L'Eta dei Lumi: le scienze della vita. Le collezioni e lo studio dei vegetali e degli animali
Le collezioni e lo studio dei vegetali e degli animali
La monumentale Histoire naturelle, générale et particulière (1749-1767) che ha reso celebre Georges-Louis Leclerc de Buffon (1707-1788) si apre con il discorso De la manière d'étudier et de traiter l'histoire naturelle. Buffon, che da dieci anni era intendente del Jardin du Roi, rievoca in quest'occasione il tempo, l'applicazione, le spese, ma anche i "casi fortunati" necessari a "procurarsi individui ben conservati delle diverse specie di animali, di piante e di minerali, così da creare una collezione ben ordinata di tutte le produzioni della Natura"; constata "la meraviglia mista ad ammirazione" che si prova davanti a questo "magazzino" in cui sono riuniti gli "esemplari di tutto ciò che si trova sparso a profusione sulla Terra"; sottolinea come la familiarità con questi oggetti, e l'abitudine di vederli spesso, favorisca la formazione di impressioni che "ben presto si articolano nel nostro spirito secondo rapporti fissi e invariabili", consentendoci così di giungere a visioni più generali (Histoire naturelle, I, pp. 5-6). Per Buffon, dunque, la raccolta di "individui ben conservati delle diverse specie di animali, di piante e di minerali" non era fine a sé stessa, ma costituiva uno strumento necessario allo studio del mondo naturale.
I biologi che oggi operano nel campo della sistematica animale o vegetale paragonano abitualmente le loro collezioni di riferimento ai grandi strumenti dei fisici. Esse sono infatti indispensabili alla descrizione, all'analisi e ai raffronti che consentono di formulare e di verificare le ipotesi sulle affinità morfologiche e sulla storia evolutiva degli animali e dei vegetali. Questo parallelo è illuminante per la storia della scienza e si può tentare di trasporlo nel XVIII sec., considerando che già a quel tempo le collezioni naturalistiche erano utilizzate come strumenti di conoscenza ‒ anche se, sicuramente, al servizio di altre ipotesi ‒ e che la storia delle istituzioni che le ospitavano si confonde con quella delle accademie e delle università a cui erano legate da rapporti di dipendenza, di collaborazione o di rivalità. Il Jardin du Roi di Parigi, per esempio, fu sin dalla sua fondazione un'istituzione indipendente dalla Facoltà di medicina, mentre il Jardin des Plantes di Montpellier si sviluppò, come molti altri orti botanici europei, all'interno delle strutture universitarie. Per sottolineare il ruolo centrale delle collezioni nella conoscenza dei vegetali e degli animali si potrebbe affermare, ragionando per via analogica, che queste ultime e le istituzioni che si occupavano della loro gestione svolsero nel campo della storia naturale una funzione paragonabile a quella degli strumenti e delle osservazioni nel campo delle indagini astronomiche.
Tuttavia, quest'analogia ha dei limiti. Anche se l'investimento richiesto dalla costruzione di un telescopio era irrealizzabile senza i mezzi messi a disposizione da un mecenate o da un principe, la sua messa in opera dipendeva esclusivamente dalle conoscenze astronomiche. La collezione, al contrario, per le sue origini e motivazioni, ma anche per la natura degli oggetti che ne potevano entrare a far parte, era espressione di una realtà sociale e materiale in larga misura non riconducibile al campo delle scienze della vita.
Gli studi dedicati alla storia generale dei musei, tra cui, per esempio, il testo ormai classico di David Murray (1904) o quello più recente di Edward P. Alexander (1979), mostrano la molteplicità e la variabilità ‒ nel lungo periodo ‒ dei contenuti e delle finalità delle collezioni. Ciò è riscontrabile anche nell'opera monumentale di Gustave Loisel (1912), che prende ugualmente in considerazione un lungo periodo, ma limitandosi all'esame del caso particolare delle collezioni animali. La diversità delle motivazioni e l'eterogeneità degli oggetti raccolti appare con evidenza ancora maggiore negli studi dedicati alle collezioni di un dato periodo e di un'area culturale ben determinata.
Per ciò che concerne la diversità degli oggetti, è necessario operare alcune distinzioni. Verso la seconda metà del XVII sec., il medico danese Ole Worm (1588-1654) introduceva in questo modo la descrizione del suo Museum Wormianum. Seu historia rariorum, pubblicato postumo nel 1655: "Le rarità contenute nel nostro museo sono riconducibili a quattro classi: Fossili, Vegetali, Animali e tutto ciò che l'Arte ha elaborato a partire da queste" (p. 1). Nei testi del tempo sono frequentemente riscontrabili classificazioni simili, che rimangono tuttavia di difficile interpretazione. Le descrizioni non corrispondono necessariamente alle illustrazioni dalle quali sono accompagnate, e senza dubbio neppure all'effettivo ordine delle collezioni in questione. L'interpretazione di alcune categorie non è semplice: la nozione di 'fossile', per esempio, spesso era utilizzata per designare, come nel caso di Worm, tutto ciò che si può trovare sottoterra, ossia, quelli che oggi chiamiamo fossili ma anche ogni tipo di sostanza minerale. Le collezioni ospitavano resti umani, talvolta mummie o loro frammenti, ma anche cere anatomiche. Per ragioni pratiche gli animali e i vegetali erano esclusi dai veri e propri gabinetti, ma potevano essere sistemati in un orto o in un serraglio adiacenti. Per semplificare l'analisi, sarà dunque utile dividere le collezioni in due categorie principali a seconda che comprendessero, o meno, oggetti viventi. Tra le prime figuravano gli orti botanici e i serragli; le seconde, invece, che costituivano la parte più importante dei gabinetti, potevano contenere sia oggetti naturali sia artificiali. Tra questi ultimi figuravano opere d'arte, strumenti tecnici, vestigia storiche od oggetti fabbricati in aree culturali distanti. Gli oggetti naturali, infine, potevano essere sia non viventi, sia resti di organismi viventi (piante essiccate, semi, conchiglie, scheletri, denti, zanne, carapaci) e in seguito, con il progresso delle tecniche di conservazione, pelli preparate e imbottite secondo i principî dell'arte della tassidermia.
Benché la storia della biologia sia interessata solamente alle collezioni naturalistiche, non bisogna dimenticare che queste ultime s'inscrivevano in un insieme più vasto. Così, l'organizzazione dei musei di pittura per epoche e scuole nazionali ‒ che alla fine del secolo iniziò a imporsi ‒ corrispondeva, mutatis mutandis, alla crescente importanza assunta in questo periodo dalla sistematica nella presentazione degli esemplari botanici e zoologici (Schaer 1993).
Krzysztóf Pomian ha proposto un'utile definizione secondo la quale il concetto di collezione designerebbe un insieme di oggetti "sottratti al circuito delle attività economiche", sottoposti a una protezione speciale ed esposti "all'osservazione in un luogo chiuso riservato a questo scopo" (Pomian 1987, p. 295). Tale definizione esclude gli oggetti immagazzinati nei depositi destinati al circuito economico, quelli abbandonati nelle discariche che non erano oggetto di protezione o, per esempio, le monete di un tesoro nascosto sottoterra finché non erano portate alla luce ed esposte. Anche all'interno di questa cornice ristretta, tuttavia, le collezioni erano molto numerose ed eterogenee: collezioni di quadri nel caso dei collezionisti più facoltosi, ma anche di stampe o di medaglie, di oggetti rari, artificiali o naturali, in una parola tutto ciò che poteva essere oggetto di 'curiosità'.
Jean de La Bruyère (1645-1696) ha giudicato dal punto di vista della morale la passione dei collezionisti : "La curiosità non si rivolge a ciò che è buono e bello, ma a ciò che è raro, unico, per ciò che possediamo noi e gli altri no" (Les caractères, in Oeuvres, p. 386). Questa formula, contenuta nel capitolo intitolato De la mode, può essere utilizzata abbastanza efficacemente per definire le motivazioni di numerosi collezionisti del XVI e del XVII secolo. Molti storici hanno spiegato i modi in cui la collezione era entrata nella cultura del consumo finalizzata all'ostentazione, propria degli ambienti aristocratici; tuttavia, nel formulare questo giudizio, bisogna tener conto delle sfumature. Studiando le attività dei collezionisti francesi del XVII sec., Antoine Schnapper (1988) ha scoperto che quest'ambiente era molto più diversificato di quanto, tenuto conto della stratificazione sociale del tempo, si sarebbe potuto pensare, e Lorraine Daston, riferendosi a molte opere dedicate alla storia delle collezioni, ha affermato che le motivazioni dei collezionisti erano diverse quanto gli oggetti collezionati.
Del resto, la collezione non è mai riconducibile esclusivamente alla sua funzione sociale e neppure alle motivazioni psicologiche del collezionista: essa è anche l'affiorare di un'immagine del mondo esplicita o recondita, o almeno di un modo di organizzazione delle conoscenze sul mondo. Questa tesi è stata enunciata nel 1966 in modo radicale da Michel Foucault ne Les mots et les choses:
Si dice spesso che la costituzione dei giardini botanici e delle collezioni zoologiche traduceva una nuova curiosità per le piante e le bestie esotiche. Di fatto già da molto tempo, queste avevano sollecitato l'interesse. Ciò che è cambiato è lo spazio in cui possono essere vedute e da cui le si può descrivere. [...] Il gabinetto di storia naturale e l'orto botanico, nella forma in cui vengono attrezzati nel periodo classico, sostituirono al corteo circolare della 'mostra' l'esposizione delle cose in un 'quadro'. (Foucault 1966, p. 144)
I riferimenti alla tesi di Foucault seguitano a essere assai frequenti (Hooper-Greenhill 1992), anche se essa è stata oggetto di critiche e di modifiche da parte di molti autori.
John Pickstone (1994) ha ripreso a suo vantaggio l'analisi dell'età classica di Foucault apportandole il sostegno di una reinterpretazione sociologica in termini di 'mecenatismo laico'; tuttavia, Pickstone sottolinea come questo 'stile di conoscenza' e questo genere di relazione sociale non siano scomparsi alla fine del XIX sec., pur con l'emergere di nuovi tipi di conoscenza e con la nascita delle grandi istituzioni destinate a riunire e a ordinare gli oggetti del sapere. Tra il nuovo e il vecchio sistema Pickstone non scorge una frattura, ma un'interazione dinamica. Più scettico, Antoine Schnapper (1988) conclude il suo studio criticando la tesi di Foucault e ponendo in evidenza l'accumulazione che caratterizza le collezioni del XVIII sec., e persino l'esposizione, nei musei del secolo successivo, di oggetti esotici o di monstra degni di un gabinetto di curiosità.
Quando inizia e quando ha termine l'età classica delle collezioni? In questo campo il XVIII sec. è un periodo più difficile da caratterizzare rispetto al Rinascimento e al XIX secolo. Come ha scritto Giuseppe Olmi: "Nonostante le discussioni e i dibattiti teorici in cui sono rimaste coinvolte schiere di intellettuali e nonostante i progressi indubbiamente compiuti, il XVIII secolo non può essere considerato un periodo di cambiamento radicale, ma ‒ più realisticamente ‒ una fase decisiva di passaggio dal vecchio al nuovo, per la risoluzione e la consapevolezza con cui venne colmato il divario tra il passato e il futuro" (Olmi 1993, pp. 275-276).
In realtà la questione della periodizzazione è legata a quella dei molteplici usi della collezione, che non erano certo gli stessi per un farmacista e per un principe o per quest'ultimo e un erudito incaricato di gestire una collezione principesca. Per quanto riguarda le rare collezioni 'istituzionali', bisogna operare una distinzione tra queste e le istituzioni alle quali appartenevano. In via generale un'istituzione poteva possedere molte collezioni, e Pomian (1987) ha evidenziato come alla stabilità dei musei si contrapponesse la precarietà delle collezioni private, che spesso andavano disperse dopo la morte di coloro che le avevano create. Questa distinzione appariva con particolare evidenza qualora un'istituzione accettasse in eredità o acquisisse, a volte non senza difficoltà, una collezione privata; in questi passaggi di proprietà interveniva in alcuni casi persino il potere dello Stato. Benché René-Antoine Ferchault de Réaumur (1683-1757) ‒ uno studioso celebre sia nel campo dell'osservazione degli insetti sia in quello delle indagini fisiche ‒ avesse lasciato le sue collezioni e i suoi scritti all'Académie Royale des Sciences, un decreto reale ordinò che i materiali concernenti la storia naturale dovessero essere affidati al Cabinet du Roi diretto da Buffon, acerrimo rivale dello studioso (Roger 1989).
Spesso il lascito di una collezione privata diede origine a un'istituzione pubblica, come dimostra, per esempio, il caso dell'Ashmolean Museum, fondato nel XVII sec. a partire da una collezione creata da due giardinieri, i naturalisti John Tradescant, padre (m. 1638) e figlio (1608-1662). Questa collezione, lasciata in eredità a Elias Ashmole (1617-1692) e in seguito donata da quest'ultimo all'Università di Oxford, diede origine nel 1683 all'Ashmolean Museum. La sua fondazione fu tuttavia preceduta da una controversia giuridica tra Elias Ashmole e la vedova di John Tradescant jr e ancora oggi si discute sul ruolo svolto rispettivamente dai Tradescant e da Ashmole (Murray 1904). Anche il caso del British Museum è, in questo senso, esemplare: il gabinetto creato da Hans Sloane (1660-1753), un medico facoltoso ed esperto naturalista che dal 1687 al 1689 aveva soggiornato in Giamaica e che era succeduto a Newton alla presidenza della Royal Society, era, secondo quanto affermò nel 1742 Antoine-Joseph Dezallier d'Argenville (1680-1765), il più bello tra quelli che aveva visitato in Inghilterra. Alla morte del suo ideatore, sopraggiunta nel 1753, questa collezione ospitava 334 volumi di piante essiccate, 10.000 esemplari zoologici, piante, conchiglie, 50.000 libri, manoscritti, antichità orientali, dipinti e disegni, oggetti esotici e strumenti scientifici; in totale più di 80.000 esemplari senza contare l'erbario. Nel suo testamento Sloane dichiarò di aver creato questa collezione per "illustrare la gloria di Dio, per confutare l'ateismo e le sue conseguenze, per la diffusione e il perfezionamento della fisica e di altre arti e scienze, e a beneficio dell'umanità" (Alexander 1979, pp. 44-45). Per evitare la dispersione della collezione, egli proponeva al re o, in caso di rifiuto, a un'istituzione scientifica inglese o straniera, di acquistarla per la somma di 20.000 sterline da corrispondere alle due figlie ‒ ricorrendo soltanto in ultima istanza alla vendita all'asta. Il Parlamento accettò il lascito di Sloane e fece organizzare una lotteria per reperire la somma necessaria al rimborso delle eredi e alla costruzione di un edificio destinato a ospitare la collezione. Nacque così il British Museum che fu inaugurato nel 1759 e che inizialmente comprendeva tre dipartimenti: (a) manoscritti, medaglie e monete, (b) prodotti naturali e artificiali, (c) libri a stampa (Murray 1904). Tra le collezioni che nel corso dei decenni successivi entrarono a far parte del British Museum, la più celebre nel campo delle scienze naturali fu quella creata da Joseph Banks (1743-1820).
Anche in Francia molti musei ancora attivi in alcune città di provincia sono stati fondati a partire da collezioni private (Praet 1995), in particolare quello di La Rochelle, il cui fondo iniziale era costituito dal gabinetto di un ricco avvocato, Clément Lafaille (1718-1782), che alla morte di quest'ultimo divenne una collezione pubblica.
La classica linea di demarcazione tra le collezioni private e quelle pubbliche in realtà era permeabile e bisognerebbe piuttosto pensare a una serie di passaggi graduali dalle collezioni destinate a un uso strettamente personale fino ai musei aperti senza restrizioni al pubblico. Lungo questa serie si collocano le collezioni patrizie, che erano mostrate soltanto ad alcuni visitatori selezionati in base alla loro erudizione o al loro rango sociale; poi quelle che erano utilizzate dai proprietari come strumenti di elevazione sociale, alle quali avevano accesso gli amici del proprietario, ma anche i viaggiatori di passaggio; infine, quelle che appartenevano alle comunità religiose o alle istituzioni culturali, universitarie o accademiche. Lo status delle collezioni principesche era invece ambiguo: bisognava considerarle proprietà personale del principe o proprietà dello Stato?
Benché vada applicata tenendo conto dei casi particolari, la distinzione tra collezioni private e pubbliche conserva una certa validità, come dimostra la voce Cabinet d'histoire naturelle nel II volume dell'Encyclopédie (1751), in cui il gabinetto del re viene preso a modello per la sua apertura al pubblico ("l'accesso è facile; ognuno può entrare a piacere, divertirsi o istruirsi"), ma anche per il gusto e la correttezza della presentazione. L'autore dell'articolo, probabilmente identificabile nello stesso Diderot, constatava con piacere che in questo caso si era tenuta una condotta apprezzabile in un privato ma ancora di più in un "grande istituto, ove non si devono avere altri scopi che il bene dell'istituto stesso" (p. 490). L'autore giunge a proporre il progetto "allo stesso tempo vantaggioso e onorevole per la nazione, […] di innalzare alla Natura un tempio che sia degno di lei", per esempio, "composto di numerosi edifizi di grandezza proporzionata agli oggetti che devono ospitare", nel quale si possa ammirare "tutto ciò che la mano dell'Onnipotente ha sparso sulla superficie della Terra, esposto in un unico luogo". Un tale "spettacolo" avrebbe certamente attratto "i curiosi di ogni parte del mondo" (ibidem, p. 492).
Forse l'uso del termine 'spettacolo' nell'Encyclopédie era un'eco dello Spectacle de la nature, un'opera di Noël-Antoine Pluche (1688-1761): Daniel Mornet (1911) ha dimostrato infatti, basandosi sui cataloghi di alcune biblioteche, che questo libro, pubblicato per la prima volta nel 1732, aveva conosciuto una straordinaria diffusione. Si tratta, tuttavia, di un accostamento audace, tanto l'apologetica dell'abate Pluche sembra lontana dal materialismo di Diderot, anche se il suo materialismo assume in questo contesto una sfumatura panteista ("innalzare alla Natura un tempio che sia degno di lei"); in ogni caso, esso sottolinea che alla causa della valorizzazione della storia naturale potevano anche concorrere motivazioni filosofiche opposte. Come si afferma nella voce Histoire naturelle, nella stessa Encyclopédie: "l'interesse per questa scienza si è diffuso tra il pubblico e diviene ogni giorno più vivo e più generale" (1751, p. 228); va dunque ricondotta a questo interesse la moltiplicazione dei gabinetti di storia naturale creati da collezionisti che contribuivano "al progresso della storia naturale", facilitando il lavoro di coloro che "osservano le creazioni della Natura e meditano sulle loro osservazioni" (ibidem). Molti contemporanei di Diderot avrebbero potuto esprimere le stesse opinioni in proposito; tuttavia, dietro a questo giudizio di unanime approvazione delle collezioni naturalistiche si nascondevano in realtà profonde divergenze sul principio stesso delle collezioni e sull'ordine che bisognava dare loro.
Per ciò che riguarda i gabinetti di storia naturale, la questione più importante è quella d'individuarne il campo e i limiti. Dezallier d'Argenville lo ricordava esplicitamente ai lettori de L'histoire naturelle éclaircie dans deux de ses parties principales, la lithologie et la conchyliologie (1742), affermando che mentre un gabinetto di curiosità poteva essere arricchito da qualsiasi oggetto, "libri, medaglie, frammenti di opere antiche e di sculture, quadri e perfino opere di tornitura e di meccanica", quello di storia naturale ospitava "esclusivamente le opere della Natura" (p. 192).
Questa restrizione era accompagnata da una definizione più rigorosa della storia naturale e da un'esplicita critica delle concezioni estensive antiche e rinascimentali, simboleggiate dai nomi di Plinio il Vecchio e di Ulisse Aldrovandi: "Allontaniamoci dalle vaste idee di Plinio, e non seguiamo l'Aldrovandus nelle sue escursioni in terre straniere. Lasciamo all'astronomia lo studio dei moti celesti, alla geografia la misurazione e la descrizione della Terra, alla medicina la scienza congetturale di guarire le malattie, affidiamo agli agricoltori il compito di coltivare la terra, ai vignaiuoli quello di produrre il vino, e ai pittori l'arte di imitare la Natura e di soggiogare i sensi" (ibidem). Ciononostante, nei gabinetti dei naturalisti oltre agli esemplari di minerali, vegetali e animali, si trovano molti altri oggetti. In quello di Joseph Pitton de Tournefort (1656-1708), per esempio, figuravano, come ricorda garbatamente Fontenelle (1657-1757) nell'elogio funebre del botanico, capi d'abbigliamento, armi, strumenti di nazioni lontane, altri tipi di curiosità che, per quanto non direttamente prodotti dalle mani della Natura, possono suscitare riflessioni filosofiche in chi sa filosofare.
Il più celebre e, probabilmente, il più ricco gabinetto parigino era quello di Bonnier de la Mosson (1702-1744), di cui conosciamo il contenuto grazie a un inventario richiesto alla morte del collezionista dai suoi creditori e redatto da Edme-François Gersaint (m. 1750). Noto agli storici dell'arte come mercante di quadri ‒ l'insegna della sua bottega era stata dipinta da Antoine Watteau (1684-1721) ‒ Bonnier de la Mosson era un esperto commerciante in ogni genere di curiosità; il suo gabinetto in realtà era composto da otto sezioni, tre delle quali concernevano le scienze della vita: un gabinetto d'anatomia, che conteneva scheletri e cere colorate, e due di storia naturale, uno dei quali conteneva 'animali essiccati' e l'altro animali immersi in un liquido conservante contenuto in fiale. Vi erano inoltre un gabinetto delle 'droghe', un gabinetto di chimica, uno di farmacia e uno di 'meccanica e fisica', e persino uno spazio dedicato al tornio e agli oggetti da esso prodotti (Hill 1986). In questo caso la distinzione tra gabinetto di curiosità e gabinetto di storia naturale corrispondeva alla distinzione tra il tutto e la parte; in generale però la differenza era allo stesso tempo più profonda e più vaga poiché derivava dal metodo stesso di selezione e di presentazione degli oggetti.
Al posto, o più esattamente accanto a 'rarità', quali, per esempio, denti di narvalo, radici di mandragola o bezoàr che costituivano la gloria del 'curioso', il naturalista si proponeva di esporre serie quanto più possibile complete di esemplari, anche comuni, che semplicemente si completassero tra loro e formassero un insieme scientificamente coerente. Fecero così la loro comparsa collezioni dedicate alla flora o alla fauna di una regione o appartenenti a un gruppo tassonomico ben determinato. Questo è quanto ha dimostrato Pomian (1987) esaminando il caso del Veneto, e ciò che Olmi ha riassunto nel titolo del suo studio From the marvellous to the commonplace (1993).
A questo riguardo la botanica rappresenta un esempio significativo. L'esistenza dell'erbario, spesso metaforicamente definito hortus siccus, 'orto secco', è segnalata sin dalla seconda metà del XVI sec.; esso poteva essere composto da piante esotiche, selezionate semplicemente per la loro rarità o per il loro carattere decorativo, e soltanto progressivamente si affermò come strumento di apprendimento e di ricerca utilizzato dai botanici. Dezallier d'Argenville nella sua opera L'histoire naturelle (1742) non dimentica di menzionarlo nella descrizione del gabinetto ideale, ma non si pronuncia sull'opportunità di adottare o meno un metodo sistematico di presentazione: "Le erbe incollate sulle pagine dei libri saranno ordinate in base al loro genere, o per ordine alfabetico" (p. 194). Lo stesso autore non dimentica di citare nella sua descrizione del gabinetto del re le 14.000 piante essiccate raccolte da Tournefort e da Sébastien Vaillant (1669-1722). Persino Rousseau, secondo cui la botanica doveva essere praticata soprattutto nella Natura stessa, sottolinea nell'ottava delle sue Lettres élémentaires sur la botanique (redatte verso il 1773, ma pubblicate postume nel 1782) l'importanza dell'uso degli erbari per apprendere a "classificare, ordinare e denominare" una pianta attraverso "idee comparative divenute familiari". A tal fine, l'autore non esita a offrire minuziosi consigli sul modo di "preparare, essiccare e conservare piante o esemplari di piante in modo da renderle facili da riconoscere e da individuare" (Oeuvres, p. 1191).
Sotto forma di libro o di cartelle, l'erbario era soprattutto una collezione destinata alla consultazione; altri oggetti di studio della storia naturale, per esempio le conchiglie, obbligavano però il loro proprietario ‒ o il loro 'custode' nel caso delle collezioni pubbliche ‒ a una difficile scelta tra un criterio estetico e uno razionale di presentazione. Dezallier d'Argenville, che era un collezionista di conchiglie ma anche di libri, di quadri e di stampe, dimostra infatti ne L'histoire naturelle un certo imbarazzo nell'affrontare l'argomento dell'ordine di presentazione delle conchiglie marine in un gabinetto ideale:
I naturalisti ordinano le conchiglie per classi e famiglie; si tratta incontestabilmente del criterio migliore e più metodico; in base a questo principio essi mescolano le brutte alle belle, le grandi alle piccole, in modo che l'occhio a volte si affatica.
I curiosi, al contrario, ricercando solo il piacere degli occhi, sacrificano l'ordine metodico per formare compartimenti diversi, in cui le conchiglie sono ordinate sia in base alla loro forma sia in base al loro colore, ottenendo un effetto smagliante, il più bel colpo d'occhio che si possa immaginare. (p. 196)
In queste parole è evidente come all'elogio dell'ordine sistematico si unisse il rimpianto per un criterio di presentazione più rispettoso dei principî estetici; certo, questo poteva essere soltanto il punto di vista di un collezionista privato, ma le stesse opinioni erano condivise anche da Louis-Jean-Marie Daubenton (1716-1800), custode e dimostratore del gabinetto di storia naturale del Jardin Royal sin dal 1745. Nato, come Buffon, a Montbard, una cittadina della Borgogna, Daubenton era uno dei più fidati collaboratori di Buffon, e non è quindi sorprendente che il secondo volume della Histoire naturelle ‒ pubblicato nel 1749 insieme al primo ‒ si apra con una riflessione, allo stesso tempo teorica e pratica, sulla disposizione dei gabinetti di storia naturale, redatta e firmata dallo stesso Daubenton; non sorprende neppure che questo testo sia stato citato, elogiato e riprodotto quasi integralmente due anni più tardi, nell'articolo dell'Encyclopédie sopra menzionato. Subito dopo aver sottolineato il valore istruttivo di una disposizione in cui gli esemplari "siano ordinati per classi, generi e specie", di un ordine "in cui le rassomiglianze indichino il genere e le differenze definiscano la specie", Daubenton precisava nella Description du Cabinet du Roy che, per ragioni relative alle dimensioni degli oggetti e all'"idoneità degli ambienti", nessun gabinetto poteva seguire rigorosamente l'ordine metodico. Tuttavia, questo impedimento materiale comportava un vantaggio: consentiva di non rimanere imprigionati nell'ordine metodico e obbligava a riconoscere gli oggetti così come si trovavano in Natura, in cui non si presentavano disposti secondo i nostri metodi, comunque arbitrari. Dal momento che anche nei gabinetti più grandi era impossibile riprodurre l'ordine della Natura, bisognava, per evitare la confusione, ricorrere al criterio della simmetria e del contrasto. Quindi Daubenton aggiungeva: "L'ordine metodico che in questo genere di studi piace tanto allo spirito, non è quasi mai il più gradevole per gli occhi" (Description du Cabinet du Roy, p. 5). In effetti, l'ideale di Daubenton era combinare l'ordine metodico che "piace tanto allo spirito" con una disposizione che fosse "gradevole per gli occhi", una combinazione che era stata attuata nel gabinetto del re: " si è iniziato a scegliere, per ciascuno dei generi che ne fossero suscettibili, una serie di specie, e persino di molti individui, per mostrare la varietà così come la costanza delle specie, disponendole metodicamente per generi e classi. Le eccedenze di ogni collezione sono state distribuite nei luoghi ritenuti più adatti, in insiemi gradevoli per l'occhio e vari per la differenza delle forme e dei colori" (ibidem, pp. 5-6).
Circa quarant'anni più tardi, Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829) nel suo Mémoire sur les cabinets d'histoire naturelle et particulièrement sur celui du Jardin des plantes (1791) considerò inaccettabile questo compromesso. Egli non aveva ancora pubblicato i suoi studi sulla trasformazione delle specie ed era allora conosciuto solamente come botanico ma possedeva già una splendida collezione di conchiglie. In questa relazione Lamarck critica le collezioni in cui prevale la ricerca del lusso e della spettacolarità, si espongono soltanto gli oggetti che presentano caratteristiche o forme attraenti, disposti simmetricamente o in modo da creare effetti di contrasto, e in cui si giunge "persino a mutilare gli oggetti per renderli più dilettevoli alla vista". Secondo la sua opinione, queste collezioni "non servono a nulla, non sono che semplici gabinetti di curiosità e non veri gabinetti di storia naturale, il cui scopo è quello di favorire il progresso delle scienze e la diffusione di conoscenze utili" (p. 2).
Nell'opposizione tra gabinetto di curiosità e gabinetto di storia naturale, qui delineata da Lamarck, il primo era contestato soltanto per difendere il secondo; al contrario, nel quinto libro dell'émile (1762), Rousseau rivolse le sue critiche al principio stesso dei gabinetti, anche di quelli di storia naturale. Contrapponendo la storia naturale che si praticava nei gabinetti a quella che si poteva fare viaggiando a piedi, egli infatti scriveva: "il gabinetto di Emilio è più ricco di quello di un re: è la Terra intera. Ogni cosa vi si trova al suo posto, poiché il naturalista a cui è affidato ha disposto tutto con mirabile ordine; d'Aubenton non potrebbe far meglio" (Oeuvres, p. 772). Un simile riferimento a Daubenton come modello di 'conservatore' si trova anche in un testo di Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre (1737-1814): "Che spettacolo offrono le collezioni di animali dei nostri gabinetti! Invano l'arte di Daubenton si sforza di render loro un'apparenza di vita: nonostante gli espedienti utilizzati per conservarne le forme, le pose rigide e immobili, gli occhi fissi e spenti e il pelo ispido indicano i tratti della morte. La bellezza qui ispira orrore, mentre anche gli oggetti più brutti divengono gradevoli nel luogo in cui li ha posti la Natura" (Oeuvres, I, pp. 137-138).
Questa drammatica descrizione è tratta dal primo degli études de la Nature, pubblicati per la prima volta nel 1784. Bernardin de Saint-Pierre, però, non era l'unico a vedere dei cadaveri negli esemplari zoologici. Il pastore Gilbert White (1720-1793) nella Natural history and antiquities of Selborne del 1789 scriveva a proposito di un falco "l'ho trovato inchiodato in cima a un granaio che è il museo del contadino" (ed. 1977, p. 33). Più in generale, l'arte della tassidermia, che si sviluppò alla fine del XVIII sec., poteva presentarsi come l'erede dell'arte dell'imbalsamazione. Dopo aver esaminato le collezioni raccolte dal loro collega Étienne Geoffroy-Saint-Hilaire durante una spedizione in Egitto, Bernard-Germain-Étienne de Lacépède (1756-1825), Jean-Baptiste Lamarck e Georges Cuvier (1769-1832) redassero una relazione che fu letta il 6 settembre 1802 davanti all'assemblea dei professori del Muséum d'Histoire Naturelle. Riguardo alle mummie di animali, essi si mostravano meravigliati del fatto che gli antichi Egizi "imbalsamando con tanta cura creature [...] che erano state oggetto della loro [...] venerazione ci abbiano lasciato nelle sacre grotte gabinetti di zoologia quasi completi" (Cahn 1962, p. 45).
Bernardin de Saint-Pierre non si limitava però a sottolineare la presenza della morte nelle collezioni, egli vi scorgeva un motivo di critica nei confronti dei naturalisti. Apparentemente questa critica era espressa in nome dell'estetica: secondo lui, infatti, nei gabinetti di storia naturale la bellezza suscita orrore, mentre anche gli oggetti più brutti diventano piacevoli nel loro ambiente naturale. Per introdurre nella sua affermazione una nota d'esotismo, egli citava l'esempio del piacere che gli era stato procurato "più di una volta alle isole" dall'osservazione di alcuni granchi che tentavano di incidere una noce di cocco o di una scimmia villosa che si dondolava con una liana. Infine concludeva "I nostri libri sulla Natura non sono che il romanzo della Natura, e i nostri gabinetti la sua tomba" (Oeuvres, I, p. 138). Questa formula dimostra che attraverso la critica estetica egli intendeva mettere in discussione il principio stesso della raccolta e dell'esposizione degli esemplari, che mostrava solamente le spoglie degli esseri viventi e corrispondeva a un modo di conoscenza considerato inadeguato. Ingegnere di formazione, dopo aver viaggiato o soggiornato in paesi lontani tra cui, per esempio, la Russia e l'isola Maurizio (allora chiamata île de France), e aver rivestito la carica di intendente del Jardin des Plantes di Parigi per circa un anno, l'autore di Paul et Virginie si era sempre situato ai confini della storia naturale erudita (Drouin 1997). Così, nel 1773, nella prefazione del suo racconto Voyage à l'île de France, riconosceva di scrivere sulle piante e sugli animali senza essere un naturalista. Subito dopo, però, si giustificava, sostenendo che dal momento che la storia naturale "non è rinchiusa nelle biblioteche", gli era sembrato che "si trattasse di un libro che tutti potessero leggere" (Oeuvres, I, p. 47). Questa orgogliosa marginalità era accompagnata da una critica a volte radicale dei modelli di pensiero e di lavoro degli eruditi della sua epoca.
In primo luogo, egli rimproverava loro di rinchiudersi nel proprio sapere senza tentare di individuare i legami che univano l'oggetto dei loro studi agli altri oggetti, in particolare di non prendere in considerazione le relazioni esistenti tra gli esseri viventi e tra questi e il mondo circostante. Quest'idea ricorre costantemente in tutta la sua opera e spiega il suo desiderio di completare il Jardin con un serraglio in modo da non separare gli animali dai vegetali; la stessa idea gli ispirò l'ideale di una geografia delle piante di cui dimostrava la necessità paragonando i botanici che, trovata una pianta, si accontentavano di inserirla in un erbario senza annotare la stagione e il luogo in cui era stata colta, all'ussaro che, "dopo aver trovato su un monumento antico un'iscrizione latina in lettere di bronzo", aveva staccato le lettere e, mettendole insieme in un paniere, le aveva inviate a un amico erudito domandandogli il significato della frase (ibidem, p. 348). Quest'aneddoto esprime, in riferimento agli erbari, uno dei più importanti problemi che ancora oggi viene a porsi in occasione di ogni inserimento di un oggetto in una collezione: come non perdere le informazioni legate al contesto nel quale questo si trovava?
Ritroviamo lo stesso richiamo a una storia naturale più attenta alle relazioni esistenti tra gli esseri viventi e le armonie nelle quali sono inclusi nel Mémoire sur la nécessité de joindre une ménagerie au Jardin National des Plantes de Paris; in quest'opera però l'attenzione dell'autore non si rivolgeva soltanto alle relazioni di affinità esistenti tra gli animali e i vegetali. Bernardin de Saint-Pierre era animato dal desiderio di ristabilire una relazione d'intesa tra l'uomo e gli elementi del mondo naturale ed era amareggiato di dover constatare che gli eruditi avessero perso una relazione che, a suo parere, i "pastori e i selvaggi" sapevano ancora instaurare: "Quante commoventi armonie sono state spezzate nei nostri climi dai nostri naturalisti assassini! Senza dubbio si devono ai nostri sapienti cacciatori molte spoglie di animali; ma la conoscenza dei loro costumi appartiene ai pastori e ai selvaggi" (Oeuvres, I, p. 39). Ciononostante, il fatto che desiderasse inserire un serraglio nel Jardin du Roi dimostra che Saint-Pierre non rifiutava tutte le collezioni: la critica delle collezioni di esemplari morti, infatti, non è rivolta alle collezioni di esemplari vivi. In opposizione alla lugubre descrizione del gabinetto, l'undicesimo degli études de la Nature offre il ritratto idilliaco di un ipotetico 'jardin du Roi' costruito lungo tutto il declivio di un'alta montagna in cui avrebbero quindi potuto ambientarsi animali e vegetali di tutti i climi. L'autore aggiunge persino che "questo paesaggio […] offrirebbe un'immagine del paradiso terrestre" (Oeuvres, I, p. 352). A suo parere l'assenza di alcune specie in una regione favoriva gli scambi tra questa e le altre regioni; egli riteneva infatti che l'autore della Natura avesse voluto legare tra loro gli uomini attraverso "un reciproco scambio di benefici" e auspicava nuovi trasferimenti di piante utili di una particolare regione della Terra. A questo riguardo, assumeva una posizione vicina a quella di altri naturalisti per i quali l'introduzione di piante utili od ornamentali era una delle giustificazioni sociali della botanica.
Inizialmente, la principale finalità degli orti botanici moderni fu quella di contribuire all'insegnamento della medicina e della farmacologia. Con questo spirito nel 1543 fu fondato l'orto botanico annesso all'Università di Pisa, nel 1545 quelli delle Università di Padova e di Firenze, nel 1587 quello dell'Università di Leida e nel 1593 quello dell'Università di Montpellier. All'inizio del secolo seguente, il legame con la medicina si riaffermò nel Physic Garden di Oxford e nel Jardin Royal des Plantes Médicinales fondato a Parigi da Guy de la Brosse (1586-1641), uno dei medici del re.
Alla fine del XVII sec. in Europa esistevano in totale circa venti orti botanici. Il loro principale scopo era quello di favorire la conoscenza delle piante medicinali o, come si diceva a quel tempo, dei 'semplici'; il nome ancora oggi attribuito all'orto botanico di Firenze, Giardino dei Semplici, indica chiaramente quest'origine.
Tuttavia, la finalità medica fu progressivamente recepita come una costrizione: da un lato, altre utilizzazioni dei vegetali, di carattere alimentare, ornamentale e artigianale, rivendicavano una pari legittimità; dall'altro lato, lo sviluppo di una sistematica fondata sulla morfologia rendeva superati i vecchi metodi di classificazione delle piante. A partire dalla fine del XVII sec., la storia degli orti botanici fu legata ai sistemi di classificazione, dei quali rappresentava, per così dire, la concretizzazione spaziale. Una delle prime preoccupazioni di Linneo (Carl von Linné, 1707-1778), subito dopo essere stato nominato professore a Uppsala nel 1741, fu quella di arricchire l'orto botanico fondato nel secolo precedente e di dividerlo in ventiquattro aiuole corrispondenti alle classi del suo sistema (quest'orto botanico, restaurato nel 1923 dalla Swedish Linnaeus Society, è attualmente aperto al pubblico). A Parigi, la sezione sistematica, chiamata 'scuola di botanica', fu organizzata in base al metodo di Tournefort, finché nel 1774 André Thouin (1747-1824) e Antoine-Laurent de Jussieu (1748-1836), con la collaborazione di Buffon, la ampliarono e riorganizzarono secondo il metodo delle famiglie naturali già utilizzato nell'orto botanico del Trianon a Versailles, introducendovi la nomenclatura binaria di Linneo. Per citare un'espressione cui ricorsero molti autori del tempo, l'orto botanico era veramente un 'libro vivente' in cui l'organizzazione concettuale del mondo vegetale poteva tradursi in modo visibile. Tuttavia, come nel caso del gabinetto, la corrispondenza tra l'ordine sistematico e la disposizione spaziale dell'orto botanico era limitata da impedimenti materiali, legati a quelle che potremmo definire 'esigenze ecologiche' della pianta. In tutti gli orti botanici si tentò allora di aumentare il numero delle piante esposte, raggruppando gli alberi, costruendo vasche, predisponendo zone secche e assolate, e possibilmente dotandoli di un'aranciera, ma in tal modo ci si allontanò inevitabilmente da una rigorosa classificazione morfologica. Infine, poiché gli orti botanici erano, come tutti i giardini, siti ameni, luoghi in cui ci si rilassava e si passeggiava, spesso situati al centro delle città, questa funzione ricreativa ed estetica era spesso difficilmente conciliabile con la tutela delle collezioni e con l'insegnamento della botanica ‒ ciò spiega le condizioni restrittive imposte a chi desiderava accedere agli orti botanici o ad alcune loro parti ‒ ma soltanto pochi di questi rifiutarono del tutto tale funzione. I visitatori, spesso totalmente indifferenti all'ordine sistematico, erano in compenso sensibili alla diversità e all'originalità delle piante coltivate negli orti botanici.
Questi ultimi divennero così luoghi d'esposizione delle innovazioni orticole, la cui forma più semplice era rappresentata dall'introduzione di vegetali esotici a cui Bernardin de Saint-Pierre attribuiva una grande importanza. Le stesse opinioni, del resto, erano espresse anche da molti naturalisti più ortodossi. Infatti i trasferimenti di vegetali da una regione all'altra del mondo, che erano legati ai grandi viaggi e alle nuove scoperte, erano un argomento ricorrente nella giustificazione dell'utilità sociale degli orti botanici.
Questi trasferimenti erano di due generi, spesso confusi tra loro, che è necessario distinguere dal punto di vista biologico: vi erano i trasferimenti tra regioni climaticamente analoghe e quelli che si sognava di realizzare tra regioni di diverso clima. Alla prima categoria appartenevano tutte le introduzioni di piante del continente americano o dell'Estremo Oriente in Europa; alla seconda categoria, e soltanto a essa, si riferiva la nozione di acclimatazione. Benché il termine 'acclimatazione' sia entrato in uso soltanto alla fine del XVIII sec., il relativo principio era stato già formulato in precedenza. Daubenton scriveva alla voce Botanique (1751) dell'Encyclopédie: "quante piante che ci sembrano troppo delicate per sopportare il nostro clima potrebbero forse ambientarvisi se vi venissero accostate gradualmente; se, invece di trasportarle bruscamente da un luogo caldo a un luogo freddo, venissero successivamente sottoposte a climi di temperatura media, e se si desse loro il tempo di irrobustirsi prima di esporle al rigore dei nostri inverni?" (p. 344).
Ritroviamo poi lo stesso genere di argomentazione nel 1794, in piena Rivoluzione francese, nel primo numero de "La Décade Philosophique", uno dei periodici più seguiti dal pubblico colto del tempo. Benché non sia stato firmato, sappiamo che l'articolo Histoire naturelle. Vues générales (1794) fu redatto da Georges Toscan (1756-1826), bibliotecario del Muséum d'Histoire Naturelle. L'autore sottolinea l'utilità degli orti botanici come istituzioni "destinate a riunire sotto lo stesso clima e sotto lo stesso governo tutte le diverse popolazioni di vegetali disseminate sulla Terra". Così, "resa a sé stessa" ‒ vale a dire liberata dalla tutela medica ‒ la botanica "ha diffuso nei nostri orti botanici nuovi fiori e nuovi profumi; essa ha arricchito i nostri frutteti e ha favorito la trasmigrazione di una moltitudine di alberi stranieri nei nostri boschi". Toscan cita quindi alcuni esempi di alberi introdotti in Europa, tra cui il cedro del Libano, il tulipifero della Virginia o l'ailanto, quindi, propone di trapiantare piante originarie dell'India e dell'America nelle serre naturali dell'île de France e dell'île de Bourbon (le attuali isole Mauritius e Réunion, appartenenti alle Mascarene) e di là nelle isole d'Hyères (sulla costa mediterranea), e infine "nelle serre artificiali del Jardin di Parigi in cui gli orticoltori le potrebbero acclimatare al nostro terreno e alle nostre stagioni" (Histoire naturelle, pp. 1-7).
Toscan non pretendeva di parlare da erudito, ma metteva la sua eloquenza al servizio di un'idea largamente diffusa. Agli occhi di un biologo, la prima fase di questo progetto, rispetto alle seconde, appare realistica e l'immagine dei possedimenti francesi delle isole Mascarene come 'serre naturali' evoca allo storico il lavoro svolto da Pierre Poivre al Jardin des Pamplemousses. Le possibilità di riuscita di questo processo di acclimatazione, oggi negate dalla biologia, all'inizio del XIX sec. sono state oggetto di lunghi dibattiti, e si potrebbe sostenere che si trattava dell'inversione immaginaria di un processo reale. In effetti, invece che all'adattamento della pianta alle condizioni della coltura, si assiste piuttosto all'adattamento delle condizioni della coltura alle esigenze della pianta: è l'orticoltore che si adatta alla pianta esotica e non l'inverso.
Nonostante l'importanza pratica e il valore simbolico, le introduzioni di nuove specie vegetali non furono le sole innovazioni orticole legate agli orti botanici. La principale utilità scientifica, da cui tutte le altre derivavano, era quella di veder vivere la pianta, di osservarla nel corso dei suoi diversi stadi di sviluppo, di controllarne in una certa misura la riproduzione attraverso la semina o la talea, di favorirne la crescita modificando l'ambiente in cui viveva. Una delle conseguenze della coltura degli orti botanici fu poi la scoperta, la selezione e la protezione delle varietà, interessanti per l'uomo ma svantaggiose per la pianta. Si determinò in proposito una scissione tra il punto di vista della botanica teorica e quello della botanica applicata, e Diderot nella voce Histoire naturelle (1751) sottolineò questa scissione schierandosi decisamente dalla parte della seconda: "Si può cambiare la qualità dei legumi al punto da renderli migliori e diversi da sé stessi; si possono creare frutti mai comparsi sulla Terra. Le nomenclature botaniche diranno: la lattuga di Batavia non è che una varietà di lattuga selvatica, la passa crassana non è che una varietà di pera selvatica. Ma queste varietà sono beni reali e noi dobbiamo essere riconoscenti verso gli uomini laboriosi e inventivi che ce le hanno procurate" (p. 227).
Secondo l'Encyclopédie, anche la coltura dei fiori e degli alberi ornamentali aveva la sua utilità. Più tardi, nel 1778, Lamarck espresse nella Flore française, ou description succincte de toutes les plantes qui croissent naturellement en France, un'opinione opposta a quella di Diderot. Ricordando che i fiori coltivati sono in gran parte dei "mostri vegetali", egli contrappose il punto di vista dell'appassionato a quello del botanico, il cui scopo era, secondo Lamarck, differente: l'appassionato di fiori ricercava il piacere e il botanico la conoscenza. Il primo trascurava la specie e si interessava soltanto ad "alcuni individui prediletti"; il secondo, al contrario, vedeva nell'individuo isolato "il tipo e il modello dell'intera specie" e amava scorgervi "i tratti monotoni ma veri" delle produzioni naturali. L'opposizione qui delineata da Lamarck tra l'atteggiamento dell'appassionato di fiori e quello del botanico corrisponde a quella poi tracciata, nel 1791, tra il gabinetto di curiosità e quello di storia naturale (v. sopra). È l'opposizione tra l'atteggiamento estetizzante e l'atteggiamento scientifico nei confronti delle collezioni. Tuttavia, esisteva la possibilità di giungere a un compromesso: nei vegetali, contrariamente a ciò che avviene tra gli animali, "le mostruosità aggiungono nuove attrattive all'individuo", infine, "la Natura è abbastanza ricca per poter rinunciare senza danno ai suoi diritti nelle nostre aiuole" (Flore française, I, p. 173).
Negli orti botanici, più ancora che nei gabinetti, potevano coesistere diversi usi. Questa plasticità e questa coesistenza di molteplici funzioni si ritrovano nell'immagine di sé stesso che il Jardin du Roi seppe diffondere durante la Rivoluzione francese e che gli consentì di 'negoziare' vantaggiosamente la sua trasformazione in Muséum d'Histoire Naturelle. La vicenda è stata più volte narrata e nel 1893, per il primo centenario della fondazione del Muséum, Ernest-Théodore Hamy ha raccolto nell'opera Les derniers jours du Jardin du Roi et la fondation du Muséum d'Histoire Naturelle gran parte dei documenti concernenti questa trasformazione; più recentemente questa documentazione è stata completata da Yvonne Letouzey (1989) in una biografia su Thouin. Dopo la morte di Buffon, sopraggiunta nel 1788, fu nominato intendente un aristocratico incompetente nel campo delle scienze naturali: Auguste Flahaut de la Billarderie (1724-1793), al quale succedette Bernardin de Saint-Pierre, che diresse l'orto botanico dal luglio 1792 al luglio 1793. Nel frattempo, nel 1790, gli 'ufficiali' dell'orto botanico (vale a dire i professori, i dimostratori, i custodi, il giardiniere capo, il pittore di storia naturale, ecc.) inviarono al potere legislativo un Projet de règlement pour le Jardin des Plantes et le Cabinet d'histoire naturelle. Il Muséum d'Histoire Naturelle fu istituito il 10 giugno 1793 con un decreto della Convenzione redatto da Joseph Lakanal (1762-1845) che esaudiva ampiamente le richieste formulate nel Projet de règlement del 1790. Dodici cattedre furono assegnate ai membri del personale scientifico, tra i quali si distinguevano i nomi di Daubenton, Thouin, Jussieu, Cuvier, Geoffroy Saint-Hilaire e Lamarck. Nel novembre 1793, il serraglio ‒ richiesto più volte nel corso dell'anno precedente, in particolare da Bernardin de Saint-Pierre ‒ fu creato in condizioni memorabili d'improvvisazione.
Questa trasformazione piuttosto armoniosa di un'istituzione dell'Ancien Régime in istituzione repubblicana ha richiamato l'attenzione di numerosissimi storici. Charles Gillispie (1959) in un celebre articolo l'ha contrapposta alle delusioni dell'Accademia e ha scorto nel favore di cui godettero i naturalisti presso la Convenzione l'influsso della filosofia giacobina che avrebbe determinato un atteggiamento di arretramento di fronte all'oggettività scientifica e di fuga nell'utilitarismo. Altri storici hanno moderato questa tesi dimostrando che l'accordo tra l'utilitarismo giacobino e la storia naturale era solamente parziale (Osborne 1992; Limoges 1996) o hanno messo in luce altri elementi, sottolineando il ruolo svolto dagli ufficiali dell'orto botanico e la solidarietà di cui seppero dar prova (Brygoo 1987-88). Altri ancora hanno sottolineato invece le divergenze esistenti tra i diversi protagonisti di questa vicenda, tra cui contrasti di carattere personale, ma anche modi diversi di rapportarsi all'eredità di Buffon. Se certi professori insistevano sulla propria fedeltà al maestro, altri ne presero le distanze, proclamando la propria ammirazione per Linneo. L'importanza del naturalista svedese nella storia culturale della Rivoluzione francese è stata posta in evidenza da Pascal Duris (1993); infine, la presentazione dell'ordine naturale come modello dell'ordine sociale è stata analizzata da Emma Spary (2000).
Al di là delle divergenze di orientamento tra i protagonisti di questa vicenda e al di là delle differenze d'interpretazione, resta comunque il fatto che la trasformazione del Jardin e del Cabinet du Roi nel Muséum d'Histoire Naturelle segnò una fase decisiva perché sistematizzò e riunì molte delle tendenze forti del secolo che stava terminando. Essa definì soprattutto il ruolo centrale delle collezioni, degli erbari, degli orti botanici e dei gabinetti come riproduzioni dello spettacolo della Natura. Il sobrio erbario e l'orto botanico dalle molteplici funzioni suscitarono un minor numero di controversie rispetto ai gabinetti, questi ultimi sospettati di essere soltanto oggetti di vanità o tutt'al più sterili svaghi. Alcuni autori denunciarono il carattere artificioso dell'organizzazione, derivante dalle esigenze estetiche della presentazione, dagli impedimenti materiali della disposizione o da quelli dei metodi di classificazione. In compenso Linneo, nella prefazione alla descrizione del museo del re di Svezia, Adolfo Federico, tentò di difendere lo zelo di coloro che avevano creato queste raccolte e a tal fine non esitò a paragonare il giardino dell'Eden a un museo (Museum Adolphi Friderici Regis, 1754). Amplificando ogni genere di discorso di consonanza religiosa o civica, si sosteneva una distribuzione di competenze tra gli eruditi professionali, ancora poco numerosi ma in crescita, da un lato, e un pubblico che desiderava distrarsi e istruirsi, dall'altro. Tra queste due categorie si inseriva quella di alcuni scrittori che si proponevano come mediatori. Ma le collezioni erano anche strumenti di ricerca; un ruolo, questo, ignorato dal pubblico, basato su una rete non professionale di viaggiatori e di naturalisti locali. Nel complesso, la forza delle istituzioni derivava in gran parte dalle osservazioni e dalle loro raccolte. Mentre Buffon riuscì ad arricchire le collezioni del suo istituto concedendo il titolo di corrispondente del Jardin du Roi a coloro che gli inviavano esemplari, la chiave del successo del suo rivale Linneo fu invece quella di aver fornito ai naturalisti dispersi nel tempo e nello spazio le definizioni e gli strumenti di un programma di ricerca: redigere l'inventario delle forme viventi.