L'Eta dei Lumi: le scienze della vita. La formazione del medico
La formazione del medico
Nell'antica Grecia, la pratica del tirocinio medico, ovvero l'apprendistato al seguito di un medico riconosciuto, fu codificata ‒ com'è noto ‒ nel giuramento ippocratico. Nel Medioevo, con la nascita delle università, l'istruzione medica subì una trasformazione: gli aspiranti medici basavano la maggior parte della propria istruzione sullo studio, la lettura e i commenti degli antichi testi di medicina greci e arabi; tuttavia, a prescindere da quanto libresca fosse la loro educazione, essi acquisivano successivamente un'esperienza diretta al capezzale dei propri pazienti. Il riconoscimento, da parte dell'istituzione medica, dell'importanza accademica dell'apprendimento pratico sui pazienti è aumentato e diminuito con il passare dei secoli, ma queste fluttuazioni non hanno mai cancellato del tutto il valore per la formazione medica delle osservazioni fatte presso il malato.
Gli storici della scienza sono generalmente concordi nel riconoscere l'evoluzione verificatasi nella formazione medica nel corso del XVIII sec.; tuttavia, gli studiosi hanno fornito interpretazioni diverse di questa evoluzione/rivoluzione, riguardanti soprattutto la centralità dell'apprendimento al letto del malato. Le differenze sono legate principalmente all'impostazione degli studi: alcuni autori si sono basati soprattutto su dati raccolti in periodi e luoghi strettamente definiti, altri si sono interessati invece a un ambiente più vasto o hanno incluso nella propria analisi paralleli e confronti, producendo così un quadro più vasto dell'educazione medica di questo secolo. In linea con il fatto che nella storia della medicina l'enfasi si è ormai spostata dai successi improvvisi e dai grandi medici alle descrizioni di processi più lenti e a valutazioni più sfumate delle acquisizioni del passato, è opportuno indagare le cause soggiacenti al rinnovamento settecentesco dell'educazione medica, analizzando brevemente il contesto culturale, sociale, e politico del XVIII sec. per quanto riguarda l'ambito medico.
La meccanicizzazione della concezione del mondo e la Rivoluzione scientifica produssero notevoli cambiamenti in medicina, anche se non immediati; la scoperta da parte di Harvey del movimento effettivo del cuore e del sangue, per esempio, non implicò lo sviluppo di nuovi metodi terapeutici e nell'educazione medica. Come fattore destabilizzante della teoria fisiologica del tempo, l'approccio di Harvey, meccanicistico e basato sull'esperienza, con la descrizione del funzionamento del cuore contenuta nella Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus (1628) diede un importante contributo alla trasformazione della medicina. Il successo di Newton nel descrivere il moto sulla Terra e in cielo con lo stesso fenomeno, la gravitazione, nei Principia (1687) intensificò la ricerca di spiegazioni meccaniche del funzionamento dei corpi animali e umani, ossia lo iatromeccanicismo. Gli effetti sociali di malattie apparentemente nuove (la sifilide), più letali (il vaiolo) e gradualmente distruttive (la lebbra), di epidemie ricorrenti (la peste, l'influenza), di nuove droghe (la cincona, il laudano) e di armi senza precedenti misero in discussione le spiegazioni patologiche tradizionali alimentando un rinnovato spirito di ricerca sulle cause e sulle cure delle malattie.
Nell'ambito politico, fattori quali la nascita dell'assolutismo e del mercantilismo, una crescente domanda di istruzione da parte della burocrazia e le concomitanti necessità di conoscenze di carattere contabile o legale fra i borghesi, l'aumento dell'urbanizzazione e della povertà, spinsero le autorità degli Stati europei a rivedere le politiche di governo in direzione di un loro sostegno alle istituzioni di carità e accademiche. In particolare, la fondazione o l'ampliamento di ospedali e ospizi per accogliere coloro che per ragioni diverse erano dichiarati incapaci di prendersi cura di sé (mendicanti, orfani, malati di mente o nel fisico, vagabondi) spinse gli esponenti della professione medica (facoltà e studenti) a cercare opportunità di insegnamento e materiale di studio nel malato istituzionalizzato. Per migliorare le scuole mediche esistenti, le autorità promossero anfiteatri anatomici, giardini botanici, cattedre di medicina pratica e l'osservazione dei malati ospedalizzati, lanciando così ‒ si sperava ‒ una sfida alla medicina tradizionale, ormai considerata inadeguata al proprio compito, per metterne in dubbio i presupposti e migliorarne il modo di curare e di insegnare.
I chirurghi che si erano formati e lavoravano negli ospedali di città non appartenevano all'accademia, ma ai ranghi degli artigiani, poiché le loro erano abilità manuali. Ciononostante, i chirurghi furono tra i primi ad avvertire l'evoluzione delle condizioni mediche sotto la pressione dei cambiamenti sociali e a cogliere la rilevanza della nuova anatomia di Andrea Vesalio, descritta nel De humani corporis fabrica (1543). Se i chirurghi agissero per modificare la propria pratica o no, a questo punto è irrilevante: nonostante il loro leggendario antagonismo, chirurghi e medici interagirono al di fuori degli ospedali al capezzale dei propri pazienti privati, per esempio quando era prescritto il salasso o l'applicazione delle coppette. I medici apprezzavano le abilità dei chirurghi nel praticare salassi senza ledere i nervi; dunque, ciò che contava era la condivisione delle osservazioni fra chirurghi e medici, che giunsero ad apprezzare le reciproche conoscenze.
Passare per le corsie di un ospedale, con o senza studi medici svolti presso un'università, divenne un mezzo importante tramite il quale gli aspiranti medici imparavano, in modo rapido ed efficace, a formulare diagnosi e prognosi e a prescrivere adeguati trattamenti. Il metodo di acquisizione di una conoscenza medica tramite l'esperienza di corsia, però, presentava molte difficoltà e carenze: (a) l'apprendimento informale e non controllato era lasciato all'ingegnosità dell'osservatore; (b) l'apprendimento organizzato e strutturato in lezioni era inteso come semplice illustrazione di una conoscenza teorica acquisita dai libri; (c) l'ammissione indiscriminata di persone che per qualsiasi motivo necessitassero di ricovero ospedaliero impediva l'acquisizione di un'informazione sistematica; (d) i pazienti, spesso molti per ciascun letto, rendevano ardua la diagnosi, sia perché i sintomi si confondevano a causa dello stretto contatto tra i malati, sia perché ciò di cui si lamentavano verbalmente era inquinato dall'astuzia o dalla semplice ignoranza; (e) i trattamenti prescritti non venivano sempre seguiti; inoltre, i parenti si intromettevano portando dall'esterno cibo e medicine; aiutanti indolenti non rispettavano gli ordini dei medici; i religiosi che facevano assistenza spirituale, convinti del fatto che la salvezza delle anime fosse più importante delle cure del corpo, spesso consideravano la sofferenza come un modo per redimersi e il paradiso un posto migliore della Terra; essi ritenevano di avere il ruolo di portatori di pace interiore tramite la bontà, non quello di provvedere alla salute esteriore per mezzo di una panacea; (f) la grandezza e l'ubicazione della città e lo scopo del suo ospedale (per es., controllo sociale o cure mediche) determinavano, e di frequente limitavano, il campo dell'esperienza.
Questi problemi furono parzialmente risolti quando si realizzarono alcune condizioni. In primo luogo, negli ospedali ordinari si avviarono alcune riforme, grazie alle quali a ogni paziente fu fornito un letto, furono migliorate sia le condizioni igieniche sia la ventilazione e furono istituite corsie apposite per i malati contagiosi. In secondo luogo, furono fondate istituzioni a scopo speciale, come l'assistenza ai trovatelli, ai soldati invalidi, ai vecchi poveri meritevoli e così via; inoltre, le corsie cliniche furono formalmente organizzate e l'istruzione cominciò a essere impartita sotto la direzione di medici esperti. Infine, furono istituiti presso gli ospedali servizi di cura esterna non solo per assistere gli ammalati poveri, ma anche per dare agli studenti l'opportunità di ampliare la gamma delle malattie che si potevano osservare nelle corsie cliniche.
D'altra parte, gli studenti di medicina, oltre che in corsia, acquisivano esperienza diventando assistenti di medici affermati. Questa pratica poneva tuttavia alcuni problemi: a causa del costo, i pazienti privati erano pochi e non erano troppo entusiasti di fungere da strumenti di apprendimento, anche se questa maggiore attenzione li lusingava. Essi spesso nascondevano i loro sintomi e i trattamenti precedenti al fine di ottenere la diagnosi e le prescrizioni che volevano; molto di frequente, poi, i medici erano consultati soprattutto per confermare le malattie e i farmaci già scelti dai pazienti. Dunque, gli osservatori imparavano più nel campo della psicologia umana che in quello della pratica medica; inoltre, il lavoro richiesto era noioso e il progresso lento. Un modo migliore e più rapido per acquisire un'esperienza medica era quello di accompagnare un medico dei poveri, una posizione stipendiata che esisteva in molte città europee fin dal Medioevo. I vantaggi di questi assistenti erano legati innanzi tutto alla possibilità di osservare molti ammalati, poi al fatto che si trattava di pazienti più facili da trattare, e infine agli stretti contatti con gli ospedali in cui i dottori mandavano e visitavano con loro i poveri che non potevano essere curati in casa. Così, i giovani dottori appena laureati praticavano un valido tirocinio assistendo ‒ nelle loro città natali o nelle città nelle quali avevano studiato ‒ i medici dei poveri, vecchi o sovraccarichi di lavoro.
Guidati da complesse motivazioni dovute ai cambiamenti avvenuti nel contesto della loro prassi, consciamente o inconsciamente alcuni professori di medicina modificarono il proprio metodo di insegnamento introducendo l'osservazione al capezzale del malato negli ambienti ospedalieri. Primi esempi d'insegnamento pratico all'interno degli ospedali si ritrovano nelle università italiane del XVI sec., in particolare a Padova; tuttavia, nessuno di questi programmi sembra aver approfondito gli studi anatomici di Vesalio per scoprire, con la dissezione sistematica, quei segni patologici che erano sfuggiti all'osservazione del malato ospedalizzato da parte dei medici e dei loro studenti. Anche quando si eseguivano esami post mortem, spesso lo scopo era quello di illustrare cosa si era ritenuto non andasse nel paziente piuttosto che cercare indizi di ciò che era effettivamente accaduto. Per esempio, alle madri che morivano dopo il parto con sintomi di febbre alta, addome gonfio, dolori forti e blocco della lattazione (ossia di parto o di febbre puerperale) era diagnosticato un caso di ritenzione o riassorbimento di latte, che secondo la patologia umorale produceva devastazione nel corpo; se eseguendo l'autopsia si trovava un fluido biancastro e maleodorante nella cavità addominale, ciò confermava che la causa di morte era il latte acido, piuttosto che il pus dovuto a un'infezione da streptococco emolitico, come sarà accertato in seguito.
Questo tipo di insegnamento, mirato a impartire le nozioni della semiologia medica codificata e a sviluppare le capacità di identificare le malattie, è spesso detto scolastico. Gli storici della medicina generalmente hanno riconosciuto in Franz de le Boë, detto Sylvius (1614-1672), all'Università di Leida fin dal 1658, il primo medico ad aver illustrato le sue lezioni cliniche giornaliere con casi viventi tratti dalla St. Caecilia Gasthuis e ad aver realizzato egli stesso, piuttosto che affidarla a un chirurgo-barbiere, l'analisi post mortem dei suoi pazienti ospedalizzati e deceduti. A Sylvius si riconosce il merito di aver collegato la tubercolosi alla tisi polmonare, e gli è attribuita anche la nascita dello iatromeccanicismo e della iatrochimica come una fisiologia competitiva rispetto a quella umorale. Nel complesso, Sylvius esemplifica appieno l'influenza della Rivoluzione scientifica sulla medicina. Circa quarant'anni dopo, Herman Boerhaave (1668-1738) reintrodusse a Leida la pratica della formazione al capezzale del paziente, che dopo la morte di Sylvius era stata abbandonata. Boerhaave impostava le sue lezioni cliniche su pazienti specificatamente scelti dall'ospedale (sei maschi e sei femmine), e i suoi casi didattici venivano curati in apposite corsie della St. Caecilia Gasthuis. Gli studenti assistevano da una galleria che sovrastava le corsie, mentre Boerhaave discuteva per circa due ore su ciascun caso. Egli era particolarmente preoccupato di mantenere viva l'attenzione degli allievi verso le sue minuziose descrizioni e osservazioni dei sintomi della malattia, l'aspetto esteriore del malato (soprattutto il viso), le difficoltà nell'esaminare il polso dal punto di vista qualitativo (secco, pieno, duro, nervoso, leggero, ecc.) piuttosto che quantitativo, ossia il numero dei battiti, l'influenza del temperamento e della costituzione sulla diagnosi, la prognosi e il trattamento per ogni singolo caso in questione.
Come il suo predecessore, Boerhaave praticò la dissezione dei corpi dei suoi pazienti deceduti e lasciò precise descrizioni di alcuni casi. Se egli facesse dissezioni per confermare la propria diagnosi o per cercare altre cause di morte, o per entrambi gli scopi, è ancora oggi una questione aperta. Contrariamente a Sylvius, Boerhaave a volte chiedeva agli studenti di commentare i casi clinici; numerosi giovani affollarono Leida per studiare con lui e, una volta tornati al proprio paese di origine, o chiamati da corti straniere, o avendo ottenuto posizioni accademiche, molti dei suoi discepoli ricoprirono incarichi importanti nella pratica medica e nell'insegnamento. Sfortunatamente, però, pochi anni dopo la morte di Boerhaave l'insegnamento clinico a Leida scomparve di nuovo; vi fu reintrodotto negli anni Ottanta del Settecento, ma mai effettivamente con gli stessi fini del 'maestro'. Probabilmente la città era troppo piccola e i pazienti ospedalizzati troppo pochi per offrire sufficienti opportunità di studio in confronto a quelle presenti a Londra, Parigi o Vienna.
Gli storici della medicina discutono ancora su quanto il modello di formazione clinica di Boerhaave sia stato copiato, o quanto sia stato trasformato dai suoi seguaci. Un fattore da considerare nella realizzazione di un modello boerhaaveano è in ogni caso il tipo di istituzione in cui si attuava l'apprendimento: in primo luogo, lo Stato o la Chiesa controllavano e finanziavano strutture mediche e assistenziali; in secondo luogo, i privati sostenevano e finanziavano i ricoveri in alloggi specializzati per le cure mediche. Le strutture del primo tipo erano finalizzate ad alleviare la povertà e, nel caso di istituzioni sostenute dallo Stato, non vi erano scrupoli nell'uso dei poveri, sia vivi che morti, come materiale per la pratica e l'insegnamento. Le strutture del secondo tipo intendevano curare i lavoratori salariati infermi come mezzo per prevenire l'indigenza e ponevano alcune limitazioni all'uso dei propri pazienti per lo sviluppo della conoscenza medica. Dunque, l'iniziativa da parte dei docenti di scegliere i pazienti per le dimostrazioni cliniche e usarli per la formazione medica fu decisiva nel determinare lo sviluppo dell'insegnamento al capezzale.
L'uso a fini esplicativi di persone malate durante le lezioni, sia in aula sia nelle corsie, ha indotto gli storici della medicina a delineare almeno due percorsi interpretativi nei confronti di questa prima formazione clinica (ancora scolastico o strettamente boerhaaveano il primo; neoippocratico o modificato a partire dal modello di Boerhaave il secondo). In sintesi, i due modelli sono i seguenti: nel primo, i sei maschi e le sei femmine ammalati offerti all'attenzione degli studenti venivano scelti e usati specificamente per illustrare i casi canonici dei testi classici di medicina; solo il professore aveva l'accesso ai pazienti scelti per le sue lezioni ed essi, inoltre, erano curati in corsie separate. Il docente descriveva e spiegava i sintomi pertinenti al caso; commentava i segni vitali e il temperamento del paziente; identificava la malattia e prescriveva la terapia. Gli studenti osservavano passivamente a distanza o tutti intorno al letto. In questo caso nessuna conoscenza nuova sulle cause del disturbo veniva prodotta e neanche soltanto cercata, e non si registrava, né solamente si osservava, l'andamento della cura. Gli esami post mortem, quando venivano effettuati, erano mirati unicamente alla conferma delle descrizioni e delle osservazioni fatte al capezzale del paziente. Gli studenti imparavano a riconoscere sintomi noti di malattie specifiche, ordinati in linee nosologiche definite in modo sistematico; lo scopo dell'esercizio era il tirocinio in semiologia medica finalizzato alla diagnosi. Questa formazione scolastica, o di impostazione rigorosamente boerhaaveana, nei testi recenti è indicata, adottando un'espressione di Foucault, come 'protoclinica'. La maggior parte degli storici ha dunque respinto questo modello come possibile precursore del moderno tirocinio clinico, che è considerato non pregiudicato da spiegazioni patologiche dettate da preconcetti e basate su speculazioni, e che promuove la correlazione dei sintomi osservati con le lesioni patologiche e con la valutazione della terapia.
Nel secondo modello, scelti dal professore fra gli ospedalizzati per il loro valore pedagogico, ossia per la chiarezza e l'inequivocabilità dei sintomi di disturbi comuni, e in un numero funzionale più allo spazio che alla facilità dell'istruzione, i malati erano sottoposti ad attenta osservazione e il professore dissertava in merito. Gli studenti, che lo accompagnavano nelle sue visite ai malati generalmente curati in stanze speciali dell'ospedale, erano chiamati a commentare i particolari del caso (somiglianze o differenze) rispetto alle descrizioni canoniche. L'anamnesi, che includeva età, abitudini, lavoro, disturbi e trattamento passato, si ispirava al metodo ippocratico; le osservazioni dell'aspetto esteriore, la misurazione del polso e l'accertamento della temperatura venivano effettuati in modo non molto diverso dalle procedure che aveva insegnato Boerhaave. Le modificazioni erano lievi: un termometro per misurare la temperatura corporea; un orologio per contare i battiti del polso; l'osservazione non solo della faccia, ma anche dell'intero corpo, che a volte veniva palpato per individuare eventuali cambiamenti fisici o anomalie. Le dissezioni dei pazienti deceduti nella clinica erano poi effettuate dagli assistenti del professore, che erano chirurghi d'ospedale o studenti in medicina; in funzione delle inclinazioni del docente, questi esami post mortem conducevano a novità nel campo della patologia o a dichiarazioni convenzionali. I trattamenti erano spesso sperimentati secondo il protocollo, al tempo stesso essi erano sottoposti a discussione e revisione per determinare il loro valore. Lo scopo fondamentale consisteva nell'osservazione del malato in vivo e non in libro.
Principalmente per propensioni nazionalistiche o ideologiche, gli storici della medicina hanno considerato neoippocratico questo secondo modello, indicandolo come iniziatore della clinica moderna; tuttavia, solamente una valutazione medica potrebbe determinarne il valore. Sarebbe opportuno, a questo punto, domandarsi se la formazione clinica degli allievi di Boerhaave fosse organizzata sul modello di quella della Parigi repubblicana e quale fosse l'elemento discriminante tra la clinica protoippocratica e quella neoippocratica. Per tentare di rispondere a queste domande e di ricostruire l'evoluzione/rivoluzione avvenuta fra Leida e Parigi, è utile dare uno sguardo ai programmi dell'insegnamento clinico e alle opportunità che erano a disposizione degli studenti di Boerhaave a Edimburgo, a Gottinga, a Vienna e a Pavia, e quelle che esistevano a Montpellier e a Parigi prima della Rivoluzione francese.
A Edimburgo operò in primo luogo Alexander Monro (1697-1767), che aveva studiato a Leida con Boerhaave e poi era tornato in Scozia per tenere lezioni di anatomia e chirurgia. Alla fine degli anni Venti del XVIII sec. egli partecipò all'organizzazione della Edinburgh Infirmary, l'ospedale sovvenzionato da contributi volontari. I fondatori dell'ospedale, però, avevano in mente scopi diversi per la nuova istituzione; per alcuni, essa emulava Londra, mostrando l'orgoglio civico o rivendicando prestigio per la capitale scozzese; per altri, rappresentava uno strumento di carità, poiché a Edimburgo, come ovunque in Europa, la povertà era in aumento. Inoltre, la carità si esprimeva in modi diversi da parte dei benefattori dell'ospedale, come carità alla vecchia maniera, che soccorreva i poveri, proteggeva gli orfani, dava rifugio a vecchi e barboni, e a volte curava i malati, oppure come un nuovo interesse umanitario per la salute pubblica, nella misura in cui la povertà era spesso collegata alla malattia, che non consentiva alle persone di guadagnarsi da vivere. Così, la scelta era fra assistenza medica o generale; il nome della nuova istituzione, 'infermeria', rende l'idea di quale fosse il suo scopo ultimo.
Monro, come medico e professore dell'Università, era più incline al nuovo interesse, dal momento che i fondatori cercavano il sostegno dei medici cittadini per prendersi cura degli ammalati che dovevano esservi ammessi. Per ragioni pragmatiche, il compito di curare i poveri prevalse e nel 1738 la Royal Infirmary divenne anche un'istituzione deputata alla formazione medica. Fin dagli inizi, i benefattori chiarirono che i medici dovevano assistere gratuitamente i malati e concessero loro di portarsi dietro assistenti e apprendisti come ricompensa per la cura gratuita. L'opportunità di insegnare non venne persa da Monro né dai suoi colleghi che si erano formati alla Facoltà di medicina di Leida; prima che un programma clinico particolare si definisse, tuttavia, dovevano essere risolte alcune questioni. Dal punto di vista organizzativo, occorreva stabilire chi fosse responsabile delle ammissioni e delle dimissioni dei pazienti, della selezione dei candidati per le cliniche e del trattamento medico di tutti gli ammalati. Inoltre, un altro problema riguardava a chi consentire l'accesso agli ospedalizzati, oltre ai medici e al personale vario. Era necessario evitare l'eccessivo procedere per tentativi da parte degli studenti di medicina e soprattutto contenere i rischi di contagio. Il punto più controverso, e il problema più difficile da risolvere, anche nel caso di pazienti privati, era connesso al modo in cui l'informazione medica veniva raccolta al fine di ottenere una diagnosi accurata e di prescrivere un trattamento appropriato. Il problema nasceva dall'eterno dilemma di come registrare dati oggettivi trattando con singoli individui. A questa difficoltà nel processo di raccolta delle informazioni si sommava quella di una definizione dei diritti del paziente: dall'opportunità dell'esame manuale e del trattamento sperimentale al consenso per la disponibilità al pubblico del registro dei casi clinici e degli esami post mortem. I clinici dovevano negoziare nuovi spazi in funzione di relazioni umane, sensibilità sociali, valori culturali e discorsi politici, al fine di perseguire la conoscenza scientifica.
In una istituzione di nuova fondazione come la Royal Infirmary, i benefattori, gli amministratori e i medici che vi operavano dovevano accordarsi sulle priorità di curare o insegnare. Anche l'opportunità di usare pazienti non paganti per l'insegnamento o la ricerca, con o senza il loro consenso, doveva essere valutata, poiché la maggior parte di coloro che venivano ammessi alla Royal Infirmary non era in grado di sostenere il costo del proprio ricovero o trattamento. I finanziatori che avevano anche diritti di ammissione all'ospedale si preoccupavano della propria integrità filantropica tanto quanto i medici si preoccupavano del migliore esito possibile delle cure e dell'insegnamento forniti. William Cullen (1710-1790), che fu chiamato alla Facoltà di medicina di Edimburgo nel 1755, tenne le sue lezioni cliniche sul tema dell'affidabilità dell'anamnesi; secondo la sua opinione un medico doveva sempre analizzare gli scopi e le motivazioni che soggiacevano alla descrizione dei sintomi da parte del paziente. Doveva distinguerne essenzialmente tre tipi: (a) il paziente ignorante e spaventato che raccoglie qualsiasi suggerimento di sintomi o dolori o che costruisce le risposte nel modo che ritiene più gradito al dottore; (b) il furfante che finge e mente sui suoi dolori per stare nell'infermeria durante il mal tempo o per evitare di tornare a lavoro (Cullen pensava che la maggior parte di coloro che si fingevano malati fossero domestici che venivano accolti all'infermeria a spese del loro padrone); (c) il malato onesto che risponde al meglio con i termini e l'informazione medica di cui dispone.
Di fatto, la spinta a migliorare la diagnosi indipendentemente dai resoconti verbali dei pazienti derivava per lo più dal desiderio di rendere scientifica la medicina e dal bisogno di non lasciarsi fuorviare dai sintomi riportati verbalmente, soggettivi, se non apertamente ingannevoli. Anche uno spostamento dell'enfasi dai sintomi alle cause del disturbo, da misure palliative a metodi effettivamente curativi, stimolò i medici a guardare con più attenzione al corpo e a scavare più approfonditamente in esso. Una volta stabilito fermamente il carattere della formazione clinica presso la Royal Infirmary, sorse però un conflitto su quali fossero il ruolo e lo scopo principali dell'istituzione: se guarire, insegnare o sviluppare la conoscenza scientifica. Per gli amministratori, consapevoli dell'importanza del contributo dei benefattori, la finalità era quella di guarire i poveri e restituirli alla vita produttiva nell'ambito della comunità, al fine di abbassare il numero degli indigenti. Per gli studenti, che avevano pagato le tasse per il privilegio di aver accesso a questa istituzione, lo scopo era invece l'apprendimento medico in quanti più ambienti possibili. Essi si opponevano ai limiti posti al tempo da spendere da soli nella sala d'accettazione, nel dispensario per i malati esterni e nelle corsie; volevano assistere senza restrizioni alle lezioni cliniche tenute nell'anfiteatro e nelle cliniche con i loro professori, alle procedure chirurgiche, alle autopsie o alle dissezioni effettuate dai chirurghi. Richiedevano inoltre l'accesso alla biblioteca per esaminare i diari e le anamnesi dei ricoverati registrate dai professori. Per questi ultimi, infine, profondamente consapevoli del potere dei loro pazienti privati che erano fra i benefattori dell'Infirmary, la sfida era quella di mantenere un equilibrio armonico fra l'esigenza di una migliore conoscenza medica legata al loro ardore per l'insegnamento clinico, e il dovere primario in quanto medici, ossia guarire.
Da scontri e compromessi, nella Royal Infirmary emerse un modus vivendi che durò per decenni sotto la guida di John Rutherford (1695-1779), del già citato William Cullen, John Gregory (1724-1773) e Andrew Duncan (1744-1828), fra gli altri. La finalità di guarire fu perseguita così bene dai clinici che il costo dei ricoveri si mantenne particolarmente alto, mentre i guadagni ricavati dalle autopsie erano pochi. Le opportunità di praticare dissezioni erano poi ulteriormente limitate dal fatto che gli statuti dell'ospedale richiedevano il consenso dei parenti prossimi, che spesso lo negavano. Agli studenti si insegnava l'indipendenza del giudizio tramite l'osservazione di tutti i sintomi per sviluppare nuove teorie patologiche, e non meramente per notare ciò che si adattava meglio alla teoria convenzionale. Alcune di queste nuove teorie patologiche, nei fatti, produssero degli eccessi, come per esempio il brownianismo; gli sforzi di Cullen per spiegare le osservazioni cliniche con la neuropatologia non dovrebbero tuttavia essere sottovalutati, poiché indussero comunque altri ad andare oltre le spiegazioni tradizionali.
Il numero dei malati ammessi alla Royal Infirmary non fu mai alto, e i disturbi non erano molto vari, poiché i pazienti provenivano per la maggior parte da gruppi ben definiti: marinai, soldati, domestici, artigiani, ossia categorie di attività preindustriali; la terapia era spesso determinata da ciò che era disponibile o approvato dagli amministratori. Questa situazione particolare ostacolò lo sviluppo della clinica su vasta scala; in ogni caso, e senza ostentazione, la pratica medica a Edimburgo si adattò a servire sia l'arte sia la scienza in medicina. Non è stata dunque la 'protoclinica' a insegnare la semiologia convenzionale, ma un ospedale in cui si curava con compassione e si istruiva con immaginazione.
Per quanto riguarda Gottinga, il re britannico Giorgio II come Elettore di Hannover vi fondò l'Università nel 1737, proprio con lo scopo di creare un'istituzione atta a riflettere nell'insegnamento il nuovo corso della sperimentazione piuttosto che della speculazione. Albrecht von Haller (1708-1777), allievo di Boerhaave, fu chiamato come docente di anatomia, botanica e chirurgia; a lui furono assegnati i compiti di organizzare la Scuola di medicina, il giardino botanico, la sala da dissezione e la biblioteca, nonché di insegnare, dapprincipio da solo, l'intero curriculum. A Gottinga, dove restò fino al 1753, Haller compì la maggior parte delle ricerche fisiologiche che lo condussero a sviluppare i concetti di irritabilità e sensibilità; egli infatti non gestì mai direttamente l'insegnamento clinico o il servizio d'ospedale, poiché i suoi interessi primari erano volti alla fisiologia piuttosto che verso alla patologia.
Negli anni Ottanta, la pratica clinica si sviluppò soprattutto in ambiti specializzati come l'Akkouchierthaus, la clinica per partorienti, piuttosto che su larga scala come il Krankenhaus, l'ospedale, un'istituzione limitata a soddisfare i bisogni di una piccola città. Durante l'insegnamento di Haller l'importanza dell'esperienza pratica fu enfatizzata, sia che l'insegnamento clinico fosse offerto formalmente sia che non lo fosse; Johann Georg von Zimmermann (1728-1795), che aveva studiato con Haller e partecipato alle sue ricerche sull'irritabilità, scrisse nel 1764 Von der Erfahrung in der Arzneykunst (Dell'esperienza nell'arte medica), un'opera basata sull'importanza dell'esperienza al capezzale del malato per fare diagnosi, prognosi e prescrivere terapie. Nell'ultimo quarto del XVIII sec., Gottinga fu un posto particolare, sebbene piccolo, per studiare la medicina in tutti i suoi aspetti; qui l'imperatore asburgico Giuseppe II incontrò Johann Peter Frank (1745-1821) e lo chiamò a Pavia per succedere a Samuel-Auguste-André-David Tissot (1728-1797) come professore di medicina clinica; dietro invito di Francesco II, Frank si trasferì poi a Vienna nel 1795 per assumere la carica di direttore dell'Ospedale generale e diventare titolare dell'insegnamento clinico.
A Vienna i medici più frequentemente citati a proposito della formazione clinica nel XVIII sec. ‒ van Swieten e de Haen ‒ furono entrambi allievi di Boerhaave. A Gerard van Swieten (1700-1772), che fu il primo a essere chiamato alla corte imperiale nel 1745, fu affidato il compito di superare l'annosa impasse fra le autorità amministrative e quelle mediche sulla realizzazione di politiche più illuminate. La riforma degli studi di medicina era prevista nel programma dell'imperatrice Maria Teresa come parte del suo piano generale per migliorare le condizioni materiali del popolo; una certa esperienza clinica veniva offerta nei diversi ospedali della città prima che van Swieten arrivasse, ma ciò dipendeva più dall'inclinazione particolare del docente che da un corso di studi definito.
L'Ospedale della Santa Trinità, fondato nel 1741, disponeva non soltanto di medici e chirurghi dediti al proprio lavoro, ma anche di studenti di medicina, chiamati famuli, i quali ricevevano l'istruzione medica nelle corsie degli ammalati e nella sala da dissezione sotto la supervisione del medico-capo. Il famulus più noto fu Leopold Auenbrugger (1722-1809) che in seguito, in qualità di medico-capo, mise a buon frutto l'educazione e le opportunità fornitegli dall'ospedale. Sperimentando sui pazienti vivi e sui cadaveri, e facendo collegamenti con i risultati ottenuti sul tavolo settorio, Auenbrugger sviluppò la tecnica della percussione del torace per individuare, anche prima che i sintomi fossero evidenti, disturbi del cuore e dei polmoni. Egli trasformò la tradizionale osservazione al capezzale da illustrazione di casi canonici a dinamica ricerca sperimentale volta a mostrare lesioni patologiche nel vivente; sfortunatamente, però, pochi medici compresero il progresso rappresentato dall'Inventum novum ex percussione thoracis humani (1761) di Auenbrugger, che consentiva l'osservazione di organi interni inaccessibili alla palpazione.
Fu van Swieten che obbligò i professori della Facoltà di medicina a portare i propri studenti nei ricoveri e negli ospedali della città per dimostrare nella pratica l'efficacia di ciò che era stato loro insegnato con le lezioni teoriche. All'inizio, l'esercitazione al capezzale istituito da van Swieten seguiva lo stesso modello tradizionale dell'illustrazione dei casi canonici tratti dai classici di medicina. Era questa una misura volta a coinvolgere, senza farli sentire minacciati, i docenti che avevano fatto resistenza a qualsiasi tentativo da parte di van Swieten di migliorare sia la pratica medica sia gli studi di medicina; in proposito gli archivi viennesi contengono alcuni documenti significativi autografi di van Swieten con commenti di mano di Maria Teresa sulle sue frustrazioni per la lentezza delle riforme. A un certo punto, van Swieten contemplò perfino la possibilità di assumere personalmente l'incarico di formare gli studenti al capezzale dei malati ospedalizzati; resosi però subito conto del fatto che i suoi innumerevoli compiti in qualità di consigliere imperiale per le questioni mediche gli avrebbero impedito di dedicare il tempo necessario a condurre le visite in modo appropriato, nel 1754 chiese all'imperatrice di chiamare un altro allievo di Boerhaave, Anton de Haen (1704-1776), per presiedere all'istruzione clinica.
Certamente, de Haen era un medico e un osservatore brillante, e una risorsa sicura per il programma di van Swieten; profondo conoscitore della teoria e della pratica di Boerhaave, era pieno di energie e di entusiasmo, poiché aveva il sostegno di van Swieten e di Maria Teresa. Disponeva anche di una considerevole varietà di pazienti fra cui scegliere, in quanto Vienna era una grande città che attraeva molte persone in cerca di un lavoro, aspirazione non sempre realizzabile.
Con l'aiuto di de Haen, van Swieten fu in grado di attuare la sua riforma degli studi di medicina, a cominciare dalla formazione clinica. In primo luogo, furono allestite due corsie cliniche a sei letti (una maschile e una femminile) all'interno del Burgerspital, l'ospedale civile per vecchi con settanta letti. De Haen sceglieva i suoi casi per l'insegnamento fra l'intera popolazione ospedaliera di Vienna, e mentre Boerhaave insegnava al capezzale due volte alla settimana, egli portava i suoi studenti nelle corsie due volte al giorno. Generalmente arrivava nelle cliniche alle sei di mattina per controllare i pazienti, poi faceva lezione dalle otto alle nove agli studenti riuniti attorno ai letti; tornava nel pomeriggio per osservare i cambiamenti o per cogliere sintomi occasionali, portando con sé i tirocinanti.
Alcune volte, interrogava gli studenti sul caso in questione, i quali rispondevano però privatamente, bisbigliandogli i propri commenti. Quest'uso sembra strano e non particolarmente funzionale alla diffusione dell'apprendimento; tuttavia, può indicare il desiderio di evitare l'imbarazzo per studenti o pazienti. De Haen era un osservatore di sintomi molto attento e scrupoloso e descriveva con dettagli minuziosi ogni fatto esteriore pertinente ai suoi casi clinici; era particolarmente interessato alla soggettività e all'affidabilità delle osservazioni, ottenute tramite tutti e cinque i sensi; per esempio, usava un termometro per misurare il grado effettivo di febbre piuttosto che basarsi sulla propria impressione ricavata dalla temperatura della fronte dei pazienti o sui resoconti dei malati sui loro brividi e sudori. Di solito, i medici del XVIII sec. evitavano di usare strumenti, poiché questa era competenza dei chirurghi; anche la sensibilità del tempo era tale che toccare i pazienti con le mani o con gli strumenti non sempre era considerato conveniente; tuttavia, de Haen, dovendo trattare per lo più con pazienti indigenti, nelle sue cliniche sapeva comportarsi con cortesia mondana. Nella Vienna imperiale, i diritti del paziente non erano uno dei temi di maggior interesse; de Haen aveva l'accesso a tutti i reparti di dissezione degli ospedali della città attraverso gli studenti di medicina o i chirurghi che erano sotto la sua supervisione: il fatto che le cure fossero gratuite significava che i pazienti non avevano alcun titolo per acconsentire a ciò che veniva loro fatto da vivi o da morti. Ciò non significa però che agli ospedalizzati si imponesse un comportamento o una sperimentazione grossolana, poiché il motto ippocratico primum non nocere era sempre il principio guida.
Mentre era meticoloso nella ricerca di indizi esteriori per una diagnosi, come chiari esantemi, sembra che de Haen fosse cieco nei confronti delle possibilità di correlare i sintomi ai risultati degli esami post mortem. Qual era lo scopo di dissezionare i cadaveri di tutti gli ospedalizzati quando i loro sintomi non erano stati osservati dagli assistenti clinici che facevano le autopsie? È ben noto anche che de Haen evitava Auenbrugger e considerava di poco valore la tecnica della percussione del torace. Era un oratore impareggiabile e affascinava gli studenti con un'abbondanza di dettagli, a volte anche contrastanti, che egli osservava nell'aspetto esteriore del paziente. Nonostante l'uso di strumenti (termometro od orologio), della percussione addominale, già descritta nel Corpus Hippocraticum, dell'osservazione attenta e di numerose dissezioni, né de Haen né i suoi immediati successori, Anton von Störck (1731-1803) e Maximilian Stoll (1745-1787), fecero dell'esercitazione al capezzale qualcosa di diverso dalla protoclinica. Essi non coinvolgevano mai gli studenti nelle diagnosi, nelle prescrizioni e nelle terapie; non correlavano mai in maniera sistematica i sintomi e le lesioni, e non osservavano in maniera specifica i successi o i fallimenti delle loro prescrizioni. Per questo nel 1795 si rese necessario chiamare a Vienna Frank, il quale lasciò Pavia, dove ‒ come si è detto ‒ aveva realizzato ed esteso il programma clinico istituito da Tissot, per trasformare la vecchia Scuola di medicina di Vienna in una clinica modello per il nuovo secolo. Fu forse Jean-Nicolas Corvisart (1755-1821), che tradusse e commentò nel 1808 l'Inventum novum di Auenbrugger, a far sì che alcuni storici attribuissero alla protoclinica boerhaaveana di de Haen la reputazione di precorritrice della clinica parigina, alla cui fama Corvisart contribuì fin dall'inizio in maniera notevole.
Per quanto riguarda l'Italia, poiché Pavia è oggi una città universitaria relativamente piccola, in genere non si presta molta attenzione ai successi del suo passato, sebbene vi si siano conseguiti importanti risultati, per esempio durante il XVIII secolo. Com'è noto, prima dell'unità d'Italia e per motivi dinastici, la Toscana e la Lombardia erano politicamente legate all'Impero asburgico. Maria Teresa realizzò dunque alcune delle sue riforme nei territori subalpini, in particolare per quanto riguarda l'Università di Pavia. Così come aveva fatto il re britannico Giorgio II nel suo Elettorato di Hannover per superare l'inerzia inglese, l'imperatore Giuseppe II si mosse in Lombardia per affrancarsi dalla tendenza viennese a procrastinare. Entrambi i monarchi volevano introdurre il metodo osservativo nella sua accezione scientifica piuttosto che scolastica: la Natura doveva essere osservata per scoprire leggi fisiche piuttosto che per illustrare teorie speculative. Il primo professore chiamato a promuovere il metodo sperimentale fu Lazzaro Spallanzani (1729-1799), che giunse a Pavia nel 1769. La riforma della Scuola di medicina ebbe luogo nel 1773 con un nuovo piano di studi che richiedeva una formazione clinica basata sul modello boerhaaveano stabilito da van Swieten. A Giambattista Borsieri (1725-1785), che più tardi pubblicò un libro sulla medicina clinica (1781), già nel 1771 era stato affidato l'insegnamento al capezzale del malato; egli però tenne le sue lezioni nelle corsie dell'Ospedale San Matteo soltanto per pochi anni, poi si dimise per motivi di salute.
Il suo successore, nel 1781, fu lo svizzero Tissot, laureato a Montpellier, oggi più noto per la sua divulgazione della medicina piuttosto che per l'insegnamento clinico. Influenzato dal vitalismo del suo maestro, François Boissier de Sauvages (1706-1767), aggiunse un'impronta boerhaaveana personale al legame di Pavia con Vienna. Durante la sua permanenza a Montpellier, Tissot aveva visitato giornalmente l'ospedale con un medico inglese laureato a Leida, e aveva effettuato molti esami post mortem dei pazienti che aveva seguito nelle corsie; in seguito egli scrisse che la conoscenza medica più utile da lui acquisita in quel periodo era quella delle visite in corsia condotte insieme alla sua guida boerhaaveana. Tissot restò a Pavia fino al 1783, quindi tornò a Losanna dove, nel 1785, pubblicò l'Essai sur les moyens de perfectionner les études de médecine, in cui descriveva ciò che aveva fatto e ciò che aveva sperato di realizzare quando era professore di medicina pratica.
Il punto saliente del suo programma di formazione al capezzale consisteva nel coinvolgimento degli studenti nella cura dei pazienti. Sotto la guida di Tissot, che era nello stesso tempo direttore dell'ospedale e professore di medicina clinica, malati appositamente scelti erano infatti assegnati agli studenti, affinché questi facessero diagnosi, prescrivessero terapie, in caso di fallimento, praticassero dissezioni. I singoli casi clinici erano scelti fra il complesso dei pazienti dell'ospedale per il loro valore chiaramente esemplificativo di malattie comuni. Ciascuno studente doveva tenere un diario del suo paziente e annotare alla maniera ippocratica i particolari della malattia: la raccolta di una storia orale dei sintomi e delle abitudini (anamnesi); un'attenta osservazione di segni vitali e aspetto fisico; la palpazione degli organi interni dolenti per appurarne eventuali cambiamenti di consistenza e di misura, e la percussione del torace e dell'addome; la diagnosi con la spiegazione delle motivazioni a essa soggiacenti; l'efficacia della terapia scelta in confronto ad altri mezzi di cura; l'esito finale di dimissione o morte. Lo studente faceva l'esame post mortem, riportava i dati patologici e li correlava ai sintomi. Tutti i diari erano conservati nella sala delle assemblee, dove il professore e gli studenti si incontravano dopo le visite per discutere e riesaminare ciò che era stato osservato e detto durante la visita nelle corsie.
Al suo arrivo a Pavia, Tissot aveva richiesto due corsie da dodici letti, una per gli uomini e una per le donne, ma ne furono allestite solo da otto letti. Così, egli escogitò un sistema formativo a due livelli: durante il suo primo anno di esperienza pratica, lo studente accompagnava e osservava un compagno di clinica del secondo anno il quale interrogava, osservava, palpava, percuoteva, curava il paziente di cui, con la supervisione di Tissot, gli era stata affidata la responsabilità e a volte ne dissezionava il cadavere. Tissot insisteva sul fatto che il primo scopo dell'esercizio era la cura del paziente, il secondo l'apprendimento medico; per questo raccomandava di interrogare cortesemente il malato e di rassicurarlo al capezzale, utilizzando la lingua nativa piuttosto che soltanto il latino in presenza dei pazienti, discutendo prognosi o diagnosi divergenti solamente nella sala delle assemblee, e mantenendo al minimo il rumore nelle corsie. Fautore dell'anatomia patologica di Morgagni, Tissot realizzò nelle sue cliniche anche un programma sistematico di autopsia, poiché pensava che il fatto di prescrivere cure efficaci dipendesse dall'aver identificato le cause della malattia. Egli stesso, infatti, fu un abile dissettore che procedeva all'esame post mortem dei suoi pazienti privati tutte le volte che ne otteneva il consenso. Tissot insisteva inoltre sul fatto che il medico dovesse conoscere la fisiologia e l'anatomia degli organi sani per poter constatare i danni prodotti dalla disfunzione o dalla malattia.
Nel 1785 Frank giunse a Pavia per sostituire Tissot come direttore dell'ospedale e professore di medicina pratica; vi restò fino al 1795, poi ‒ come si è detto ‒ si trasferì a Vienna. Prima di accettare l'incarico a Pavia, Frank scrisse a Tissot per chiedergli consigli su come organizzare il programma e informazioni sul funzionamento della clinica. Poiché è andata perduta la risposta di Tissot, a giudicare da ciò che Frank realizzò durante la sua permanenza a Pavia, dal Plan d'école clinique che pubblicò nel 1790, e da ciò che propose per Vienna nel 1798, si può dedurre che egli abbia seguito strettamente il metodo di Tissot nel coinvolgere gli studenti anziani nella cura dei casi clinici, reputando che fosse la migliore formazione possibile.
Di fatto, Antoine-François de Fourcroy (1755-1809) nel 1790 propose che la riforma della formazione clinica negli ospedali di Parigi adottasse come modello il programma dell'insegnamento al capezzale sviluppato a Pavia. Così, il precursore e l'ispiratore della medicina degli ospedali parigini fu uno svizzero di lingua francese, formatosi a Montpellier sotto la guida di un allievo inglese di Boerhaave di nome Jones e morto a Tolosa nel 1749. Ciò che, in scala ridotta, Tissot aveva realizzato a Pavia, era una clinica moderna pienamente sviluppata, nella quale gli studenti partecipavano direttamente a osservazioni, diagnosi e procedure, prescrizione e somministrazione del trattamento, valutazione dell'andamento della cura, dissezioni e relazioni sulle correlazioni di lesioni patologiche alla maniera di Morgagni. Lo scopo di Tissot era quello di formare medici sistematici ma liberi dall'esprit de système, che mettessero in dubbio tanto la tradizione quanto la moda o l'innovazione, confidassero in osservazioni non inquinate dalla speculazione per arrivare a conclusioni spontanee sulle cause delle malattie caratterizzate da danni patologici, e valutassero i trattamenti sulla base della loro efficacia piuttosto che della loro antichità.
In Francia, prima della Rivoluzione francese la Scuola di medicina di Montpellier era un'istituzione molto stimata, nella quale avevano studiato autorevoli medici francesi come Théophile de Bordeu (1722-1776), Paul-Joseph Barthez (1734-1806), Antoine Portal (1742-1832), Philippe Pinel (1745-1826) e Félix Vicq d'Azyr (1748-1794). Molti membri fondatori della Société Royale de Médecine (1776) si erano laureati a Montpellier, e il ruolo propulsore svolto dalla Société Royale prima e agli inizi della Rivoluzione nei confronti delle riforme mediche presso la Facoltà di medicina di Parigi è ben documentato.
Tuttavia, nonostante la creazione nel 1715 di una cattedra di medicina pratica, l'insegnamento clinico formale cominciò a Montpellier solo nel 1760 con venti studenti che partecipavano alle visite di corsia nell'Ospedale di Saint-Eloi. Prima di ciò, secondo quanto riferito da Tissot, al Saint-Eloi erano disponibili un apprendimento informale al capezzale, procedure chirurgiche e dissezioni, specialmente per quegli studenti che si iscrivevano anche alla formazione chirurgica e servivano da garçons-chirurgiens nelle corsie. A differenza di quanto accadeva a Parigi, la divisione e l'animosità fra medici e chirurghi non furono mai molto forti a Montpellier; ciò favorì il diffondersi di una mentalità anatomopatologica e la messa in discussione della fisiologia tradizionale. Di fatto, molte scuole mediche di provincia svilupparono una formazione clinica formale decenni prima che ciò avvenisse a Parigi.
La capitale della Francia amministrativamente centralizzata era naturalmente luogo di attrazione per le persone e per gli studi; lo spartiacque della Rivoluzione fu così profondo (o comunque fu interpretato così) che per molti l'Ancien Régime fu visto o dovette essere percepito solo come indolente, inetto e reazionario, così come l'immaginazione popolare rappresentava Luigi XVI. Tuttavia, nonostante i diversi insuccessi, i governanti francesi dell'Ancien Régime e le autorità mediche di Parigi non furono così incompetenti come è stato generalmente pensato o raccontato. La Société Royale de Médecine cercava di spingere la Facoltà di medicina a diventare più progressista, promuoveva le osservazioni climatiche da parte dei medici del territorio per individuare le cause delle epidemie e delle epizoozie, e aveva una commissione preposta alla valutazione delle capacità terapeutiche dei farmaci. Dopo l'incendio all'Hôtel-Dieu del 1772, una commissione dell'Académie Royale des Sciences fu istituita allo scopo di studiare la maniera migliore di trasformare un disastro in un modo per combattere la povertà e le malattie; furono avanzate, infatti, molte proposte da parte di medici, riformatori sociali e architetti su come utilizzare al meglio gli ospedali per curare e per imparare. Tuttavia, nel 1788, quando la commissione presentò la sua relazione e Jacques-René Tenon pubblicò il suo resoconto sugli ospedali parigini, la Rivoluzione era alle porte e subito spazzò via ogni speranza di riformare le istituzioni dell'Ancien Régime. Con ardore rivoluzionario, tutte le cose che erano 'reali', sia di fatto sia solo di nome, furono abolite.
Nel 1793, le università vennero chiuse da un capo all'altro della Repubblica, di conseguenza l'insegnamento e l'istruzione superiori dovettero essere ridefiniti: nel 1794, era già in vigore un nuovo sistema che non aveva vincoli o legami con il passato, o così sembrava. Furono organizzate le nuove Écoles de Santé e l'istruzione medica basata sugli ospedali; nacque la 'Medicina degli Ospedali di Parigi'. Secondo Foucault (1963), era finalmente nata la clinica; forse però l'ansia di denigrare l'Ancien Régime ha in qualche misura impedito di riconoscere sia le spinte prerivoluzionarie alla riforma degli studi medici sia la precedente realizzazione all'estero del modello poi adottato a Parigi (cosa che invece i suoi 'fondatori' francesi ‒ per esempio Pinel e Fourcroy ‒ avevano allora riconosciuto).
Gli studi anatomici, una patologia localizzata, la valutazione del trattamento e una sfida alla routine medica avevano già avuto luogo in alcuni degli ospedali parigini, per esempio la Charité o il Necker, anche se non nella misura in cui ciò accadde dopo la Rivoluzione. Come si è detto, nella Parigi prerivoluzionaria era esistita un'apertura mentale in medicina sufficiente per preparare e poi realizzare le riforme. Louis Desbois de Rochefort (1750-1786), un'autorità accademica della Facoltà di medicina di Parigi, avviò l'insegnamento clinico alla Charité nel 1780, promuovendo anche l'anatomia patologica. Il suo allievo e successore Jean-Nicolas Corvisart sviluppò in modo eccellente la formazione al capezzale e gli studi di patologia localizzata, e partecipò attivamente all'inaugurazione delle cliniche parigine di fama rivoluzionaria. Pierre-Joseph Desault (1744-1795), un chirurgo, nel 1787 organizzò la formazione clinica all'Hôtel-Dieu, dove fra gli altri insegnò Marie-François-Xavier Bichat (1771-1802). Dunque, da Leida a Parigi, la formazione clinica fu trasformata per evoluzione, non rivoluzione; tuttavia, ciò che la condusse ad alti livelli di successo fu proprio la Rivoluzione, che ruppe il bozzolo parigino.
Nel complesso, al di là dell'istituzione formale della formazione clinica, con i suoi assidui rinnovati sforzi di individuare le cause delle malattie, la Rivoluzione scientifica e l'Illuminismo ebbero prodigiosi effetti in campo medico. Il metodo osservativo e sperimentale in farmacologia e in chimica condusse a ricerche sul valore dei farmaci tradizionali, alla scoperta di rimedi nuovi e all'individuazione dei costituenti attivi di quelli vecchi. Misteriose panacee o meravigliosi farmaci toccasana furono sottoposti al vaglio della Société Royale, per esempio, o di altre organizzazioni simili. Di fatto, la battaglia dell'Illuminismo contro le superstizioni incoraggiò la spinta alla professionalizzazione e all'educazione. Scuole superiori di medicina e consigli sanitari furono fondati o ampliati per rafforzare le regole contro la ciarlataneria, promuovendo l'istruzione e rilasciando autorizzazioni. Quali fossero le reali motivazioni e le intenzioni delle autorità politiche e mediche è ancora oggetto di discussione fra gli studiosi: i sostenitori di un paternalismo benevolo descrivono una volontà di migliorare la vita della gente, dunque di migliorarne la salute tramite la formazione di personale medico in linea con i più recenti progressi della medicina; i difensori di un dispotismo illuminato, sebbene repressivo, attribuiscono invece lo scopo sinistro di controllare la vita della gente ai decreti emanati e alle istituzioni fondate per promuovere la salute.
L'ostetricia è un esempio interessante di professionalizzazione e promozione scientifica settecentesche. Il dibattito sulla medicalizzazione delle nascite, avviato all'inizio del XVIII sec., fu particolarmente aspro; la questione è tutt'oggi di grande interesse poiché illustra la perenne rivalità fra medici e levatrici, la competizione tra parto medicalizzato e nascita naturale, e la definizione della gravidanza come processo patologico o fisiologico. Certamente, per molte ragioni, il parto ha rappresentato, fino a un passato recente, un momento rischioso; un'insufficiente conoscenza dell'anatomia femminile e delle fasi della nascita poneva infatti il problema di condurre a buon compimento i casi difficili. Inoltre, la scarsità di igiene e nutrizione minava la resistenza delle giovani madri. Occorreva affrontare urgentemente la questione relativa alla mortalità molto diffusa tra le partorienti e i neonati. La soluzione di questo problema portò allo sviluppo di due approcci diversi. Il primo di essi consisteva nell'addestrare medici maschi nell'anatomia e nelle procedure della nascita; in particolare, in un parto che presentava complicazioni, spesso erano chiamati a intervenire i chirurghi con i loro strumenti (forcipi, ganci, o bisturi) la cui utilizzazione era vietata alle levatrici.
Noti chirurghi del passato, come Ambroise Paré (1510-1590) o François Mauriceau (1637-1709), avevano descritto come, mediante manovre interne, era possibile risolvere il problema delle nascite difficili dovute alla posizione anomala del feto; in seguito, William Smellie (1697-1763) e il suo allievo William Hunter (1718-1783) approfondirono gli studi sul processo della nascita, e su quando scegliere di lasciare la Natura agire da sola o di intervenire. Questi operatori medici venivano chiamati 'ostetriche-maschio' in Inghilterra e 'ostetrici' nel Continente, e assistevano soprattutto donne dell'alta società. Il saper leggere e scrivere era più diffuso fra i maschi che fra le femmine, così gli uomini erano considerati più educabili delle donne in una cultura che dipendeva in misura sempre maggiore da fonti scritte per la trasmissione della conoscenza. Le donne erano reputate ingenue, ignoranti e superstiziose, cosa sfortunatamente spesso vera e dovuta per lo più alla mancanza di opportunità di istruzione.
Il secondo approccio consisteva invece nel preparare le levatrici facendo fare loro pratica su manichini anatomicamente corretti contenenti bambolotti che potevano essere manipolati per simulare parti problematici e per dimostrare il modo giusto di procedere. Queste ostetriche erano istruite per assistere le donne dei paesi e risiedevano nei villaggi, così da non provocare alcuna competizione con i loro corrispettivi maschi cittadini. La prima soluzione, la formazione di uomini in ambiente ospedaliero, fu adottata principalmente in Inghilterra, e soltanto nel XIX sec. si estese a tutta l'Europa con la diffusione della formazione clinica. Sfortunatamente per le madri, l'urbanizzazione e la necessità di formare gli ostetrici incrementarono le nascite in ospedale, e ciò comportò una maggiore mortalità per febbre puerperale da contagio. La seconda soluzione si sviluppò invece nel Continente, con scuole locali per ostetriche o corsi itineranti tenuti da ostetriche riconosciute dallo Stato, come 'madame Du Coudray' nella Francia di Luigi XV. Poiché questo tipo di formazione ostetrica includeva raramente la dissezione, la mortalità dovuta a febbre puerperale restò pressoché la stessa nel caso delle donne che partorivano a casa con le levatrici. L'adozione del metodo osservativo in anatomia fu molto importante per far nascere bambini sani e salvare le vite delle madri, indipendentemente da chi fornisse l'assistenza al parto. In ambito chirurgico, invece, la nuova mentalità alimentò, oltre all'osservazione, la sperimentazione, e John Hunter (1728-1793) rappresenta l'epitome di quanto era possibile realizzare prima della scoperta dell'anestesia e dell'antisepsi (metà del XIX secolo).
La professionalizzazione in campo medico si verificò per lo più a seguito di una richiesta di riconoscimento da parte di chi aveva avuto una formazione più alta o migliore, e cioè come un modo per questi stessi medici di proteggere la propria pratica e i propri redditi. Si richiesero dunque al personale medico diplomi e licenze che ne attestassero la capacità di assicurare una cura appropriata, ovvero una cura appresa secondo le conoscenze più recenti; questi titoli erano rilasciati dalle autorità politiche e mediche per attestare le capacità terapeutiche e combattere la ciarlataneria. In una società ancora retta da privilegi, com'era quella della fine del XVIII sec., la chiusura dei ranghi dei medici entro le Scuole superiori di medicina o i consigli sanitari ‒ al fine di controllare farmacie, ostetriche e chirurghi, nel nome della scienza e della ragione ‒ doveva essere scontata, poiché essi si consideravano i più qualificati in ambito medico. Valutando competenza e abilità mediante un esame pratico e teorico, piuttosto che mantenendo le tasse tradizionalmente imposte per registrare i titoli universitari o d'apprendistato, queste commissioni che concedevano le licenze definirono la competenza richiesta ed elevarono gli standard per tutti gli operatori medici al livello di quelli professionali.