L'Eta dei Lumi: le scienze della vita. Indagini sperimentali e teorie delle funzioni
Indagini sperimentali e teorie delle funzioni
Si è spesso ritenuto che la fisiologia del XVIII sec. abbia prodotto "solo un numero relativamente limitato di scoperte significative" (Rothschuh 1973, pp. 113-114). Messo in ombra dalla monumentale scoperta della circolazione del sangue nel XVII sec. e dalla trasformazione della fisiologia in una scienza totalmente sperimentale nel XIX, questo secolo intermedio è spesso apparso come un momento di stasi, durante il quale gli studiosi dedicarono maggior impegno a sistemare le conoscenze esistenti che ad acquisirne delle nuove.
Come si è detto nella sezione precedente, questi sistematizzatori si occuparono di profonde questioni concettuali, come quella di stabilire se gli organismi siano macchine, oppure siano controllati da forze vitali; se la materia elementare dei tessuti manifesti proprietà vitali indipendenti o, viceversa, le tragga da una fonte centrale e se quest'ultima sia senziente ovvero inconscia. Da questo punto di vista, la fisiologia del XVIII sec. sembra aver preso le mosse da ipotesi meccaniciste, per poi attraversare una fase di reazione scettica e concludersi con il movimento vitalista, che solo all'inizio del XIX sec. avrebbe ceduto il posto alla 'moderna' fisiologia sperimentale. A un altro livello, tuttavia, di quegli stessi uomini di scienza che nel XVIII sec. erano impegnati a risolvere questioni di carattere generale, molti studiarono anche problemi specifici, costruendo progressivamente nuove teorie sulla base delle ricerche dei predecessori, fin dall'Antichità. Alla fine dell'Illuminismo, essi avevano raggiunto punti fermi ben definiti che avrebbero consentito ai loro successori del XIX sec. di proseguire e concludere con successo le loro ricerche.
Il campo di indagine a cui appartiene la fisiologia è legato, con maggiore continuità di qualsiasi altro settore della scienza moderna, alle sue prime radici, che risalgono all'epoca greca e romana. Da Aristotele a Galeno, gli Antichi avevano costruito una mappa completa dell'anatomia interna degli animali più strettamente collegati agli esseri umani, e avevano stabilito il principio basilare che la forma deve essere correlata alla funzione; tale principio da allora in poi avrebbe sempre guidato coloro che studiavano il funzionamento del corpo animale. Per i fisiologi del XVIII sec., partire dalla premessa fondamentale che i sistemi anatomici studiati svolgessero una funzione ben precisa all'interno dell'organismo significava che tutti gli studiosi ‒ fossero essi dichiaratamente meccanicisti, animisti o vitalisti ‒ implicitamente accettavano l'ipotesi di un'organizzazione finalistica dei processi corporei.
Con i metodi sperimentali, i concetti fisici e chimici e i metodi a disposizione dei fisiologi del XVIII sec, non era facile accedere a tutte le funzioni che si ritenevano associate ai principali sistemi di organi. Alcuni processi, come quello della formazione delle secrezioni o quello dell'assimilazione delle sostanze nutritive da parte del corpo, sfuggivano all'analisi diretta e rimanevano per lo più oggetto di ipotesi speculative basate sulla meccanica e sulla chimica dell'epoca. C'erano, tuttavia, alcuni nodi strategici che offrivano un punto di partenza per nuove indagini sperimentali. Quasi fino alla fine del periodo illuministico, gli sviluppi più significativi si ebbero nello studio della circolazione, dell'organizzazione del sistema nervoso e della fase preliminare della nutrizione, la digestione gastrica. Solo verso la fine del secolo, gli sviluppi della chimica aprirono la strada alla possibilità di grandi progressi nella comprensione della respirazione, della formazione del calore animale e del funzionamento complessivo del processo di nutrizione.
La circolazione del sangue era particolarmente accessibile con i metodi disponibili e i fondamenti teorici che le scienze fisiche dell'epoca potevano offrire. Grazie a procedimenti semplici, era possibile rendere visibili a occhio nudo i movimenti del cuore e delle arterie e il flusso del sangue attraverso le principali arterie e vene. Con il microscopio si poteva seguire il percorso del sangue fin nei vasi sanguigni arteriosi e venosi più piccoli. Gli effetti del peso e della pressione dell'aria furono utilizzati per spiegare la circolazione non appena questi fenomeni furono definiti e misurati con l'uso del barometro.
All'inizio del XVIII sec., la meccanica newtoniana aveva fornito ulteriori strumenti per spiegare la circolazione, e anche la nuova scienza dell'idrodinamica sarebbe stata presto applicata a questo studio. Che fossero meccanicisti, vitalisti o animisti, tutti coloro che studiavano la circolazione consideravano il cuore come una pompa meccanica, le arterie e le vene come tubi che incanalavano il flusso dei fluidi, e il sistema nel suo complesso come qualcosa che poteva essere sottoposto a misurazioni quantitative.
Il De motu animalium di Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679), pubblicato nel 1680, gettò una lunga ombra sulle ricerche del XVIII sec. sul flusso del sangue. Il cuore, scriveva Borelli, comprime il sangue "come una pressa". Anche se la compressione del cuore viene regolarmente interrotta, il sangue, sosteneva, fluisce in modo continuo attraverso le arterie e le vene, perché le arterie stesse sono compresse dalla contrazione delle loro fibre circolari. Anche se fu il primo a calcolare la forza del cuore, che considerava equivalente al peso che è in grado di sollevare, Borelli lo fece solamente in modo indiretto, basandosi sul peso sollevato dai muscoli della mascella e tenendo conto della massa relativa del cuore e di questi muscoli. Il numero che ottenne, circa 180.000 libbre (81.647 kg), apparve ai fisiologi del XVIII sec. improbabilmente alto, ma li stimolò a cercare un risultato più realistico.
Nel 1717, James Keill (1673-1719) affrontò la questione della forza del cuore partendo da presupposti molto diversi. Fu il primo a calcolare non solo la quantità di sangue pompata dal cuore in un determinato periodo di tempo, ma anche la velocità con cui esso viene espulso. Calcolò anche, in modo approssimativo, la sezione trasversale dell'aorta, partendo dal presupposto che a ogni contrazione venga espulsa un'oncia (28,35 g) di sangue e che la contrazione duri un terzo del tempo totale di un battito, giungendo alla conclusione che la velocità di uscita del sangue dal cuore è di 156 piedi (47,55 m) al minuto. Per scoprire la sua velocità nelle ramificazioni del sistema circolatorio, misurò le loro dimensioni relative. Partendo poi dal presupposto che il rapporto tra la velocità che raggiunge nel tronco arterioso e quella nell'ordine di ramificazioni successive è inversamente proporzionale al totale delle loro sezioni trasversali, calcolò che nelle arterie più piccole il sangue si sposta a 1/5233 della velocità con cui percorre la grande arteria.
Keill definì la forza del cuore in base a un'affermazione contenuta nei Principia di Newton, secondo la quale la forza con cui un fluido esce da un orifizio è uguale al peso di un cilindro di quel liquido la cui base sia uguale all'orifizio e la cui altezza sia pari a due volte la distanza dalla quale un corpo che cade in verticale acquista una velocità pari a quella con cui il fluido esce dall'orifizio. Per attribuire un valore sperimentale a questa grandezza, aprì un'arteria nella coscia di un cane e raccolse il sangue che ne era uscito in 10″. Il risultato fu che la forza del cuore equivale al peso di cinque once (141,75 g), un valore, osservò, molto più basso di quello determinato da Borelli.
Di fronte a due risultati così diversi, il primo dei quali attribuiva al cuore una forza immensa, e il secondo una forza quasi trascurabile, altri studiosi, come James Jurin (1684-1750), George Martine (1702-1741), Joseph Morland e John Tabor (n. 1667), ripeterono i calcoli, partendo da presupposti differenti, e raggiungendo quasi tanti risultati diversi quanti furono i loro tentativi. Fu proprio l'insoddisfazione prodotta da questi risultati, che a suo avviso differivano tanto l'uno dall'altro perché si basavano su dati insufficienti, a indurre il reverendo Stephen Hales (1677-1761) a cercare di scoprire con "esperimenti appropriati" quale fosse veramente la forza del sangue nelle arterie di un animale.
Probabilmente, Hales cercò di misurare la forza del sangue per la prima volta nel 1706, fissando un tubo verticale all'arteria di un cane. Tornando sul problema nel 1727, dopo aver usato metodi simili per misurare la forza della linfa che sale nelle piante, per i cinque anni successivi eseguì misurazioni su cavalli, pecore, cani e un bue, pubblicando i risultati nel 1733 in un volume intitolato Statical essays, containing haemastaticks. L'altezza che il sangue raggiungeva nelle arterie dei cavalli andava dai 7 ai 9 piedi (2,13-2,74 m), nei cani arrivava a 6 piedi (1,83 m), ma variava continuamente in base allo stato di nutrizione dell'animale, al fatto che fosse in movimento o a riposo, e ad altri fattori. Quando Hales prelevava sangue dall'animale, anche l'altezza del sangue nel tubo diminuiva. Inoltre egli scoprì che il rapporto tra la forza del sangue che scorreva nelle arterie e di quello che scorreva nelle vene era di 10 o 12 a 1.
Per calcolare la velocità con cui il cuore spingeva il sangue nell'aorta, Hales usò il metodo di Keill, ma invece di ipotizzare il volume di sangue espulso a ogni contrazione come aveva fatto il suo predecessore, misurò il volume del ventricolo sinistro iniettandovi della cera e poi rimuovendo il tessuto. Abbracciò anche la teoria di Keill secondo la quale la velocità del sangue nelle ramificazioni delle arterie deve diminuire proporzionalmente all'aumento della loro sezione trasversale complessiva, ma osservò che le velocità così calcolate sarebbero state valide solo se nessuna resistenza si fosse opposta al movimento del sangue. Per determinare l'effetto della resistenza, confrontò la velocità alla quale l'acqua, versata da un tubo lungo 4 piedi (1,22 m) e alto mezzo piede (0,15 m) nell'aorta di un cane, fuoriusciva attraverso gli orifizi dei piccoli capillari del suo intestino, con la velocità alla quale essa fuoriusciva dalle arterie mesenteriche incise vicino all'intestino. Avendo scoperto che nel secondo caso l'acqua defluiva in un terzo del tempo, giunse alla conclusione che l'ostacolo maggiore al movimento del sangue arterioso fosse costituito dalle arterie capillari.
Tradotto in francese, italiano e tedesco, l'Haemastaticks esercitò una grande influenza in tutta l'Europa. Non fu, tuttavia, una pietra miliare isolata nella storia della circolazione, ma solo la più importante di una serie di ricerche, ciascuna delle quali costruita sulle precedenti, dopo un riesame critico.
Nel 1737, il matematico e fisico Daniel Bernoulli (1700-1782) presentò un nuovo metodo per stimare la "vera massa" della forza del cuore. Mentre Borelli aveva equiparato la forza a un peso, Keill aveva applicato la definizione di forza di Newton, e Hales si era accontentato di un concetto vago che somigliava a quello della pressione, Bernoulli invocò la vis viva di Leibniz, rigorosamente definita anche se controversa: la quantità di moto, determinata come il prodotto della massa per il quadrato della velocità, si conserva. Secondo Bernoulli, la forza prodotta da una qualsiasi macchina non è correttamente misurata, come aveva pensato Borelli, dal peso che è in grado di bilanciare, ma dal peso che può essere sollevato da quella forza a una data altezza.
Ponendo che la quantità di sangue che il cuore pompa a ogni battito è pari a 2 once (56,7 g) e ipotizzando, sulla base dell'altezza a cui il sangue sprizza dall'arteria di un criminale decapitato, che il sangue sia espulso a una velocità sufficiente a sollevarlo di 2 piedi (0,61 m), Bernoulli calcolò che in un'ora il cuore produce una forza in grado di sollevare di 1 piede (0,3048 m) 16.000 once (429,6 kg), oppure "che è la stessa cosa", una libbra (0,4536 kg) di 1000 piedi (304,8 m). Leggendo l'Haemastaticks nel 1743, Bernoulli si rese conto che Hales aveva già misurato il valore fondamentale per il suo calcolo, cioè l'altezza a cui il sangue saliva in un tubo attaccato all'arteria. Ricontrollando i calcoli, Bernoulli arrivò quindi alla conclusione che l'effetto della forza del cuore equivale al sollevamento di un peso di 10,5 libbre (4,77 kg) a un'altezza di un piede al secondo. Quando uno dei suoi studenti, Daniel Passavant, rivide ancora una volta i calcoli nel 1746, stabilendo che la forza era sufficiente a sollevare di 1 piede 3000 libbre (1362 kg), o 1000 libbre (454 kg) di 3 piedi (0,91 m), o 100 libbre (45,4 kg) di 30 piedi (9,1 m), anche il significato di quel risultato cambiò sensibilmente. Mentre Bernoulli aveva espresso questo effetto come la quantità di forza creata in un determinato periodo di tempo, Passavant dichiarò che tutti questi effetti "equivalenti" richiedono "lo stesso lavoro o la stessa forza assoluta". Retrospettivamente, a Bernoulli è stato attribuito il primo calcolo 'corretto' del lavoro del cuore, ma nel XVIII sec. c'era ancora molta ambiguità sul significato del concetto di 'lavoro' e di quello di 'forza'.
Bernoulli comunicò il secondo dei calcoli citati a François Boissier de Sauvages (1706-1767), professore di Medicina all'Università di Montpellier. Sebbene fosse un sostenitore delle dottrine animiste di Georg Ernst Stahl (1660 ca.-1734), Sauvages era anche imbevuto della meccanica analitica del suo tempo e convinto che bisognasse dare rigore matematico alla ricerca medica. Il lavoro di Borelli lo aveva persuaso della conformità tra la disposizione del corpo umano e le leggi della meccanica. Nel 1744, Sauvages pubblicò una traduzione francese dell'Haemastaticks di Hales. In due dissertazioni che comparivano in appendice alla sua traduzione, Sauvages cercò d'integrare i risultati sperimentali di Hales con l'idrodinamica teorica di Bernoulli, che applicò alla dinamica del sangue, adottando al tempo stesso il concetto di vis viva del circolo di Bernoulli.
Dai principî generali della fisica Sauvages inferì che il corpo vivente consuma quotidianamente energie che devono essere rinnovate, come l'acqua di un serbatoio che diminuisce se ogni giorno se ne consuma più di quanta se ne accumuli. Per far circolare il sangue, a ogni pulsazione il cuore deve consumare energia sufficiente per superare la normale resistenza del sangue e dei vasi sanguigni. Per calcolare queste resistenze, Sauvages attinse dall'analisi di Keill del rapporto tra la sezione trasversale di un tronco arterioso e quelle dei successivi ordini di ramificazioni, e condusse esperimenti simili a quelli di Hales, confrontando la velocità a cui il sangue fluisce attraverso un tronco arterioso le cui diramazioni sono aperte, con quella raggiunta quando lo stesso tronco è aperto. Egli attribuì la maggiore lentezza del flusso nel primo caso all'attrito, e ne dedusse che le infiammazioni e le febbri sono causate dallo sforzo in più che il cuore deve esercitare per superare gli ostacoli causati alla circolazione da ramificazioni bloccate. Per calcolare quanta forza in più il cuore dovesse esercitare in questi casi, invocò un principio dell'idraulica secondo il quale la forza necessaria a spingere un fluido con diverse velocità è proporzionale al quadrato delle velocità. Per la sua analisi della pulsazione arteriosa, Sauvages applicò la scoperta di Bernoulli secondo la quale se un tubo orizzontale con i due orifizi diseguali è collegato a un serbatoio verticale, la velocità con cui il fluido è in grado di fuoriuscire è inferiore a quella con cui può entrare, e che la differenza tra le due velocità fa sì che venga esercitata una pressione contro le pareti del tubo. Ipotizzando queste quantità nel caso di un'arteria, Sauvages calcolò che se dividessimo la forza complessiva che spinge il sangue nell'arteria in 400 parti, 399 di queste eserciterebbero una pressione sulle pareti delle arterie.
Con questa e altre applicazioni dei principî di idrodinamica di Bernoulli, Sauvages illustrò sia le potenzialità che i limiti del contributo della meccanica del XVIII sec. allo studio dei processi fisiologici. Egli dimostrò che non è sufficiente analizzare processi fisici come moti, ma bisogna anche considerare la natura delle forze che li alimentano. La vis viva di Leibniz, gli esperimenti di Hales e le leggi dell'idrodinamica offrirono importanti strumenti per l'analisi di quei sistemi fisiologici conosciuti che apparivano più evidentemente meccanici, i movimenti del cuore, dei vasi sanguigni e del sangue. Sulla base del lavoro precedente di Borelli, Keill e altri, Bernoulli e il suo seguace Sauvages rappresentarono uno dei punti più alti dell'approccio 'geometrico' alla circolazione, ma questa impostazione aveva già suscitato forti resistenze.
Una delle critiche più devastanti venne nel 1749 da Jean-Baptiste Sénac (1693-1770), medico del re di Francia. "La fisica del corpo umano", scriveva Sénac nel Traité de la structure du coeur, è un "campo pieno di ostacoli". Non è sufficiente calcolare, osservava, ma bisogna prima "sapere se quello che si calcola può essere calcolato". Non aveva pertanto senso cercare di quantificare la forza del cuore, perché non era costante. L'origine di questa forza era ignota; la massa del sangue era sconosciuta e la velocità del flusso variava da un punto all'altro. Per calcolare la forza con cui il sangue esce dai ventricoli bisogna conoscere il diametro dell'aorta, ma quel diametro cambia durante la contrazione. La velocità con cui il sangue scorre attraverso un'arteria recisa non è necessariamente la stessa con cui esce dal cuore. Le difficoltà presentate da questo calcolo, concludeva dunque Sénac, sono insormontabili.
Il suo scetticismo era condiviso anche dal maggiore fisiologo della metà del XVIII sec., Albrecht von Haller (1708-1777). Quest'ultimo condusse esperimenti per più di vent'anni sul movimento del sangue nelle arterie e nelle vene e sulle cause del movimento del cuore. Nei suoi primi esperimenti usò metodi simili a quelli di cui si era servito William Harvey (1578-1657) per studiare la circolazione, ma nel 1743 cominciò a osservare il flusso dei corpuscoli del sangue visibili al microscopio attraverso le piccole arterie e le vene del mesenterio delle rane. Haller notò alcuni fenomeni ancora sconosciuti, come il fatto che la pulsazione delle arterie si estende fino alle ramificazioni più piccole, e che i corpuscoli scorrono in modo fluido e non in piccoli vortici, come qualcuno aveva sostenuto. Quelli vicini al centro del vaso sanguigno sembravano muoversi più rapidamente di quelli vicini alle pareti; quando il movimento generale rallentava, il movimento all'interno dei piccoli vasi diventava oscillatorio o intermittente. Haller scoprì anche che "il sangue è molto più lento nei piccoli vasi di quanto credano i geometrici". Attraverso il microscopio, i corpuscoli sembravano muoversi con altrettanta rapidità nelle ultime ramificazioni visibili che nelle più grandi arterie mesenteriche. Il fatto che queste osservazioni fossero in conflitto con l'ipotesi di Keill, secondo la quale nei vasi più piccoli il sangue si muoveva a una frazione della velocità con cui scorreva in quelli più grandi, fece concludere a Haller che le prove offerte dai fatti sono superiori a quelle basate sulle teorie.
Sebbene Haller vedesse i singoli movimenti del cuore come li avevano visti i suoi predecessori, le sue dottrine sull'irritabilità e la sensibilità implicavano un'interpretazione della causa del battito cardiaco che rompeva con le teorie prevalenti all'epoca. Essendo il cuore irritabile, la sua capacità di contrarsi era intrinseca. A partire dai suoi stessi esperimenti e da quelli di altri, dimostrò che il cuore continua a battere anche dopo che le numerose terminazioni nervose che lo innervano sono state recise. È anche possibile far riprendere a battere cuori che erano stati estratti dal corpo. La conclusione di Haller che il normale stimolo alla contrazione è dato dal sangue che entra nel cuore, e che l'origine della sua forza risiede in questo, costituì una grande sfida alle convinzioni dei suoi predecessori secondo i quali il cuore trarrebbe la sua forza dal 'fluido nervoso'.
Il contrasto tra l'approccio alla circolazione di Haller e quello di Bernoulli o Sauvages mette in luce una fondamentale divergenza che si è spesso riproposta nella storia della fisiologia. Come Sénac, Haller credeva che fosse necessario studiare la struttura e il funzionamento del cuore, delle arterie, delle vene e del sangue in gran dettaglio, prestando attenzione ai numerosi cambiamenti di condizioni che influiscono su questo funzionamento. I 'geometrici', d'altro canto, importavano dalla meccanica contemporanea la ben nota pratica di semplificare la complessa realtà dei meccanismi fisici concreti riportandoli a 'modelli' idealizzati che si prestavano all'analisi quantitativa. L'abisso che separava Bernoulli e Sauvages da Sénac e Haller non era quindi dovuto a un conflitto filosofico sulla natura dei processi vitali, ma a una diversa esperienza e prospettiva sulla disciplina. Haller, che era un abile anatomista e sperimentatore, accettava l'idea che il sistema circolatorio fosse un meccanismo, ma non vedeva i meccanismi nello stesso modo in cui li vedeva un matematico come Bernoulli.
Nel 1768, Lazzaro Spallanzani (1729-1799) sviluppò lo studio della circolazione al microscopio iniziato da Haller, osservando i movimenti dei corpuscoli del sangue in una salamandra sezionata in modo tale da permettergli di seguire il flusso del sangue lungo tutto il suo percorso, dal cuore attraverso l'aorta e le ramificazioni minori fino ai vasi sanguigni più minuscoli che collegano le arterie alle vene, e poi indietro attraverso ramificazioni sempre più grandi fino ai maggiori tronchi venosi. Questo metodo avrebbe permesso, secondo Spallanzani, di migliorare i risultati di Haller, le cui osservazioni si erano limitate alle arterie e alle vene di medie dimensioni. Spallanzani calcolò, inoltre, la velocità del sangue a vista, confrontando quella delle diverse arterie e vene, e valutando quando era uniforme, quando aumentava o diminuiva. Egli non constatò una grande diminuzione della velocità del sangue nel passaggio dai vasi sanguigni più grandi a quelli più piccoli e giunse alla conclusione, in modo ancora più deciso di Haller, che "le leggi dell'idraulica non dovrebbero essere trasferite ai corpi animati se non sono confermate dagli esperimenti".
L'opinione di Spallanzani su questa e altre controverse questioni concernenti la circolazione scatenò una vigorosa risposta da parte di Georg Prochaska (1749-1820), professore di medicina a Vienna. Sebbene le variazioni di numero, dimensioni e percorsi delle arterie nelle varie parti del corpo facessero variare la velocità del sangue in un modo che non era possibile calcolare, sosteneva Prochaska, questa velocità doveva comunque essere inversamente proporzionale alla capacità dei vasi. La velocità doveva, cioè, diminuire in proporzione all'aumento di capacità delle ramificazioni e aumentare di nuovo andando dalle ramificazioni ai tronchi venosi principali. Poiché l'intera capacità delle vene era quattro volte superiore a quella delle arterie, la velocità complessiva del sangue venoso doveva essere un quarto di quella del sangue arterioso. Le osservazioni del sangue al microscopio condotte da Haller, concludeva Prochaska, confermavano questa regola generale, e le affermazioni contrarie di Spallanzani erano dovute al fatto che egli aveva cercato di generalizzare a partire da casi particolari.
La disputa mai risolta tra Spallanzani e Prochaska riflette lo stato incompleto degli studi sulla circolazione alla fine del XVIII secolo. I problemi centrali erano stati posti in modo chiaro, molti esperimenti ingegnosi e ragionamenti teorici erano stati applicati al problema, ma non erano state trovate risposte definitive. Queste ricerche, tuttavia, costituivano progressivi passi avanti, in cui ognuno riprendeva il problema da dove lo avevano lasciato i suoi predecessori. Anche se nel corso del secolo le ricerche importanti non furono numerose, molti furono quelli che parteciparono al dibattito e al lavoro sperimentale, apportando piccole aggiunte, appoggiando o mettendo in discussione le conclusioni delle personalità di maggior rilievo.
I limitati progressi dei fisiologi del XVIII sec. non erano dovuti ai dubbi di carattere vitalistico sulla natura meccanica della circolazione, né a un numero insufficiente di ricercatori, ma ai problemi tecnici presentati dalla sperimentazione, e alle scarse risorse teoriche che la meccanica e l'idrodinamica contemporanea potevano offrire. I fisiologi del XIX sec. partirono dalle stesse idee e osservazioni generali sulla circolazione che avevano guidato i loro predecessori, ma riuscirono a superarli solo quando inventarono nuovi strumenti capaci di misurare la velocità del sangue con maggiore facilità e precisione. Essi furono in grado di progredire dal punto di vista teorico solo quando una nuova idrodinamica fornì loro concetti, come la teoria delle onde, che potevano spiegare la propagazione della pulsazione arteriosa in modi non accessibili ai fisiologi del XVIII secolo. Nel XIX sec., lo studio della circolazione non partì da zero, ma fu un'indagine più vigorosa e accelerata sugli stessi problemi che erano stati ben definiti e seriamente affrontati per quasi due secoli.
Il sistema nervoso fu oggetto di un'intensa attività sperimentale per tutto il XVIII secolo. A livello generale, il rapporto tra forma e funzione era più evidente nel caso del sistema nervoso che in qualsiasi altro tipo di organizzazione interna del corpo animale. Le funzioni a esso attribuite ‒ sensibilità, movimento e attività mentale ‒ sono anche le percezioni più immediate che un essere ha della propria esistenza vitale. Dai tempi dei medici ellenistici di Alessandria, che scoprirono il collegamento tra il cervello, il midollo spinale e le terminazioni nervose periferiche, era chiaro che questi elementi anatomici formavano un sistema che sovrintendeva alle tre funzioni suddette. I nervi collegavano il cervello ai muscoli che muovevano il corpo, e agli occhi, alle orecchie, al naso, alla lingua e alla pelle che erano palesemente i primi recettori dei cinque sensi. Che in qualche parte del cervello ci fosse un luogo dove le sensazioni si raccoglievano, e da dove la volontà dirigeva le azioni del corpo, si poteva inferire quasi direttamente dall'organizzazione anatomica generale del sistema. Anche il modo in cui la sperimentazione poteva ulteriormente spiegare alcune di queste funzioni era sempre stato evidente, almeno dai tempi di Galeno: se si recideva o asportava una porzione del sistema nervoso di un animale vivo si poteva avere un'immediata indicazione delle aree di sensibilità e dei movimenti che dipendevano da quella porzione. Per tali operazioni e interpretazioni funzionali non era richiesto l'intervento di alcuna teoria fisica.
A livello più profondo, l'interpretazione funzionale del sistema nervoso si rivelava più elusiva. Come venivano trasmesse le sensazioni dagli organi di senso al cervello attraverso i nervi, e come venivano inviati gli ordini dal cervello ai muscoli che dovevano eseguire le sue 'istruzioni'? In questo caso, la risposta dell'Antichità era che gli 'spiriti animali' si formavano nel cervello grazie a una trasformazione delle parti più sottili del sangue che scorrevano attraverso i nervi fino ai muscoli. Per gli Antichi, il passaggio dal materiale all'immateriale era graduale, e gli spiriti animali potevano avere attributi sia psichici sia fisici. Nel XVII sec., tuttavia, Descartes separò il mondo della materia da quello del pensiero, e i fisiologi che gli succedettero nel corso del XVII e XVIII sec. cercarono di fornire una nuova interpretazione degli spiriti animali che fosse compatibile con la nuova visione del mondo.
L'opposizione filosofica svolse un ruolo più importante nelle ricerche sul sistema nervoso che non in quelle sulla circolazione. L'ipotesi che il sistema nervoso fosse un meccanismo era molto meno dimostrabile, ed era contestata da coloro i quali ritenevano che l'anima risiedesse nel cervello e ne dirigesse le azioni. Il sistema nervoso fu il terreno di scontro e di accanito dibattito tra sostenitori dell''uomo macchina' da una parte e animisti e vitalisti dall'altra. Anche in questo caso, comunque, i tentativi di rafforzare l'una o l'altra teoria con prove empiriche contribuirono a una progressiva e sempre più condivisa comprensione delle caratteristiche funzionali del sistema nervoso e dei suoi componenti.
René Descartes, Thomas Willis e Niels Steensen
Tre figure del XVII sec., René Descartes (1596-1650), Thomas Willis (1621-1675) e Niels Steensen (Stenone, 1638-1686), stabilirono i nodi fondamentali che la ricerca avrebbe mantenuto nel secolo successivo e oltre. Descartes riportava i nervi, il cervello e gli spiriti animali al modello meccanico delle funzioni che attribuiva loro. Quando il sangue sale al cervello, le sue particelle più piccole e agitate cessano di essere sangue per divenire spiriti animali che si dirigono verso una ghiandola situata nella cavità centrale del cervello. Questa ghiandola li indirizza verso appropriate terminazioni nervose aperte, che consistono in tubicini cavi attraverso i quali gli spiriti animali fluiscono verso i muscoli corrispondenti. Una volta raggiunti, grazie a una serie di valvole, gli spiriti gonfiano e sgonfiano i muscoli facendoli accorciare o allungare. Con questa ardita teoria, gli 'spiriti animali', un tempo concepiti come psichici e quasi immateriali, divenivano particelle caratterizzate, come tutta la materia, dalle loro dimensioni e dal loro movimento in relazione ad altre particelle. Solo quando entravano in contatto con la piccola ghiandola, queste particelle materiali rappresentavano in qualche modo le 'idee' dell'anima razionale.
Mentre l'anatomia di Descartes era assolutamente schematica, le teorie di Willis sul funzionamento del cervello e del sistema nevoso erano legate alle più accurate descrizioni verbali e ai più dettagliati disegni dell'architettura del cervello conosciuti nel XVII secolo. Invece di asportare il cervello dalla scatola cranica per strati successivi, come avevano fatto i suoi predecessori, Willis, con l'aiuto dell'anatomista Richard Lower (1631-1691), asportò delicatamente l'intero cervello, rimosse le membrane che lo ricoprivano e poi separò e 'schiuse' gli emisferi cerebrali e le due parti del cervelletto per scoprire le caratteristiche principali del tronco cerebrale, compresi i punti di attacco dei nervi cranici, il percorso dei vasi sanguigni e i grandi seni venosi. A partire da questa base anatomica, Willis cercò di individuare le diverse parti del cervello che sovrintendono alle sue varie funzioni. La corteccia cerebrale, pensò, serve alla produzione degli spiriti animali, la sostanza midollare al loro 'esercizio e distribuzione'. A partire da lì, gli spiriti scorrono attraverso il midollo allungato fino alle terminazioni nervose di tutto il corpo. Egli riteneva che la funzione del cervelletto fosse assolutamente distinta da quella del cervello. Gli spiriti animali che vengono lì generati alimentano i nervi associati alle azioni involontarie, come la respirazione, il battito cardiaco e la digestione. Questi spiriti defluiscono soprattutto nel quinto, sesto, settimo e ottavo nervo cranico, le cui ramificazioni innervano gli organi del torace e le viscere addominali. La concezione generale di Willis del cervello come una serie di fasci che servono da canali di comunicazione tra le sue parti, sopravvisse a lungo alla sua indicazione dei percorsi lungo i quali scorrono gli spiriti animali. Diversamente da Descartes, egli riteneva che gli spiriti animali fossero simili ai prodotti delle operazioni chimiche ed erano 'distillati' o 'sublimati' dal sangue. Spesso le sue descrizioni degli spostamenti degli spiriti animali lungo le 'vie maestre' del cervello e del sistema nervoso erano più allegoriche che letterali.
Nel suo trattato sui nervi, Willis non fa quasi mai distinzione tra 'descrizione' e 'uso'. Se la funzione generale degli spiriti animali è quella di "compiere gli atti sia della facoltà sensitiva che di quella motoria" in tutte le parti del corpo in cui i nervi sono distribuiti, l'uso di ogni particolare nervo coincide con la descrizione delle parti alle quali le sue ramificazioni sono collegate. Willis era molto esaustivo nelle sue descrizioni, e prestava particolare attenzione ai molti collegamenti e ramificazioni del nervo "intercostale" (simpatico), e del nervo "vagante" (vago), primi organi di trasmissione delle azioni involontarie controllate dal cervelletto. A questo livello, forma e funzione erano la stessa cosa. Willis si rendeva conto, tuttavia, che la forma visibile dei tronchi nervosi, a livello più profondo, contrastava con la funzione nervosa. La caratteristica struttura ramificata dei nervi era incompatibile con il fatto che il cervello non percepisse le sensazioni provenienti dai singoli organi di senso mescolate tra loro, e che fosse capace di dirigere il movimento di ogni singolo muscolo. Di conseguenza, era necessario ipotizzare l'esistenza di fibre nervose più piccole e non osservabili, la cui organizzazione era fondamentalmente diversa da quella dei nervi visibili. Queste fibre dovevano essere distinte e separate le une dalle altre lungo tutto il percorso.
Sebbene alcune delle sue idee sulla collocazione e la natura delle funzioni del cervello e dei nervi fossero fantasiose, le teorie di Willis aprirono una 'nuova epoca', perché le funzioni da lui ipotizzate potevano essere studiate sperimentalmente, come fecero i suoi successori. Le sue teorie sul cervello, sul cervelletto, sul midollo spinale e sui nervi involontari indirizzarono l'attività di ricerca sul sistema nervoso fino alla metà del XVIII secolo.
Stenone non suggerì alcuna ipotetica funzione da controllare sperimentalmente, né una struttura anatomica complessiva del sistema nervoso. Acquistò fama di abile anatomista soprattutto grazie alle sue dimostrazioni pubbliche e a una dissertazione che era essenzialmente una sistemazione critica delle conoscenze dei suoi contemporanei sul cervello, la Dissertatio de cerebri anatome. Descartes, scriveva Stenone, aveva descritto una "bellissima macchina inventata da lui stesso", ma molto diversa da quello che possiamo dedurre dall'anatomia del corpo umano. Gli errori che affliggevano la visione del cervello di Willis, secondo Stenone, erano dovuti alla difficoltà di sezionare i suoi delicati componenti, ma anche alla superficialità dei procedimenti usati. Egli invocava maggiori rigore e varietà di metodi di dissezione. Anche se non forniva descrizioni verbali del cervello stesso, la serie di disegni che accompagnavano la sua dissertazione, che includeva un'innovativa sezione sagittale, dimostra che la conoscenza che aveva della sua struttura era sorprendentemente accurata. Si ritiene che Stenone abbia esercitato una straordinaria influenza sui successivi studi sul cervello, sia per aver denunciato alcune delle fantasie del suo tempo sia per aver invocato la necessità di ulteriori ricerche. All'inizio del XVIII sec. la sua dissertazione veniva ancora considerata così importante che il noto anatomista parigino Jacques-Bénigne Winslow (1669-1760) la ripubblicò nel 1732.
Albrecht von Haller e Robert Whytt
Negli ultimi anni del XVII sec. e per buona parte del XVIII, una serie di fisiologi e chirurghi sottopose a verifiche sperimentali le teorie di Willis e di altri autori sulle funzioni del cervello, concentrandosi in modo particolare sulla funzione che Willis aveva attribuito al cervelletto. Se questo fosse stato veramente l'origine delle azioni involontarie, la sua distruzione avrebbe dovuto causare immediatamente la morte dell'animale perché la respirazione e il battito cardiaco si sarebbero fermati. Diversi sperimentatori ottennero risultati che sembravano confermare la correttezza di questa conclusione, altri, tuttavia, scoprirono che gli animali continuavano a vivere, almeno per un breve periodo di tempo, anche dopo la perdita del cervelletto. Nel 1760, il medico francese Anne-Charles Lorry (1725-1785) riconosceva ormai che questi risultati contraddittori riflettevano l'inadeguatezza delle tecniche usate. Era quasi impossibile distruggere una specifica struttura all'interno del cervello senza danneggiare le aree contigue o causare massicce emorragie. Problemi simili rendevano gli esperimenti di rimozione del cervelletto anche meno significativi.
Dalla constatazione sperimentale che gli animali possono sopravvivere per un breve periodo anche dopo la rimozione del cervelletto o del cervello, Lorry dedusse che l'unica altra struttura del cervello in grado di produrre la morte immediata è il midollo allungato. Egli scoprì che i cuccioli di cane e di gatto continuano a respirare dopo la rimozione di quella parte del cervello, ma che se si fora il midollo spinale tra la prima e la seconda, o tra la seconda e la terza vertebra cervicale, si verificano violenti spasmi, l'animale smette di respirare e muore nel giro di pochi minuti. La zona all'interno della quale si può ottenere questo effetto è molto limitata. Quello di Lorry è stato da allora considerato il primo esperimento decisivo per la localizzazione delle funzioni nell'ambito del sistema nervoso centrale.
Le spiegazioni delle funzioni che avevano soddisfatto Descartes e Willis e i loro immediati successori semplicemente perché erano conformi alle teorie meccaniche o chimiche del tempo non erano facilmente accettate dai ricercatori del XVIII sec., che cercarono di verificarle con prove sperimentali e osservazioni patologiche. Tra gli studiosi che contribuirono maggiormente all'introduzione di standard più rigorosi, sia attraverso esperimenti sia con l'analisi accurata dei lavori precedenti, ci fu Albrecht von Haller. Nel tentativo di comprendere se fosse mai stato dimostrato che una specifica parte del cervello è all'origine delle sensazioni e del movimento, Haller appurò che numerose osservazioni sulle lesioni cerebrali avevano dimostrato che una persona può sopportare la perdita di grosse porzioni del cervello conservando le proprie facoltà sensoriali e motorie. Egli riteneva che alcune teorie specifiche, come quella secondo la quale la sede delle sensazioni e del movimento sarebbe il corpo calloso, fossero assolutamente infondate. Il cervelletto, poi, non differisce affatto dal cervello, nel senso che una grave lesione all'uno o all'altro porta alla morte, mentre lesioni minori possono essere sopportate. A causa di queste sue opinioni, Haller è stato considerato da alcuni storici un oppositore della localizzazione, una tale interpretazione, tuttavia confonde il rifiuto della dottrina specifica di Willis sulla funzione del cervelletto con un più ampio rifiuto di una localizzazione delle funzioni cerebrali. Mostrando una considerevole capacità di intuizione, Haller separò il problema riguardante l'individuzione delle parti essenziali alla vita dal problema relativo alle funzioni svolte da ciascuna di esse. Non era fondamentalmente contrario all'idea che le parti del cervello svolgessero funzioni diverse, e presumeva, anche senza prove sperimentali decisive, che il cervello e il cervelletto avessero ruoli diversi.
La sopravvivenza ancora nel XVIII sec. dell'antica idea che fossero gli spiriti animali a trasmettere le sensazioni e il movimento attraverso il sistema nervoso era dovuta in buona parte alla mancanza di un'alternativa accettabile. Fatta eccezione per i seguaci di Stahl, che aggiravano il problema consentendo all'anima di controllare direttamente tutte le funzioni del corpo, per tutti gli altri rimaneva centrale il problema di che cosa permettesse ai nervi di ricevere impressioni e trasmettere movimenti. Coloro che continuavano a invocare gli spiriti animali non confermarono le spiegazioni proposte nel XVII sec., ma le sostituirono con le analogie meccaniche o chimiche del XVIII. Coloro che rifiutavano gli spiriti animali ricorsero all'idea che sensazioni e movimenti venissero trasmessi lungo i nervi nello stesso modo in cui le vibrazioni vengono trasmesse lungo una corda tesa.
Haller liquidò facilmente le teorie che paragonavano la propagazione delle sensazioni e dei movimenti lungo i nervi alla vibrazione delle corde, sulla base del fatto che i nervi non sono né tesi, né duri, né elastici. L'unico modello alternativo era quello del moto dei fluidi, come per la circolazione. Il fatto che i nervi non fossero visibilmente cavi, e che non esistesse alcuna prova evidente dell'esistenza di tubuli nervosi, non escludeva che un fluido potesse trasmettere impressioni ricevute sotto forma di pressione, percepite poi dal cervello come sensazioni. In seguito, Haller ipotizzò anche le proprietà che tale fluido avrebbe dovuto avere: doveva essere molto mobile, straordinariamente poco denso e non avere alcun particolare sapore, odore, colore o calore. Questi requisiti escludevano tutti i fluidi conosciuti. L'etere sembrava un'ipotesi migliore. Questo fluido invisibile era già stato invocato per spiegare la luce, il peso e l'attrazione. Alcuni poi ritenevano che la materia elettrica, a causa della sua grande velocità di conduzione, fosse identica al fluido nervoso, ma Haller considerava inadatti entrambi questi modelli, perché essi attraversano tutti i corpi e non possono essere confinati ai nervi.
Avendo escluso tutte le sostanze note o ipotizzate, Haller poté soltanto riassumere le proprietà che il fluido doveva possedere: agire con insolita rapidità, risultare troppo rarefatto per essere percepito dai sensi, ma più denso del fuoco o della materia elettrica, perché poteva essere contenuto entro determinati confini. "Che cosa ci impedisce", chiedeva Haller, di dire che "anche questo è un elemento speciale […] conosciuto solo grazie ai suoi effetti?". Stava in realtà invocando un nuovo 'fluido sottile', una soluzione tipica del pensiero della metà del XVIII secolo. Avendo eliminato tutte le altre alternative plausibili, non gli rimaneva altro da fare che proporre un fluido fino ad allora sconosciuto, peculiare del sistema nervoso; ma si trattava di un fluido conforme ai canoni della fisica del tempo, che non metteva in contrapposizione proprietà vitali e non vitali. L'anima era ancora presente nella fisiologia di Haller, ma era confinata al cervello. Come Descartes, egli apriva il più possibile il sistema nervoso all'analisi fisica, ma diversamente da lui, lo faceva senza ridurre l'intero animale a una macchina.
La fondamentale ricerca di Haller sulle "parti sensibili e irritabili" del corpo animale ridefinì il rapporto tra sistema nervoso e movimento muscolare e spostò il livello di esplorazione dall'organizzazione anatomica del sistema nervoso alle proprietà dei suoi componenti. Secondo Haller, l'aspetto più importante dei suoi studi era il fatto che fossero rigorosamente sperimentali. Nel presentare il suo lavoro sottolineava di aver moltiplicato e ripetuto gli esperimenti per evitare gli errori in cui si può facilmente cadere facendo pochi esperimenti o non facendoli affatto. Il punto di partenza della sua indagine, come la presentò nel 1752, erano le sue definizioni di sensibilità e irritabilità.
Definisco irritabile quella parte del corpo umano che si accorcia quando viene toccata; la definisco molto irritabile se si contrae anche al tocco più leggero, e il suo contrario se si contrae poco quando viene toccata in modo violento.
Definisco sensibile quella parte del corpo umano che, essendo stata toccata, trasmette questa impressione all'anima, e negli esseri bruti, in cui l'esistenza di un'anima non è chiaramente dimostrata, chiamo sensibili quelle parti la cui irritazione provoca evidenti segni di dolore e di inquietudine nell'animale. Viceversa, definisco insensibili quelle che bruciate, strappate, punte o recise fino quasi a distruggerle, non producono alcun segno di dolore o convulsione, né determinano alcun cambiamento nel corpo. (Haller, A dissertation on the sensible and irritable parts of animals, ed. Temkin, pp. 8-9)
François Duchesneau e altri studiosi hanno analizzato attentamente i profondi interrogativi sollevati dalle ricerche di Haller sul materialismo, sul vitalismo, sulla teologia, sul modello newtoniano del metodo scientifico e su altre questioni metafisiche. Duchesneau ha sottolineato come Haller abbia intrapreso questi esperimenti con la convinzione teorica a priori che la suddivisione espressa in queste definizioni esistesse, in contrasto con l'ipotesi diffusa all'epoca che le proprietà basilari della materia vivente fossero comuni a tutte le parti del corpo (Duchesneau 1982). Se queste definizioni costituirono effettivamente il punto di partenza di Haller, gli esperimenti consistevano semplicemente nel ripetere le prove su tutte le parti identificabili degli animali al fine di scoprire quali mostrassero una o l'altra proprietà, e l'ordine degli esperimenti non era importante. In questa forma Haller presentò i risultati nella sua prima pubblicazione sull'argomento. Tuttavia, da un secondo trattato, nel quale pubblicò gli esperimenti registrati nei suoi diari con l'indicazione delle date in cui furono compiuti, possiamo almeno parzialmente ricostruire il suo percorso di ricerca. Questo documento induce a ritenere che il corso effettivo delle ricerche fu molto diverso da quello che si poteva dedurre dalla sua presentazione dei risultati. Buona parte degli esperimenti era stata condotta in momenti diversi tra il 1731 e il 1749. Analizzando questi esperimenti si evince che Haller stava esplorando quegli stessi problemi, riguardanti le funzioni delle parti del cervello, del midollo spinale e dei nervi, di cui molti altri si erano occupati fin dai tempi di Willis.
Sebbene alcuni dei risultati potrebbero già far pensare agli ulteriori sviluppi della sua concezione, non esistono prove del fatto che si fosse concentrato sulla distinzione tra irritabilità e sensibilità, né che avesse già preso in considerazione il fatto che un muscolo può contrarsi indipendentemente dall'impulso trasmesso dal relativo nervo.
Il 23 novembre 1750, Haller registrava un esperimento condotto su un gatto: "Ho irritato il tendine di Achille scoperto: l'ho inciso con un bisturi e l'ho strappato. L'impaziente e vivace animale non ha mostrato alcun segno di dolore, mentre ha reagito violentemente ed emesso forti grida ogni volta che gli pizzicavo o ferivo la pelle". Il modo drammatico in cui Haller descrisse questo evento non era casuale. I tendini erano sempre stati considerati talmente sensibili che i chirurghi li operavano con grande trepidazione. Nei giorni successivi, avrebbe condotto una serie di esperimenti per vedere se i legamenti, le capsule delle articolazioni e il periostio fossero sensibili, ottenendo tutti risultati negativi. Queste osservazioni sembrano rappresentare una svolta importante nelle ricerche di Haller. A partire da quel momento, fino alla pubblicazione della sua prima dissertazione, avrebbe continuato a fare esperimenti senza sosta.
È evidente che fu proprio in conseguenza della sua sorprendente scoperta sull'insensibilità del tendine di Achille che Haller formulò, o cominciò a concepire, il progetto di esaminare in modo sistematico le parti del corpo animale per stabilire quali fossero sensibili, quali irritabili, e quali non fossero nessuna delle due cose. Il brusco cambiamento nell'intensità e nel raggio delle sue ricerche fa pensare a un rinforzo reciproco tra esperimenti e obiettivi, piuttosto che a un'indagine guidata fin dall'inizio dallo stesso impianto concettuale che Haller aveva ormai acquisito quando presentò le sue conclusioni. Questa interpretazione spiegherebbe anche il maggior ruolo attribuito alla sperimentazione in alcuni recenti testi filosofici. Mentre in passato, soprattutto sotto l'influsso di Karl Raimund Popper, gli esperimenti erano stati essenzialmente relegati al ruolo di verifica di teorie precedentemente formulate, da qualche tempo si comincia a vedere la sperimentazione come un'attività dotata di una vita propria, come un'avventura e un'esplorazione aperta, alla quale viene attribuito un ruolo più formativo nella costruzione degli impianti teorici.
Nella sua dissertazione sulle parti sensibili e irritabili degli animali, pubblicata nel 1752, Haller applicò lo schema che aveva ormai costruito a tutti gli esperimenti precedenti che ora sapeva di potervi inserire. La pelle era la parte più sensibile del corpo. Fornì prove sperimentali del fatto che la sensibilità dei muscoli è dovuta ai nervi piuttosto che ai muscoli stessi. Dedicò buona parte della discussione all'insensibilità dei tendini, dei legamenti e delle membrane, non soltanto perché le sue osservazioni rimettevano in discussione le comuni teorie, ma anche a causa dell'importanza pratica della scoperta ai fini della chirurgia. Passando all'irritabilità, formulò la generalizzazione che le parti più irritabili non sono sensibili, e viceversa. Dimostrò l'indipendenza dell'irritabilità dei muscoli dai nervi provando che le fibre muscolari sono ancora in grado di contrarsi anche dopo che i loro nervi sono stati recisi o legati.
Nel suo Essay on the vital and other involuntary motions of animals, pubblicato nel 1751, un anno prima della dissertazione di Haller, Robert Whytt (1714-1766), professore presso gli istituti di medicina dell'Università di Edimburgo, scriveva che diversi fisiologi avevano ipotizzato la presenza di un'energia latente nelle fibre muscolari degli animali, alla quale dovevano essere attribuiti i loro movimenti in risposta a un'irritazione, ma che questa opinione era solo il rifugio degli ignoranti. Uno dei fisiologi ai quali Whytt si riferiva era Haller, le cui opinioni gli erano note grazie agli scritti del loro comune maestro Herman Boerhaave (1668-1738).
Tra i moti vitali, Whytt includeva la respirazione e le contrazioni cardiache, due attività continue ed essenziali per la vita. I moti involontari, come quelli dello stomaco e degli intestini, il movimento dell'iride dell'occhio, o le contrazioni della vescica, si verificano soltanto quando questi organi sono stimolati ad agire. Whytt sosteneva che tutti questi moti sono reazioni a stimoli che non possono essere spiegate come effetti meccanici o come forze insite nella costituzione delle fibre dell'organo interessato. Tra i molti esempi che citava, uno dei più significativi era quello della pupilla dell'occhio. L'iride si contrae non a causa di un'azione meccanica sulla pupilla, ma in risposta allo stimolo prodotto dalla luce sulla retina. L'azione è indiretta, passa attraverso il cervello ed è mirata a ridurre lo stimolo prodotto dalla luce eccessiva che colpisce la retina. In tutti i casi lo stimolo era considerato una 'sensazione sgradevole', che il movimento tendeva a eliminare o a ridurre. Gli stessi principî potevano essere applicati ai muscoli volontari. Gli effetti molto diversi dei vari stimoli che enumerava non sono spiegabili, dichiarava Whytt, con nessuna semplice teoria meccanica. La loro complessità, in aggiunta al fatto che mirano invariabilmente alla rimozione di una sensazione spiacevole, richiede un diverso tipo di principio esplicativo, che egli chiamava "principio senziente". Non si lasciava scoraggiare dall'osservazione che alcune parti del corpo, come il cuore, possono essere stimolate a muoversi anche dopo essere state separate dal corpo, perché perfino in quella condizione rimangono comunque dotate di un qualche tipo di vita e di sensibilità. Sebbene il principio senziente risieda nel cervello come l'anima, esso è presente al tempo stesso dovunque e in nessun luogo.
Whytt condusse alcuni esperimenti relativamente semplici a sostegno delle sue teorie, ma l'impianto principale della sua tesi lo costruì leggendo, commentando e traendo informazioni dagli scritti di altri anatomisti, fisiologi e medici. La sua decisa avversità a qualsiasi spiegazione meccanicistica delle funzioni in questione derivava chiaramente non soltanto da argomentazioni fisiologiche ma anche teologiche. Quando Haller pubblicò i risultati della sua ricerca sulle parti sensibili e irritabili, Whytt raddoppiò la sua opposizione per impedire che tali affermazioni fossero "accolte come verità". Tra le molte obiezioni che sollevò alla conclusione che anche parti prive di sensibilità possano essere irritabili, ci fu che l'irritabilità riscontrata da Haller in muscoli separati dai loro nervi è un effetto residuale dovuto a terminazioni nervose non individuate rimaste attaccate ai muscoli.
A sostegno della sua tesi secondo cui le contrazioni di muscoli separati dal cervello non dimostravano che la loro irritabilità fosse indipendente dall'energia trasmessa dai nervi, Whytt addusse un'osservazione che da allora ha attirato l'attenzione di molti storici: "il corpo di una rana, dopo essere stato separato dalla testa, conserva la capacità di movimento […] e quando le zampe posteriori o le dita vengono […] ferite, i muscoli delle cosce, delle gambe e del tronco si contraggono violentemente, tanto da far sollevare il corpo dal tavolo, e a volte da farlo muovere da un posto all'altro" (Physiological essays, 1755, pp. 172-173). Se si distrugge il midollo spinale, tuttavia, ogni movimento cessa.
Queste affermazioni hanno portato gli storici ad attribuire a Whytt il merito di aver anticipato il concetto ottocentesco di riflesso nervoso. Tuttavia, poiché lui stesso non ha mai espresso questo concetto, è stato necessario giustificare il posto che occupa nella storia della progressiva scoperta del riflesso nervoso con i suoi esperimenti sulle rane decapitate piuttosto che con la sua interpretazione delle osservazioni. Il modo casuale in cui Whytt era solito inserire osservazioni sperimentali nelle sue argomentazioni rende problematico capire quali di queste abbia condotto personalmente e quali abbia preso in prestito dal lavoro di altri. In questo caso l'ambiguità è particolarmente forte, perché oltre a questi passi, egli cita alcune pagine che Stephen Hales gli aveva scritto descrivendogli quasi esattamente lo stesso esperimento. Chiunque fosse il vero autore dell'esperimento riproposto da Whytt, la scoperta fatta nel XVIII sec. che una rana decapitata con il midollo spinale intatto può compiere movimenti coordinati e apparentemente finalizzati ebbe un ruolo importante nella successiva formulazione del concetto di azione riflessa.
Nel quarto volume del suo saggio sulla sensibilità e l'irritabilità, Haller reagiva vigorosamente alle obiezioni di Whytt, che attribuiva alla preoccupazione di quest'ultimo per le "opinioni degli stahliani". Sebbene sbagliasse a identificare le idee di Whytt con quelle di Stahl, Haller era nel giusto quando sosteneva che l'attacco di Whytt era motivato dalla sua avversità a qualsiasi principio materiale che muovesse il corpo umano. Se ci concentriamo sulle questioni concettuali implicate nella loro disputa, Haller e Whytt avevano raggiunto un'impasse a causa delle rispettive teorie sull'anima. Per Haller era evidente che una parte separata dal cervello non poteva rimanere sensibile, perché un essere umano o animale non poteva percepire quello che non arrivava alla sua mente. Whytt non aveva nessun problema a immaginare un'anima che fosse presente in tutte le parti del sistema nervoso, indivisibile eppure capace di sopravvivere anche in parti isolate purché in qualche modo ancora vive.
Secondo Haller, tuttavia, questi problemi non erano fondamentali. Whytt era uno dei tanti che avevano attaccato le sue conclusioni sulla base di presunti esperimenti che erano, dal suo punto di vista, insignificanti e viziati. La reazione principale fu quella di raccogliere un numero ancora maggiore di prove sperimentali che regolarmente confermavano i suoi risultati precedenti. Egli non solo continuò instancabilmente a condurre in prima persona esperimenti, ma divenne il fulcro di un gruppo di collaboratori e studiosi sparsi in tutta Europa, che conducevano esperimenti della stessa natura.
Quando pubblicò il suo quarto volume di saggi sull'argomento, Haller poteva ormai affermare di aver fornito il maggior numero di prove sperimentali mai presentate a sostegno di una verità fisica. Inoltre, la sua intenzione non era soltanto quella di sopraffare gli altri con il mero numero delle prove, ma anche di mostrare che la qualità dei suoi esperimenti era superiore a quella dei suoi avversari. L'abilità e l'esperienza chirurgica erano fondamentali quando si trattava di distinguere i nervi dai tendini che li affiancano, di legare un'arteria senza toccare i nervi, di scoprire la dura madre senza danneggiarla, o di distinguere le parti del peritoneo attraversate da nervi da quelle che non ne contengono. I suoi avversari, sosteneva, erano stati meno attenti nei loro esperimenti. Sebbene Whytt fosse stato abile nell'individuare i punti deboli della posizione di Haller, egli non era in grado di competere con lui per il livello raggiunto. Mentre Whytt aveva condotto dai venti ai trenta esperimenti, che descriveva esplicitamente, e aveva accennato a un certo numero di altri senza specificare chi li avesse condotti, Haller e i suoi colleghi avevano prodotto e pubblicato i dettagli di centinaia di esperimenti su ogni parte del corpo animale per provare la tesi della sensibilità, insensibilità e irritabilità. Nel corso di queste indagini avevano stabilito nuovi standard sia per la sperimentazione fisiologica sia per la presentazione dei risultati. Haller aveva creato un nuovo campo d'indagine sperimentale e una scuola di ricerca che mirava a svilupparlo ulteriormente.
Galvani e la scoperta dell'elettricità animale
Uno dei più interessanti tra gli 'halleriani' fu il fisiologo italiano Felice Fontana (1730-1805). Mentre era ancora studente, Fontana si era recato a Bologna per lavorare con Leopoldo Marc'Antonio Caldani (1725-1813), che insegnava medicina in quella città e stava ripetendo gli esperimenti di Haller sulla sensibilità e l'irritabilità per difendere le sue 'scoperte' dalle critiche che avevano suscitato. Caldani e Fontana avevano deciso in particolare di convincere gli scienziati italiani ancora dubbiosi. I loro sforzi miravano soprattutto a confermare la teoria di Haller secondo la quale i tendini e la dura madre del cervello sono insensibili.
Nel difendere il sistema di Haller, Caldani e Fontana lo svilupparono; nel tentativo di trovare conferma alla tesi di Haller secondo la quale le contrazioni del cuore sono causate dall'irritazione del sangue contenuto nelle sue cavità, fecero uscire tutto il sangue dai ventricoli. Dopo che i ventricoli ebbero cessato di battere, furono in grado di 'rianimare' la cavità sinistra. Ogni volta che pungevano la sua superficie interna con un ago, si verificava un'unica contrazione. Un testimone presente all'esperimento suggerì loro di usare l'elettricità. Quando Caldani toccava il cuore o gli si avvicinava semplicemente con una barretta di ferro carica di elettricità, l'organo si contraeva. Il nuovo metodo, riferiva, funzionava meglio di qualsiasi altro per irritare il cuore. In seguito, lui e Fontana scoprirono che un corpo elettrificato era anche il mezzo più efficace per irritare tutte le parti di una rana, vive o morte. Il motivo per cui la 'materia elettrica' causava contrazioni tanto più lunghe di altri mezzi, avrebbe spiegato più tardi Fontana, era che l'elettricità si diffondeva all'interno del muscolo e produceva gli stessi effetti degli spiriti animali.
Qualche decennio dopo, riflettendo sui suoi primi esperimenti sull'irritabilità, Fontana pensò che la scoperta di quella proprietà fosse di poca utilità per lo studio della 'fisica degli animali' se non si conoscevano le 'leggi' che regolavano il rapporto tra l'intensità e la durata della forza irritante e le contrazioni e i rilassamenti del corpo irritato. Nel 1775 pubblicò tre di queste leggi. La prima stabiliva che ogni contrazione di un muscolo richiede un nuovo stimolo. La seconda era che l'irritabilità non è una proprietà costante di una fibra muscolare ma può essere indebolita e riprendere soltanto dopo un certo periodo di tempo. La terza legge stabiliva che un muscolo che rimane contratto per molto tempo perde la sua irritabilità. Per ciascuna di queste leggi Fontana addusse come prove gli esperimenti condotti sugli animali nonché la sensazione soggettiva di affaticamento che gli esseri umani provano dopo uno sforzo.
Alcuni storici hanno considerato le leggi di Fontana sull'irritabilità come la scoperta e la dimostrazione dell'intervallo di refrattarietà della contrattilità muscolare. I suoi concetti e i suoi esperimenti erano meno accuratamente definiti del corrispondente concetto del XIX sec., ma dimostrano il dinamismo e la qualità della tradizione sperimentale avviata da Haller con il suo lavoro tra il 1730 e il 1752, e che i suoi successori non soltanto ripeterono ma superarono. Fedele alla teoria di Haller, Fontana rifiutò l'ipotesi, formulata a partire dagli esperimenti che dimostravano l'impareggiabile efficacia irritante dell'elettricità, secondo cui gli spiriti animali sarebbero un fluido elettrico. Quella scoperta, tuttavia, rafforzò le convinzioni di coloro che avevano accettato questa spiegazione e contribuì a fare del problema una delle principali controversie dei decenni successivi al 1760. Tra i vari sostenitori italiani della teoria in base alla quale il fluido elettrico poteva corrispondere al fluido rarefatto che si riteneva scorresse nei nervi, c'era anche Luigi Galvani (1737-1798), professore di anatomia all'Istituto di Arti e Scienze di Bologna. Alla fine del 1780, Galvani decise di affrontare il problema in modo sperimentale, verificando gli effetti delle cariche elettriche su un preparato di nervi e muscoli costituito dal midollo spinale di una rana attaccato alle due zampe posteriori. Variando sistematicamente i rapporti tra reazioni della rana, punto di applicazione e intensità della carica elettrica, inizialmente Galvani esplorò la situazione a livello di fenomeno, senza preoccuparsi se il fluido elettrico che causava la contrazione dei muscoli della rana fosse estrinseco o intrinseco ai nervi o ai muscoli dell'animale. Il 26 gennaio 1781 scoprì che i muscoli della rana si contraevano anche se si scaricava una macchina elettrica a qualche distanza dalla rana attraverso un conduttore non collegato al preparato; giudicò questo inaspettato fenomeno "meraviglioso". Più tardi, altre due scoperte inattese ‒ le zampe di una rana appese a un gancio in giardino si contraevano quando scoppiava un fulmine in lontananza, e si contraevano anche quando il muscolo e il nervo erano collegati tramite un arco conduttore costituito da due metalli ‒ portarono Galvani a concludere che gli animali contengono un'elettricità intrinseca, la cui scarica, come quella di una bottiglia di Leida, è all'origine della contrazione muscolare.
La scoperta di questa 'elettricità animale' scatenò un'intensa attività sperimentale in Italia e in altri paesi europei e spinse Alessandro Volta a quel riesame dei risultati di Galvani che lo avrebbe portato a scoprire la pila voltaica e a entrare nella famosa controversia con i seguaci di Galvani per stabilire se la fonte dell'elettricità fosse l'animale o il contatto tra i due metalli che costituivano l'arco.
Sulla base del resoconto sulla scoperta, fatto dallo stesso Galvani, gli storici hanno attribuito un ampio ruolo al caso. Di recente, tuttavia, ricostruendo il percorso sperimentale di Galvani a partire dai suoi taccuini di appunti di laboratorio, Marco Bresadola ha dimostrato che Galvani aveva studiato il problema in modo rigoroso e sistematico, controllando e variando le condizioni a ogni esperimento allo scopo di escludere alcune spiegazioni e rinforzarne altre (Bresadola 2002). Come Haller e i suoi seguaci, Galvani testimonia l'alto livello della sperimentazione nel campo della fisiologia raggiunto alla fine del XVIII secolo.
La nutrizione era stata vista per molto tempo come la funzione di un sistema di organi la cui struttura anatomica era già nota fin dall'Antichità. Il cibo che entrava in bocca iniziava lì una graduale trasformazione i cui stadi successivi erano determinati dalle strutture anatomiche attraverso le quali sarebbe passato e dai cambiamenti delle proprietà tangibili della materia. Nello stomaco il cibo veniva ammorbidito e mescolato, e alla fine veniva espulso nell'intestino tenue sotto forma di una massa molle e biancastra chiamata 'chimo'. Da lì veniva assorbito nelle vene del mesenterio per passare attraverso il fegato, dove subiva il suo ultimo stadio di conversione in sangue, la forma finale del fluido nutritivo. Il sangue veniva poi distribuito in tutto il corpo, dove era assimilato alle sostanze solide. La scoperta avvenuta nel XVII sec. dei vasi linfatici, che affluivano nel dotto toracico e da lì nel flusso sanguigno poco prima che questo entrasse nel cuore, aveva modificato il percorso tradizionale della nutrizione e, dal momento che questi vasi non passavano attraverso il fegato, aveva anche fatto perdere a quest'organo il suo ruolo tradizionale. In compenso, il nuovo sistema di vasi aggiungeva un ulteriore stadio intermedio al processo di conversione: durante la digestione, i vasi linfatici dell'animale si riempivano di un fluido lattiginoso, denominato 'chilo', le cui proprietà fisiche sembravano convenientemente una via di mezzo tra quelle del chimo e quelle del sangue.
Dai tempi di Aristotele, la natura materiale del processo nutritivo era stata compresa soprattutto per analogia con processi più familiari. L'analogia con la cozione, derivata dai trattati di Ippocrate, era rimasta quella prevalente fino all'inizio dell'epoca moderna. Nel XVII sec., con la nascita della chimica, nuove analogie, come quelle che paragonavano gli stadi della digestione alle interazioni tra acidi e alcali, o alle fermentazioni, entrarono in competizione con la cozione come categorie esplicative. Autori orientati verso il meccanicismo, come Descartes, avevano immaginato la digestione come la separazione del cibo in particelle sufficientemente piccole da poter essere assorbite dal sangue attraverso i pori dello stomaco e dell'intestino.
Alla metà del XVIII sec., questa situazione restava ancora immutata. Nei suoi manuali, dove trattava in maniera estesa di questi processi, Haller aveva descritto nei minimi dettagli la struttura anatomica dello stomaco, dell'intestino e dei sistemi a essi associati che li rendevano adeguati a partecipare alla preparazione del sangue a partire dal cibo, ma non aveva detto nulla di conclusivo sulle 'cause della digestione'. Riesaminando le varie possibilità, tra cui quella dei 'fluidi maceranti', quella della 'putrefazione', della 'frizione' e degli 'effetti del calore', Haller era riuscito soltanto a dire che ognuno di questi fattori poteva svolgere un ruolo nel processo.
Nel 1752, il versatile accademico francese René-Antoine Ferchault de Réaumur (1683-1757) decise di appurare con una serie di esperimenti come avvenisse la digestione nello stomaco. Il problema come lo definì Réaumur era stato posto per la prima volta da Borelli nel 1680. Secondo quest'ultimo, le pareti interne dello stomaco degli uccelli dotati di stomaci muscolosi, trituravano il cibo come macine. Per analogia con la forza necessaria alla mascella umana per frantumare cibi duri come le noci, congetturò quanta forza questi stomaci dovessero esercitare. Riteneva invece che gli animali con stomaci membranosi digerissero la carne e le ossa con l'aiuto di un potente fermento, che agiva come un acido che scioglie un metallo. Ottant'anni più tardi, gli studiosi erano ancora divisi tra coloro che pensavano che la digestione avvenisse per 'triturazione' (frantumazione o frizione) e coloro che l'attribuivano all'azione di un solvente.
Per scoprire quale ruolo avesse la triturazione e quale i 'solventi' nel processo di digestione, Réaumur condusse esperimenti su uccelli con entrambi i tipi di stomaco. A quelli che avevano il ventriglio, faceva inghiottire sfere di vetro cavo contenenti chicchi di cereali. Poiché lo stomaco frantumava queste sfere, fu costretto a costruire una serie di contenitori più resistenti, fatti di metallo, che le potenti pareti del ventriglio riuscivano ancora a schiacciare nella maggior parte dei casi. Per determinare la forza che uno stomaco di questo tipo è in grado di esercitare, misurò il peso che era necessario applicare al manico di un paio di pinze perché potessero schiacciare un tubo simile. Réaumur non riuscì a dimostrare gli effetti del solvente sui cereali che aveva inserito nelle provette, ma ipotizzò che un'azione del genere dovesse verificarsi nel corso della digestione.
La questione fu diversa quando Réaumur passò agli esperimenti con gli uccelli che avevano lo stomaco membranoso. Sfruttando il fatto che gli avvoltoi rigurgitano le particelle solide che non riescono a digerire, ne costrinse uno a ingoiare alcune provette nelle quali aveva sospeso pezzi di carne tramite cordicelle avvolte intorno alla provetta. Quando i contenitori tornarono su, scoprì che la carne era stata ridotta a una massa semifluida. Ripetendo il procedimento riuscì a far scomparire la carne. Dato che la carne era rimasta protetta dall'azione meccanica, l'unica spiegazione era che un solvente fosse penetrato nelle provette. Per studiare ulteriormente l'azione di questo solvente, diede da mangiare all'uccello provette contenenti spugne, che poi recuperò imbevute di succo gastrico. Dopo aver messo un po' di questo succo in una provetta con alcuni pezzi di carne, la tenne in un'incubatrice insieme a una provetta simile che conteneva acqua al posto del succo. Anche se non riuscì a osservare alcuna azione digestiva nelle provette, non aveva dubbi che il succo gastrico potesse agire al di fuori del corpo come faceva al suo interno. Supponendo di non aver creato le condizioni ideali per l'esperimento, suggerì che altri continuassero questi studi.
Questi esperimenti così brillantemente concepiti e condotti stabilirono definitivamente che gli uccelli dotati di uno stomaco dalle pareti sottili digeriscono il cibo con l'aiuto di un solvente, e suggerirono l'ipotesi che altri animali facessero lo stesso. Per quanto riguarda la natura dell'azione del solvente, tuttavia, Réaumur riuscì soltanto a stabilire che il succo era salato e che tingeva di rosso la cartina al tornasole, quindi era acido. Non riuscì a spiegare ulteriormente questa azione se non paragonandola, come aveva fatto Borelli nel secolo precedente, a quella esercitata da un acido su un metallo.
Nel 1777, Lazzaro Spallanzani (1729-1799) riprese il problema della digestione, riesaminando gli esperimenti condotti dall'Accademia del Cimento che avevano rivelato per la prima volta, nel XVII sec., la forza sorprendente che è in grado di esercitare lo stomaco muscolare di un uccello. Adottando quasi subito i metodi di Réaumur, Spallanzani li sviluppò ulteriormente e riuscì in due imprese nelle quali il suo predecessore aveva fallito. Scoprì che anche gli uccelli con il ventriglio utilizzano un solvente, il quale agisce sulle particelle di cibo che sono state prima frantumate in pezzi piccolissimi. Poiché era interessato, come Réaumur, a stabilire se il succo gastrico conservasse le sue facoltà all'esterno dello stomaco, Spallanzani raccolse una quantità maggiore di succo prendendolo da uccelli più grandi. Ritenendo che anche il calore dello stomaco fosse una delle condizioni necessarie per sciogliere gli alimenti, portò in giro per tre giorni sotto l'ascella le provette che contenevano il succo gastrico, la carne e i cereali; alla fine vide che il cibo si era sciolto. Consapevole, come Réaumur, della necessità di eseguire controlli, portò in giro nello stesso modo anche alcune provette che contenevano acqua al posto del succo gastrico, e dimostrò che non avvenivano le stesse modificazioni.
Avendo riscontrato inoltre che il contenuto dello stomaco a volte era acido, Spallanzani si chiese quali fossero le cause di questa acidità. Scoprì che lo stomaco è in grado di sciogliere il corallo come un acido, ma quando sottopose l'acido gastrico puro sia al test della cartina al tornasole sia a quello della reazione agli acidi e agli alcali, il liquido risultò neutro. Le analisi chimiche per determinare la composizione del succo gastrico che il suo amico Giovanni Antonio Scopoli (1723-1788) condusse per lui non portarono ad alcun risultato. Spallanzani giunse allora alla conclusione che quando il contenuto dello stomaco risultava acido, ciò era dovuto agli alimenti e non al succo gastrico.
I fisiologi che ripresero lo studio della digestione all'inizio del XIX sec. si consideravano continuatori della tradizione iniziata con Réaumur e Spallanzani. Riuscirono a fare considerevoli progressi nella definizione della natura chimica del processo, soprattutto grazie al fatto che ora avevano a disposizione strumenti di analisi chimica molto più potenti di quelli dei loro predecessori del XVIII secolo.
I grandi fisiologi del XIX sec., come François Magendie e Claude Bernard in Francia ed Emil Du Bois-Reymond e Karl Friedrich Wilhelm Ludwig in Germania, erano convinti di costruire qualcosa di nuovo. Non solo fecero scoperte così importanti e rapide da gettare nell'ombra quelle del passato, ma incoraggiarono anche la nascita di istituzioni che potessero assicurare alla fisiologia un posto tra le discipline sperimentali riconosciute. Pur ammettendo il contributo di alcune grandi figure del secolo precedente, come Haller e Spallanzani, non vedevano quel periodo come un'epoca di seria sperimentazione nel campo della fisiologia.
Gli storici si sono generalmente lasciati guidare da loro; gli esperimenti del XVIII sec. nel campo della fisiologia sono stati definiti 'sporadici', e si è sempre ritenuto che fossero stati condotti da individui isolati. Non esistevano fisiologi, ma soltanto persone che a volte si erano impegnate in attività che retrospettivamente possono essere lette come un preludio all'azione collettiva del XIX secolo. Il quadro appena tracciato dei momenti chiave dell'attività di sperimentazione su alcuni problemi della fisiologia può forse contribuire a correggere questa impressione. Sebbene coloro che vi parteciparono fossero spesso professori di anatomia, di medicina o di storia naturale, essi consideravano la ricerca fisiologica coerente con il loro lavoro, e avevano a disposizione i mezzi adeguati per condurre esperimenti tutt'altro che casuali.
Un esame più dettagliato, che includesse anche il lavoro dei personaggi minori che circondarono le figure di maggior rilievo in ciascuna delle aree di ricerca discusse, potrebbe ulteriormente colmare il divario temporale. Sebbene in scala minore rispetto al secolo successivo, la sperimentazione fisiologica del XVIII sec. fu una delle attività principali di una vasta rete di esperti ricercatori che gettarono le basi sulle quali i fisiologi del XIX sec. avrebbero costruito un imponente edificio.