Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Intesa come “scienza del miglioramento della specie umana” attraverso la riproduzione dei “migliori” e la limitazione degli “inadatti”, tra il 1890 e il 1930 l’eugenica rappresenta un fenomeno ideologico-politico di portata mondiale. Due sono le sue principali varianti “nazionali”: all’eugenica nordica, contraddistinta soprattutto dalle sterilizzazioni, si affianca un’eugenica latina, improntata su misure igieniste e pronataliste e diffusa in Paesi cattolici come l’Italia, la Francia, il Belgio e l’America centro-meridionale. Eugenisti non erano soltanto i “mendeliani”, ma anche i “neolamarckiani”; non soltanto pseudoscienziati, come Goddard, ma anche grandi nomi della biologia come Müller, Serebrovskij, Haldane; non soltanto i reazionari antisemiti, razzisti, classisti, ma anche i sostenitori del controllo delle nascite, dell’aborto, dell’amore libero, dell’emancipazione del proletariato: dalle prime femministe ai socialdemocratici tedeschi e svedesi, dai fabiani britannici ai bolscevichi russi, fino ai comunisti francesi del Fronte Popolare.
Dal greco eugenes (“di buona nascita”), il termine eugenics viene coniato nel 1883 dall’antropologo ed esploratore Francis Galton per connotare la versione moderna di un sogno “antropotecnico” risalente quanto meno alla Città del Sole di Tommaso Campanella: migliorare biologicamente la specie umana ostacolando la riproduzione degli “inadatti” (eugenica negativa) e favorendo invece quella dei “migliori” (eugenica positiva). La parola conosce da allora numerose traduzioni nazionali: eugenique in francese, eugenìa in portoghese, eugenesia in spagnolo, evgenika ed evgenetika in russo. E mentre in Germania prevale Rassenhygiene su Eugenik, in Italia l’accezione storicamente più corretta è eugenica, anche se, a partire dal secondo dopoguerra, prevale, nell’uso comune, il termine eugenetica. Sul piano della definizione concettuale, lo storico Daniel Kevles della Yale University ha distinto tre varianti di eugenica: la mainline eugenics, caratterizzata da una politica statale coercitiva (ad esempio, le sterilizzazioni attuate in Stati Uniti, Svezia, Germania), da un marcato pregiudizio di classe e di razza e dall’impiego della metodologia, banale e scientificamente infondata, dei pedigrees; la reform eugenics – inaugurata a partire dagli anni Trenta, da scienziati di sinistra come Lancelot Hogben, John Haldane, Roger Penrose – critica nei confronti del pregiudizio razzista o classista della mainline eugenics, basata su più raffinati strumenti matematici e genetici, ma pur sempre legata a un progetto politico di miglioramento della specie umana; la new eugenics, affermatasi a partire dagli anni Sessanta sulla scia non tanto di nuove acquisizioni scientifiche quanto piuttosto di una serie di valutazioni politiche e culturali, legate, da un lato, all’impatto della scoperta degli stermini nazisti e, dall’altro, al rifiuto dell’intervento pubblico in materia di riproduzione umana e al riconoscimento dell’autonomia riproduttiva dell’individuo all’interno del rapporto medico-paziente. Non del miglioramento della razza, dunque, ma di birth control e di counseling genetico – sempre meno direttivo – si occuperanno i nuovi eugenisti del secondo dopoguerra.
Storicamente, l’eugenica (mainline e reform) si configura come un complesso di teorie, metodi e azioni politiche che ha conosciuto tre diverse fasi di elaborazione e di sviluppo – rispettivamente gli ultimi decenni dell’Ottocento, il ventennio interbellico del Novecento e gli anni Sessanta e Settanta – proponendosi, in corrispondenza di tali momenti, come il prodotto e, nello stesso tempo, la risposta, in chiave sociobiologica, alle dinamiche di crisi e di modernizzazione dei sistemi sociali contemporanei.
A lungo considerata esclusivamente nella sua versione anglo-americana o tedesco-scandinava, l’eugenica va concepita piuttosto come un fenomeno culturale, sociale e politico di ampia portata internazionale. Essa non appare più oggi come un movimento omogeneo, in sé coerente e riconducibile essenzialmente alla sua matrice anglosassone, ma come un “arcipelago multiforme”, caratterizzato dalla compresenza di una molteplicità di national styles: accanto all’eugenica “nordica” – contraddistinta da birth control, certificato prematrimoniale obbligatorio e sterilizzazioni – ha fatto così la sua comparsa un’eugenica “latina”, improntata su misure igieniste e pronataliste e diffusa in Paesi cattolici come l’Italia, la Francia, il Belgio e diversi Stati dell’America centro-meridionale. Eugenisti non sono soltanto i “mendeliani” come Charles Davenport, ma anche i “neolamarckiani”, come Adolphe Pinard (1844-1934) ed Eugène Apert. Eugenisti non sono soltanto “pseudoscienziati”, come Henry H. Goddard, ma anche grandi nomi della biologia come Fisher, Weinberg, Müller, Serebrovskij, e il già citato Haldane. Ed eugenisti si dichiaravano non soltanto i reazionari antisemiti, razzisti, sessisti, classisti, ecc., ma anche i sostenitori del controllo delle nascite (si pensi soltanto a Margaret Sanger e a Marie Stopes), dell’aborto, dell’amore libero, dell’eguaglianza fra gli individui, dell’emancipazione del proletariato: dalle prime femministe ai socialdemocratici tedeschi e svedesi, dai fabiani britannici (come G.B. Shaw o i coniugi Webb) ai bolscevichi russi, fino ai comunisti francesi del Fronte Popolare. Una storia plurale e complessa, dunque, che non trova alcun riscontro negli strumentali usi odierni della parola “eugenica”, ricorrenti nel dibattito pubblico su temi di bioetica: usi incentrati essenzialmente sull’“analogia nazificante”, in base alla quale la diagnosi prenatale o la diagnosi preimpianto non sarebbero che il primo passo verso un nuovo sterminio degli individui “difettosi”.
Accomunate dal contesto scientifico e culturale, l’eugenica britannica e quella nordamericana presentano sicuramente alcune analogie, ma anche non poche differenze. La metodologia adottata dagli eugenisti – quella dei pedigrees – è comune sulle due sponde dell’Atlantico, ma mentre in Gran Bretagna essa è utilizzata tanto da biometrici quanto da mendeliani per “visualizzare” il carattere genericamente ereditario degli aspetti biologicamente e socialmente negativi della pauper class, negli USA è invece impiegata per dimostrare la trasmissione mendeliana di un determinato carattere. Se l’Eugenics Education Society inglese si sviluppa sostanzialmente attorno a un unico, decennale e incompiuto progetto – il Pauper Pedigree Project –, celebre negli USA diventa lo studio della famiglia Jukes (sette generazioni di criminali, prostitute e degenerati vari prodotte da una singola coppia di New York), pubblicato nel 1877 da Richard Dugdale, un lamarckiano favorevole a una politica sociale tesa al miglioramento delle condizioni socio-ambientali. Nella raccolta “sul campo” di migliaia di schede familiari e nell’individuazione di una pluralità di tratti “mendeliani” – fra cui erano compresi anche il nomadismo, il “narcotismo”, l’erotismo estremo e l’amore per il mare – si specializzerà invece l’Eugenics Record Office (ERO) di Long Island, diretto da Davenport e Harry Laughlin. Direttore dal 1904 della Station for Experimental Evolution, nel 1910, grazie a un cospicuo finanziamento di Mary Harriman (vedova di Edward Henry, un magnate delle comunicazioni telegrafiche e delle ferrovie), Davenport fonda l’ERO, istituto dedicato alle ricerche sull’eredità umana, destinato a trasformarsi nel punto di riferimento per gli eugenisti di tutto il mondo. Ben diversi sono evidentemente i mezzi finanziari su cui possono contare i movimenti eugenici in Gran Bretagna e Stati Uniti: mentre l’Eugenics Education Society, fino a tutti gli anni Venti, gestisce un miserevole fondo di circa 350 pounds all’anno, l’American Eugenics Society attinge a fiumi di dollari elargiti da finanziatori come Rockefeller, Harriman, Eastman, e, a partire dal 1937, dal Pioneer Fund del magnate dell’industria tessile Wickliffe Preston Draper, ancor oggi attivo.
Differenti, del resto, sono anche le preoccupazioni socio-politiche alla base dell’eugenica britannica e statunitense. Mentre il principale bersaglio dell’eugenica britannica è il sottoproletariato (residuum o pauper class), ritenuto pericoloso per il suo basso livello intellettivo e la sua alta fertilità, negli Stati Uniti è piuttosto l’incubo del race suicide – il “suicidio razziale” della nazione americana – ad alimentare l’ideologia e la prassi eugenetiche. Nel 1914, il sociologo Edward A. Ross (1866-1951), in The Old World in the New, denuncia il fatto che gli immigranti “del livello più basso” (russi, polacchi, ungheresi, italiani, greci, portoghesi) si riproducono più rapidamente dei “nativi” americani (older-stock Americans). Nel 1923, due libri – The Revolt against Civilization di Lothrop Stoddard e A Study of American Intelligence di Carl Campbell Brigham – diffusero fra il grande pubblico i principali risultati dell’Army Mental Test, il test di massa che aveva “misurato” il quoziente intellettivo (IQ) di 1.750.000 reclute americane durante la prima guerra mondiale: un’onda di “plasma germinale difettoso” si stava riversando sull’America dall’Europa dell’Est, dalla Russia, dai Balcani, dall’Italia; occorreva, dunque, difendere la superiorità “nordica” americana, teorizzata da Madison Grant , bloccando i flussi migratori e impedendo gli incroci disgenici. Nel 1928, nel suo studio (condotto insieme a Morris Steggerda) Race Crossing in Jamaica, Davenport interviene per evidenziare le disarmonie fisiche e mentali degli ibridi. Al pericolo della miscegenation si aggiunge poi, negli Stati Uniti, la percezione dell’incombente minaccia di una “degenerazione mentale” della nazione. Un ruolo fondamentale hanno in questo campo le ricerche di Henry H. Goddard, direttore della Vineland Training School (New Jersey) per ragazzi con ritardi mentali, il quale ritenne di aver dimostrato l’ereditarietà mendeliana della feeble-mindedness (il deficit intellettivo genetico responsabile del comportamento criminale e genericamente deviante), particolarmente pericolosa nelle forme assunte nei cosiddetti morons, individui “apparentemente” normali ma in realtà portatori del gene recessivo della “deficienza mentale”. Il “sermone” della nuova scienza eugenetica invocata da Goddard è il celebre saggio The Kallikak Family: a Study in the Eredity of Feeble-Mindedness (1912), dove viene analizzata la doppia discendenza di un uomo “forte e sano” del New Jersey, una con una prostituta e l’altra con un’onesta quacchera: la prima linea, ribattezzata kakòs, era degenere, la seconda, la kalòs, risultava normale. La lezione morale e politica era implicita: occorreva mappare il gene recessivo della feeble-mindedness e segregarne (e sterilizzarne) i portatori.
Se in Gran Bretagna, la presenza di una forte tradizione liberale impedisce all’eugenica di raggiungere significativi traguardi politici, oltre al Mental Deficiency Act del 1913, ben diverso appare il contesto statunitense. Nel 1924 viene, infatti, approvata la legge sulla restrizione dell’immigrazione nota come Johnson-Reed Restriction Act, per la cui elaborazione è centrale il ruolo di consulente svolto da Harry Laughlin. Nel 1905, lo Stato dell’Indiana proibisce il matrimonio ai “ritardati”, ai portatori di malattie trasmissibili e ai bevitori abituali. Due anni dopo, lo stesso Stato, dopo i felici risultati degli esperimenti chirurgici di Harry C. Sharp (medico dell’Indiana State Reformatory di Jeffersonville), attiva la prima legislazione statale relativa alla sterilizzazione di malati mentali, minorati, criminali e deviati sessuali presenti in istituzioni come carceri, riformatori, cliniche psichiatriche, ecc. L’esperimento legislativo si allarga a 15 Stati dell’Unione nel 1917 e a 27 nel 1935, per raggiungere un totale di 36.000 operazioni effettuate fino al 1941, con la predominanza dello Stato della California. Le varie leggi in vigore non sempre richiedono il consenso dell’interessato, ma di fatto la loro applicazione rimane di competenza delle singole istituzioni ed è disciplinata dai singoli Stati, senza che vi sia un’organica legislazione federale o un’apposita burocrazia eugenica. Screditata sul piano scientifico e condannata sul piano etico dalle conseguenze del nazismo, l’eugenica anglo-americana si orienta sempre più, nel secondo dopoguerra, verso i temi del family planning e del counseling genetico. A partire dagli anni Sessanta, tuttavia, la pubblicazione del periodico “The Mankind Quarterly” e gli articoli di Hans J. Eysenck e di Arthur R. Jensen avrebbero riesumato il vecchio strumento dell’IQ per sostenere l’inefficacia delle politiche scolastiche e delle metodologie educative tese a migliorare il livello intellettuale di minoranze etniche destinate, invece, a restare geneticamente inferiori. L’ultimo esempio di questo filone è rappresentato, nel 1994, dal volume di Richard Herrnstein e Charles Murray (1943-), The Bell Curve, con il suo tentativo di istituire un rapporto misurabile fra intelligenza e struttura di classe nella società americana.
Durante il periodo zarista la Russia segue, in ambito eugenico, l’esperienza occidentale: nel 1913, ad esempio, è tradotta l’opera di Davenport, Heredity in Relation to Eugenics (1911). Il movimento eugenico ha, tuttavia, propriamente inizio dopo la rivoluzione del 1917 e la guerra civile. All’origine dell’eugenica bolscevica si collocano due biologi, Nikolaj Konstantinovic Kol’tsov e Iurii Aleksandrovic Filipcenko : entrambi, prima del 1917, hanno lavorato nell’Europa occidentale, rispettivamente a Napoli e a Monaco. Durante l’estate 1920, Kol’tsov costituisce una sezione di eugenica nell’istituto di biologia da lui diretto a Mosca. Nell’autunno dello stesso anno, fonda la Società Russa di Eugenica, che pubblicava il “Russkij Evgenitcheskij Journal”. Nel febbraio 1921, Filipcenko inaugura un Bureau di eugenica presso l’Accademia delle Scienze di Pietrogrado, dove comincia la sua carriera Theodosius Dobžansky, allora allievo di Filipcenko. I programmi di ricerca dei due istituti ricordano i modelli occidentali: studi di genealogie, studi di malattie e malformazioni ereditarie o supposte tali, studi di problemi mentali e comportamentali considerati ereditari, studi demografici. Simili sono anche le professionalità che aderiscono alle due organizzazioni (biologi, psichiatri, psicologi, antropologi, demografi) e le rispettive proposte operative: nel 1923, ad esempio, un discepolo di Kol’tsov giungerà a proporre un programma di sterilizzazione comparabile a quello statunitense.
Maggior fortuna registra, tuttavia, negli anni Venti, l’eugenica “lamarckiana”, ritenuta maggiormente compatibile con il marxismo. E ciò nonostante le obiezioni di Filipcenko, secondo il quale la teoria dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti condanna inevitabilmente il proletariato a essere, più che l’avanguardia sociale, una classe biologicamente inferiore, date le condizioni miserevoli conosciute per generazioni sotto il regime zarista. Nel 1929, il biologo bolscevico Aleksandr Sergeevic Serebrovskij propone un’eugenica “positiva”, basata sull’inseminazione artificiale di donne selezionate per le loro qualità con sperma di uomini altrettanto ben selezionati. Il progetto resta lettera morta poiché nel 1930 il regime sovietico condanna l’eugenica come “deviazione borghese”. Dopo una fase di stallo, gli ambienti eugenici si riorganizzarono attorno alla nascente branca della “genetica medica”: fulcro di questa ripresa l’Istituto Maxim Gorkij di Genetica Medica, fondato nel 1932 dal genetista Solomon Grigorevic Levit , il quale, tra il 1930 e il 1931, grazie a una borsa della Fondazione Rockefeller, aveva lavorato presso il laboratorio texano di Hermann Müller. Nel 1933, dopo un soggiorno in Germania, lo stesso Müller raggiunge l’URSS per collaborare con il laboratorio di Nicolaj Vavilov, succeduto a Filipcenko. Nel 1935 pubblica Out of the Night, sorta di trattato di biologia politica che riprende il programma di eugenica positiva di Serebrovskij, sottoponendolo esplicitamente all’attenzione di Stalin, che già lo aveva condannato nel 1930. Il sotteraneo nesso fra genetica medica ed eugenica diventa a quel punto evidente e la reazione staliniana non si fa attendere: nella primavera del 1937, Vavilov aiuta Müller a fuggire in Spagna attraverso le Brigate Internazionali; il Congresso Internazionale di Genetica, previsto a Mosca per l’agosto 1937, è annullato; Levit viene arrestato nel gennaio 1938 e muore probabilmente a maggio; Kol’tsov muore per una crisi cardiaca nel 1940 e sua moglie si suicida il giorno dopo; Vavilov è arrestato nel 1940 e muore in un gulag nel 1943.
Mentre il lamarckismo di Lysenko trionfava in URSS contro la genetica occidentale – definitivamente associata all’eugenica, al razzismo e al nazismo –, Müller ottiene il Premio Nobel nel 1946 e, all’inizio degli anni Sessanta, rilancia negli USA il programma a suo tempo rifiutato da Stalin, questa volta sotto forma di una Foundation for Germinal Choice: un progetto di banca dello sperma dei geni dell’umanità, che verrà effettivamente realizzato nel 1971, dopo la sua morte, grazie ai finanziamenti del magnate Robert K. Graham. Il Repository for Germinal Choice si trova oggi a Escondido, in California.
Nella penisola scandinava, lo sviluppo del movimento eugenico conosce sostanzialmente due fasi. Nella prima, compresa fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, la scarsa formalizzazione organizzativa e politica coincide con un’impostazione antropologica non priva di riferimenti al mito della razza “nordica”: un ruolo rilevante, in questa prima stagione, spetta al norvegese Jon Alfred Mjöen, direttore del Winderen Laboratorium di Cristiania, e allo psichiatra svedese Herman Lundborg, direttore dal 1922 dell’Istituto Statale per la Biologia Razziale di Uppsala.
La seconda fase, a partire dalla fine degli anni Venti, vede, da un lato, la progressiva affermazione di una reform eugenics lontana dall’uso delle tassonomie antropologiche (si pensi, ad esempio, alle figure dello statistico svedese Gunnar Dahlberg o del genetista danese Tage Kemp) e, dall’altro, la promulgazione di un apparato legislativo eugenico inserito all’interno della formulazione tecnocratica e manageriale del modello scandinavo di welfare state: le leggi sulla sterilizzazione vengono dunque concepite e sostenute dalle socialdemocrazie locali – gli esempi più noti sono quelli di Karl Kristian Steincke in Danimarca e dei coniugi Gumar e Alva Myrdal in Svezia – non come un’alternativa alla politica sociale a sostegno dei ceti più deboli, ma come una sua componente fondamentale, capace in teoria di conciliare i diritti dei singoli con la tutela razionale del corpo sociale. La Danimarca è il secondo Stato europeo (dopo il cantone svizzero del Vaud nel 1928) a dotarsi di una legislazione eugenica nel 1929, rivista e ampliata nel 1934 e nel 1935. Seguono la Norvegia nel 1934, la Svezia nel 1934 (con integrazioni nel 1941 e nel 1944), la Finlandia nel 1935. Con alcuni ritocchi, tali legislazioni rimangono in vigore fino agli anni Settanta, ma, a partire dalla fine degli anni Quaranta, sulle motivazioni eugeniche prevalgono progressivamente quelle mediche e sociali, legate a forme di birth control e family planning.
La storiografia sull’eugenica tedesca si è inizialmente caratterizzata per l’adozione di un paradigma “continuista”, incentrato sulla ricerca degli antecedenti culturali del terzo Reich e sull’analisi della partecipazione di scienziati, medici e personale sanitario a un genocidio non solo burocratizzato, ma medicalizzato. Recentemente, nuove ricerche hanno invece contribuito a tematizzare ulteriormente il problema, evidenziando le notevoli differenze presenti all’interno del movimento eugenico tedesco e la rottura costituita dall’avvento del nazismo.
Alle origini dell’eugenica in Germania si possono individuare due figure per molti versi paradigmatiche: da un lato, Alfred Ploetz – fondatore nel 1905 della Deutsche Gesellschaft für Rassenhygiene – con la sua utopia di un socialismo “ariano”, che avrebbe sostituito la lotta per la sopravvivenza con una preventiva selezione del plasma germinale; dall’altro, il medico Wilhelm Schallmayer, la cui riflessione predilige, invece, non tanto il misticismo ariano, quanto piuttosto la logica tecnocratica e la valutazione costi/benefici. Nella Germania weimariana la contrapposizione fra eugenisti di diversa sensibilità ideologica si traduce in una vera e propria contrapposizione organizzativa, geografica e perfino terminologica fra una Eugenik berlinese, razzialmente neutrale, e una Rassenhygiene bavarese, compromessa con gli ambienti dell’antisemitismo e del razzismo völkisch, ossia legato al concetto di popolo (volk) inteso come insieme di individui legati ai medesimi costumi, alla stessa lingua e allo stesso sangue. Ai sostenitori, dunque, del mito nordico-ariano si contrappongono eugenisti non razzisti come il gesuita Hermann Muckermann (responsabile del dipartimento di eugenica del Kaiser Wilhelm Institut für Anthropologie, menschliche Erblehre und Eugenik di Berlino), Artur Ostermann o il socialdemocratico Alfred Grotjahn. Nel 1931, la Deutsche Gesellschaft für Rassenhygiene si fonde con il Deutscher Bund für Volksaufartung (organizzazione nata nel 1926, orientata su posizioni di centro-sinistra) e cambiò nome in Deutsche Gesellschaft für Rassenhygiene (Eugenik): l’influenza di Fritz Lenz, Ernst Rüdin e degli eugenisti filoariani non è stata, dunque, mai così debole come pochi anni prima della caduta di Weimar. L’affermazione politica del nazionalsocialismo nel 1933 individua, pertanto, nei confronti dell’eugenica tedesca, una duplice svolta. In primo luogo, la Gleichschaltung (ossia il progetto di nazificazione della Germania) non risparmia ovviamente la Deutsche Gesellschaft, che viene trasformata in organo governativo alla dirette dipendenze del Ministro degli Interni, Wilhelm Frick. In secondo luogo la nazificazione porta evidentemente con sé l’abbandono dell’interpretazione “berlinese” dell’eugenica a favore di una linea apertamente razzista e antisemita: il termine Eugenik viene abolito, mentre Muckermann e Ostermann sono rimossi. Nonostante questi elementi di rottura, non si può tuttavia negare un’effettiva continuità da ricercarsi però non tanto nelle posizioni razziste o antisemite quanto piuttosto nell’affermazione di una logica di gestione razionale e manageriale delle risorse vitali della popolazione, che identifica la potenza della nazione innanzitutto nella sua efficienza biologica, fino a ipotizzare la sterilizzazione e l’eliminazione dei “non adatti”. In sostanza, il nazismo conduce alle sue estreme conseguenze una logica biopolitica, che ha attraversato largamente il dibattito ideologico e scientifico della Germania guglielmina e weimariana, presentandosi sotto varie forme: come idea di difesa e di rafforzamento del Bildungsbürgertum(la borghesia colta) di fronte all’ascesa della classe operaia; come strumento di sopravvivenza demografica della nazione tedesca dopo le perdite subite nella prima guerra mondiale; come progetto di sfruttamento economico dei Minderwertigen (ceti inferiori) e di riduzione dei costi del welfare state. L’esempio più noto di tale continuità è forse rappresentato dall’istituzione legale della sterilizzazione. Il 14 luglio 1933 viene, infatti, approvata la legge per la prevenzione di nuove generazioni affette da malattie ereditarie, che riproponeva un progetto elaborato nel 1932 in Prussia, introducendo tuttavia una significativa novità: l’obbligatorietà (anche dunque in mancanza di consenso volontario) della sterilizzazione di individui disabili, portatori di tare congenite o asociali. Per quanto ispirata al modello statunitense, la legislazione nazista rappresenta una drammatica novità, sia quantitativamente che qualitativamente: secondo le più recenti stime, i cittadini tedeschi sterilizzati furono circa 320.000-400.000, la maggior parte nei primi quattro anni di applicazione della legge. Un vero e proprio programma di eutanasia verrà messo in opera dal nazismo a partire dalla seconda metà del 1939 fino all’agosto 1941 (causando la morte di 5.000 bambini e 70.000 adulti) e anch’esso si fonderà sull’utilizzazione di una categoria, quella della “vita indegna di essere vissuta”, teorizzata già nel 1920, dal penalista Karl Binding e dal medico Alfred Hoche nel loro Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens. Complessivamente, dall’estensione del programma della sterilizzazione ai bambini tedeschi di colore (i cosiddetti Rheinlandbastarde) fino alla successiva attuazione dello sterminio dei nemici “degenerati” del regime, gli eugenisti, coinvolti tanto direttamente quanto indirettamente, vedranno nel terzo Reich l’occasione a lungo attesa per realizzare sul piano politico il sogno völkisch di una nazione potente e biologicamente pura.
Nella sua specifica variante “latina”, diffusa soprattutto in Italia, Francia e America Latina, l’eugenica risulta contraddistinta sostanzialmente da tre fattori: l’influenza del cattolicesimo (il Vaticano aveva condannato, nel 1930, l’eugenica “nordica” con l’enciclica Casti connubii di Pio XI), il rifiuto dell’azione eugenetica “negativa” (sterilizzazione, aborto, birth control) e l’impostazione teorica più lamarckiana che mendeliana.
Per quanto riguarda l’Italia, il primo Congresso Internazionale di Eugenica di Londra (1912) può essere interpretato come la miccia che dà fuoco a polveri sino allora inesplose, quantunque esistenti da un ventennio almeno. Pur senza trascurare l’intenso dibattito proto-eugenetico degli ultimi decenni dell’Ottocento, solo a partire dal 1912 le molteplici istanze presenti sul campo si coagulano attorno a una parola nuova – eugenica o eugenetica – collegandosi, inoltre, con il movimento internazionale esistente, attraverso la costituzione, nel 1913, del Comitato italiano di Studi Eugenici. Interpretata come drammatica “selezione al rovescio” o, viceversa, come mezzo di potenziamento biologico della nazione, la prima guerra mondiale porta in dote agli eugenisti un importante insegnamento: il conflitto ha infatti dimostrato la rilevanza dell’“unità di comando” e l’efficacia di una gestione statale diretta, economicamente razionale, delle risorse biologiche della nazione. Sulla scia delle ansie rigeneratrici, delle ambizioni tecnocratiche e delle nuove idee di “politica” e di “medicina sociale”, che accompagnano la crisi degli ultimi governi liberali e la progressiva ascesa del fascismo, il dopoguerra italiano vede la prepotente affermazione del “paradigma eugenetico”, inteso come subordinazione della libertà del singolo di fronte al superiore interesse collettivo alla “difesa della società e della razza”. Tale concezione tecnocratica e manageriale della popolazione affascina, in questo periodo, un mondo politico trasversale tanto di destra quanto di sinistra, dal nazionalismo al riformismo socialista. È in questi anni che l’eugenica italiana si istituzionalizza, dibattendo intensamente i suoi temi fondamentali: birth control, certificato prematrimoniale, sterilizzazione, igiene mentale. La svolta natalista del 1927, inaugurata dal mussoliniano discorso dell’Ascensione, segna l’inizio di una nuova fase, caratterizzata principalmente da due aspetti. Il primo, di natura politica, è individuabile nella saldatura che si produce tra regime fascista e Chiesa cattolica attraverso l’adozione di un’eugenica “quantitativa”, interessata alla tutela della maternità e alla prolificità delle famiglie piuttosto che alle utopie “qualitative” perseguite dal modello eugenico nordico (anglosassone, scandinavo e germanico). Il secondo aspetto, di carattere ideologico, consiste, invece, nella progressiva affermazione di un paradigma teorico i cui pilastri – la demografia “strategica” di Corrado Gini e la biotipologia costituzionalistica di Nicola Pende – sorreggono un edificio sociobiologico, finalizzato tanto al controllo biopolitico dell’individuo (Pende) quanto all’espansionismo demografico della nazione (Gini). È sull’efficacia di questa sintesi fra natalismo e gestione “tayloristica” della popolazione che si fondano l’originalità e il successo internazionale dell’eugenica italiana: da un asse Italia-Francia nascerà, infatti, nel 1935, la Federazione Latina delle Società di eugenica, polemicamente contrapposta all’International Federation of Eugenic Organizations (IFEO), organo nato nel 1925 dalla trasformazione dell’International Commission of Eugenics.
Con il 1938, il rapporto fra eugenica e razzismo – presente anche se non dominante negli anni precedenti – conosce un significativo salto di qualità. I razzismi del fascismo si appropriano, infatti, del binomio galtoniano nature/nurture e, a partire da differenti valutazioni del ruolo esercitato dalle influenze ambientali ed ereditarie sui caratteri della “razza”, sviluppano argomentazioni “scientifiche” e proposizioni politiche conflittuali: da un lato, il razzismo biologico, che ha il suo organo principale nella rivista “La difesa della razza”, propone un’eugenica “mendeliana” ereditarista, da cui proviene l’adesione alla via germanica, scandinava e nordamericana delle sterilizzazioni e della certificazione prematrimoniale obbligatoria; dall’altro lato, il razzismo nazionalista predilige, invece, un’eugenica “lamarckiana” o ambientalista, ostile al modello nordico e concepita sostanzialmente come un prolungamento e un approfondimento del più ampio progetto di “bonifica” e di potenziamento demografico della nazione avviato anni prima dal regime. Due impostazioni ideologiche contrapposte, dunque, che tuttavia spesso convergono in un comune discorso razzizzante, che ha come obiettivo la lotta contro il meticciato e contro l’ebreo.
La fine della guerra e la scoperta delle tragiche conseguenze del razzismo nazionalsocialista non segnano il tramonto definitivo dell’eugenica. Nel contesto italiano, se, da un lato, la nascente genetica – guidata dalle figure di Giuseppe Montalenti, Claudio Barigozzi e Adriano Buzzati Traverso – rompe esplicitamente i ponti con i sogni galtoniani, dall’altro elementi significativi di continuità si evidenziano sia nei legami fra l’eugenica italiana – ancora una volta capeggiata da Corrado Gini – e il “razzismo scientifico” nordamericano, sia nella permanenza di modelli di schedatura biologica di antica matrice fascista, come quello scandalosamente adottato da Luigi Gedda – figura di primo piano dell’eugenica cattolica del secondo dopoguerra – in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960.
In generale, alla ripresa, negli anni Cinquanta e Sessanta, del dibattito sul certificato prematrimoniale si accompagna la parallela affermazione del concetto di “consulenza genetica”, dietro il quale emerge un significato nuovo di eugenica, declinato non più in termini di controllo sociale coercitivo della riproduzione in vista del miglioramento qualitativo della specie umana, ma in una chiave di rispetto della libera scelta individuale dei genitori ai fini della prevenzione delle malattie genetiche.