L'Europa tardoantica e medievale. I popoli delle migrazioni nelle regioni occidentali: I barbari
Il termine deriva dal greco βάρβαρος (“straniero”); analogamente al sanscrito barbaràé (“balbuziente”), a cui si fa risalire, evidenzia la diversità come fatto linguistico: il non greco è pertanto colui che usa la lingua in modo improprio o balbettando. L’origine del concetto è quindi legata alla sfera politico- culturale dei Greci, e successivamente dei Romani, e muta nel tempo, designando via via le nuove etnie che con essi vengono in contatto, spesso in conflitto. Successivamente alla caduta dell’Impero romano il concetto è fatto proprio dalle forme statuali e di egemonia politico-culturale e religiosa che a quello si ispirano: la Chiesa romana, l’impero bizantino, quello carolingio, ecc.
È probabile che tra i Greci d’Asia Minore, primi a fare esperienza di prolungati contatti con popoli estranei, il termine “barbari” abbia trovato una prima oggettivazione nel confronto, tramutatosi presto in scontro frontale, con i Persiani. È a partire dalla vittoria su questi ultimi e dalle celebrazioni egemonizzate dell’imperialismo ateniese che ha origine l’elaborazione figurativa del tema del barbaro mediata attraverso il mito; è soprattutto ai grandi cicli architettonici, dipinti e scolpiti, con Amazzonomachie e Centauromachie, che viene affidato il compito di rappresentare, con trasparente allusione, il conflitto tra Ateniesi e Persiani: nel fregio del Thesauròs degli Ateniesi a Delfi, eretto dopo Maratona (490 a.C.), e soprattutto nei cicli fidiaci del Partenone (447-432 a.C.) raffigurati sulle metope e sullo scudo aureo della statua di Atena; per l’alto valore di esemplarità che il programma dei monumenti periclei di Atene a essi conferisce, è ripreso presso i principi asiani ellenizzati (Amazzonomachie e lotte di Greci contro i Persiani) per monumenti funerari e onorari, fino al Mausoleo di Alicarnasso. Tracce archeologiche delle violenze perpetrate da Serse sull’Acropoli di Atene (480 a.C.) si individuano soprattutto nella cosiddetta “colmata persiana”: una trincea ove gli Ateniesi, dopo la conclusione vittoriosa delle guerre persiane a Platea (479 a.C.), deposero i resti di edifici e le suppellettili votive danneggiate, che le indagini archeologiche hanno recuperato, acquisendo un materiale di ineguagliabile importanza per la conoscenza della produzione scultorea preclassica.
Nonostante l’influsso delle filosofie stoiche e ciniche, improntate a un pensiero cosmopolita, durante l’età ellenistica, quando si ripresenta un nuovo popolo ostile, i Galati (o Galli nelle fonti storiche romane) che in varie ondate nel corso del III e II sec. a.C. assalgono le città greche d’Asia Minore, si tornano a rivisitare simboli e programmi iconografici usati per le guerre persiane. I sovrani di Pergamo costruiscono la loro epopea sulla vittoria contro i nuovi barbari e vi fanno riferimento, sempre dietro il velo del mito, nei complessi figurativi che adornano i monumenti eretti per celebrare tali eventi, in particolare la vittoria presso il fiume Caico (228 a.C.): nel grande altare si presceglie la lotta delle divinità olimpiche contro i Giganti; nelle dediche di complessi statuari, i cosiddetti Grande Donario di Attalo I e Piccolo Donario di Attalo II (210 a.C. ca.), si ripropone lo scontro con i Persiani o si crea un tipo iconografico di grande efficacia e drammaticità, fortemente caratterizzato attraverso le fogge del costume e a noi restituito dalle copie antiche delle statue del Galata morente (Roma, Musei Capitolini) e del Galata che uccide la moglie e si suicida (Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps), gruppo in origine eretto in posizione dominante a Pergamo nel santuario di Atena Nikephoros.
Analoghi eventi, visti dal settore romano nello stesso volgere di anni, riguardano il medesimo popolo di origine celtica. La rievocazione drammatica della minaccia che esso rappresentò è consegnata alle celebri pagine delle Storie di Tito Livio (V, 34 ss.) culminanti nell’episodio di Brenno che saccheggia e incendia Roma e l’umilia con l’oltraggio del vae victis (390 a.C.). La descrizione dei danni provocati non ha finora trovato chiaro e univoco riscontro nelle evidenze archeologiche: l’interpretazione delle stratigrafie del Foro Romano è, infatti, controversa (I Galli e l’Italia 1978). Sembra invece ricollegabile a sacrifici umani consumati in occasioni di particolare pericolo (tra cui l’incendio gallico e la successiva irruzione dei Cimbri e dei Teutoni, 113-101 a.C.) e di cui le fonti trasmettono solo un confuso ricordo, l’area dei Doliola, la cui ubicazione proposta è presso il Lacus Curtius.
Nei luoghi dei più aspri scontri tra Romani e Galli furono eretti i templi di Civitalba e di Talamone (per celebrare rispettivamente la battaglia di Sentino del 295 e quella di Talamone del 225 a.C.) di cui sopravvivono, insieme a pochi avanzi delle strutture, anche i fregi con la decorazione fittile figurata (Bologna, Museo Civico, e Firenze, Museo Archeologico). Nel primo caso l’episodio del saccheggio gallico attuato dallo stesso Brenno a Delfi e sventato grazie all’intervento divino che consente il salvataggio del tesoro è scelto con l’intento di attribuire la stessa gravità alla dissacrazione del santuario ellenico e all’aggressione di Roma. Il costante richiamo a eventi e luoghi consacrati della Grecia classica è la trama su cui Augusto costruisce la sua immagine del potere: le imprese partiche vengono presentate, soprattutto nei monumenti eretti in Grecia, come lotte contro il barbaro (Vitr., I, 1, 6) e accostate alle guerre persiane: la stoà persiana di Sparta, eretta col bottino della battaglia di Platea, nella ricostruzione augustea descritta da Pausania (III, 11, 3) presentava figure di barbari prigionieri sorreggenti l’attico. Una composizione simile era ripetuta nella Porticus Gai et Luci del Foro Romano, che faceva da sfondo all’arco partico dello stesso Augusto.
Si riconosce in questa tipologia architettonica un prototipo ripreso in numerosi monumenti imperiali, in parte restituito dalle figure di Daci prigionieri poste sull’attico dell’Arco di Costantino che questi sottrasse a un precedente monumento, ritenuto dai più il Foro di Traiano. L’elevato numero di statue rinvenute a Roma e riconducibili a questo tipo iconografico, la diversità di materiali e di dimensioni hanno suggerito l’ipotesi che anche altri complessi, ad esempio domizianei, avessero ripreso il topos introdotto da Augusto. Esso ebbe grande fortuna nella cultura antiquaria e architettonica a cominciare dal Rinascimento (con probabile richiamo ai Turchi sconfitti a Lepanto), ad esempio nella Fontana Pretoria di Palermo (1552-1573 ca.), nel palazzo milanese di Leone Leoni, detto appunto “degli Omenoni” (1565-1570), nella sistemazione data da Giuseppe Valadier a piazza del Popolo a Roma, ecc. È però nel fitto tessuto figurativo scolpito lungo il fusto della Colonna Traiana (dedicata nel 113) che si trova la più compiuta e alta ripresa del tema dell’esaltazione del vincitore, attraverso il valore e la dignità del vinto, impostato nel gruppo del Gallo che si suicida. I Daci e il loro capo Decebalo sono descritti come “avversari degni di essere combattuti” (Dio Cass., LXVII, 6, 5) e analoghi accenti si ripetono sull’altra colonna coclide istoriata, quella di Marco Aurelio. È proprio con Marco Aurelio, e dopo la seconda guerra contro i Marcomanni (172-175), che taluni colgono sensibili novità in un processo che ha radici più remote: la barbarizzazione dell’esercito. Il progressivo insediamento di popolazioni germaniche presso i confini in territori poco popolati diviene una vera e propria loro sostituzione ai contingenti militari regolari. Il processo si intensifica nel corso delle convulse vicende di scontri con successive ondate di popoli migratori a partire dal II secolo e a iniziare da Sciti e Goti (sconfitti ad Adrianopoli nel 378). All’inizio tutto avveniva sotto il controllo del praefectus praetorii e del magister militum e prevedeva diversi tipi di rapporto con i barbari ai quali veniva concesso di stanziarsi all’interno dei confini su terre sia pubbliche che private. Una serie di deposizioni dislocate in territori di confine presso il limes renano e danubiano, riferibili a personaggi di rilievo dell’esercito romano, ma caratterizzate dal rituale germanico e da particolari decorazioni di cintura in bronzo (il cd. “stile militare”, IV-V sec. d.C.), è considerata il significativo tracciante della germanizzazione dell’esercito.
Questo precario equilibrio si infrange con l’accelerarsi delle ondate migratorie, che tra il 405 e il 406 conduce quasi contemporaneamente Alamanni, Svevi, Alani, Vandali, Burgundi a riversarsi dentro i confini e culmina nel sacco di Roma, che Alarico compie nel 410 e in cui a s. Agostino pare di rivivere il nefasto attacco di Brenno. Le tracce archeologiche di questo evento, che ebbe un impatto enorme nell’opinione dei contemporanei, non sono facili da cogliere, come anche quelle del successivo attacco dei Vandali (455, 468/9). La politica realistica, seguita anche dal vandalo Stilicone, di pagamento di contributi in oro per ottenere la non belligeranza dei gruppi più minacciosi rende disponibili ai barbari enormi ricchezze. L’eccezionale disponibilità di circolante aureo presso molti popoli è dimostrata dal fiorire di oggetti suntuari nei tesori e nelle deposizioni principesche, il cui oro è spesso ricavato fondendo monete dei tributi imperiali; ciò è riscontrabile tra V e VII sec. d.C. nelle zone di insediamento di numerosi popoli germanici e di Unni e Avari: nel caso di questi ultimi, ad esempio, tra il 558 e il 623 il tributo passa da 60.000 a 200.000 solidi annui. La successiva ondata di barbari, descritti dai contemporanei come vera incarnazione demoniaca, è quella degli Unni, di origine mongolica, responsabili della spinta che in precedenza aveva riversato i gruppi di Germani entro i confini; giunti presso Aquileia nel 452, ove furono respinti secondo la tradizione da papa Leone Magno, e più tardi seguiti dagli Avari, presenti nei Carpazi dal 568, essi hanno lasciato tracce archeologicamente riconoscibili in un’area vastissima, dal Mar Nero all’Europa centrale, nelle deposizioni caratterizzate dalla deformazione rituale del cranio e spesso dalla presenza di animali sepolti accanto al guerriero.
Il ruolo delle invasioni barbariche nella caduta dell’Impero romano d’Occidente, ritenuto centrale secondo orientamenti storiografici del passato, è oggi riletto alla luce di un più complesso esame di processi politici, sociali ed economici, prevalentemente interni, alla cui ricostruzione l’archeologia sta dando significativi contributi. Il problema dell’acculturazione, ovvero dell’influsso esercitato dalla cultura romana sui barbari, è stato posto con particolare pregnanza in relazione all’Italia e al tema della cristianizzazione: quindi soprattutto nel caso dei Goti di Teodorico e dell’invasione longobarda. Il regno di Teodorico (493-526), basato sulla separazione del gruppo germanico di cui vengono gelosamente conservate le tradizioni, a noi restituite attraverso il rituale funerario, è uno dei più conclamati casi di consapevole continuità con la cultura statuale romana: Ravenna capitale gota fiorisce di edifici direttamente ispirati al Grande Palazzo di Costantinopoli e di suppellettili da lì importate. Il giudizio degli storici sui Longobardi fu a lungo influenzato dalle dispute dell’Italia risorgimentale: nell’Adelchi di A. Manzoni si attribuisce agli invasori la responsabilità di aver spezzato l’unità territoriale causando la perdita dell’indipendenza.
Dalle ricerche più recenti si evidenzia la gradualità e il carattere elitario della conversione al cristianesimo dei Longobardi e la continuità degli scambi con l’area bizantina. Tuttavia i processi di acculturazione, ricostruiti in base alla composizione dei corredi, sono ancora oggetto di letture contrapposte (Bierbrauer 1980; Jørgensen 1991), mentre è ormai innegabile l’importanza della committenza regia e delle élites longobarde nella costruzione di edifici, per lo più religiosi, e nella loro decorazione, che attinge ai vertici della produzione mediterranea e riattiva i contatti con l’Oriente bizantino; inoltre, la scoperta a Roma nella Crypta Balbi di un’officina specializzata in manufatti metallici (VII sec.) di tipi finora ascritti ai Longobardi impone una completa revisione del problema. La rottura dell’unità mediterranea, conseguente alle invasioni barbariche del V secolo, non interrompe bruscamente scambi e commerci di lungo percorso: lo aveva già sostenuto H. Pirenne, che però attribuiva la definitiva cesura con la tradizione antica all’avanzata degli Arabi, responsabili dello spostamento verso il Nord carolingio dell’epicentro dell’Europa medievale. In realtà non è ancora chiaro, a fronte di evidenti processi di frammentazione, quale sia il significato della ripresa dei commerci a grande distanza, tra il Baltico dei Vichinghi e il Golfo Persico islamizzato, che caratterizza la svolta dell’VIII secolo.
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