei Longobardi e per altri popoli delle Migrazioni, si manifestò essenzialmente nella formazione di una compagine militare strutturata su gruppi parentali chiusi e coesi – le farae intese come generationes vel lineas (Hist. Lang., II, 9) – la cui operatività permise ai Longobardi di conquistare in poco tempo quasi tutta l’Italia settentrionale da Forum Iulii fino al Piemonte e alla Tuscia con un’operazione tutt’altro che indolore come mostra la conquista di Pavia svoltasi fra violenze e devastazioni nel 572. Basata sulla fara intesa come Fahrtgemeinschaft o comunità di viaggio dei guerrieri e delle loro famiglie alla ricerca di nuove patrie (comunità che si pone al disotto della gens e al di sopra della famiglia), la struttura dell’esercito è attestata anche dal cosiddetto Pseudo-Maurizio, il trattato militare bizantino che agli inizi del VII secolo documenta la consuetudine dei “popoli biondi” (soprattutto Franchi e Longobardi) di combattere per gruppi familiari.
Le tracce archeologiche dell’occupazione del territorio sono costituite dalle numerosissime necropoli familiari scavate dal Friuli alla Lombardia, al Piemonte, alla Toscana e nel territorio del Ducato di Spoleto: i corredi funerari talvolta molto ricchi evidenziano il ruolo e la funzione militare degli arimanni, sepolti con le armi, con i complementi del vestiario e dell’armamento (cinture per l’abito e per la sospensione di spada, arma a due taglienti, e scramasax, a un solo taglio), con gli oggetti personali e con un vaso da riferire all’offerta di viveri e bevande. Sebbene tutti gli exercitales, gli uomini liberi longobardi (ovvero quelli che si riconoscevano nella tradizione dell’aristocrazia dominante, qualunque fosse la loro etnia), nell’ambito di una struttura sociale imperniata proprio sulla rispondenza fra condizione di libero e partecipazione all’esercito, avessero il diritto-dovere dell’esercizio delle armi, come risulta dalla legislazione di Liutprando (Leges Langobardorum, Liutprando, 62) e, per la Langobardia minor, da un capitolo di legge di Arechi II (Leges Langobardorum, Arechi, 4), venne affermandosi una profonda differenziazione sociale che implicò l’estromissione dall’esercito di quegli arimanni le cui modeste condizioni economiche non consentissero loro di essere armati in maniera adeguata, cioè da cavalieri; inoltre la gerarchia di valori fondata sulla ricchezza fondiaria che si determinò tra gli arimanni stessi con la formazione di un ceto di maiores et potentes ebbe un riflesso sull’organizzazione e struttura dell’exercitus come attestano le leggi “militari” di Astolfo (Leges Langobardorum, Astolfo, 2, 3): i “ricchi al di sopra della media”, muniti di elmo (Spangenhelme), di corazza a lamelle e dell’armamento completo (spada, sax, lancia, scudo), e inoltre forniti di stendardo, sella, speroni e altri finimenti del cavallo (morso, cavezza e briglie), formavano la cavalleria pesante alla quale contribuivano con la cavalcatura personale e altri cavalli e, se particolarmente ricchi, con cavalli e armamenti completi in quantità proporzionata al patrimonio; i possessores di livello medio disponevano della cavalcatura e dell’armamento completo ma non di elmo, corazza e stendardo; infine i minores homines entravano a far parte dell’esercito solo se in grado di procurarsi lo scudo ed erano per lo più muniti di arco, frecce e faretra. Il seguito dei cavalieri ricchi che svolgeva funzioni di scorta e di servizio e la fanteria erano formati probabilmente da soggetti appartenenti a quest’ultima categoria se non da semiliberi in rapporto di subordinazione rispetto agli arimanni.
I corredi femminili riferibili a soggetti di livello socioeconomico elevato presentano collane con ornamenti in oro (talvolta costituiti da monete), fibule a S d’argento dorato ornate da almandini e paste vitree, fibule ad arco, orecchini, aghi crinali, oggetti da toeletta come il pettine d’osso e altri complementi del vestiario, ad esempio la cintura; nelle tombe di VI - inizi VII secolo non mancano le spade per la tessitura proprie della tradizione germanica e almeno una brocca o bottiglia o un bicchiere di ceramica stampigliata o traslucida nonché collane con perline di paste vitree variopinte oppure d’osso o pietra che, se associate a oggetti di modesta fattura, documentano sepolture di donne di condizione media o medio-alta. La produzione delle fibule a S, affermatasi fra i Longobardi pannonici e nota attraverso alcune varianti italiane, non va oltre la fine del VI secolo; raggiunge invece gli anni 620/30 quella delle fibule ad arco che evolve in Italia, rispetto ai modelli di area danubiana, verso forme di maggiori dimensioni con ornamentazione animalistica per lo più nel II stile e nella Schlaufenornamentik che sostituiscono l’ornamentazione di tipo geometrico e nel I stile documentata a Cividale e dalla coppia di fibule della tomba 11 di Nocera Umbra. L’esemplare lì rinvenuto nella tomba 162, databile al 610/30 (epoca in cui terminano le deposizioni), attesta che la produzione italiana, analogamente a quella d’oltralpe, si è orientata verso la fabbricazione di esemplari singoli. Il superamento del “sistema” a quattro fibule tra fine VI e terzo decennio del VII secolo implicò la coeva introduzione nel costume femminile della fibula a disco e di altri tipi di fibule tardoantiche, secondo una modalità comune a contesti culturali come quelli franco, alamanno, burgundo ove, diversamente dall’Italia longobarda, si rilevano chiare differenze regionali e di officina nelle consistenti serie di fibule rinvenute. L’unica serie omogenea nota nella penisola è costituita dalle 15 fibule a disco d’oro decorate a filigrana (databili fino al 660) di Castel Trosino, centro del Ducato di Spoleto raggiunto dalle produzioni “bizantine” di area adriatica; da Castel Trosino proviene anche la serie più completa di orecchini a cestello (d’oro e d’argento), pari a un quarto di quelli rinvenuti in Italia, ove la produzione, documentata per la prima volta dal “prototipo” di Torino Lingotto (un corredo databile intorno al 600), prende l’avvio agli inizi del VII secolo per svilupparsi negli anni Venti-Trenta.
L’adeguamento dei Longobardi alla civiltà tardoantico-mediterranea si esprime anche attraverso l’introduzione delle cinture molteplici con guarnizioni in oro e argento che, nel corso della seconda generazione italiana, prendono il posto delle più semplici cinture di area danubiana secondo una moda riscontrata in ambito merovingio. Caratterizzate da decorazioni a punti e virgole e da motivi figurati di origine mediterranea, erano prodotte (come le guaine di spade e sax, le guarnizioni di sella e altri finimenti) da complessi artigianali centralizzati che le immettevano in un circuito di distribuzione tale da raggiungere anche i territori d’oltralpe grazie alla rivitalizzazione, a fine VI secolo, di talune direttrici commerciali alpine e al ruolo egemone assunto dal regno longobardo nelle esportazioni verso i Paesi limitrofi. Utilizzate per la sospensione delle armi (la cui guaina è rinforzata da lamine pregiate e placche a forma di P formanti una guarnizione databile non oltre gli inizi del VII secolo), dopo il 625 le cinture a frange vengono sostituite da modelli d’argento formati per lo più da fibbia, puntale e placchetta a doppia testa di grifo con decorazione a punti e virgole sovente associata a monogrammi. Dopo la scomparsa di questo tipo di cintura di cui è nota anche una serie bronzea, fino agli inizi dell’VIII secolo persistono gli esemplari di ferro ageminato i cui pezzi più antichi sono noti da Castel Trosino e Nocera Umbra: dalle cinture in oro e argento essi mutuano i motivi decorativi secondo la consuetudine propria dell’artigianato del tempo di riprodurre all’agemina le ornamentazioni dell’oreficeria. Alle officine che, in numero limitato e forse anche a Roma, produssero cinture molteplici ageminate di tipo bizantino e, dalla metà del VII secolo, di carattere più elaborato (con placche e puntali più grandi e decorazioni spiraliformi) si riporta anche la produzione di speroni e di sellae plicatiles rinvenute in buona quantità in tombe del 590-610 di Nocera Umbra. Gli speroni dalla tomba T di Castel Trosino (630/60) recano una decorazione a nastri intrecciati consueta in questo tipo di manufatti; intrecci animalistici decorano le cinture di Castelli Calepio (Bergamo), Sovizzo (Vicenza), Monselice (Padova), Trezzo sull’Adda, Cascina San Martino (Milano), Marlia (Pisa), ecc. Derivata da modelli tardoantichi ma pervenuta ai Longobardi attraverso mediazioni di ambiente merovingio, la cintura in bronzo (talvolta stagnato) con fibbia ovale, ardiglione a largo scudetto, placca e controplacca triangolari, puntale e placche di forma e numero variabili (forniti anche di occhielli per la sospensione della spada o del sax) è in assoluto la più diffusa nei sepolcreti longobardi per la sua “lunga durata” dall’inizio dell’occupazione longobarda a tutto il VII secolo e per la standardizzazione produttiva conseguita già agli inizi del VII con positivi riflessi di mercato.
La latinizzazione del costume, testimoniata dalla presenza nei corredi di anelli-sigillo, di calici e corni potori in vetro, di vasellame d’argento, in pietra ollare e in ceramica di produzione locale, ad esempio a vetrina pesante, nel VII secolo riguarda anche l’armamento del guerriero che continua a essere deposto fino agli inizi dell’VIII, a differenza del corredo femminile la cui “riduzione” risale al secondo quarto del VII secolo. Riflette modelli ampiamente diffusi nel mondo germanico la produzione di spade e sax secondo la raffinata tecnica della saldatura di lame di ferro carburato (una sola nel caso del sax) a un’ossatura in fogli di metallo dolce saldati e ritorti in maniera da produrre l’effetto della damaschinatura, un procedimento che garantiva alle armi flessibilità e resistenza. L’influenza di modelli tardoantichi e bizantini si registra nell’introduzione di nuovi tipi di lancia e frecce (qualcuno mutuato anche dagli Ávari), di corazze lamellari ed elmi (simili a quelli degli ufficiali dell’esercito imperiale), di alcuni finimenti del cavallo (borchie, fibbiette, placche e puntali d’oro o d’argento), di decorazioni in bronzo dorato nei pregiati scudi circolari da parata quali sono quelli documentati dalla lamina di Agilulfo e dal disco d’oro con raffigurazione di cavaliere da Cividale del Friuli. Con le lamine ornamentali (riproducenti fanti e cavalieri, pavoni, leoni e rapaci) sulla superficie lignea degli scudi da parata presero a risaltare (perché dorati e punzonati) nel VII secolo anche i chiodi di fissaggio dell’umbone e del sistema di imbracciatura formato da un’asta in ferro fissata sul retro in maniera che la maniglia venisse a trovarsi in corrispondenza della cavità dell’umbone. L’arco con rinforzi in osso e le staffe furono mutuati dagli Ávari. Nel corso del VII secolo l’umbone di scudo venne modificato assumendo la forma a calotta emisferica su tronco di cono e il Kurzsax (più simile a un coltello-attrezzo che a un’arma) fu sostituito dal Langsax, una vera e propria sciabola strutturata per colpire soprattutto di taglio. Una variante della fibula circolare è quella a tre pendagli, del tipo documentato dal ritratto di Giustiniano nel bema di S. Vitale a Ravenna e dalla monetazione sia bizantina che longobarda: gli esemplari, tra gli altri, rinvenuti a Benevento (fibula dell’Ashmolean Museum di Oxford), Capua (fibula della Bibliothéque Nationale di Parigi), Canosa (fibula del British Museum di Londra), potrebbero documentare l’impiego da parte di personaggi di vertice del ducato beneventano di un simbolo della regalità bizantina.
Le croci in lamina, come le fibule a croce che si ritiene venissero usate non solo dalle donne romane, rappresentano il segno più vistoso della cristianizzazione che costituisce un segmento del più ampio processo di acculturazione dei Longobardi. La ricerca ha chiarito che si tratta di manufatti propri della cultura tardoantica e altomedievale di area mediterranea la cui diffusione è speculare allo sviluppo dei rapporti dei Longobardi con il mondo mediterraneo e al progredire della cristianizzazione della stessa aristocrazia dominante longobarda: nella penisola si registra il numero più alto di croci in lamina d’oro, mentre la presenza di esemplari d’argento, bronzo, rame e ferro testimonia la diffusione di questo simbolo in ogni strato sociale. Non si può escludere che la deposizione, nelle tombe, di croci auree (cucite, fino ad un massimo di cinque, a un velo posto sul volto del defunto o ad un sudario) possa aver tratto spunto dall’uso di croci votive in contesti religioso-cristiani, come le croci visigote della Penisola Iberica o gli esemplari con iscrizioni votive presenti nel Mediterraneo orientale tanto più che alcune croci funerarie (astili, con catenelle e ganci o spillone di fissaggio) sembrano essere state prodotte per un impiego durante la vita del possessore e solo successivamente averlo seguito nella tomba come segno distintivo di tipo devozionale. L’ipotizzabile impiego del manufatto (che poteva essere appeso a un drappo o cucito ad esso mediante i fori presenti sui bracci) in particolari circostanze cerimoniali sembrerebbe convalidato oltre che dall’analogia rilevata tra le croci con ganci e catenelle e le croci votive, dal rinvenimento di una croce, sia pure priva del braccio superiore (per cui non si sa se fosse fornita di un gancio e di un’eventuale catenella), nell’area abitativa della Pieve del Finale a Finalmarina nel Savonese: l’uso domestico o comunque in contesti e circostanze di tipo cerimoniale potrebbe quindi precedere, almeno in certi casi, quello funerario.
I dettagli zoomorfi (e talvolta antropomorfi) disposti (spesso in modo non anatomico e con criterio “additivo”) in composizioni nel I stile di origine scandinava che i Longobardi avevano rielaborato in Pannonia dal 530, mentre compaiono nelle fibule della zona orientale (dal Friuli a Nocera Umbra) sono sostanzialmente assenti nelle croci la cui ornamentazione, secondo un’articolata analisi stilistica derivata (per i motivi animalistici) dalla classificazione di B. Salin, è imperniata sul prevalente impiego della Schlaufenornamentik e del II stile oltre che sul ricorso all’intreccio puro, a temi antropomorfi e alle decorazioni di tipo tardoantico-mediterraneo e bizantino. Queste attingono anche a espressioni ed elementi della simbologia cristiana (cervi e colombe, tralci di vite e pampini, altri motivi vegetali e animali, santi e oranti, nonché lo stesso volto di Cristo e la Madonna col Bambino) e spesso sono associate nel medesimo pezzo ad espressioni proprie dell’ornamentazione germanica di tipo animalistico il cui impiego nelle croci dimostra che il patrimonio costituito dal suo repertorio non andò perso con l’interrompersi della produzione di manufatti di tradizione preitaliana come le fibule ad arco.
La Schlaufenornamentik, diffusa dal Friuli al Piemonte fra il 590 e il 630-640, è un’ornamentazione zoomorfa che ha abbandonato il principio “additivo” del I stile per intrecciare senza simmetria e regolarità (o con simmetria molto approssimata) nastri e dettagli zoomorfi ripresi da questo stile allo scopo di coprire in maniera serrata e continua l’intera superficie da decorare, come si riscontra, ad esempio, nelle croci da Cellore d’Illasi nel Veronese, da Colosomano di Buia e San Salvatore di Maiano in Friuli. L’integrazione fra il linguaggio zoomorfo proprio della versione longobarda del I stile animalistico (elaborata in area pannonico-danubiana su modelli scandinavi) e l’intreccio nastriforme mediterraneo è all’origine del II stile che, nelle sue varianti, conferisce appunto una connotazione zoomorfa a un decoro a nastri intrecciati con simmetria, conseguendo un effetto organico come avveniva nel II stile B1 e come si rileva nella fase di passaggio dal II stile A (in uso fra il 590 e il 630) al II stile B: nella croce da una tomba scoperta nel 1906 a Verona, palazzo Miniscalchi, databile dal contesto tra la fine del VI secolo e il 630, la duplicazione della coppia di animali con il corpo intrecciato al centro genera un motivo complesso imperniato sulla prevalenza dell’intreccio di nastri rispetto agli altri elementi zoomorfi. La croce viene a essere così un elemento di transizione verso il II stile B2 caratterizzato dalla rappresentazione, ispirata a criteri di simmetria, di animali dal corpo nastriforme (a sviluppo diversificato) nella cui raffigurazione i dettagli zoomorfi risultano puntuali ma sovente parziali o ridotti al minimo (ad es., nella croce di Verona via Monte Suello, tomba 2).
L’inserimento della modularità nell’impianto a nastri simmetrici integrati da elementi zoomorfi che è proprio del II stile B2 produce intrecci senza soluzione di continuità, detti “a sviluppo infinito” perché potrebbero essere reiterati senza fine mediante la replica costante del modulo di base. Tra gli esempi di questo tipo di decoro vi sono una croce dal Bresciano e due esemplari da Trezzo d’Adda, tra cui la croce dalla tomba 5, della prima metà del VII secolo. Il II stile B2 integra talvolta l’intreccio a elementi zoomorfi con elementi antropomorfi come in una croce proveniente forse da Cividale in cui una sequenza di mani nella parte inferiore dell’ornato completa la composizione zoomorfa e come si rileva nella cornice del disco cosiddetto “del cavaliere” di Cividale completata nella fascia inferiore da zampe e nastri ritorti. Gli elementi antropomorfi possono diventare esclusivi come nella composizione a intreccio modulare antropomorfizzata delle croci da Cividale, necropoli di S. Stefano in Pertica, tombe 11 e 12. Il carattere antropomorfo delle rappresentazioni a sviluppo infinito sembra una prerogativa dell’ornamentazione praticata dagli artefici attivi in Friuli. In Lombardia si registra invece l’inserimento di volti umani nelle composizioni chiuse, cioè quelle che, per mancanza di un’impostazione modulare del decoro, non possono avere sviluppo illimitato, come si riscontra, ad esempio, nella croce da Pieve del Cairo, Cascinale Mercurina, in territorio pavese. Il volto umano compare di frequente (anche isolato) al centro o lungo i bracci, ad esempio nella bellissima croce restituita nel 1874 a Cividale dalla tomba detta “di Gisulfo”, datata intorno alla metà del VII secolo e che è stato ritenuto possa essere la sepoltura del duca Grasulfo II, morto intorno al 653. Il volto umano ricorre anche nell’esemplare rinvenuto a Santa Maria Capua Vetere nel 1847. Una completa raffigurazione antropomorfa, associata ad animali intrecciati, si registra sui bracci della croce di Dueville, in territorio vicentino. La figura umana è rappresentata anche nella croce già al Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo, recante l’immagine di una Madonna con Bambino associata a quella di draghi delineati nel II stile.
La complessa stratificazione di contenuti ideologici e di aspetti simbolici quale viene registrata in Italia nelle croci dalla commistione e varietà degli elementi ornamentali (riferibili da una parte all’immaginario germanico dall’altra al sistema di valori proprio della cultura cristiana di area mediterranea) appare rispondente alle dinamiche del processo di etnogenesi compiuto dai Longobardi e, al tempo stesso, esplicativa dell’impiego diffuso e progressivo di questi manufatti che nelle loro tante versioni risultano ricettori della sensibilità individuale, se non del gruppo familiare committente, e insieme veicoli di messaggi attinenti sia alla condizione sociale sia alle convinzioni religiose: la problematica allusività dei motivi animalistici che in diverse croci si alternano o si coniugano con i temi dell’iconografia cristiana viene talvolta integrata o surrogata da formule di valenza magica quali risultano le scritte più ermetiche (tali, tuttavia, anche per la difficile interpretabilità delle abbreviazioni che in qualche caso può dipendere dalla poca dimestichezza con i simboli grafici da parte di orafi analfabeti) e dai monogrammi contenenti formule augurali, invocazioni o riferimenti cristologici ma talvolta concretamente allusivi di personaggi di vertice della società longobarda e delle loro funzioni così come allusive risultano le impressioni monetali che possono contenere richiami ad attività di zecca se non rinviare alla valenza religiosa rivestita dall’effigie impressa.
Al contrario di quanto avvenne in Italia settentrionale e centrale, nel Ducato di Benevento – esteso nel VII secolo dall’Abruzzo e dal Lazio meridionali fino alla Calabria settentrionale e al Salento rimasto in mano ai Bizantini che esercitarono la loro autorità anche su alcune città costiere (Napoli, Amalfi, Gaeta) – più che farae agirono contingenti limitati e, per così dire, specialistici, cioè nuclei di militari privi del supporto della gens e pronti all’integrazione con l’elemento indigeno, cioè strutture aggregative del tipo del comitatus germanico, un contingente di guerrieri caratterizzato da un profondo senso comunitario che segue temporaneamente un capo ma può divenire una struttura stabile e che ha profonde radici nella cultura germanica. I rinvenimenti delle due necropoli di Vicenne e di Morrione a Campochiaro, presso Boiano (Molise), le più grandi individuate nel Mezzogiorno, evidenziano anche la componente culturale di matrice asiatica mediata dagli Ávari se non dai Bulgari di Alzeco, il duca che intorno al 665 ottenne da Grimoaldo I di potersi insediare con la sua gente nell’area di Isernia-Sepino-Boiano: numerose sepolture con cavallo rimandano al costume funerario dei popoli delle steppe che anche alcuni rinvenimenti friulani sembrano documentare. I due sepolcreti confermano tuttavia l’incidenza della componente mediterranea con la quale la cultura merovingio-orientale dei Longobardi si misura continuamente come mostrano anche i corredi di Castel Trosino e di Benevento.
La mentalità strettamente militare della monarchia e degli occupanti implicò all’inizio scarsissima possibilità di incidere sull’assetto urbanistico dei centri conquistati: nelle città l’insediamento longobardo dei primi decenni ha lasciato scarse tracce toponomastiche come le faramannie (insediamenti di fare) di Pavia e Bergamo e i “cordusi” di Milano e Pavia; la curs ducis è attestata anche a Benevento nell’area del Planum Curiae ove Arechi II avrebbe strutturato nell’VIII secolo il Sacrum Palatium. Nell’ambito del processo di acculturazione e integrazione, in particolare a partire dalla triade reale Ariperto-Pertarito-Cunicperto, sovrani e duchi avrebbero gareggiato nel realizzare opere di edilizia religiosa e nell’istituire e dotare monasteri (Hist. Lang., IV, 47, 48; V, 33, 34; VI, 1, 17) come l’abbazia di Bobbio edificata da s. Colombano (Hist. Lang., VI, 41). Instancabile collaboratrice di Gregorio Magno, mediatrice verso la politica dei suoi due mariti, Autari e Agilulfo (così come più tardi nel Mezzogiorno avrebbe fatto Teoderada rispetto alla politica del duca Romualdo I), personaggio di valenza integralmente cristiana, Teodelinda fece costruire a Monza la basilica di S. Giovanni (Hist. Lang., IV, 21) e un palazzo i cui affreschi a carattere storico raffiguravano alcune imprese dei Longobardi, riproducendo il costume nazionale e in particolare l’acconciatura che va riferita al culto di Wotan, il dio dalla lunga barba (Hist. Lang., IV, 22): la nuca era rasata, i lunghi capelli, spartiti a metà sulla fronte, ricadevano sulle guance fino alla bocca unendosi quindi alla barba che in tal modo sembrava partisse dalla sommità del capo e che non veniva mai rasata (Hist. Lang., I, 9) in rapporto con la leggenda etnonimica di Odino-Wotan e Frea. L’episodio dimostra che, nonostante i contatti con la società romano- cristiana e iniziative come la fondazione desideriana del S. Salvatore di Brescia e quella di S. Sofia di Benevento (tempio nazionale della gens Langobardorum nonché sacrario della stirpe) da parte di Arechi II, il duca che rinnovò Benevento edificando la Civitas nova, i Longobardi avvertirono a lungo l’esigenza di mantenere stretti rapporti con le fonti autentiche del potere che scaturivano dalla tradizione del popolo conquistatore e dalla sua storia antiromana, guerriera e pagana. Il perdurare della dominazione longobarda nel Meridione fino all’XI secolo fece sì che il ceto dirigente potesse consolidare la trasformazione di strutture sociali, istituzioni e idee che al Nord era stata arrestata dalla conquista attuata da Carlo, re dei Franchi ai danni del re Desiderio nel 774 (conquista che riguardò anche il ducato spoletino e che fece di Benevento l’unica patria longobarda), concludendo così il processo storico che aveva portato dall’iniziale aggregazione di gruppi parentali e dall’associazione di tribù alla formazione dello Stato territoriale.
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