di Franco Bruni
Nel 2013 l’Unione Europea ha iniziato a mettere in atto un coordinamento delle politiche economiche più attento alle riforme strutturali per favorire la competitività e la crescita. Anche in tema di bilanci pubblici, cresce l’enfasi sulla loro qualità strutturale e non ci si concentra più solo sull’austerità dei soli saldi. E’ un cambiamento disegnato nel 2012 con un forte contributo del governo italiano . Eppure in Italia non è stato compreso e le riforme non hanno trovato sufficiente consenso. Il governo Monti è caduto e dopo una difficile transizione che ha richiesto anche elezioni anticipate, è stato il governo Letta a doversi misurare con la questione delle riforme strutturali all’interno del quadro europeo. Ma il quadro politico italiano è rimasto caratterizzato da una continua instabilità politica. Si pensi ai due momenti chiave della concertazione economica con la Commissione. La fase primaverile del cosiddetto ‘semestre europeo’, nel quale i governi presentano i programmi di medio termine e ricevono giudizi e raccomandazioni da Bruxelles; e la fase del tardo autunno quando, secondo le nuove procedure, i governi presentano le Leggi di stabilità, cioè i budget, le decisioni economico-finanziarie pluriennali, sulle quali le autorità europee si pronunciano prima dei Parlamenti nazionali. Ebbene: la fase primaverile ha visto, addirittura, il programma firmato dal governo decaduto, in carica per l’ordinaria amministrazione. La valutazione e le raccomandazioni del Consiglio europeo sono poi giunte dopo nemmeno due mesi dall’insediamento di Letta, a un governo privo di un programma dettagliato e considerato provvisorio e limitato nei suoi scopi. Quanto alla fase di fine anno, la discussione sulla Legge di stabilità, sia a Roma che con Bruxelles, è iniziata in una fase convulsa dei lavori parlamentari, ingolfati da mille questioni, fra le quali niente meno che le riforme della legge elettorale e della costituzione. E’ iniziata proprio quando la maggior parte di uno dei due principali partiti della coalizione passava all’opposizione e nell’altro si lottava non del tutto serenamente per la leadership. Cosicché non si è potuto approfittare del tentativo della Commissione di trasferire l’enfasi dalla mera austerità taglia-deficit alle riforme per la competitività e la crescita. Un tentativo che né la politica né l’opinione pubblica nazionali hanno colto con chiarezza e apprezzato. La prova sono le delibere e le raccomandazioni che l’Italia ha ufficialmente ricevuto da Bruxelles. In giugno è stata decisa la nostra uscita dal deficit eccessivo, coronando gli sforzi del governo Monti per portarlo sostanzialmente sotto il 3% del PIL. Ma all’Italia veniva concesso di riavvicinarsi al 3% rimborsando i debiti pregressi della pubblica amministrazione. E le deliberazioni di giugno si concludevano scandendo sei raccomandazioni: solo la prima richiamava il deficit nell’insistere perché mettessimo davvero in pratica le decisioni prese; le altre cinque riguardavano vari fronti di riforma per rilanciare la competitività e la crescita del Paese. Andavano dall’efficienza della pubblica amministrazione e il coordinamento fra i vari livelli di governo , alla semplificazione normativa, dalla governance delle banche alla riforma dei mercati finanziari, dall’avanzamento delle riforme del mercato del lavoro alle liberalizzazioni e alle modalità di erogazione dei servizi pubblici. La quinta raccomandazione riguardava la qualità delle imposte e cominciava drasticamente: si sposti tassazione dal lavoro e dal capitale verso il consumo, la proprietà immobiliare e la conservazione ambientale. Ma l’Italia non ha saputo seguire questo diverso accento della sorveglianza europea. Non sono state accelerate le riforme. Clamorosa è stata la disobbedienza alla richiesta di riformare la tassazione: abbiamo infatti insistito nel tentar di ridurre quella sugli immobili e di evitare l’aumento dell’IVA, a costo di rinviare e rendere risibile la contrazione di quella sul lavoro. Anche il disegno della nuova Legge di stabilità, che abbiamo presentato in novembre, non ha incorporato in modo convincente un programma di riforme strutturali. Ed è soprattutto per questo che ha ricevuto critiche dalla Commissione. Qualcuno ha parlato di ‘bocciatura’: non sembra l’espressione appropriata. Come non sembra appropriato intendere il giudizio come tutto incentrato sul possibile mancato rispetto degli obblighi numerici su deficit e debito. Infatti si ricordano le raccomandazioni ‘qualitative’ di giugno e si censura l’Italia per «aver fatto pochi progressi nelle riforme strutturali». Rimane la possibilità di cambiar rotta col 2014. La riforma principale sul tavolo sembra quella del mercato del lavoro e dei meccanismi occupazionali, soprattutto nei confronti dei giovani. L’Europa ha varato aiuti specifici per facilitare alcuni aspetti di questo tipo di riforme nei paesi membri. Il governo sembra impegnato ad avanzare svelto su questo fronte. Sarà cruciale il piano di riforme che siamo tenuti a presentare all’Europa nella prima parte dell’anno. E, più innanzi, sarà cruciale favorire, anche con la nostra Presidenza del Consiglio europeo, la maturazione di un’idea che è già stata contemplata in sede comunitaria: quella che gli incentivi alle riforme strutturali vengano alimentati applicando il cosiddetto ‘approccio contrattuale’, cioè approvando accordi bilaterali fra l’EU e i singoli stati membri che si impegnano a fare certe riforme a fronte di meccanismi premiali che ne agevolano il finanziamento mentre ne multano la mancata realizzazione.