L'eta ottoniana in Germania e in Italia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La diversificata produzione artistica ottoniana prende le mosse dalle premesse carolinge, negli antichi centri monastici rifondati dopo le devastazioni ungare e normanne. I frequenti viaggi in Italia e i rapporti con l’impero di Bisanzio, rinsaldati per via matrimoniale, contribuiscono ad allargare gli orizzonti culturali della corte sassone: l’illustrazione libraria, la pittura e la scultura in bronzo vanno ostentando un sempre più ampio repertorio tematico e una crescente monumentalità.
La sconfitta degli Ungari nella battaglia di Lechfeld, il 10 agosto del 955, rilancia le aspirazioni imperiali del sovrano Ottone I. Nei decenni precedenti le incursioni normanne e quelle ungare avevano messo in ginocchio i principali centri di produzione culturale dell’ex impero carolingio: la quasi totalità dei monasteri della Francia settentrionale e numerosi monasteri bavaresi. A Ottone I spetta davvero il compito di ricostruire su macerie. La fondazione del duomo di Magdeburgo, significativamente celebrata proprio il giorno di san Lorenzo, è dunque qualcosa di più di un semplice atto di mecenatismo regale. Il duomo non solo è un monumento sepolcrale di famiglia, accogliendo la sepoltura della prima moglie di Ottone I, Edgith, e, in futuro, la sua, ma in seguito diviene anche sede arcivescovile. Secondo la Cronaca di Thietmar di Merseburg, il sovrano fa appositamente giungere a Magdeburgo marmi preziosi, ancora riconoscibili nei fusti di colonne in porfido e serpentino posti nel coro dell’odierno edificio. Il cronista non si addentra in dettagli circa ulteriori antichi materiali, ma due capitelli reimpiegati oggi come basi di colonne sono a ogni evidenza opere di orbita bizantina di VI secolo, forse importati dall’Italia settentrionale. Per conferire prestigio all’allora remota Magdeburgo non si rinuncia all’impegnativa impresa di acquisizione di pezzi di spoglio che trasferiscano alla nuova fondazione la loro evidente antichità e nobiltà. È ovvio che il corredo liturgico di tale sede deve essere alla sua altezza.
Ne fa parte la straordinaria serie di diciannove tavolette in avorio, ormai smembrata tra diversi musei, che in origine doveva comporre l’antependio di un altare. Sono con ogni probabilità un dono di Ottone I, nel frattempo incoronato imperatore, in occasione dell’istituzione della sede arcivescovile di Magdeburgo, nel 968. Le tavolette illustrano un articolato ciclo cristologico, ma accolgono anche l’immagine di dedica di Ottone I stesso (New York, Metropolitan Museum). L’imperatore, qualificato dalla corona, è raffigurato in atto di porgere il modellino della chiesa, sulle mani velate, a un Cristo seduto sul globo celeste. A introdurre la sua persona, raffigurata in scala ridotta per ostentata umiltà, è il santo guerriero Maurizio, patrono della cattedrale, mentre sul lato opposto, in pendant, compare san Pietro, con le chiavi ben in vista. La formulazione di quest’immagine trova una corrispondenza con l’antico mosaico della parete absidale di San Lorenzo fuori le mura, a Roma, che Ottone I e la sua corte a quella data potevano ben avere visto. La tecnica esecutiva rasenta il virtuosismo nel raffinato sfondo traforato a giorno. Alcune tavolette sono in seguito impiegate come copertina del Codice Wittekindeus (Berlino, Staatsbibliothek, ms. Theol. lat., fol. 1), una raccolta di Vangeli preceduta dalle tavole di concordanza di Eusebio, decorate, e dai ritratti dei quattro evangelisti a piena pagina. Anche questo deve essere un dono regale al duomo di Magdeburgo. Si tratta di una delle prime testimonianze di codice miniato ottoniano, con ogni verosimiglianza eseguito attorno al 970 a Fulda, il più grosso e importante centro monastico del regno, dotato di una ricca biblioteca provvista di codici tardoantichi e carolingi. Proprio un esemplare della Scuola palatina di Carlo Magno deve aver fornito il modello al Codice Wittekindeus, che ne replica l’impostazione monumentale degli evangelisti intenti a scrivere, inquadrati da colonne e con una nicchia sullo sfondo. Nella gamma cromatica tutta giocata su colori acidi, verdini e violetti, luminosi come smalti, si riconosce invece una caratteristica tipica della miniatura ottoniana, così come lo sono il trattamento dei frastagliati panneggi e l’appiattimento dello sfondo. Il medesimo registro si riscontra nel Codice di Gerone (Darmstadt, Hessische Landes- und Hochschulbibliothek, Hs. 1948), altro incunabolo dell’illustrazione libraria ottoniana. Nel dedicatario Gerone si riconosce quello che diviene l’arcivescovo di Colonia dal 969, quindi il codice si presume realizzato poco prima di questa data. Il codice contiene una pericope, raccolta di testi evangelici disposti secondo la sequenza liturgica, secondo una formula prediletta in ambito ottoniano, ed è arricchito da una serie di immagini a piena pagina. In apertura compaiono le scene di dedica: lo scriba Anno che consegna il codice a Gerone e, nella pagina a fianco, Gerone che, a sua volta, lo offre a san Pietro, titolare del duomo di Colonia. Seguono una Maiestas Domini e i ritratti degli evangelisti che, di nuovo, riproducono in maniera palmare le illustrazioni di un codice carolingio, ben riconoscibile nell’Evangeliario di Lorsch. Il Codice di Gerone è opera dello scriptorium del monastero della Reichenau, sul lago di Costanza, il più produttivo e celebre tra quelli di età ottoniana. Alla committenza di Gerone si deve anche il Crocifisso ligneo ancora conservato nel duomo di Colonia. Le sue enormi dimensioni (187 cm di altezza per 166 di apertura delle braccia) e il pathos del Cristo morente, mai visto prima di allora in Occidente, devono aver sbalordito i fedeli dell’epoca.
La fiorentissima produzione carolingia di avori costituisce un altrettanto imprescindibile punto di partenza per gli avori ottoniani. L’elaborato ciclo cristologico intagliato attorno al secchiello liturgico conosciuto come Situla Basilewskij, conservato a Londra (Victoria and Albert Museum), trae alcuni episodi dalle tavolette eburnee del cosiddetto Dittico della Passione custodito nel Tesoro del Duomo di Milano. Se ne suppone dunque a sua volta un’origine milanese. La sua iscrizione fa esplicito riferimento a un Ottone “AVGVSTO”, ma non c’è accordo sulla sua identificazione, né sulla destinazione originaria di quest’oggetto liturgico la cui datazione rimane così dibattuta tra il 979 e il 983/984. Milano dunque in epoca ottoniana continua a distinguersi come centro di eccellenza nella lavorazione dell’avorio. Il vescovo milanese Gotofredo commissiona un altro secchiello liturgico, ancora nel Tesoro del Duomo, e a un atelier locale, forse il medesimo, si deve una tavoletta eburnea con le effigi di un imperatore sassone, probabilmente Ottone II, inginocchiato con moglie e figlio ai piedi di un Cristo in maestà affiancato dalla Vergine e da san Maurizio (Milano, Musei del Castello Sforzesco). La vitalità degli artigiani milanesi culmina negli stucchi policromi del ciborio collocato sull’altare maggiore di Sant’Ambrogio, già impreziosito dal paliotto d’oro eseguito da Vuolvinio. Ciascuna faccia del ciborio ospita un triplice gruppo, adattato con intelligenza alla peculiare forma triangolare: sul fronte un Cristo in maestà affiancato dai santi Pietro e Paolo ripropone l’antico tema della Traditio legis e della Traditio clavium; sul retro un vescovo, riconosciuto come Arnolfo, offre un modellino del ciborio ai santi Ambrogio, Gervasio e Protasio, le cui reliquie sono venerate nell’altare; le due facce laterali ospitano una coppia di donne inchinate alla Vergine e una coppia di sovrani in venerazione di sant’Ambrogio. Questi personaggi sono stati riconosciuti come Ottone I con il figlio Ottone II e, sulla faccia opposta, le rispettive consorti Adelaide e Teofano. Le nozze tra la principessa bizantina Teofano e Ottone II si celebrano a Roma nel 972, quindi gli stucchi si possono datare tra quest’anno e il seguente, quando muore Ottone I. Il monumento in questo modo proclama lo speciale legame tra la dinastia regnante sassone e la sede episcopale milanese.
Il matrimonio con Teofano, nipote dell’imperatore Giovanni I Zimisce, rinsalda i rapporti tra la corte sassone e quella bizantina, con una ricaduta anche sulle manifestazioni artistiche. Il diploma di nozze (Wolfenbüttel, Niedersächsisches Staatsarchiv, 6 Urk. 11), approntato in uno scriptorium germanico, è redatto su una pergamena tinta di porpora, nel solco della tradizione imperiale bizantina, e decorata con i motivi delle stoffe rotate orientali. Anche la tavoletta eburnea raffigurante il Cristo in atto di imporre le corone sul capo di Ottone II e Teofano (Parigi, Museo di Cluny), entrambi abbigliati con le fastose vesti degli imperatori d’Oriente, trova un diretto precedente, tanto iconografico che stilistico, in un analogo avorio con l’incoronazione di Romano II e della moglie Eudossia, di pochi anni prima. Il rilievo ottoniano potrebbe provenire dagli ex territori bizantini dell’Italia meridionale che Ottone II tenta, senza successo, di riscattare dai Saraceni. Nel 982 con la battaglia di Capo Colonna subisce uno scacco disastroso e l’anno successivo muore a Roma, dove è sepolto, unico imperatore germanico. La sua tomba, oggi nelle Grotte Vaticane, viene collocata nell’atrio di San Pietro in Vaticano ed è sormontata da un’immagine del Cristo tra i principi degli apostoli in prezioso mosaico, raro per l’epoca. Il brano musivo è così rimaneggiato da risultare ingiudicabile, resta quindi aperto il problema di quali maestranze siano state ingaggiate per la sua esecuzione. Comunque questo tipo di monumento funebre è diversissimo da quello paterno a Magdeburgo e sembra piuttosto aver preso a modello quelli dei pontefici, segno della capacità di assimilazione della corte ottoniana per una spregiudicata politica d’immagine.
Alle committenze imperiali si associano quelle altrettanto lussuose degli alti dignitari ecclesiastici, spesso a loro volta provenienti dai ranghi dell’aristocrazia, se non addirittura dalla cerchia della famiglia imperiale. Il più celebre mecenate dell’epoca è Egberto, tra il 950 ca. e il 993 arcivescovo di Treviri, cancelliere di Ottone II ed egli stesso esperto di calligrafia e oreficeria. Impegnato in una politica di rivendicazione della preminenza della sede arcivescovile di Treviri, Egberto provvede a esaltarne le reliquie con superbe opere di oreficeria, come l’altare portatile per il frammento di sandalo di sant’Andrea, ancora conservato nel Tesoro della Cattedrale, eseguito dal locale atelier al suo servizio, il più rinomato del regno. L’altare portatile, o meglio, lo scrigno enfatizza il proprio contenuto in maniera inedita, ostentando sulla sommità un piede scolpito calzato nel venerabile sandalo impreziosito da filari di pietre dure. L’impiego di smalti, pietre preziose e semipreziose e piccole figure, a rilievo o a tutto tondo, testimonia della complessità dell’oreficeria ottoniana che impone una grande perizia tecnica. I colori accesi degli smalti con i simboli degli evangelisti eguagliano la tavolozza delle illustrazioni librarie del medesimo ambito.
Egberto è ritratto come destinatario nelle immagini di dedica di due importanti manoscritti illustrati: il Salterio di Cividale (Cividale del Friuli, Museo Archeologico) e il Codex Egberti (Stadtbibliothek Trier, ms. 24), entrambi affidati ad artisti della Reichenau. Il primo, attribuito al 980 circa, contiene un’insolita galleria di ritratti di quindici vescovi predecessori di Egberto, palesemente intesa a celebrare l’antichità dell’episcopato di Treviri. Il secondo, forse di una decina di anni successivo, è una raccolta di pericopi illustrata con il più esteso ciclo cristologico dell’epoca, composto da ben 51 immagini a corredo del testo. Il racconto evangelico, che abbiamo visto protagonista nei rilievi eburnei, prima di allora non aveva mai ricevuto un simile spazio nella decorazione libraria ottoniana e nemmeno nelle sue premesse carolinge. I suoi autori devono aver attinto a testi illustrati paleocristiani e bizantini, liberamente rielaborati per una creazione del tutto originale. Il primo set di immagini del Codex Egberti è attribuito al massimo pittore del momento: un artista rimasto anonimo e pertanto chiamato Maestro del Registrum Gregorii, dal suo capolavoro. Il Registrum Gregorii, una raccolta di epistole di Gregorio Magno divisa tra Chantilly (Musèe Condé, ms. 14 bis) e Treviri (Stadtbibliothek, Hs. 171/1626), è approntato a Treviri ed è decorato da una raffigurazione di Gregorio Magno intento a dettare le proprie riflessioni su ispirazione dello Spirito Santo, in forma di una colomba sulla sua spalla. L’impeccabile tridimensionalità degli oggetti nello spazio, i saldi e composti volumi dei corpi e il sensibile chiaroscuro dell’incarnato parlano di una confidenza con l’antico ignota agli altri pittori coevi, forse alimentata dalla ricchezza di testimonianze romane disponibili a Treviri. L’attività del Maestro del Registrum Gregorii alla Reichenau inaugura una nuova fase del già celebre scriptorum.
È con ogni verosimiglianza in questi stessi anni, durante l’abbaziato di Witigowo (985-997), che la chiesa di Sankt Georg di Oberzell, alla Reichenau, riceve una nuova decorazione pittorica. Le pitture lungo le pareti della navata centrale sono articolate in tre registri separati da bande con potenti greche prospettiche. Dal basso si succedono una teoria di busti degli abati della Reichenau racchiusi entro tondi, un ciclo cristologico e in alto, tra le finestre, sei figure di apostoli o profeti per lato. Rispetto al fitto succedersi di numerosi episodi dei precedenti longobardi o carolingi, il San Salvatore di Brescia o Müstair, si preferisce una selezione ridotta, a favore di una maggiore monumentalità. Così sulle pareti trovano posto solo quattro scene per parte, con un programma iconografico incentrato sui miracoli del Cristo. La solennità delle figure dei protagonisti è animata dalle pose concitate e dal trattamento stilistico, con accanite lumeggiature nei volti e nei panneggi, fittamente pieghettati. Sono modalità analoghe a quelle riscontrabili nella coeva miniatura, con la quale offre agganci evidenti anche il repertorio ornamentale di girali vegetali e di motivi desunti dalle stoffe rotate. Le pitture della piccola cappella dedicata a san Silvestro a Goldbach, nelle immediate vicinanze, sono molto simili a quelle di Sankt Georg e sono dunque presumibilmente opera delle stesse maestranze. Anche qui lungo le pareti della navata si dispongono storie di Cristo, sovrapposte ad una stesura pittorica di IX secolo, mentre il coro ospita un consesso di giganteschi apostoli assisi su stalli, teatrale simulazione di un’accolita di antichi sacerdoti.
Sono invece documentate solo da acquarelli ottocenteschi le decorazioni pittoriche fatte realizzare (980-1002) da Ottone III nella Cappella Palatina di Aquisgrana, dove, sulla scorta della tradizione carolingia, i dinasti sassoni continuano a ricevere la corona regale. Secondo una fonte dell’epoca, l’imperatore Ottone III ingaggia per quest’opera un Iohannes natione et lingua italus, anzi, gente Longobardus come precisa un documento più tardo. L’intensità della circolazione di opere e artisti tra Italia settentrionale e territori germanici sembra riflettersi nella pittura monumentale, nei cicli del battistero di Novara degli esordi del Mille, riferiti alla committenza del vescovo Pietro III (vescovo dal 933 al 1030/1033), e in quelli della chiesa di San Vincenzo a Galliano, presso Cantù, commissionati dal futuro arcivescovo di Milano Ariberto da Intimiano e ancorati da un’epigrafe a una data, il 1007 circa. A Novara compare un inedito inquadramento architettonico con illusionistiche colonne a scandire un racconto apocalittico insolitamente dettagliato. I suoi angeli statuari dai panneggi agitati e scomposti da metalliche lumeggiature sono messi in relazione con le pitture di Oberzell e con le illustrazioni dell’Apocalisse di Bamberga (Staatsbibliothek Bamberg, ms. Bibl. 140), esemplata alla Reichenau agli esordi del Mille.
La maturità artistica degli atelier sassoni di quest’epoca raggiunge il vertice nei colossali manufatti in bronzo fatti realizzare da Bernardo vescovo di Hildesheim, raccogliendo il testimone della fusione a cera persa dalle officine di corte carolinge. Bernardo è per questa generazione quello che era stato Egbert per la precedente: mecenate originale ed esigente, esperto sia di omnis liberalis scientia, sia di artes mechanicae, come ci informa il suo biografo. Al seguito degli spostamenti della corte imperiale, prima con Ottone II e poi con il suo erede, ha modo di visitare la penisola italiana e Roma. È probabilmente dalle colonne istoriate romane che Bernardo trae l’ispirazione per la colonna coclide in bronzo, forse realizzata dopo il 1013 per la chiesa di Sankt Michael di Hildesheim da lui fondata, ma oggi conservata nel locale duomo. Il fusto, alto 3,79 metri, è fuso in un’unica colata e vede uno sterminato ciclo cristologico sostituirsi alle antiche epopee storiche. La medesima officina, probabilmente da localizzare presso il duomo, si cimenta nelle altrettanto impegnative ante bronzee del duomo stesso, ancora in opera, datate dall’iscrizione al 1015, anch’esse fuse in un’unica colata ciascuna a dispetto delle dimensioni. I due battenti espongono un programma che vede affiancati episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, a sottolineare la concordanza dei due testi biblici, come nella porta lignea paleocristiana di Santa Sabina a Roma. Le dinamiche figure che si staccano dal fondo con un aggetto straordinario potrebbero invece aver tratto ispirazione dalle sculture in stucco pertinenti alla decorazione di epoca carolingia del duomo. I bronzi di Hildesheim inaugurano la fioritura delle arti della fusione del pieno Medioevo, rimanendo comunque ineguagliate.