L'Eta dei Lumi: la fine della conoscenza naturale 1700-1770. La metallurgia e lo sfruttamento delle miniere
La metallurgia e lo sfruttamento delle miniere
La metallurgia e lo sfruttamento dei distretti minerari costituiscono due rami del sapere tecnico che, agli inizi del XVIII sec., godevano già di una solida tradizione di studi e di applicazioni. A partire dal Rinascimento, infatti, lo sfruttamento delle miniere, sollecitato dalla crescente domanda di armi e di manufatti metallici, ebbe uno sviluppo di tale intensità ed estensione che lo storico Fernand Braudel non ha esitato a designare tale fenomeno come la "prima rivoluzione industriale". In effetti, la divisione del lavoro estremamente specializzata delle miniere rinascimentali e la sistematica sperimentazione di congegni meccanici prefiguravano, almeno nelle linee generali, una tendenza alla specializzazione praticamente assente in altri settori manifatturieri. Inoltre, l'applicazione e l'invenzione di macchine e di congegni per facilitare lo sfruttamento minerario resero evidente, già nella prima metà del XVI sec., l'importanza economica dello sviluppo tecnologico dei mezzi di produzione. Gli straordinari progressi realizzati nelle miniere rinascimentali degli Stati tedeschi, della Boemia e della Svezia mostrarono altresì come fosse necessario fornire una sistemazione scientifica del sapere pratico e tecnico. Il risultato più alto fu raggiunto con la pubblicazione postuma, nel 1556, del De re metallica del medico e umanista tedesco Agricola (Georg Bauer).
L'opera di Agricola ebbe tale influenza che le tecniche di lavorazione e 'assaggio' dei metalli, le macchine per l'eduzione delle acque e la ventilazione dei pozzi, le differenti specie di fornaci e i laboratori in essa presentati attraverso descrizioni dettagliate e xilografie furono superati soltanto alla fine del Settecento. Per tutto il Seicento e la prima metà del Settecento, infatti, il De re metallica costituì il principale modello letterario, scientifico e tecnico della metallurgia moderna. Anche se l'autorità e il successo dell'opera di Agricola sembravano garantire un progresso uniforme della disciplina, nei primi decenni del XVIII sec. la metallurgia e la mineralogia si svilupparono entro due tradizioni separate del sapere tecnico-scientifico, istituendo una frattura che non si ricompose se non durante fasi estremamente circoscritte.
La prima tradizione, anch'essa riconducibile al Rinascimento, prevedeva lo studio dei metalli e dei minerali entro la prospettiva disciplinare della storia naturale, mentre la seconda, in linea con l'opera di Agricola, guardava al mondo dei metalli nell'ottica dello sfruttamento minerario. Le interferenze tra queste due tradizioni furono rare, tanto che le conoscenze sui metalli e le credenze a cui facevano riferimento erano spesso incommensurabili. Le ragioni di questa divaricazione sono molteplici, ma il fatto che la storia naturale fosse una disciplina accademica e la metallurgia pratica un'attività legata essenzialmente alla produzione e alla lavorazione dei metalli, furono probabilmente le cause determinanti della scissione. I naturalisti e i metallieri, infatti, condizionati com'erano da contesti istituzionali del tutto differenti, ponevano questioni diverse alle loro ricerche, privilegiando aspetti del tutto indipendenti.
Se per un naturalista studiare i metalli significava scoprirne le relazioni con gli altri due regni della Natura, il vegetale e l'animale, svelando così la struttura del teatro della Natura, per un metalliere lo studio del mondo sotterraneo era intimamente legato alla produzione e alle sollecitazioni, via via più esigenti e variegate, del mercato metallurgico e minerario. Per il primo era prioritario 'descrivere' il regno minerale, laddove per il secondo era di primaria importanza 'manipolarlo'. Entrambe le operazioni generavano nuove conoscenze sui metalli e sui minerali, ma i punti di vista erano, se non in opposizione, decisamente separati. Un esempio significativo di questa distanza epistemologica e istituzionale si può ricavare osservando attentamente le differenze tra l'iconografia presentata dal mineralogista rinascimentale Michele Mercati nella Metallotheca vaticana pubblicata postuma nel 1717-1719, e quella del De re metallica di Agricola. I metalli e i minerali descritti da Mercati sono ordinati nei sontuosi armadi del gabinetto naturalistico vaticano, seguendo un percorso conoscitivo del tutto indipendente dalla ricognizione dei territori da cui questi stessi minerali erano stati estratti. Le incisioni del De re metallica, al contrario, illustrano proprio il territorio in modo che fosse facile per il lettore individuare una vena feconda. Gli obiettivi dei due autori erano dunque estremamente differenti: il primo scriveva per i collezionisti e per gli accademici; il secondo forniva istruzioni pratiche per il Bergmeister (sovrintendente minerario) e per chiunque decidesse d'intraprendere lo sfruttamento di una miniera.
Il naturalista che per primo approfondì lo studio dei metalli entro un sistema generale dei tre regni fu lo svedese Linneo (Carl von Linné, 1707-1778). Medico di formazione e botanico di professione, fin dagli anni della giovinezza Linneo s'impegnò a trovare il filo d'Arianna che teneva uniti i tre regni della Natura così come erano stati immaginati da Dio durante la Creazione. Secondo il naturalista svedese la chiave di questo progetto risiedeva, non diversamente che nei libri della Genesi, nell'identificazione precisa delle specie create e nella loro esatta denominazione. Dal momento che i generi e le specie naturali erano l'opera del Creatore, utilizzando un metodo capace di risalire all'essenza delle singole specie, diveniva possibile svelare i misteri della Natura e le leggi invariabili che governavano la varietà dei suoi effetti. È noto che questa filosofia creazionista ed essenzialista ispirò la celebre teoria della fruttificazione e del sesso delle specie vegetali, a cui fece seguito, nell'arco di pochi decenni, una riforma radicale della nomenclatura del mondo vegetale e, per analogia, di quello animale.
Il progetto di unificazione del mondo naturale di Linneo doveva prevedere anche un'interpretazione del mondo minerale. Nel 1734, in vista della pubblicazione della sua opera più celebre, il Systema naturae (1735), aveva composto un trattato, rimasto inedito e pubblicato nel 1907 con il titolo Linnés Pluto svecicus och Beskrifning öfwer stenriket da Carl Benedicks. Nei primi anni Trenta del Settecento Linneo aveva intrapreso diversi viaggi durante i quali aveva esaminato con grande cura la natura del mondo sotterraneo, non trascurando di visitare le importanti miniere di ferro e di rame che arricchivano l'economia svedese. Nell'opera Linnés Pluto svecicus, però, l'esame delle miniere passava in secondo piano per lasciare il posto all'elaborazione di un sistema di classificazione dei minerali, suddivisi in ordini, generi e specie. Significativamente, le fonti di questa impresa tassonomica erano le opere di Plinio il Vecchio, quelle di autori rinascimentali quali Ulisse Aldrovandi, Bernardino Cesi, Gabriele Falloppio, Konrad von Gesner e di altri naturalisti, mentre il nome di Agricola veniva completamente ignorato.
Non diversamente da Plinio il Vecchio, Linneo vedeva nei minerali una produzione della Natura con caratteristiche analoghe a quelle delle specie animali e vegetali. Secondo il naturalista svedese, infatti, i minerali crescevano, i vegetali crescevano e vivevano, mentre gli animali crescevano, vivevano e sentivano. I visibili cambiamenti della crosta terrestre rendevano difficile contestare che i minerali crescessero e si combinassero tra loro in modo simile a quanto accadeva negli altri regni della Natura. Inoltre, fin dal Rinascimento, si era osservata l'esistenza di un numero sempre crescente di fossili e di altre stranezze e meraviglie della Natura che sembravano suffragare su solida base empirica la continuità esistente fra i tre regni. Gli appunti raccolti nel Linnés Pluto svecicus furono utilizzati da Linneo per illustrare la prima delle tre parti del suo Systema naturae, un'opera giustamente celebre ove i tre regni della Natura erano distinti gerarchicamente secondo classi, ordini, generi e specie.
I primi tre fogli dedicati ai minerali li suddividevano in altrettante classi principali: pietre, minerali e fossili. Le pietre erano distinte a loro volta in apyri ‒ cioè incombustibili ‒ calcaree e vitriscibili. I minerali erano classificati in sali, sulphurea e mercurialia (cioè i metalli), mentre i fossili in terre, concrezioni e pietrificazioni. La suddivisione di Linneo era per molti versi del tutto artificiale e, come nel caso dei metalli, non priva di errori. L'obiettivo di rendere coerente la classificazione del regno minerale con una visione unitaria della Natura rendeva pressoché impossibile la mancanza di contraddizioni o sfasature. È significativo, a questo riguardo, che lo spazio dedicato alla parte concernente i minerali si assottigliava nelle edizioni successive e che l'autore, forse comprendendo le difficoltà, abbandonava le ricerche mineralogiche per dedicarsi prevalentemente alla botanica.
Tuttavia, grazie al successo ottenuto dalla teoria e dalla nomenclatura linneana, numerosi suoi allievi ne svilupparono alcuni aspetti applicandoli alla classificazione del mondo minerale. Il primo professore di chimica presso l'Università di Uppsala, Johan Gottschalk Wallerius (1709-1785), pubblicò nel 1747 un'opera intitolata Mineralogia, eller mineral-riket nella quale veniva presentata una nuova disposizione e una teoria del mondo sotterraneo. Wallerius, che pure non era estraneo alla tradizione mineraria e ai sistemi di analisi chimica adottati dai metallieri, decise di sviluppare il metodo linneano, classificando i minerali per generi, specie, varietà e classi e distinguendo una specie dall'altra partendo dalle differenze dei caratteri esteriori senza tenere in considerazione, se non in rari casi, i risultati dell'analisi chimica. L'opera di Wallerius ebbe un'influenza enorme e fu tradotta nelle principali lingue europee. I più autorevoli naturalisti europei che, come Georges-Louis Leclerc de Buffon (1707-1788) e Lazzaro Spallanzani (1729-1799), si erano scagliati contro la nomenclatura botanica di Linneo, adottarono con entusiasmo questo metodo di classificazione e ne fecero materia d'insegnamento nei corsi di mineralogia.
L'approccio linneano alla mineralogia ebbe un'altra conseguenza di grande importanza scientifica. Linneo, infatti, aveva riconosciuto che in alcuni casi l'analisi dei caratteri esterni dei minerali non era sufficiente a garantire una classificazione univoca delle specie minerali. Al fine di superare questi ostacoli aveva ripreso l'idea, già presente nelle opere del geologo danese Niels Steensen (Stenone, 1638-1686), di analizzare le diverse configurazioni dei cristalli. Questa intuizione venne sviluppata nel 1772 nell'Essai de cristallographie del naturalista francese Jean-Baptiste Romé de l'Isle (1736-1790), il quale stabilì che l'inclinazione degli angoli di un cristallo di una stessa specie rimane sempre costante anche se le dimensioni fisiche variano notevolmente. La costanza degli angoli dei cristalli fu ripresa infatti con grande successo da René-Just Haüy (1743-1822) nel suo Essai d'une théorie sur la structure des cristaux (1784), l'opera che segna la nascita di una nuova disciplina scientifica, vale a dire la cristallografia.
L'approccio naturalistico alla mineralogia e alla metallurgia rispondeva all'esigenza di comprendere il regno minerale da un punto di vista essenzialmente tassonomico e descrittivo, ma lasciava d'altra parte inesplorate le questioni attinenti alla natura complessa dei composti e delle loro manipolazioni chimiche. Questo aspetto era stato affrontato dai metallieri rinascimentali e dai loro successori settecenteschi, i sovrintendenti dei distretti minerari e i chimici.
L'approccio chimico alla mineralogia rispondeva all'esigenza di comprendere la natura di un minerale o un metallo in relazione alla sua utilizzazione in diversi ambiti manifatturieri, ma anche alla possibilità di conoscere, attraverso criteri quantitativi, la natura dei composti e gli strumenti analitici più adatti all'identificazione dei componenti. Da questo punto di vista, l'analisi dei caratteri esterni ‒ fossero essi il colore e la forma oppure la configurazione geometrica dei cristalli ‒ non poteva in alcun modo svelare il mistero che sembrava soggiacere alle reazioni e alle combinazioni di diverse sostanze. Nella prospettiva di un chimico o di un metallurgista il quesito cruciale a cui rispondere non riguardava tanto il numero dei minerali o dei metalli in Natura, quanto piuttosto le leggi che presiedono alla loro combinazione e gli strumenti analitici che permettono una loro efficace identificazione e scomposizione. La spiegazione del concetto di combinazione si rivelò subito come la chiave epistemologica attraverso la quale era possibile comprendere la dinamica delle reazioni chimiche.
Un altro aspetto, non meno secondario, della metallurgia pratica riguardava l'elaborazione di tecniche od operazioni, come, per esempio, la raffinazione, il lavaggio, la separazione, ecc., con le quali ottenere leghe metalliche capaci di soddisfare tanto l'esigenza di raggiungere un alto grado di purezza quanto quella, legata al mondo della produzione industriale, di fornire prodotti metallici con determinate caratteristiche adeguate alla domanda del mercato. La componente teorica e quella pratico-applicativa non sono, nel caso della metallurgia, facilmente distinguibili, al punto che si potrebbe affermare che quello metallurgico fu il primo settore della produzione industriale a godere di una feconda collaborazione tra naturalisti, tecnici e imprenditori. Prima di entrare nel merito di questo fondamentale capitolo della rivoluzione industriale, è bene tuttavia valutare alcuni aspetti scientifici di carattere generale.
All'inizio del XVIII sec. la conoscenza dei metalli non era sostanzialmente differente da quella che ne aveva Agricola due secoli prima. Le tecniche di manipolazione e di purificazione erano rimaste pressoché identiche e i Bergmeister europei seguivano una tradizione consolidata ma apparentemente poco dinamica. A livello istituzionale, però, si verificarono nello stesso periodo importanti e significativi cambiamenti. La rilevanza economica dello sfruttamento minerario, soprattutto in Svezia e negli Stati tedeschi, sollecitò le autorità a chiamare alcuni scienziati accademici a sovrintendere i lavori minerari. Prima del Settecento, la separazione tra attività scientifica e pratica industriale era, almeno nel caso della metallurgia, pressoché totale. La maggior parte delle miniere europee seicentesche era retta da una propria legislazione e diretta da tecnici che, salvo rare eccezioni, non avevano tenuto alcun contatto con il mondo accademico e ancor meno con quello universitario. Non è difficile comprendere le ragioni di questa separazione, imputabili principalmente allo scetticismo delle autorità locali e soprattutto dei minatori nei confronti d'innovazioni tecnologiche oppure di cambiamenti drastici nel modo e nell'organizzazione del lavoro. Le proposte dei naturalisti o delle accademie ‒ come la Royal Society di Londra e l'Académie Royale des Sciences di Parigi ‒ alle richieste dei ministri su come migliorare i sistemi produttivi delle miniere erano state, nel migliore dei casi, deludenti, a causa della loro astrattezza e lontananza dalla complessa rete di tecniche e tessuti sociali che caratterizzavano lo sfruttamento minerario. All'inizio del XVIII sec. le cose cominciarono a cambiare. La Svezia fu uno dei primi paesi a riconoscere che i naturalisti accademici potevano offrire allo sviluppo dell'industria mineraria un contributo non soltanto teorico ma anche a livello istituzionale di grande importanza.
Già nel 1636 il governo svedese aveva istituito il Bergskollegium, un dipartimento di Stato per il controllo generale della produzione mineraria. Questa istituzione subì una riforma significativa nel 1683, quando fu fondato a Stoccolma il Laboratorium chymicum, nel quale erano sperimentate le tecniche minerarie e veniva formato personale specializzato. Il primo direttore del laboratorio era stato Urban Hjärne (1641-1724), un medico di fede cartesiana che, pur non operando nell'Università di Uppsala, era membro del prestigioso Collegium medicum di Stoccolma e si era distinto con diverse pubblicazioni come un autorevole medico.
Inizialmente Hjärne utilizzò il laboratorio per svolgere ricerche sulla natura terapeutica di alcuni minerali. Questi esperimenti di farmacologia furono ben presto affiancati da analisi di chimica inorganica e da prove tecnologiche direttamente legate allo sfruttamento minerario. Anche se il laboratorio di chimica di Hjärne non ebbe immediati scopi pratici e produttivi, l'insegnamento e la formazione di assistenti minerari costituì un passo cruciale verso la formazione accademica e professionale di una nuova generazione di Bergmeister e di chimici sperimentali. Gli esperimenti e le concezioni filosofiche di Hjärne si mossero sempre entro la tradizione paracelsiana e furono pubblicati nel 1712 sotto il titolo di Acta et tentamina chymica. Dal punto di vista della mineralogia, uno dei suoi maggiori contributi fu un'inchiesta, commissionata tra il 1702 e il 1706, sulle risorse minerarie della Svezia, che costituì il primo esempio europeo di ricognizione sistematica della ricchezza del sottosuolo condotta sulla base di conoscenze scientifiche.
Il successo e l'originalità dell'approccio di Hjärne all'amministrazione del laboratorio convinsero definitivamente le autorità del Collegio svedese delle miniere a reclutare nuovo personale nelle università e nel mondo accademico. Emanuel Swedenborg (1688-1772), che per il curriculum sembrava destinato alla carriera accademica, nel 1716 fu nominato assistente assessore al Bergskollegium. Quasi contemporaneamente aveva cercato di ottenere, senza successo, una cattedra presso l'Università di Uppsala. Malgrado la nomina, non rinunciando alle proprie ambizioni scientifiche e accademiche, nel 1716 Swedenborg pubblicò a proprie spese il primo periodico scientifico svedese, il "Daedalus Hyperboreus", nel quale illustrava l'importanza pratica ed economica dell'utilizzazione delle invenzioni meccaniche introdotte dal suo maestro, l'ingegnere Christopher Pohlem (1661-1751).
Dopo aver visitato le principali miniere svedesi, Swedenborg scrisse un ponderoso trattato sui metalli intitolato Principia rerum naturalium sive novorum tentaminorum phaenomena mundi elementaris philosophice explicandi (1734). Il titolo dell'opera, echeggiando il capolavoro di Newton, non nascondeva le intenzioni speculative del suo autore. L'esame della lavorazione del ferro e del rame, che occupava gli ultimi due volumi, era introdotto da un ambizioso sistema filosofico sulla struttura dell'Universo e della materia. Swedenborg, influenzato dal meccanicismo di Descartes, risaliva alle origini dell'Universo ricorrendo all'ipotesi dei movimenti vorticosi; inoltre, riesumando la teoria gilbertiana dell'emanazione della forza magnetica, cercava di quantificarne l'intensità sulla base di complessi quanto fantasiosi calcoli matematici. Nei due volumi dedicati al ferro e al rame, i principali prodotti minerari della Svezia, la speculazione filosofica lascia il posto a una dettagliata descrizione delle operazioni metallurgiche e chimiche cui si ricorreva nello sfruttamento delle miniere. L'opera di Swedenborg costituisce la prima descrizione del funzionamento e delle tecniche minerarie utilizzate in Svezia; grazie ai numerosi viaggi effettuati tra il 1716 e il 1732 dall'autore, che aveva una padronanza assoluta della letteratura metallurgica europea, l'opera costituisce anche un elaborato confronto tra le diverse tecniche chimico-minerarie. In particolare, il volume sul ferro divenne il testo principale sull'argomento, tanto che ancora nel 1762 fu tradotto in francese per essere incluso nella Description des arts et métiers, la celebre collezione di trattati tecnologici promossa dall'Académie Royale des Sciences.
Gli storici della scienza e della tecnologia non sono concordi nel valutare l'importanza scientifica dell'opera di Swedenborg. Molti, infatti, hanno sottolineato come lo scienziato svedese si sia semplicemente limitato a compilare testi di altri autori e a descrivere procedimenti tecnici e sperimentali già noti da secoli. Anche se ciò fosse vero, il successo e l'influenza dell'opera meritano di essere considerati. Era dai tempi della pubblicazione del De re metallica di Agricola, infatti, che un trattato di metallurgia non era presentato come un testo specialistico; inoltre l'esame dei metalli e dei lavori minerari è stato sviluppato da Swedenborg entro un quadro speculativo estremamente elaborato e anche se la relazione con la complessa filosofia della materia esposta nel primo volume non è rintracciabile, se non in allusioni superficiali, nei due successivi il tentativo di elevare la metallurgia al livello di una disciplina accademica sembra ampiamente riuscito.
In effetti, dopo la pubblicazione di questo trattato, la metallurgia svedese divenne progressivamente materia d'insegnamento universitario e l'Accademia Svedese delle Scienze di Stoccolma, fondata nel 1739, ebbe tra i suoi membri, oltre a Swedenborg, altri assessori alle miniere, lasciando ampio spazio negli atti e nelle memorie alla pubblicazione di scritti sulla metallurgia e sulle tecniche minerarie. Il più importante mineralista svedese del XVIII sec., Axel Fredrik Cronstedt (1722-1765), autore, nel 1758, del fortunatissimo Försök till mineralogie (Saggio di mineralogia) era un membro dell'Accademia Svedese delle Scienze pur occupando una carica secondaria presso il Bergskollegium. Anton Swab (1702-1768), Sven Rinman (1720-1792) e Johan Gottlieb Gahn (1745-1818) erano invece tre tecnici minerari che uscirono dall'anonimato del distretto in cui operavano, divenendo anch'essi membri del consesso accademico. Il successore di Wallerius nella cattedra di chimica dell'Università di Uppsala, Torbern Olof Bergman (1735-1784), pur non ricoprendo alcuna carica ufficiale nel Bergskollegium, teneva regolarmente corsi di metallurgia e mineralogia, operando, in numerose occasioni, come consulente delle miniere. L'importanza strategica delle miniere per un paese privo di altre risorse come la Svezia, rese necessaria ai chimici la specializzazione in chimica inorganica e metallurgia, invertendo così la tendenza allora vigente tra i chimici europei i quali privilegiavano l'analisi del mondo vegetale e minerale. Bergman era stato allievo di Linneo e, non diversamente da Swedenborg, in gioventù si era dedicato agli studi di matematica e fisica. I suoi maggiori contributi, tuttavia, riguardarono l'analisi dei metalli e delle sostanze minerali, in particolare il ferro, di cui aveva appreso la natura visitando i distretti minerari nei dintorni di Uppsala.
Il cambiamento istituzionale della metallurgia e il progressivo raggiungimento di uno status accademico proprio non fu privilegio della sola Svezia. Anche in alcuni Stati tedeschi, particolarmente ricchi di miniere, si fece largo la tendenza a delegare ad accademici la responsabilità dello sfruttamento di alcuni distretti. Esemplare è il caso di Georg Ernst Stahl (1660 ca.-1734), certamente il medico più celebre della fine del XVII secolo. Dal 1694 professore di medicina presso l'Università di Halle, Stahl aveva pubblicato numerose opere mediche ‒ che ebbero una notevole influenza ‒ nelle quali aveva attaccato i principî del meccanicismo e della iatromeccanica, rivendicando alla medicina il suo legittimo legame con la metafisica e la teologia pietista. Coltivando questo ambizioso progetto di riforma del pensiero medico, si era avvicinato alla chimica metallurgica dopo aver visitato, alla fine del secolo, il distretto minerario della Turingia. A partire dai primi anni Novanta del Seicento, infatti, Stahl aveva cominciato a occuparsi di chimica e metallurgia, tenendo regolarmente dei corsi e presiedendo a numerose tesi. L'importanza della sua opera chimica e del successo ottenuto dalla teoria del flogisto va compresa tuttavia alla luce di alcune circostanze biografiche.
Nel 1700 il medico tedesco pubblicò una delle prime dissertazioni metallurgiche intitolata De ortu venarum metalliferum, tradotta in tedesco insieme ad altri scritti nel 1746 nel più celebre Anweisung zur Metallurgie (Guida alla metallurgia). Nel 1703 Stahl delineò i principî della teoria del flogisto nel commentario alla Physica subterranea di Johann Joachim Becher (1635-1682), un'opera che, come si evince dal titolo, metteva il regno minerale al centro dell'indagine chimica. L'importanza della tradizione metallurgica nell'ambito chimico venne riconosciuta da Stahl anche nel noto trattato sullo zolfo del 1718, Züfallige Gedancken und nützliche Bedencken über den Streit von dem sogennanten Sulphure (Pensieri sparsi e riflessioni utili sulla disputa del cosiddetto zolfo), ove dichiarava che "i lavori minerari e metallurgici che erano stati introdotti in Germania […] avrebbero dovuto attirare l'attenzione dei chimici perché soltanto da questi avrebbero potuto ricavare dei vantaggi più concreti e importanti di quelli ricavabili da tutte le ricerche dettate da una vana e insensata curiosità" (ed. 1766, p. 4). Nelle pagine seguenti, dove Stahl unificava il pensiero chimico seicentesco adottando il principio del flogisto (principio dell'infiammabilità), non è difficile verificare l'importanza attribuita alla metallurgia e alle sue operazioni tecniche e sperimentali. L'obiettivo di Stahl era quello di strappare la ricerca chimica dal dominio delle pretese alchemiche e dalla sudditanza a cui l'avevano relegata la farmacia e la medicina. L'analisi chimica del regno animale e vegetale che dai tempi di Paracelso aveva dominato l'orizzonte investigativo della chimica era ora sostituita da un nuovo programma di ricerca ispirato alle tecniche e alle concezioni che Stahl aveva appreso frequentando i distretti minerari della Turingia. Nel 1723, nell'introduzione al trattato sui sali, Ausführliche Betrachtung und zulänglicher Beweiß von den Saltzen (Riflessione dettagliata e dimostrazione esauriente sui sali), scriveva senza mezzi termini che
la chimica è stata, nel corso degli ultimi due secoli, in preda a dei ciarlatani che hanno compiuto un'infinità di frodi. […] Era naturale che le imposture e le false promesse dei facitori d'oro, i pretesi arcani, i rimedi universali, le preparazioni farmaceutiche, spesso pericolosissime, degli alchimisti, rendessero la chimica invisa alle persone oneste e sensate. […] Grazie ai vantaggi che si possono ricavare, i lavori minerari e la metallurgia [al contrario] hanno fornito numerose esperienze degne d'attenzione. (ed. 1771, pp. 2-3)
L'influsso dell'opera di Stahl sullo sviluppo della metallurgia tedesca, e più in generale europea, fu enorme. Le opere metallurgiche di Johann Friedrich Henckel (1678-1744), Christlieb Ehregott Gellert (1713-1795), Johann Andreas Cramer (1710-1777) e Johann Gottlob Lehmann (1719-1767), influenzate nello stile e nei contenuti dall'opera di Stahl, divennero subito dei classici e una nuova generazione di chimici tedeschi imparò a combinare felicemente l'espandersi accademico ed epistemologico della disciplina con uno spiccato interesse per la pratica metallurgica e mineraria. Per quanto importante si possa considerare il ruolo storico e scientifico di Stahl, l'incremento rapidissimo dell'interesse per la letteratura metallurgica non può essere ricondotto esclusivamente alla sua influenza. Un rapido sviluppo istituzionale, con la fondazione delle prime accademie minerarie, sollecitato da interessi economici in continua crescita, contribuì ad affermare il ruolo centrale della metallurgia nel panorama del sapere illuminista.
La prima accademia di importanza europea fu la Bergsakademie di Friburgo, fondata ufficialmente nel 1765 ma operativa già dagli anni Trenta, quando Henckel, il primo allievo di Stahl, aveva più volte sollecitato la sua istituzione. I corsi di chimica e metallurgia la resero celebre in tutta Europa tanto che Michail Vasil´evič Lomonosov (1711-1765) vi fu inviato dalle autorità dell'Academia Scientiarum Imperialis Petropolitana per impararvi la chimica. In effetti, tra gli allievi che seguirono i corsi presso la Bergakademie non c'erano soltanto aspiranti assessori minerari, ma anche moltissimi accademici e scienziati che, come Lomonosov, desideravano apprendere la chimica sperimentale senza essere indottrinati da fantasiose speculazioni sulla natura ultima della materia. I corsi prevedevano anche, oltre alla chimica e alla metallurgia, una sintesi delle nozioni mineralogiche e numerose lezioni di geologia, una scienza in costante ascesa. All'inizio degli anni Settanta nuove accademie minerarie sorsero in tutta Europa forse a eccezione della Gran Bretagna, dove lo stato del sapere tecnico e metallurgico era comunque estremamente avanzato.
Nel 1783 veniva istituita a Parigi l'École Royale des Mines, diretta dal mineralista e chimico Balthazar Sage (1740-1824), un accademico con scarsa esperienza nella pratica mineraria. La situazione francese era completamente differente rispetto a quella descritta in Svezia e negli Stati tedeschi. Agli inizi del XVIII sec. la metallurgia e lo sfruttamento minerario versavano in uno stato di grande arretratezza. I tentativi compiuti alla fine del secolo precedente da Jean-Baptiste Colbert (1619-1682) di promuovere l'innovazione tecnologica e l'incremento produttivo non avevano ottenuto risultati concreti; su quasi tutti i fronti dell'industria metallurgica e della produzione mineraria la Francia dipendeva dagli altri paesi europei. I motivi di questa crisi possono essere ricondotti ai limiti dell'economia centralizzata francese e allo scetticismo generalizzato dei proprietari terrieri nell'investire grandi capitali in un'attività rischiosa ed estremamente dispendiosa come lo sfruttamento del sottosuolo. Il contributo dei naturalisti francesi allo sviluppo della metallurgia e dell'industria mineraria fu significativo ma, in linea con l'esitante politica governativa, non privo di contraddizioni e tentennamenti.
Nel 1722 un ambizioso naturalista pubblicò a Parigi un'opera intitolata L'art de convertir le fer forgé en acier. L'autore, René-Antoine Ferchault de Réaumur (1683-1757), era stato allievo del matematico Pierre Varignon (1654-1722) e dal 1711 era membro dell'Académie Royale des Sciences. Spirito enciclopedico, Réaumur era molto sensibile allo sviluppo delle arti e delle tecniche, quindi, sollecitato a trovare una soluzione alla crescente domanda di acciaio, tra il 1716 e il 1722 presentò all'Académie ben 18 memorie sull'argomento. Senza grandi proclami Réaumur sottopose l'illustre uditorio a una descrizione minuziosa degli esperimenti che gli avevano consentito di ottenere, dalla fusione della semplice ferraglia, acciaio di ottima qualità. La scoperta di questa tecnica fu riconosciuta con un compenso che, nella storia dell'Académie, costituisce un'eccezione. Il reggente, il duca d'Orléans, favorì il suo illustre suddito con una pensione di 12.000 livres, una cifra che, ancora nel 1779, era considerata straordinariamente generosa. Era la prima volta che una scoperta di tipo tecnico e applicativo era ricompensata dallo Stato in una proporzione degna della sua possibile utilità economica e industriale. Malgrado questo riconoscimento e l'oggettiva importanza della scoperta, Réaumur abbandonò le ricerche di metallurgia per dedicarsi a quelle termometriche ed entomologiche e anche la Corona, che pure aveva guardato con grande favore alla scoperta, non fece nulla perché le ricerche in questo settore continuassero o trovassero applicazione a livello industriale. L'opera di Réaumur sull'arte di convertire il ferro in acciaio divenne un classico della scienza metallurgica ma, almeno in Francia, rimase senza alcuna conseguenza pratica. In effetti, fino agli anni Sessanta non furono pubblicate nel paese opere altrettanto importanti, né fu promossa dal governo un'efficace politica di sviluppo della metallurgia.
Invitato da Diderot a scrivere gli articoli di metallurgia e mineralogia per l'Encyclopédie, il filosofo materialista Paul-Henri Thiry d'Holbach (1723-1789) risvegliò l'interesse per questi temi. Nell'introduzione al secondo volume dell'opera, Diderot annunciava ai lettori la presenza del nuovo collaboratore con le seguenti parole:
Molto dobbiamo soprattutto a una persona, di madrelingua tedesca, e assai versata nella mineralogia, nella metallurgia e nella fisica; su queste materie essa ci ha fornito una quantità prodigiosa di articoli, un numero considerevole dei quali figurano già in questo secondo volume. Questi articoli sono ricavati dalle migliori opere tedesche sulla chimica, che la persona di cui parliamo ha avuto la bontà di mettere a nostra disposizione. è noto quanto la Germania sia ricca in questo genere di studi; di conseguenza osiamo assicurare che la nostra opera conterrà, su una sì vasta materia, un gran numero di cose interessanti e nuove, che invano si cercherebbero nei libri francesi. (Encyclopédie, II)
Il risultato non disattese le aspettative. Con oltre 800 articoli di metallurgia, mineralogia, geologia e chimica, la fatica di Holbach rappresentava, dopo quella di Diderot, il contributo quantitativamente più cospicuo. Nel redigere la maggior parte delle voci metallurgiche e mineralogiche dell'Encyclopédie, egli era stato in grado di dare una coerenza che era mancata nel trattamento di altre discipline scientifiche. Accanto all'impegno nell'Encyclopédie, il ruolo di Holbach nella diffusione di un interesse per la metallurgia e la mineralogia si manifestò nelle numerose traduzioni di opere tedesche e svedesi. A partire dal 1752, quando fu pubblicata la traduzione francese de L'arte vetraria (1612) di Antonio Neri con i commenti di Johann Kunckel (1630 ca.-1703 ca.), nel giro di pochi anni Holbach tradusse le opere mineralogiche e metallurgiche di Wallerius (Minéralogie, 1753), Henckel (Introduction à la minéralogie, 1756 e Pyritologie, 1760), Gellert (Chimie métallurgique, 1758), Lehmann (Traités de physique, d'histoire naturelle, de minéralogie et de métallurgie, 1759) e Johann Christian Orschall (Oeuvres métallurgiques, 1760). Particolarmente rilevante, in aggiunta a ciò, è la compilazione da lui realizzata, per la prima volta in una lingua diversa dallo svedese, di una raccolta dei contributi più significativi in mineralogia e metallurgia pubblicati in Svezia dal 1730, il Recueil des mémoires dans les actes de l'Académie d'Upsal et dans les mémoires de l'Académie royale des sciences de Stockholm (1764). Oltre a queste opere Holbach aveva tradotto i già citati trattati sullo zolfo e sui sali di Stahl.
Durante gli anni Cinquanta del Settecento furono tradotti in francese anche il trattato metallurgico di Christoph Andreas Schlüter, De la fonte des mines (1750-1753), dal chimico Jean Hellot, il trattato di mineralogia di Johann Heinrich Pott, Lithogéognosie (1753), da un intimo amico di Holbach, Didier-François d'Arclais de Montamy e, per finire, gli Élémens de docimastique (1755), di Johann Andreas Cramer, da Jacques-François de Villiers. Questa impressionante serie di pubblicazioni dimostra quanti progressi erano stati realizzati dai naturalisti tedeschi e svedesi, denunciando contemporaneamente i ritardi accumulati dai Francesi nello studio della metallurgia e della mineralogia.
Le autorità governative e l'Académie Royale des Sciences, finalmente consapevoli del significato da attribuire agli straordinari sviluppi della metallurgia svedese e tedesca, decisero di correre ai ripari e incaricarono un autorevole membro della classe di chimica a lavorare per una radicale riforma degli statuti che regolavano lo sfruttamento minerario. Jean Hellot (1685-1766) era entrato a far parte dell'Académie nel 1735 e si era distinto nella chimica tecnica, pubblicando memorie e libri sull'arte tintoria, sulle tecniche di estrazione mineraria e su altri temi poco investigati dai suoi colleghi. Dalla seconda metà degli anni Quaranta era stato chiamato al Bureau de Commerce in qualità di consigliere tecnico, divenendo negli anni successivi collaboratore privilegiato dei controllori generali delle finanze del regno.
Questi incarichi prestigiosi, insoliti per un membro dell'Académie, consentirono a Hellot di suggerire nonché di vedere realizzate alcune importanti riforme legislative atte a stimolare lo sfruttamento minerario e a incoraggiare l'innovazione tecnologica. Le difficoltà oggettive a regolamentare per via legislativa e burocratica un'attività che incontrava forti resistenze da parte di chi, come i proprietari terrieri, avrebbe dovuto abbracciare le riforme con entusiasmo, metteva in evidenza la debolezza del sistema centralizzato francese e lo iato esistente tra le intenzioni riformatrici del centro e l'attaccamento ai privilegi e alla tradizione della periferia. Fallita la via legislativa, Hellot suggerì in alternativa d'inviare emissari all'estero per apprendere le tecniche di estrazione mineraria. Antoine-Gabriel Jars (1732-1769), un giovane ingegnere allievo dell'école des Ponts et Chaussées, partì nel 1756 per un lungo viaggio di ricognizione mineraria nell'Europa centrale che si concluse, dopo lunghe pause e un soggiorno in Inghilterra e in Scandinavia, soltanto nel 1766. In questi dieci anni Jars raccolse un'ingente quantità di materiale, confrontando le tecniche minerarie utilizzate nei diversi paesi, la qualità dei minerali estratti, il loro trasporto e commercio, quindi mettendo in relazione organica la metallurgia con la tecnologia, l'economia e il commercio. La sua opera gli valse l'elezione a membro dell'Académie Royale des Sciences nel 1768, sicuramente dietro suggerimento di Hellot e di Trudaine de Montigny, direttore del Bureau de Commerce. Era la prima volta che un tecnico, senza alcuna pubblicazione o merito nobiliare, veniva eletto membro della prestigiosa istituzione in virtù della sua professionalità.
Jars morì prematuramente durante un'escursione mineralogica nell'Auvergne e il suo prezioso resoconto fu pubblicato postumo con il titolo di Voyages métallurgiques (1769). Il suo posto all'Académie fu occupato da un giovane studioso non estraneo alle ricerche mineralogiche e alle ricognizioni dei distretti minerari, Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794), il quale, prima di interessarsi di chimica pneumatica, aveva lavorato a fianco del botanico e geologo Jean-Étienne Guettard (1715-1786) accompagnandolo in numerosi viaggi scientifici. Guettard, allievo di Réaumur, aveva uno spirito enciclopedico e si era occupato di botanica, zoologia, mineralogia e geologia, presentando all'Académie lunghissime e tediose memorie attinenti a singole specie di minerali o animali. La reputazione di Guettard era comunque quella di un serio e coscienzioso osservatore della Natura. Amico di famiglia di Jean-Antoine Lavoisier, il padre del chimico, accettò volentieri di prendere sotto la sua guida scientifica il figlio.
Fin dal 1746, quando aveva presentato all'Académie una memoria sui principali depositi minerari del regno, Guettard lavorò a una carta mineralogica della Francia che, nel 1766, attirò l'attenzione di Henri-Léonard Bertin (1720-1792), allora ministro e segretario di Stato, il quale decise di finanziare il progetto di un atlante mineralogico della Francia. Il progetto era doppiamente innovativo. Sul piano scientifico non esistevano precedenti e l'obiettivo di realizzare una carta generale rendeva evidenti, forse per la prima volta, l'intima connessione tra la ricerca mineralogica e la ricognizione geologica del territorio. Anche sul piano economico la valutazione delle risorse minerarie su scala nazionale costituiva un obiettivo del tutto inedito che, agli occhi di Bertin, poteva riportare la Francia al posto di preminenza che le competeva. Mete del primo viaggio erano l'Alsazia e la Lorena. Lavoisier e Guettard raccolsero sistematicamente informazioni sul suolo, gli strati geologici, la ricchezza delle miniere, le tecniche estrattive, le acque minerali e altri soggetti che, pur non essendo direttamente collegati all'atlante mineralogico, avrebbero potuto rivelarsi utili. Una moltitudine di carnets de voyage, tuttora inediti, furono redatti dai due studiosi separatamente per poi essere confrontati ed eventualmente corretti. Durante i ripetuti esami delle osservazioni raccolte, Lavoisier fece una scoperta di grande importanza per il futuro sviluppo delle scienze della Terra. Dopo aver sottolineato per la prima volta l'esigenza di descrivere iconograficamente le sezioni dei rilievi, mise in evidenza il significato geologico degli strati e la loro relazione con diverse fasi temporali dell'evoluzione della crosta terrestre.
Le difficoltà di sintetizzare i dati raccolti in una carta e le differenze tra Guettard e Lavoisier sui criteri di rappresentazione del suolo, rallentarono, al ritorno del viaggio nell'autunno del 1767, l'elaborazione dei dati. Nel 1777, dopo dodici anni di intenso lavoro, solamente 16 carte, su un totale previsto di 214, erano state ultimate. Le cause del ritardo e del parziale fallimento, però, non erano soltanto di carattere scientifico. Il ministro Bertin, non potendo disporre dei fondi necessari per un'opera tanto ambiziosa, ne interruppe i lavori a più riprese fino a quando, nella speranza di vedere la carta ultimata in tempi brevi, l'affidò all'ispettore generale delle miniere Antoine-Grimoald Monnet (1734-1817), un chimico mediocre, che nel 1780 pubblicò 45 carte mineralogiche sotto il titolo ingannevole di Atlas et description minéralogique de la France. Malgrado il fallimento del progetto, Guettard e Lavoisier non abbandonarono mai l'idea di riprendere i lavori. Il 5 settembre del 1777 presentarono all'Académie Royale des Sciences una Description de deux mines de charbon de terre, nella quale, riprendendo gli appunti stesi nel 1767, davano un saggio dell'utilità del loro lavoro e di quanto fossero preziosi i confronti sistematici tra le differenti attività minerarie del regno. Significativamente, al naufragio del progetto dell'atlante mineralogico corrispose una stasi dell'industria mineraria francese che solamente sul finire del secolo incominciò a dare segni di risveglio. Sul piano strettamente teorico, tuttavia, gli scienziati avevano ampiamente superato i ritardi della prima metà del secolo e, grazie agli sforzi di Hellot, Jars e infine di Guettard e Lavoisier, la metallurgia e la mineralogia francesi avevano raggiunto livelli di eccellenza. Gli effetti della teoria di Lavoisier della calcinazione e della combustione si manifestarono anche sull'attività mineraria, in particolare nelle varie fasi di lavorazione dei metalli. Infatti, sapere che la causa della combustione del ferro era la fissazione dell'ossigeno e non, come credevano i mineralogisti tedeschi e svedesi, la perdita di flogisto, significava trasformare un'operazione fondamentale del processo produttivo come la fusione in un procedimento facilmente controllabile e manipolabile.
Il caso francese è di grande interesse perché, al contrario di altri paesi come la Svezia e gli Stati tedeschi, la scienza metallurgica e la pratica industriale sembrano rimanere due elementi separati malgrado gli sforzi compiuti, soprattutto da parte degli scienziati, di trovare punti di connessione. Gli effetti di questa separazione, tuttavia, non sempre condizionarono negativamente lo sviluppo dell'industria mineraria in quanto tale, giacché in molti paesi, in primis la Gran Bretagna, essa fu capace di svilupparsi quasi indipendentemente dal progresso scientifico.
Nel Settecento l'industria mineraria e quella metallurgica conobbero uno sviluppo essenzialmente quantitativo. Alla rapida e costante crescita della domanda di metalli corrisposero la progressiva estensione dei giacimenti minerari e del loro sfruttamento. Dal momento che l'industria mineraria utilizzava essenzialmente come combustibile il legname, in alcune parti d'Europa dove esso scarseggiava i problemi di deforestazione, presenti fin dal Rinascimento, si fecero particolarmente acuti. Per avere un'idea di quanto legname fosse necessario per soddisfare le esigenze dell'industria metallurgica, è sufficiente dire che verso la metà del XVIII sec. nelle miniere di ferro svedesi il consumo annuale era di circa 1 milione di m3. Una tale quantità, sopportabile per un paese ricco di foreste, costituiva invece un problema notevole quando la materia prima scarseggiava. L'estensione quantitativa dello sfruttamento minerario da un lato e la progressiva scarsità di legname dall'altro resero quindi necessaria la ricerca di fonti alternative.
Già a partire dalla seconda metà del XVII sec., in alcune parti d'Europa particolarmente ricche di carbon fossile ‒ come il Galles, le Fiandre e alcuni Stati tedeschi ‒, per l'arrostimento dei minerali e la fusione di alcune leghe metalliche, come l'ottone, il legno venne definitivamente sostituito. Contrariamente all'estrazione di altri minerali che richiedevano dispendiose tecniche di trivellazione e di eduzione delle acque per la creazione di pozzi sufficientemente profondi, il carbone si trovava normalmente non lontano dalla superficie terrestre e in filoni dispiegati orizzontalmente. Questa caratteristica comportò la costruzione di ferrovie per il trasporto del minerale dando così impulso ulteriore alla meccanizzazione dei lavori minerari. Lo sviluppo dell'industria carbonifera in Inghilterra conobbe progressi rapidissimi durante tutto il Settecento e fu proprio nei distretti carboniferi che furono sperimentate le prime macchine a vapore di Thomas Newcomen (1663-1729) e, successivamente, di James Watt (1736-1819). Il carbone era utilizzato, oltre che nell'industria metallurgica, in moltissime altre attività manifatturiere come l'arte vetraria e la distillazione della birra, e per uso civile per il riscaldamento delle abitazioni. Se da un lato l'impiego del carbone nell'industria metallurgica aveva consentito di ottenere in quantità abbondante un combustibile estremamente economico, dall'altro, le impurità in esso contenute non permettevano la lavorazione dei metalli in modo altrettanto efficace.
La parziale sostituzione del legname con il carbon fossile e il coke fu opera dell'imprenditore scozzese Abraham Darby, un abile uomo d'affari che impiegando questo combustibile riuscì, a partire dal 1709, a fondere il minerale di ferro. L'utilizzazione del coke aveva consentito di ridurre in modo sostanziale i costi di produzione e di superare, almeno in parte, le difficoltà nella lavorazione di metalli comuni come il ferro e il rame.
Intorno al 1750 la produzione di carbone delle miniere inglesi era arrivata a circa 150.000 t l'anno. Questa quantità, già considerevole, aumentò rapidamente quando s'incominciò a introdurre in maniera sistematica la macchina a vapore sostituendo il lavoro manuale e la forza idraulica con una forza motrice di origine meccanica. Già nel corso della prima metà del secolo la macchina a vapore di Newcomen era stata impiegata in diversi distretti minerari inglesi per risolvere il gravissimo problema dell'eduzione delle acque dai pozzi profondi. Le miniere metalliche erano infatti funestate dalla presenza di acqua in profondità, un problema che spesso impediva il loro adeguato sfruttamento. L'unico mezzo conosciuto per evitare le difficoltà create dalla presenza di acqua in profondità era quello di scavare delle gallerie non lontane dai filoni di minerale allo scopo di convogliare l'acqua lontano dalle zone di sfruttamento. Ancora nella prima metà del Settecento erano utilizzate le pompe idrauliche ideate da Agricola nel 1556. La possibilità di sfruttare, con la macchina a vapore, una fonte energetica molto più potente della forza manuale e di quella idraulica, consentì di superare le difficoltà e di aprire pozzi molto più profondi rispetto al passato. Nel 1769 erano in funzione nelle miniere di carbone inglesi più di 200 macchine di Newcomen. L'efficacia e i progressi introdotti dalla macchina di Watt e Boulton, diedero ulteriore impulso all'uso sistematico delle pompe meccaniche. Nel 1778 nella sola Cornovaglia erano in funzione più di 70 macchine di Newcomen e, dopo il 1790, queste furono quasi interamente sostituite da macchine di Watt e Boulton, molto più economiche ed efficaci. È stato calcolato, infatti, che 5 macchine di Watt e Boulton producevano la stessa energia di 7 macchine di Newcomen, con un risparmio nel consumo di carbone di oltre 2/3.
La possibilità, attraverso la progressiva meccanizzazione dei processi estrattivi, di aprire pozzi sempre più profondi sollevò un nuovo problema tecnico, quello della ventilazione delle gallerie. Fin dal Rinascimento la mancanza d'aria nei pozzi profondi aveva ostacolato il lavoro dei minatori e per sopperire a questo inconveniente erano stati utilizzati ventilatori e mantici che dall'esterno favorivano un parziale ricambio dell'aria. Durante il XVIII sec. questo problema non fu risolto in maniera efficace e divenne la principale causa di mortalità dei minatori che lavoravano all'estrazione del carbone e dovevano fronteggiare le insidie dei gas tossici ed esplosivi. Tra i primi, il più comune era una miscela di azoto e gas asfissiante che, combinato a un improvviso calo di ossigeno, poteva provocare la morte per asfissia. Per rimediare a questo pericolo i minatori introdussero lanterne speciali particolarmente sensibili alle variazioni di ossigeno. Sempre più frequenti a partire dalla seconda metà del XVIII sec. erano anche le esplosioni nelle gallerie profonde di un gas detto 'grisù', una miscela di metano e polvere di carbone, per provocare l'esplosione del quale bastava la fiamma di una lanterna dei minatori; data l'invisibilità del metano era praticamente impossibile trovare un mezzo efficace per evitare questo tipo di incidenti.
Soltanto all'inizio dell'Ottocento la scienza seppe dare un rimedio parziale a questo pericolo. Il chimico inglese Humphry Davy (1778-1829) ideò nel 1815 una lampada la cui fiamma era protetta e alimentata attraverso un'apertura che lasciava penetrare l'ossigeno dal basso verso l'alto, impedendo così al fuoco di entrare in contatto con l'atmosfera delle gallerie.
I problemi della sicurezza dei minatori non erano comunque all'ordine del giorno. Nei Voyages métallurgiques Jars aveva osservato che le condizioni dei minatori inglesi erano molto più dure di quelle dei minatori svedesi, senza però che questa differenza costituisse un elemento degno di valutazione nelle preferenze da assegnare a un metodo estrattivo piuttosto che a un altro. L'introduzione della macchina a vapore, la possibilità di sfruttare un giacimento minerario fino al suo esaurimento e la risoluzione del problema dell'infiltrazione dell'acqua nei pozzi e nelle gallerie avevano dato un impulso estremamente significativo all'estensione dell'industria mineraria settecentesca anche se, contemporaneamente, avevano reso la vita dei minatori molto più difficile e rischiosa di quanto non lo fosse ai tempi di Agricola. L'uso della tecnologia non consisteva più solamente nella semplificazione dei processi lavorativi, ma modificava profondamente sia l'organizzazione sia la natura dei lavori tradizionali dei minatori. Gli effetti benefici dell'enorme incremento di produzione di minerali e metalli e la possibilità di costruire formidabili ricchezze rimandarono ancora di qualche decennio un conflitto che trovò nell'introduzione della meccanizzazione del lavoro la premessa più significativa.
L'espansione e il rapido sviluppo dell'estrazione del carbone costituì la condizione materiale perché si sviluppassero su larga scala sia l'industria metallurgica sia quella siderurgica. Il progresso dell'industria metallurgica dipendeva anche dalle conoscenze chimiche che si avevano sulla natura dei metalli e sulle operazioni a essi relative. Intorno al 1750 i metalli conosciuti erano ancora i sette noti nell'Antichità: oro, argento, mercurio, piombo, rame, ferro e stagno. Le operazioni chimiche a cui essi erano sottoposti per essere lavorati erano rimaste pressoché identiche a quelle descritte da Agricola. Tuttavia, la teoria del flogisto introdotta da Stahl all'inizio del secolo aveva apportato alcune importanti innovazioni interpretative.
Il medico tedesco aveva infatti osservato che i metalli, esposti all'azione del calore, si convertivano in una polvere dall'aspetto terroso, le cui proprietà e i cui colori variavano a seconda dell'intensità del calore e della natura specifica del metallo. Combinando la calce metallica (l'ossido) con la polvere di carbone e sottoponendo il misto all'azione del fuoco, la calce ritornava allo stato metallico originario. A partire da queste osservazioni Stahl dedusse che i metalli dovevano essere il risultato della combinazione di una terra primitiva con il flogisto e che il metallo sottoposto a calcinazione perdeva il suo flogisto trasformandosi in calce, la quale, a sua volta, combinata con una data quantità di carbone, riappropriandosi del flogisto, recuperava la natura metallica. L'opinione di Stahl secondo cui i metalli erano una combinazione di una sostanza terrosa e di flogisto fu accettata per oltre cinquant'anni non soltanto come una plausibile interpretazione di operazioni comuni come la riduzione e la combustione, ma addirittura come la più solida base di partenza per chiunque volesse conoscere la natura intima delle combinazioni chimiche. Significativamente, la teoria di Stahl non costituiva solamente un'ipotesi chimica, ma divenne ben presto un assioma comunemente accettato dalla maggior parte dei naturalisti e tecnici impegnati nello sfruttamento delle miniere. Abbiamo già sottolineato come lo stesso Stahl non fosse estraneo ai lavori metallurgici e come un numero consistente dei suoi allievi indirizzò le proprie ricerche in questo specifico settore di studi.
La conoscenza dei metalli e la loro manipolazione fu dunque condizionata in modo consistente dai principî della teoria del flogisto e soltanto con Lavoisier tali convinzioni incominciarono a lasciare spazio a nuove interpretazioni. L'esperimento utilizzato da Lavoisier per rimettere in discussione la validità della teoria del flogisto fu presentato all'Académie Royale des Sciences il 12 novembre 1774. Questo esperimento mostrava che durante la calcinazione dei metalli la calce, invece di perdere il proprio flogisto come ipotizzato da Stahl e da tutti i chimici sperimentali del Settecento, acquistava peso a causa della combinazione con l'aria. Stahl, pur avendo riconosciuto che durante la calcinazione dei metalli si verificava un aumento di peso, non aveva dato comunque importanza a questo fenomeno, convinto che le reazioni e le operazioni chimiche dovessero essere valutate da un punto di vista qualitativo, e tralasciando di considerare le caratteristiche fisiche che si manifestavano durante le combinazioni. Quindi, l'innovazione principale introdotta da Lavoisier non fu tanto il risultato dell'esperimento, peraltro già noto fin dal XVII sec., quanto piuttosto l'importanza attribuita alla precisa quantificazione dei dati sperimentali. Solamente attraverso l'attenta valutazione dei pesi dei reagenti era stato infatti possibile identificare il ruolo chimico di una parte dell'aria atmosferica, l'ossigeno, durante una delle più comuni operazioni chimiche.
Oltre alla critica di Lavoisier al flogisto, nella seconda metà del Settecento numerose nuove scoperte misero in discussione le credenze e le opinioni tradizionali sulla natura e sul numero dei metalli. La scoperta nel giro di pochissimi anni di numerosi nuovi metalli come il tungsteno, il molibdeno e il manganese mostrava che l'analisi quantitativa dei composti poteva dar luogo ad alcune scoperte sensazionali. L'importanza di un approccio quantitativo era particolarmente evidente nel trattamento delle leghe metalliche, composti da cui dipendevano diverse manifatture e industrie siderurgiche. Nella seconda metà del Settecento si era osservato che ‒ contrariamente alla maggior parte delle combinazioni chimiche ‒ la fusione di due metalli differenti non provocava la loro neutralizzazione reciproca. Le leghe, infatti, manifestavano una ripartizione delle proprietà dei metalli semplici secondo le proporzioni in cui questi si trovavano mescolati. Le leghe, dunque, furono considerate semimetalli dotati di proprietà che risultavano dall'azione reciproca delle loro molecole. Il successo di operazioni concrete come la fusione e la liquefazione delle leghe dipendeva quindi da un'esatta conoscenza delle loro caratteristiche fisiche, desunta per lo più dalla misurazione del loro peso specifico. Infatti, si era riconosciuto che il peso specifico delle leghe metalliche era maggiore di quello che risultava dalla proporzione dei metalli in esse contenute. Lavoisier, per esempio, aveva osservato che il peso specifico dell'ottone, rispetto al peso che avrebbe dovuto risultare dalla mera somma dei pesi specifici del rame e dello zinco, era maggiore di 1/10. In altri casi il peso specifico di alcune leghe era inferiore rispetto a quello della somma degli ingredienti. Lo sviluppo della produzione di leghe metalliche su scala industriale a partire dalla fine del secolo offre un'indicazione indiretta, ma significativa, di come i progressi realizzati nella conoscenza teorica delle leggi che presiedevano alla combinazione chimica dei corpi si riflettessero nelle pratiche industriali e artigianali a esse attinenti.
Un esempio ancora più significativo dei rapporti tra teoria e pratica ci viene dalla chimica del ferro. La produzione di questo metallo costituì per tutto il Settecento uno dei più importanti settori dell'industria mineraria. Le conoscenze chimiche dei Bergmeister di tutta Europa sul ferro, dipendevano in larga misura dalla lettura dell'opera di Stahl; essi erano convinti, quindi, che il ferro fosse una sostanza terrosa combinata a una data proporzione di flogisto. Il fenomeno di arrugginimento del metallo, per esempio, era spiegato affermando che il ferro perdeva il proprio flogisto e per questo la ruggine, contrariamente al metallo originario, non era altrettanto combustibile. Bergman, che, come abbiamo visto, aveva lavorato come consulente delle miniere svedesi e aveva tenuto numerosi corsi di mineralogia presso l'Università di Uppsala, pubblicò nel 1780 una memoria intitolata De precipitatis metallicis in cui cercò di dimostrare la modalità con cui il flogisto si combinava con il ferro, dando vita, a seconda delle differenti proporzioni di quest'ultimo, a diverse specie ferrose.
Di queste, le tre forme principali erano: il ferro lavorato che era privo di grafite (che Bergman considerava una combinazione di anidride carbonica e di ossigeno) e conteneva la maggior quantità di flogisto; l'acciaio che aveva, al contrario, la maggior quantità di grafite e la minore di flogisto; la ghisa infine che era composta da una grande quantità di grafite e una notevolmente minore di flogisto. Evidentemente il passaggio da una forma all'altra consisteva nell'aggiunta o nella privazione di flogisto, una sostanza che Bergman aveva cercato non soltanto di isolare, ma anche di quantificare. Per quanto corrette e precise fossero, le analisi di Bergman rendevano sempre più chiaro che chiunque volesse investigare a fondo le caratteristiche chimiche dei prodotti ferrosi dopo la loro manipolazione, doveva in qualche modo isolare il flogisto o renderlo un ente più intelligibile di quanto avesse fatto Stahl all'inizio del secolo. Nel maggio del 1786 un gruppo di chimici e naturalisti vicini a Lavoisier aveva presentato all'Académie Royale des Sciences una memoria nella quale si mostrava come le fatiche di Bergman fossero state spese nella direzione sbagliata e come la soluzione del problema comportasse un approccio totalmente diverso.
Nel Mémoire sur le fer, considéré dans différens états métalliques, Alexandre-Théophile Vandermonde (1735-1796), Claude-Louis Berthollet (1748-1822) e Gaspard Monge (1746-1818) avrebbero mostrato che l'ipotesi del flogisto era del tutto inutile e che la natura del ferro era facilmente spiegabile entro i parametri teorici offerti dalla teoria dell'ossigeno di Lavoisier. I tre autori, infatti, dimostrarono che le proprietà della ghisa, dell'acciaio e del ferro fuso potevano essere ricondotte alle operazioni chimiche considerate da un punto di vista strettamente quantitativo, senza ricorrere a ipotesi o sostanze non isolabili sperimentalmente. Le analisi condotte su ghisa, acciaio e ferro furono comparate tra loro e messe in relazione reciproca dando luogo a una spiegazione della natura del ferro lucida e unitaria. Dal punto di vista della pratica metallurgica, sapere che la ghisa aveva una determinata natura perché negli altiforni avveniva una riduzione incompleta del minerale, era certamente più utile della spiegazione di Bergman che, pur individuando nella ghisa una sostanza dalle caratteristiche chimico-fisiche differenti dal ferro, non riusciva a spiegarne efficacemente la natura.
Oltre ai progressi teorici, il trattamento dei metalli fu agevolato dall'introduzione sistematica degli altiforni e dal perfezionamento, soprattutto in Inghilterra, di nuovi forni capaci di ottimizzare l'uso del coke. Altre innovazioni tecniche, come l'introduzione nel 1783 dei cilindri scandagliati per la produzione delle barre di ferro e altri manufatti meccanici, incrementarono la produttività della lavorazione del ferro e di altri metalli di oltre dieci volte. In particolare, gli effetti della congiunzione tra i progressi delle conoscenze metallurgiche e l'impiego di nuove tecniche ebbero ripercussioni impressionanti nella produzione della ghisa che nel 1780 in Inghilterra era stata di circa 40.000 t l'anno, e soltanto dieci anni dopo era quasi raddoppiata, sfiorando le 80.000 tonnellate.
Per quanto significativi, questi dati offrono solamente un'indicazione parziale dell'andamento della metallurgia settecentesca. Sia i progressi conoscitivi sia quelli tecnologici non erano sempre benvenuti. In un paese all'avanguardia nello sfruttamento minerario e nella scienza metallurgica come la Svezia, per esempio, l'uso della macchina di Newcomen nelle miniere era stato respinto e considerato inutile e, in alcuni casi, addirittura dannoso. Malgrado i tentativi di numerosi naturalisti ed economisti svedesi, che avevano visto gli effetti produttivi della macchina direttamente in Inghilterra, il trasferimento della nuova tecnologia divenne un'impresa impossibile. Un esempio analogo è costituito dal fallimento del tentativo d'introdurre l'uso del coke in Francia. Benché Jars e Lavoisier ne avessero riconosciuto le qualità combustibili ed economiche, non fu possibile, se non in rarissimi casi, utilizzarlo nelle industrie siderurgiche francesi dove era ancora preferito l'uso della legna.
Nonostante queste sfasature, la metallurgia settecentesca costituì uno dei pochi esempi di feconda integrazione tra elaborazione teorica, pratica tecnologica e amministrazione economica. A partire da Stahl, i chimici riconobbero che le pratiche metallurgiche e minerarie potevano offrire un patrimonio conoscitivo e sperimentale di grande ricchezza che, se ben sfruttato, avrebbe aiutato a svelare le leggi della combinazione chimica. Lavoisier stesso, come è noto, cominciò le proprie ricerche chimiche presentando all'Académie Royale des Sciences una memoria sull'analisi chimica del gesso nella quale aveva adottato i metodi introdotti dai mineralogisti tedeschi. I più grandi chimici della seconda metà del Settecento, quali Bergman, Carl Wilhelm Scheele (1742-1786), Louis-Bernard Guyton de Morveau (1737-1816) e Richard Kirwan (1733 ca.-1812) si erano distinti in più di un'occasione come abili mineralogisti e nella maggior parte delle loro pubblicazioni avevano sempre privilegiato la chimica inorganica sulle tradizionali analisi dei regni vegetali e animali. Congiuntamente alla scoperta del ruolo attivo dei gas durante le reazioni chimiche, l'importanza attribuita all'analisi sistematica del regno minerale costituì un cambiamento radicale e importantissimo nelle ricerche chimiche settecentesche, anche se spesso trascurato dagli storici. Per comprendere questo cambiamento è sufficiente ricordare brevemente come, nell'arco del secolo, si fossero venute modificando le priorità della ricerca chimica.
Al fine di qualificare a livello professionale lo statuto epistemologico della chimica, l'Académie Royale des Sciences aveva promosso tra il 1690 e il 1706 un ambizioso programma di ricerca atto a stabilire l'analisi chimica di tutto il regno vegetale. Benché l'intenzione della prestigiosa istituzione accademica parigina fosse quella di stabilire un migliore metodo di preparazione delle droghe derivate dalle erbe, il fine immediato di tale progetto era unicamente di ordine conoscitivo; infatti, i chimici coinvolti nell'impresa dovevano svolgere ricerche ed esperimenti non in funzione di una loro immediata applicazione pratica, ma soltanto ed esclusivamente per ampliare le conoscenze chimiche del mondo vegetale. Questo progetto, interamente finanziato dall'Académie, si può legittimamente considerare come il primo esempio storico di ricerca chimica. I risultati ottenuti dall'assiduo lavoro dei chimici francesi, protrattosi per quasi venti anni, sono ancora conservati negli archivi dell'Académie in decine di grossi volumi in folio, i quali attestano la scrupolosità e la sistematicità degli esperimenti realizzati.
Dal punto di vista della conoscenza reale, però, i risultati furono più modesti. A parte un nuovo metodo per la preparazione degli oli, l'acquisizione di nuovi dati conoscitivi sulla cristallizzazione e sui procedimenti estrattivi e l'enfasi crescente sulla superiorità dell'analisi chimica rispetto agli altri processi di separazione, non furono scoperti ulteriori rimedi. Il naufragio di questo primo programma di ricerca sperimentale non deve tuttavia sorprendere troppo. I chimici dell'Académie, infatti, scegliendo come oggetto delle proprie analisi il regno vegetale, erano stati troppo ottimisti sulle possibilità tecniche che i modesti strumenti di cui allora disponevano potevano garantire loro. Il regno vegetale, inoltre, era stato oggetto di studi approfonditi da parte di moltissimi naturalisti, farmacisti, medici e curiosi ed era dunque difficile, senza nuove tecnologie, ottenere risultati sensazionali. Non da ultimo va considerato che il regno vegetale presentava ‒ dal punto di vista chimico ‒ difficoltà molto maggiori rispetto a quello minerale; era assai più facile, infatti, individuare gli ingredienti e le proprietà di un minerale che la composizione di un vegetale.
Questa differenza che a noi pare ovvia, non era ancora percepita in modo sufficientemente chiaro dai chimici del primo Settecento. Come abbiamo visto in precedenza, essi credevano che vi fosse una corrispondenza fra i tre regni della Natura, non solo perché si riteneva che tutti i corpi crescessero e perissero ma, anche e soprattutto, perché si ammetteva la trasmutazione di corpi da un regno all'altro. Fatta propria questa filosofia della materia, era inevitabile che i chimici del primo Settecento preferissero far partire le proprie ricerche dal mondo vegetale, quello cioè che prometteva maggiori risultati pratici. Stahl e i suoi discepoli, pur non trascurando la chimica vegetale, avevano mostrato nei decenni successivi che l'analisi del regno minerale riservava scoperte molto più interessanti e, data la maggior facilità nella manipolazione delle sostanze minerali, era divenuto possibile comprendere la dinamica delle principali operazioni chimiche. Grazie al successo della teoria del flogisto, gran parte dei chimici della seconda metà del Settecento abbandonò le ricerche di chimica organica e nel 1789 Lavoisier nel Traité élémentaire de chimie le dedicò pochissimo spazio, sostenendo che si trattava dell'ambito della chimica più complesso e misterioso. Soltanto all'inizio del XIX sec. Jöns Jacob Berzelius (1779-1848) e Justus von Liebig (1803-1873) avrebbero ripreso il programma di analisi dei regni vegetale e animale che, poco più di un secolo prima, era miseramente naufragato.
I chimici non furono i soli a beneficiare del cambiamento di atteggiamento avvenuto nei confronti dello sfruttamento minerario e della metallurgia. I Bergmeister, gli ingegneri e i tecnici minerari riconobbero che, collaborando con i naturalisti e i chimici accademici, avrebbero potuto apprendere alcune nozioni teoriche che si sarebbero rivelate molto utili anche nello sviluppo delle pratiche produttive dei metalli. Abbiamo visto che la produzione della ghisa ebbe un deciso incremento soltanto in seguito alla comprensione della sua esatta natura chimica. La fondazione delle accademie minerarie verso la metà del Settecento mostra come un'attività fino ad allora confinata entro i limiti di una pratica tecnologica aspirasse legittimamente a divenire una disciplina scientifica e cercasse, sempre più spesso con successo, di ottenere la collaborazione piena di naturalisti di primo piano. In quasi tutti i paesi europei si assiste, da un lato, al coinvolgimento di accademici, con diverse mansioni, nell'attività mineraria e, dall'altro, all'ingresso di tecnici e ingegneri minerari, com'è il caso di Jars in Francia e Gahn in Svezia, in prestigiose accademie scientifiche. A beneficiare di questa duplice tendenza fu principalmente l'industria, e lo straordinario sviluppo conosciuto dalla siderurgia del tardo Settecento non fu altro che l'effetto più evidente.