L'Eta dei Lumi: l'avvento delle scienze della Natura 1770-1830. La retroguardia qualitativa
La retroguardia qualitativa
di Giuliano Pancaldi
Quando, nel 1796, Alessandro Volta (1745-1827), allora professore di fisica nell'Università di Pavia, suggeriva gli insoliti esperimenti, di seguito riportati, al collega Friedrich Albrecht Carl Gren (1760-1798) di Halle, i fenomeni descritti iniziavano a essere conosciuti con il nome di 'galvanismo'.
Riempite una tazza di stagno con acqua di sapone […] indi avendo impugnato codesta tazza con una od ambedue le mani umettate d'acqua semplice, intingete l'apice della lingua nel liquore: vi farà sorpresa l'inaspettata sensazione, che proverà la vostra lingua di un 'sapore acido' al contatto del 'liquore alcalino'. Un tal sapore […] a poco a poco andrà cambiandosi in un sapore differente, più salato e piccante che acido, tanto ché alla fine diverrà acre e del tutto alcalino, a misura che […] la sua azione chimica più fortemente spiegata la vince da ultimo sopra la sensazione di sapore acido cagionata dalla corrente di fluido elettrico, che va dall'interiore della tazza di stagno al liquore contenuto, entra per la parte della lingua, ed attraversando questa e parte della persona, ritorna al medesimo metallo, ripassa nel liquore ecc. e mantiene per tal guisa una circolazione perpetua. (Le opere, I, p. 395)
Dopo il 1791, sull'onda dell'eco suscitata dagli esperimenti descritti dal medico bolognese Luigi Galvani (1737-1798) in un trattato intitolato De viribus electricitatis in motu musculari commentarius (1791), le sensazioni a cui si riferiva Volta, che fino a quel momento erano state considerate soltanto occasionalmente dal punto di vista estetico, divennero oggetto di un'attenzione senza precedenti. Fu mentre lavorava a questo tipo di fenomeni, con le competenze acquisite nel corso di un'intera vita dedicata allo studio dell'elettricità, che, verso la fine del 1799, Volta costruì la pila elettrica, cioè il primo dispositivo atto a produrre un flusso costante e consistente di elettricità.
L''elettricità animale'
La storia di quella che Galvani e i suoi seguaci chiamavano 'elettricità animale', e personaggi come Volta concepivano invece come ordinaria elettricità fisica, è stata raccontata molte volte e da varie angolazioni. Specialmente quando il racconto include la pila, la storia diventa sufficientemente intricata da costringere il narratore ad adottare una trama semplificata. Le trame suggerite puntano su nozioni profondamente diverse: la meravigliosa cooperazione delle scienze (le scienze della vita e la fisica) per il raggiungimento di un obiettivo comune, per quanto non premeditato (la pila) o, al contrario, la parziale incommensurabilità di concezioni del mondo contrapposte, con le scienze della vita da un lato e la fisica dall'altro. Il presente racconto cerca di evitare siffatte semplificazioni, pur non rinunciando a sollecitare riflessioni sul modo in cui l'episodio può contribuire a farci comprendere alcune tendenze di lungo periodo che influenzavano la scienza intorno al 1800.
L'elettricità, la medicina e la storia naturale avevano già incrociato le loro strade molte volte prima dell'avvento del galvanismo. Agli inizi del XVIII sec., Newton, in un passo spesso menzionato dell'Opticks (1704), aveva richiamato l'attenzione sulla possibilità che il fluido nervoso e quello elettrico fossero identici. Nei primi anni Sessanta dello stesso secolo, un'eminente autorità nel campo delle scienze della vita, il medico e naturalista svizzero Albrecht von Haller (1708-1777), si era pronunciato contro quella possibilità, ma un decennio più tardi gli anatomisti e gli elettrologi avevano accumulato prove sufficienti per sostenere che, nel caso di pesci come la torpedine e l'anguilla elettrica, gli animali manifestavano alcuni fenomeni che dovevano essere considerati a tutti gli effetti di tipo elettrico. Nel frattempo, a partire dagli anni Quaranta, medici di diversi paesi avevano cominciato a praticare varie forme di terapia elettrica e dibattevano sui rispettivi meriti di queste.
Il fascino esercitato dal galvanismo durante gli anni Novanta del XVIII sec. doveva qualcosa a tutti questi antecedenti, oltre a tutte le speculazioni sulla vita, i fluidi e l'Universo che circolavano diffusamente nella cultura tardo-illuminista e in quella protoromantica. Speculazioni di questo genere trovarono la loro espressione in un'affermazione del più famoso appassionato di scienza dell'epoca, Napoleone Bonaparte: "Credo che l'uomo sia il prodotto dei fluidi dell'atmosfera, che il cervello pompi questi fluidi e dia la vita, e che dopo la morte essi ritornino all'etere".
Volta e gli esperimenti di Galvani
Simili speculazioni potevano affascinare anche elettrologi esperti come Volta. Egli apparteneva a quel gruppo di ricercatori convinti che, almeno nel caso della torpedine marina, l'elettricità e la vita mostrassero alcuni fenomeni comuni. Volta era a conoscenza del tentativo, compiuto qualche tempo prima da Henry Cavendish (1731-1810), "d'imitare con l'elettricità gli effetti della torpedine". Nelle "Philosophical Transactions" della Royal Society, Cavendish aveva descritto una torpedine artificiale che egli aveva caricato con una serie di bottiglie di Leida. Questo tipo d'informazione si combinò con le letture eclettiche di Volta sulla filosofia naturale del XVIII sec. orientandolo verso un'elaborata concezione dell'anima, della volontà, dell'elettricità, dei nervi e dei muscoli che agivano nei corpi viventi. Quando le notizie relative agli esperimenti di Galvani sui muscoli delle cosce di rana e al suo trattato sull'elettricità e il movimento muscolare raggiunsero Volta nella primavera del 1792, questi era naturalmente preparato a prestare loro attenzione e a considerare senza indugio, come una ragionevole congettura, la nozione secondo cui l'anima e la volontà esercitano il loro potere sul corpo attraverso i nervi per mezzo del fluido elettrico.
L'utilizzazione delle rane al fine di ripetere gli esperimenti di Galvani sull''elettricità animale' riaccese lo sporadico interesse di Volta nei confronti del fluido nervoso. Egli fece alcune interessanti osservazioni a riguardo, provocate, come di consueto, dal suo impegno a 'misurare' l'elettricità coinvolta nei fenomeni studiati. Per esempio, trovò che l'elettricità sufficiente a eccitare le contrazioni della zampa, quando l'elettricità comunicata alla rana scorreva dal nervo al muscolo, era dalle 4 alle 8 volte minore di quella necessaria per ottenere lo stesso effetto quando l'elettricità scorreva dal muscolo al nervo; nel primo caso, concluse Volta, il fluido elettrico doveva seguire il corso naturale di quello nervoso, mentre nel secondo caso esso doveva scorrere risalendo quel corso. Ciò rafforzò la sua convinzione sul fatto che l'anima e la volontà esercitavano il loro potere sul corpo attraverso i nervi per mezzo del fluido elettrico. Nel trattato di Galvani, Volta vide però qualcosa di più degli usuali elementi che nutrivano le speculazioni sul fluido nervoso e su quello elettrico; ancora più stimolante, ai suoi occhi, era la circostanza per cui, nel corso degli esperimenti descritti da Galvani, le rane si comportavano come rivelatori di elettricità estremamente sensibili.
Alla fine del XVIII sec. la ricerca sull'elettricità 'debole' rappresentava un settore speciale all'interno del più ampio dominio della scienza dell'elettricità. Le credenziali accumulate da Volta in tale settore nei dieci anni precedenti erano formidabili. Grazie a un dispositivo di sua invenzione, l'elettroscopio, era riuscito a rivelare la minuscola quantità di elettricità generata dall'acqua che evapora da una superficie metallica. Nel 1782 aveva reso noto questo risultato in occasione delle sue visite a Parigi e a Londra, illustrando le tecniche utilizzate a Pierre-Simon de Laplace (1749-1827), Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) e a un gran numero di elettrologi britannici; successivamente, inoltre, aveva sviluppato e descritto tecniche simili nelle Lettere sulla meteorologia elettrica, nove delle quali furono inviate tra il 1788 e il 1790 a Georg Christoph Lichtenberg (1742-1799), professore di fisica nell'Università di Gottinga.
In alcuni degli esperimenti di Galvani, le contrazioni delle zampe delle rane si verificavano quando, in apparenza, non c'era nessun'altra elettricità che potesse causarle se non quella speciale estremamente debole che, secondo Galvani, esisteva all'interno dell'animale stesso. A ogni modo, una prassi comune tra gli elettrologi impegnati nella ricerca dell'elettricità debole era quella di toccare ripetutamente un corpo debolmente carico al fine di 'moltiplicare' l'elettricità che esso conteneva, e di renderla perciò rivelabile con l'aiuto di una bottiglia di Leida, di un condensatore o di qualche altro dispositivo simile. Sicché ogni elettrologo a conoscenza della tecnica sapeva anche che era importante evitare di generare, attraverso i ripetuti contatti consentiti, un'elettricità aggiuntiva che, sommata a quella misurata, avrebbe portato a valori falsati nella stima dell'elettricità originaria del corpo.
L''elettricità di contatto' di Volta
Quando ripeteva gli esperimenti di Galvani, Volta era solito sottoporre i fenomeni coinvolti al vaglio della sua esperienza di ricercatore dell'elettricità 'debole', tenendo ben presente che il contatto poteva essere una fonte di elettricità accidentale. In molti esperimenti descritti da Galvani nel 1791 le zampe della rana si contraevano soltanto quando erano poste a contatto con qualche oggetto esterno, come gli archi metallici usati per trasportare o scaricare il fluido elettrico. Per un elettrologo e un misuratore come Volta, abituato a compiere una duplice verifica sulle possibili fonti di elettricità accidentale, era del tutto naturale chiedersi se l'elettricità rivelata dalle contrazioni delle zampe dell'animale potesse essere messa in moto dai corpi con cui esse erano poste a contatto.
Pur convinto ‒ già prima di leggere il trattato di Galvani ‒ che gli animali viventi, e di certo la torpedine marina, contenessero elettricità, Volta cominciò a domandarsi quale fosse la reale fonte dell'elettricità presente nella situazione sperimentale allestita da Galvani, soprattutto dal momento che le rane adoperate da questi compivano le loro meraviglie quando erano morte. Come esperto di elettricità debole e come filosofo naturale convinto dell'esistenza di qualche legame speciale che connetteva la vita e l'elettricità, Volta arrivò a porsi la domanda fondamentale: cos'è che negli esperimenti di Galvani sulle rane morte svolge il ruolo attivo ‒ mette, cioè, in moto il fluido elettrico ‒ e cos'è che, invece, svolge il ruolo passivo, limitandosi semplicemente a rendere visibile il moto del fluido? Fu in questo contesto che il 'contatto', già sospettato di svolgere un ruolo simile a quello dello strofinio nell'eccitare l'elettricità, divenne un candidato qualificato per spiegare in qual modo l'elettricità fosse messa in moto negli esperimenti galvaniani.
Negli anni 1794-1795 Volta sviluppò molto dettagliatamente il principio secondo cui il contatto tra due metalli eccitava il fluido elettrico, portando a sostegno una grande quantità di prove empiriche. L'idea che stava al centro della teoria del contatto aveva le sue radici nelle prime speculazioni dello stesso Volta; in queste, infatti, il fluido elettrico era collegato alle attrazioni meccaniche intrinseche alla materia. La nozione si fondeva facilmente anche con l'immaginario associato alla concezione popolare della pesantezza dei fluidi, che all'epoca ammontavano almeno a sei.
Inizialmente Volta utilizzò la nozione di 'elettricità per contatto' per controbattere a quanti, ogniqualvolta erano coinvolti archi bimetallici, ricorrevano all'elettricità animale per spiegare le contrazioni osservate nelle zampe delle rane. In seguito, quando i galvanisti eliminarono i metalli dai loro esperimenti, egli estese la sua teoria del contatto al caso di due conduttori dissimili ‒ incluse le sostanze umide ‒ che sicuramente erano presenti in ogni corpo organico. Ciò limitava ulteriormente la necessità di dover ricorrere a una qualche elettricità animale speciale.
Tuttavia, la teoria voltiana del contatto continuava a essere compatibile con la nozione ‒ condivisa dallo stesso Volta ‒ secondo la quale gli animali producevano e contenevano naturalmente una certa quantità di elettricità. Nella primavera del 1795 Volta spiegò a un corrispondente in quale modo i corpi viventi, e in particolare i loro cervelli, potessero generare elettricità mediante il contatto tra differenti sostanze organiche. Egli sviluppò con molta cura la sua congettura per renderla compatibile con alcune nuove prove che mostravano come i nervi non fossero cavi al loro interno. A suo avviso, essi non si comportavano come tubi che trasportavano il fluido elettrico generato nel cervello ‒ concepito come una macchina elettrostatica classica, come da molto tempo suggerivano la concezione dell'elettricità legata allo strofinio e la metafora idraulica ‒ ma piuttosto come gli archi metallici o i fili usati dagli sperimentatori dell'elettricità, che convogliavano un'elettricità generata nel cervello dal contatto di sostanze differenti.
Gli esperimenti sull'elettricità della torpedine
Tale era la posizione raggiunta da Volta dopo aver interagito per alcuni anni con i sostenitori di un'elettricità animale speciale quando, nel 1797, Galvani propose nuovamente la torpedine marina come caso chiave all'interno della disputa. Dal punto di vista di Galvani, il caso della torpedine avrebbe dovuto rinforzare la nozione di 'elettricità animale' in quanto opposta all'elettricità comune.
Gli esperimenti sulla torpedine descritti da Galvani enfatizzavano il ruolo che il cervello del pesce svolgeva come fonte di elettricità, andando implicitamente a indebolire la necessità di applicare agli animali la teoria voltiana del contatto. Galvani, per esempio, mostrò che, se il cervello era estratto dal pesce, i due speciali organi laterali, che si supponevano responsabili della commozione, non producevano più l'effetto. D'altra parte, lasciando il cervello nella propria sede, la capacità di produrre la commozione persisteva per un po' di tempo anche dopo aver estratto il cuore dell'animale; apparentemente, quindi, l'elettricità si manifestava per un certo tempo dopo la morte dell'animale, e ciò era quello che Galvani riteneva si verificasse con le sue rane.
Il rinnovato interesse per la torpedine portò Volta a elaborare ulteriormente le idee a lungo coltivate sul "potere della volontà di muovere il fluido elettrico nel cervello degli animali", in accordo con la sua teoria dell'elettricità per contatto, il che ebbe altre conseguenze più decisive.
Sempre durante il 1797, era stato suggerito un nuovo modello per la torpedine marina, sconosciuto a Galvani ma non a Volta, che ne venne a conoscenza un po' di tempo prima di costruire la sua pila. A proporlo era stato William Nicholson (1753-1815), un filosofo naturale che, come Volta, ogni tanto era alle prese con la ricerca dell'elettricità debole. La proposta di Nicholson di realizzare una torpedine artificiale seguiva la descrizione di Cavendish, ma appariva più stimolante a chi era coinvolto nella controversia sul galvanismo. La torpedine artificiale di Cavendish imitava i comportamenti elettrici dell'animale, ma doveva essere caricata con l'aiuto esterno di un generatore oppure di un condensatore preventivamente caricato. In teoria, invece, il modello suggerito da Nicholson era capace di generare la propria elettricità come l'animale reale.
A Nicholson era nota l'accurata illustrazione della struttura interna della torpedine realizzata qualche tempo prima dall'anatomista John Hunter (1728-1793) il quale, mettendo in risalto i grandi nervi che collegano gli organi elettrici con il cervello, suggerì l'idea ‒ condivisa da molti ‒ che l'elettricità dell'animale fosse generata nel cervello. Nicholson aveva però un'inclinazione per le macchine elettriche, e concentrò la sua immaginazione sulla struttura fine degli stessi organi. Nelle descrizioni di Hunter, come nelle precedenti illustrazioni fatte circolare da René-Antoine Ferchault de Réaumur (1683-1757), gli organi elettrici apparivano costituiti da una serie di colonne sistemate una vicina all'altra, ciascuna formata da diversi strati di materiali differenti. All'epoca, di dispositivi elettrici come quelli ne erano stati costruiti pochi, e soltanto a uno era stata riconosciuta la capacità di generare elettricità in grandi quantità mediante un'azione meccanica minima. Il dispositivo in questione era l''elettroforo di Volta', la prima macchina che, un quarto di secolo prima, aveva assicurato al suo inventore i piaceri di una fama europea nella 'repubblica' degli elettrologi.
L'elettroforo era un dispositivo sorprendentemente semplice. Una 'schiacciata' di resina era prima preparata, poi raffreddata e infine caricata elettricamente, strofinandola, di solito, con una pelle di gatto; quindi, su questa stessa schiacciata, era appoggiato un disco metallico, detto lo 'scudo' dell'elettroforo; l'operatore toccava la superficie dello scudo, quindi lo sollevava mediante il manico isolante di cui era dotato e, dopo aver causato l'emissione di una scintilla elettrica, lo ricollocava sulla schiacciata; poi lo toccava di nuovo, lo sollevava come prima, faceva emettere un'altra scintilla, e così di seguito, per un numero indefinito di volte (di qui l'aggettivo 'perpetuo' che Volta volle attribuire al suo congegno). All'indomani della sua descrizione del 1775, per l'elettroforo erano stati suggeriti diversi miglioramenti basati sull'idea che il sollevamento e l'abbassamento dello scudo potevano essere ottenuti con l'aiuto di qualche dispositivo meccanico. Ispirato da questa letteratura e dalle illustrazioni degli organi elettrici della torpedine, Nicholson immaginò che questi ultimi fossero costituiti da un gran numero di elettrofori, connessi da fili e messi in moto dai muscoli dell'animale. Volta riconsiderò la proposta di Nicholson di una torpedine artificiale nel contesto della controversia sulla natura del galvanismo (nella quale Nicholson era coinvolto soltanto marginalmente) e all'interno della cornice offerta dalla sua teoria dell'elettricità per contatto. L'enfasi posta da Nicholson sugli organi elettrici piuttosto che sul cervello dell'animale indusse Volta a mettere temporaneamente da parte le sue speculazioni sul fluido nervoso e su quello elettrico. Fatto ancora più importante, Nicholson suggerì a Volta l'idea che la costruzione di una nuova macchina che imitasse in qualche modo la torpedine potesse essere la prossima mossa nella sua contesa con i galvanisti. In quella fase, tuttavia, qualunque macchina Volta avesse proposto, questa avrebbe dovuto adattarsi alla cornice concettuale della sua teoria dell'elettricità per contatto e ciò significava ristrutturare drasticamente le idee di Nicholson.
Il funzionamento dell'elettroforo era basato sull'assunzione che la schiacciata rappresentasse un isolante perfetto. Le recenti ricerche di Volta sul galvanismo lo avevano portato a ritenere che tra le sostanze umide degli esseri viventi non potesse esistere alcun isolante perfetto. Per quanto fosse favorevolmente disposto nei confronti della sua vecchia macchina, nel 1799 difficilmente Volta avrebbe potuto ammettere che nel pesce elettrico fossero contenuti degli elettrofori.
Dal punto di vista di Volta, gli strati di materiali differenti raffigurati da Hunter nelle colonne che formavano gli organi elettrici della torpedine, e interpretati da Nicholson come elettrofori, potevano essere considerati piuttosto come una serie di coppie di sostanze differenti sovrapposte, che generavano elettricità per contatto. Siccome nel 1799 Volta aveva già mostrato che tali coppie fornivano segni tangibili di elettricità, per lui era del tutto naturale tentare di applicare questa nozione alla torpedine.
Nasce la pila
L'idea che il contatto di materiali differenti fosse in grado, da solo, di mettere in moto il fluido elettrico, adottata nel contesto del programma di 'imitazione della torpedine', ebbe conseguenze straordinarie, in quanto consentì a Volta d'immaginare una torpedine artificiale che generava elettricità senza un apparato meccanico del tipo richiesto per sollevare e abbassare lo scudo dell'elettroforo. Eliminare la parte meccanica dell'artefatto avrebbe reso quest'ultimo un'imitazione incomparabilmente più impressionante dell'animale reale. Se realizzato, il nuovo modello non avrebbe avuto più bisogno di essere caricato con una fonte esterna di elettricità, come avveniva con la torpedine artificiale di Cavendish, né avrebbe richiesto quell'azione meccanica o muscolare aggiuntiva immaginata da Nicholson. Oggi, è possibile affermare con sicurezza che l'imitazione della torpedine basata sulla teoria voltiana del contatto fu un passo importante verso la creazione di una famiglia interamente nuova di macchine elettriche. Una tale cornice concettuale e tecnologica fu quella che guidò Volta nei mesi cruciali del 1799, quando costruì la prima pila. Le sofisticate tecniche da lui sviluppate per misurare l'elettricità debole e le simulazioni concettuali offerte dalla sua teoria del contatto, furono entrambe decisive nel processo che portò dalla concezione alla realizzazione della pila.
Da quando aveva introdotto la teoria del contatto, le misurazioni o le stime delle piccole quantità di elettricità messe in moto da differenti conduttori avevano interessato Volta quotidianamente. Quanto alle vere cause del moto continuo del fluido o della corrente così misurata, esse ‒ secondo Volta ‒ rimanevano misteriose. Malgrado tutto ciò, egli sapeva come concettualizzare i fenomeni grazie ad alcune nozioni intermedie estremamente efficaci che aveva sviluppato nel frattempo: si trattava della nozione di 'resistenza' e di quella di 'tensione'.
La resistenza che conduttori differenti opponevano alla circolazione del fluido permise a Volta di concettualizzare l'efficacia variabile mostrata da differenti coppie di conduttori nel mettere in moto il fluido. La tensione del fluido in un corpo, come nozione distinta dalla quantità del fluido stesso, gli consentì poi di spiegare la spettacolare reazione mostrata dalle rane ‒ negli esperimenti di Galvani ‒ di fronte alla debole corrente messa in moto dai metalli, simile a quella che avrebbero avuto rispetto al fluido emesso da una potente macchina elettrostatica. Ciò accadeva, sosteneva Volta, perché la reazione fisiologica dipendeva tanto dalla tensione quanto dalla quantità. Mentre la tensione dell'elettricità messa in moto dai metalli era debole, la sua quantità era abbastanza grande da produrre l'effetto di una sorgente di bassa quantità di corrente ad alta tensione, come erano le tradizionali macchine elettrostatiche a strofinio. Questo era un altro incentivo a proseguire il programma d'imitazione della torpedine.
Rimaneva da chiarire ancora un problema. Nicholson, infatti, aveva suggerito che ogni coppia di dischi (vale a dire ogni elettroforo), che costituiva il modello della torpedine, doveva essere collegata alle altre coppie in parallelo seguendo la stessa disposizione usata per collegare tra loro molte bottiglie di Leida. Questo suggerimento non si adattava alle idee di Volta a proposito dei circuiti che comprendevano coppie di conduttori. I suoi precedenti esperimenti su circuiti che contenevano coppie identiche, ciascuna costituita da due metalli diversi, avevano mostrato che sotto certe condizioni l'impulso dato al fluido elettrico da una coppia era controbilanciato da un'altra. Mediante un'opportuna disposizione, tuttavia, l'effetto controbilanciante poteva essere evitato e potenzialmente trasformato in uno amplificante. Era questo il passo finale necessario per imitare la torpedine e per costruire la pila. Le scarse testimonianze relative alla fase finale del processo che condusse alla pila suggeriscono che Volta arrivò a costruirla procedendo per tentativi ed errori, usando le straordinarie abilità che aveva acquisito occupandosi dell'elettricità debole.
Per comprendere tale passo bisognerebbe tenere presente che, all'interno del quadro degli esperimenti galvanici, era usuale disporre i metalli e i conduttori uno di fianco all'altro a formare archi o circuiti, ma non impilarli l'uno sull'altro. Volta potrebbe essere stato incoraggiato a cambiare la geometria all'interno del suo tentativo d'imitazione delle colonne o delle pile della torpedine dall'osservazione di Alexander von Humboldt (1769-1859) secondo la quale la rana poteva essere stimolata da due metalli differenti posti a contatto con essa uno vicino all'altro, senza formare un circuito chiuso.
Alla fine, la batteria a colonna o a pila, che Volta descrisse nella famosa lettera del 20 marzo 1800 indirizzata alla Royal Society di Londra, fu realizzata con una serie di coppie di dischi o fili di rame e stagno (o argento e zinco), impilate l'una sull'altra e separate tra loro da un panno umido (nel caso della pila propriamente detta) o da una serie di tazze di acqua salata in ognuna delle quali era immersa una coppia di lamine dei suddetti metalli (nel caso della pila detta appunto 'a tazze'). Probabilmente la serie di tazze, per la quale furono usati gli stessi ingredienti della pila disposti diversamente, fu concepita da Volta come compromesso tra i due meccanismi per eccitare l'elettricità degli animali, ossia l'arco e la pila. Quello che si otteneva come risultato ai due estremi sia della pila sia della serie di tazze era un potente flusso di elettricità, una corrente elettrica che i filosofi naturali non avevano mai sperimentato prima. La nuova affascinante corrente generata dalla pila voltaica assicurò al nuovo dispositivo un immediato successo tra gli elettrologi, i filosofi naturali e i dilettanti di tutto il mondo. La semplicità andò ad aggiungersi alla popolarità del nuovo apparecchio; un giornale dell'epoca riuscì a condensare efficacemente le istruzioni per costruirlo in 116 parole. Le conseguenze della nuova macchina per la scienza dell'epoca si rivelarono, invece, variegate ed estese.
Le prime speculazioni teoriche
Uno dei primi esperti a cui fu mostrata la descrizione voltiana del nuovo dispositivo fu, come era naturale, Nicholson, che Volta aveva menzionato in una nota della sua lettera alla Royal Society. Dopo la costruzione della pila Nicholson dovette rimanere stupito dall'uso che Volta aveva fatto dei suoi suggerimenti sul modo in cui imitare al meglio la torpedine marina. D'altra parte, Nicholson e il suo collega Anthony Carlisle (1768-1840) segnalarono subito nell'apparecchio qualcosa che forse lo stesso Volta aveva notato (come affermerà in seguito), ma non aveva menzionato nella sua descrizione, cioè che alcuni curiosi fenomeni chimici ‒ che oggi chiamiamo 'elettrochimici' ‒ accompagnavano l'attività elettrica della pila. In due settimane dalla comparsa a Londra della descrizione di Volta, Nicholson e Carlisle ottennero mediante la pila la decomposizione elettrica dell'acqua, o 'elettrolisi'. Pochi anni dopo, sempre mediante elettrolisi e sempre a Londra, Humphry Davy (1778-1829) annunciò di aver isolato due nuovi metalli, il sodio e il potassio. Queste furono le prime di una lunga serie di scoperte legate alla pila, che ne fecero, come scrisse Michael Faraday (1791-1867) nel 1839, un "magnifico strumento della ricerca filosofica".
Malgrado ciò, inquadrare adeguatamente la pila nelle teorie dell'elettricità disponibili attorno al 1800 si rivelò un processo non privo di difficoltà. La stessa teoria del contatto di Volta convinse molti, ma non tutti. In Inghilterra, in seguito ai risultati sopra menzionati, cominciarono a prevalere le spiegazioni chimiche del funzionamento dell'apparecchio. In Francia, invece, si assistette a un tentativo di trattazione matematica della pila basato sulla teoria del contatto del suo inventore. L'interesse che sia gli esperti sia la gente comune nutrivano nei confronti della pila si era propagato da Londra a Parigi già nell'estate del 1800. Il "Moniteur", il giornale di Bonaparte, contribuì a far circolare le novità. Un anno dopo, lo stesso Bonaparte fece intendere ai suoi amici scienziati dell'Institut de France che desiderava sfruttare la popolarità di Volta per trarne vantaggio nella propria politica estera. Infatti, egli voleva mostrare attraverso Volta e la sua pila che il nuovo regime sosteneva la scienza ed era pronto a celebrare gli scienziati stranieri, segno, questo, del fatto che era la pace ciò che realmente aveva intenzione di offrire alle altre potenze europee. Volta, da parte sua, era desideroso di ottenere dal suo ultimo risultato un riconoscimento concreto; alla fine del 1801 egli era a Parigi per mostrare la pila a Bonaparte e ai circoli scientifici della capitale. Questi ultimi si sentirono obbligati a mostrare come la pila di Volta s'inquadrasse convenientemente all'interno delle teorie sull'elettricità elaborate in Francia, e in special modo nel tentativo recente di Charles-Augustin Coulomb (1736-1806) di sviluppare una trattazione meccanica e matematica dell'elettrostatica. Il compito di 'matematizzare' la pila fu affidato al giovane Jean-Baptiste Biot (1774-1862), sotto la direzione di Laplace.
Un suggerimento che andava in questa direzione fu offerto a Biot dall'osservazione di Laplace che alle due estremità dello strumento potevano essere registrate attrazioni e repulsioni. Ulteriori suggerimenti derivarono dalle speculazioni sulla presunta velocità acquisita dal fluido elettrico all'interno della pila, che risultava dipendere dalla natura, dalle dimensioni e dalla forma dei dischi metallici usati. Tuttavia, le tecniche di misurazione necessarie per dare un fondamento a questo approccio allo studio del funzionamento della pila semplicemente non esistevano. Alla fine, la strategia di Biot risultò ambigua e alquanto inconcludente. Nella prima parte del suo saggio del 1804, Rapport sur les expériences du citoyen Volta, egli riaffermò la priorità, in linea di principio, delle nozioni di Coulomb per la trattazione dell'intera scienza dell'elettricità; nella seconda parte introdusse un modello matematico per la pila che non stabiliva alcun tipo di legame con la legge coulombiana dell'inverso del quadrato. Il modello matematico della pila realizzato da Biot era basato sulla semplice algebra che lo stesso Volta aveva usato per illustrare la sua teoria dell'elettricità per contatto. Egli adottò, a titolo di prova, la spiegazione voltiana della pila, e si concentrò sulla nozione di 'tensione elettrica', quindi affermò che la tensione di ogni disco metallico all'interno della pila poteva essere calcolata in base al numero di coppie metalliche che formavano la pila. L'approccio di Biot era molto più elegante di quello di Volta e può essere considerato un esempio interessante nella storia della trattazione matematica dell'elettricità.
La matematizzazione della pila da parte di Biot non ebbe però un impatto paragonabile a quello delle memorie di Cavendish sulla generazione precedente di elettrologi, né a quello esercitato sugli scienziati della stessa generazione di Biot dalla trattazione dell'elettrostatica da parte di Siméon-Denis Poisson (1781-1840); sembrava che nella pila vi fosse più di quello che la fisica matematica di Biot o di Poisson poteva trasmettere. Del resto, la pila ‒ quel "magnifico strumento della ricerca filosofica" ‒ era nata ai margini dei programmi di ricerca che perseguivano una trattazione meccanica e matematica dell'elettricità, ed era destinata a resistere per lungo tempo a tale trattazione, com'era lecito attendersi, essendo l'invenzione di un misuratore come Volta il quale, nell'epoca del calcolo, conosceva poco più che l'aritmetica ordinaria. Con il suo pedigree non proprio ortodosso, ulteriormente ridotto dall'oscura connessione con la torpedine marina, la pila appariva inattaccabile ai matematici della fine del secolo. Per queste, e molte altre ragioni, essa continuò a costituire una sfida e una fonte d'ispirazione per diverse generazioni di futuri scienziati.
di John L. Heilbron
Nella famosa 'ultima Query', ossia l'ultima delle questioni in appendice alla seconda edizione dell'Opticks (1718), Newton proponeva alcune considerazioni sulla natura della materia che avrebbero 'nutrito' la filosofia naturale per decenni. "Mi sembra probabile che Dio al principio del mondo abbia formato la materia di particelle solide, compatte, dure, impenetrabili e mobili [...] tanto perfettamente dure da non poter mai consumarsi o infrangersi": in breve, Dio avrebbe fatto gli atomi così come avrebbe fatto Adamo. Dio avrebbe inoltre dotato i primi come il secondo di "principî attivi", in virtù dei quali gli atomi "si attraggono l'un l'altro per effetto di una certa forza, che è straordinariamente potente nel contatto immediato, che a piccole distanze produce [...] effetti chimici [...] e a distanze ancora maggiori [produce] tutti i grandi movimenti dei corpi celesti con l'attrazione della gravità" (Opticks, ed. Cohen, pp. 400, 389, 397). Oltre che di atomi dotati di forze, Newton parla con insistenza nelle sue Queries dell'etere come dell'elemento che media la propagazione della luce e le azioni della gravità, dell'elettricità e del magnetismo. Fra i tentativi posti in atto dai seguaci di Newton per semplificare il meccanismo del suo modello di Universo, ci fu l'elaborazione di una strumentazione matematica che dominò la fisica fino alla fine del XVIII secolo. Lo schema delle particelle e delle forze si propose come un sistema conveniente di rappresentazione e calcolo, e, in alcune versioni, cancellò completamente i solidi, compatti e impenetrabili atomi.
La prima versione completa, e anche la più influente di quest'ultimo tipo di alternativa immaterialista, fu la Philosophiae naturalis theoria redacta ad unicam legem virium in natura existentium (1758) del gesuita cosmopolita Ruggero Giuseppe Boscovich (1711-1787). Lavorando sulla nozione di monade di Leibniz nonché sull'ultima Query di Newton, Boscovich costruì un mondo di punti distinti interagenti fra loro secondo un'unica legge della forza. Questa, partendo con una repulsione asintoticamente infinita alle brevissime distanze per mantenere l'indipendenza dei punti, passava con continuità a una forte attrazione a corto raggio per spiegare la coesione e poi a oscillazioni fra repulsione e attrazione per salvare i fenomeni chimici, l'elettricità e il magnetismo, fino a stabilizzarsi in un'attrazione pari all'inverso del quadrato della distanza tendente in maniera asintotica a zero (gravità). Boscovich mostrò come applicare la sua legge a sistemi di punti e, quindi, ai problemi consueti della meccanica (macchine semplici, collisioni), ai processi chimici, ecc., per arrivare poi a spiegare la differenza fra corpo e anima e a dimostrare l'esistenza di Dio.
Nei suoi centri di forza indipendenti, in ultima analisi irraggiungibili, la teoria di Boscovich conserva una traccia degli atomi. Immanuel Kant esorcizzò questo spirito atomico dai suoi Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft (Primi principî metafisici della scienza della Natura, 1786), un testo di primaria importanza nella formazione della Naturphilosophie, che rifiutava la matematizzazione della filosofia naturale quale l'aveva voluta Newton. Kant distingueva fra l'elemento 'matematico' della materia (con cui intendeva la concezione atomica) e l'elemento 'dinamico', di cui i suoi Anfangsgründe dimostravano la verità metafisica. Dinamico significa materia in movimento, il solo modo, per Kant, con cui si può riempire lo spazio. Riempire lo spazio significa resistere all'ingresso di altra materia e, dal momento che soltanto un movimento o una causa di movimento può opporsi a un movimento, Kant collocava la resistenza alla penetrazione in una forza di movimento o forza di resistenza intrinseca a tutta la materia. Questa forza repulsiva, un concetto irriducibile nella teoria dinamica, agisce in superficie, nel contatto o a contatto fra due parti di materia. Kant abbandonò l'atomismo anche nella forma delle monadi, perché esso lasciava impenetrabile la causa dell'evidente impenetrabilità; lo definiva 'matematico', perché spiegava la continuità con il concetto matematico di spazio negandola così alla materia. Ciò non vuol dire che Kant considerasse l'introduzione della matematica in opposizione alla fisica. Al contrario: "[…] in ogni dottrina particolare della natura si può trovare solo tanta scienza propriamente detta, quanta è la matematica che si trova in essa" (Metaphysische Anfangsgründe, ed. Galvani, p. 11).
Il metafisico riconosce che, se non si vuole che la materia si disperda indefinitamente, dev'esserci in essa un principio di attrazione. A differenza della repulsione, l'attrazione agisce istantaneamente a distanza e penetra dappertutto. Non è una forza che operi in superficie. Di tali due forze, e solamente di queste due, è costituita la materia, e da esse questa prende le qualità fondamentali della continuità, dell'elasticità e del dinamismo. Kant sosteneva che, metafisicamente parlando, con queste scoperte egli aveva portato a compimento la fisica; il resto apparteneva alla matematica: "[la metafisica] non è più responsabile se si dovesse andare incontro ad una sconfitta nel costruire in questa maniera il concetto di materia. La metafisica risponde solamente della giustezza degli elementi di cui dispone la nostra conoscenza razionale per questa costruzione: essa non risponde dell'insufficienza e della limitazione di cui la nostra ragione potrebbe dar prova nell" (ibidem, p. 83).
La possibilità di realizzare un approccio dinamico infiammò l'immaginazione di parecchi giovani filosofi delle università della Germania settentrionale, in particolare di quella di Jena. Potrebbe essere stata questa sfida a spingere Johann Carl Fischer (1760-1833), il quale aveva appena terminato gli studi in legge proprio quando si diffusero a Jena gli Anfangsgründe, a passare alla fisica. Il reclutamento di Fischer si rivelò importante. Il suo usatissimo Physikalisches Wörterbuch (Dizionario di fisica) in 10 volumi (1798-1827) ‒ che reca il sottotitolo Erklärung der vornehmsten zur Physik gehörigen Begriffe und Kunstwörter (Spiegazione dei principali concetti e termini della fisica) ‒ mostrava in maniera sistematica come la fisica comunemente accettata potesse essere riformulata in modo da concordare con il programma di Kant. Fischer però non immaginava che la maniera a priori in cui Kant aveva dedotto il sistema dinamico potesse essere usata per elaborarne le conseguenze in fisica. Il collega di Fischer a Jena, il giovane professore di filosofia Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854), pensò di poterlo fare. Cercando di mettere in atto questa sua convinzione, inventò la "fisica speculativa" o Naturphilosophie.
Schelling doveva la sua nomina all'Università di Jena all'appoggio di Johann Wolfgang von Goethe, di cui condivideva l'opposizione nei confronti di un newtonianismo meccanicistico, atomistico, matematico. Durante i primi anni a Jena, Schelling fece la conoscenza di numerosi autori illustri della scuola romantica tedesca, alle cui idee la sua Naturphilosophie speculativa, libera dalle costrizioni della matematica e dell'esperimento, faceva da pendant simpatetico. Nello sviluppare le idee di Kant, Schelling non trascurò i risultati più recenti della scienza naturale qualitativa, in particolare i lavori sul galvanismo, l'area della scienza fisica in cui la Naturphilosophie avrebbe colto il suo maggiore successo. L'elettricità e il magnetismo fornivano a Schelling gli esempi concreti di forze che si contrapponevano in Natura. Questi, insieme con altre coppie di opposti come quella acido-base, fecero qualcosa di più che fornire semplicemente un sostegno alla concezione dinamica dell'equilibrio della materia. Simmetriche (come non erano l'attrazione e la repulsione di Kant) e polari, le forze in contrapposizione di ogni tipo combattevano l'una contro l'altra fino a giungere a una risoluzione (di qui lo stato elettricamente neutro, il sale neutro, la luce, l'improbabile combinazione di etere repulsivo e ossigeno attrattivo), che era poi dissolta da qualche disturbo; iniziava allora una nuova lotta verso un equilibrio probabilmente più elevato. Le coppie di opposti avevano avuto origine dalla divisione spontanea dell'Urkraft (forza originaria) o Urpolarität (polarità originaria), con cui la Weltseele (anima del mondo) aveva infuso in tutta la materia vari gradi di vita o almeno una qualche animazione. L'origine delle molte e diverse coppie di forze polarizzate nell'unica Urkraft garantiva l'unità in mezzo alla selvaggia varietà dei fenomeni naturali. Lo sforzo di scoprire le tracce di questa unità primitiva nel mondo che li circondava occupò due generazioni di Naturphilosophen.
Schelling pubblicò la prima esposizione sistematica delle sue idee nel 1799, con l'Erster Entwurf eines Systems der Naturphilosophie (Primo abbozzo di un sistema di filosofia della Natura) e la Einleitung zu dem Entwurf (Introduzione all'abbozzo). I due scritti furono recensiti nella rivista colta di Jena da un matematico e filosofo anonimo (Fischer) che li criticò senza mezzi termini per la loro arbitrarietà. Schelling rispose incaricando uno studente, Heinrich Steffens (1773-1845), di scrivere una recensione elogiativa in una rivista fondata allo scopo da Schelling stesso, il quale aggiunse alla critica la rassicurazione che la Naturphilosophie stabiliva "i principî generali e le idee guida per tutto il successivo lavoro nel campo della filosofia naturale".
I metodi e gli approcci precedenti avevano fatto il loro tempo: la Naturphilosophie, secondo Schelling, avrebbe dovuto promuovere una rivoluzione generale e convincente di tutte le precedenti idee e teorie della Natura fino ad allora dominanti. I toni enfatici ‒ Steffens esaltava Schelling perché infondeva l'alito della vita nella filosofia naturale, contrariamente a "tutta la fisica precedente, come l'atomismo meccanico [...] che partiva da cose morte" (Recension der neueren naturphilosophischen Schriften des Herausgebers, pp. 26, 121) ‒ non erano i più adatti a fare accettare la nuova vera scienza nelle università tedesche ‒ come quella di Gottinga ‒ dominate da esponenti tradizionali della scienza fisica. Essa si diffuse invece a Jena, dove fece 'girare la testa' a un giovane di formazione farmacistica, Johann Wilhelm Ritter (1776-1810).
Ritter portò la Naturphilosophie a Gotha e a Monaco, ma in nessuno dei due casi nelle università. Durante gli ultimi cinque anni della sua breve vita, Ritter riprese l'amicizia con Schelling (si erano allontanati in maniera spiacevole nel 1799) in Baviera, dove quest'ultimo era emigrato dopo aver lasciato burrascosamente Jena. Ritter si era dedicato intanto a sostenere e a diffondere la Naturphilosophie mediante la sperimentazione. Uno dei suoi principî guida fu l'identificazione dell'elettricità frizionale con quella galvanica alla maniera di Alessandro Volta; tuttavia egli arrivò a questa conclusione con le proprie indagini sperimentali. La più antica di queste, riportata nel suo Galvanismus (1797), rivelò che l'efficacia dei metalli nel galvanismo era in connessione con il loro 'entusiasmo' a unirsi con l'ossigeno, circostanza che suggeriva uno stretto legame fra elettricità e chimica. Ritter fu tra i primi ad applicare la pila di Volta (cioè la corrente galvanica) alla decomposizione elettrolitica dell'acqua; dalla ricombinazione dei prodotti con una scintilla elettrica ordinaria, ricavò la conferma definitiva dell'identità che egli stesso e Volta avevano difeso. Gli effetti chimici associati con la pila, che Volta dapprima ignorò e addirittura negò, interessavano naturalmente Ritter in quanto fornivano una prova della connessione da lui prevista fra i processi chimici e quelli elettrici.
Questa connessione condusse Ritter a realizzare la sua invenzione principale, un accumulatore primitivo (1803). Avendo notato la polarizzazione (una parola che sa di Naturphilosophie) degli elettrodi in una cella elettrolitica attivata da una pila voltaica, Ritter staccò la pila dalla cella, collegò esternamente gli elettrodi polarizzati della cella come se fosse una batteria, e mostrò (usando come rilevatore la propria lingua) che generava corrente. Nel 1803 assemblò cinquanta piccole piastre di rame separate da cartone inzuppato di acqua salmastra, collegò le piastre estreme di questa colonna a una forte batteria voltaica fino a polarizzare la colonna a sufficienza, e vide che, lasciate in circuito aperto, esse trattenevano la loro carica per una mezz'ora e anche più. Sottopose questa invenzione alla commissione per il premio nel campo dell'elettricità istituito da Napoleone Bonaparte in onore di Volta ma, benché l'amico e seguace della Naturphilosophie Hans Christian Oersted (1777-1851) ne desse con successo dimostrazioni a Parigi, non vinse il premio. In ogni caso, Ritter aveva raggiunto un obiettivo che considerava più importante: la prova di una polarizzazione secondaria, un'altra ramificazione della Urkraft.
L'adesione di Ritter alla Naturphilosophie lo fece appassionare alla ricerca di risultati che altri non potessero duplicare. Le analogie fra la batteria e un semplice magnete facevano pensare che un ago sospeso, fatto di argento e zinco, si sarebbe orientato come l'ago della bussola; e così accadde, secondo Ritter. Altre analogie lo indussero, nel 1801, a continuare la dimostrazione di William Herschel (1738-1822) dell'esistenza di raggi al di là del rosso dello spettro visibile, fino a scoprire l'ultravioletto attraverso il suo effetto sul nitrato d'argento e dedurre una polarità spuria tra le due regioni invisibili dello spettro. I raggi infrarossi ossidano, gli ultravioletti riducono, un'affermazione che, per quanto errata, ebbe il merito di richiamare l'attenzione sugli effetti fotochimici. A Monaco, Ritter studiò la rabdomanzia come guida verso l'unità fra pensiero umano e processi inorganici. Si recò in Italia, in parte per vedere Volta, ma soprattutto per studiare le operazioni di un famoso rabdomante di nome Campetti, che portò con sé in Germania; non riuscì però a convincere i colleghi di accademia (Ritter era stato nominato membro della Bayerische Akademie der Wissenschaften, Accademia Bavarese delle Scienze).
Nel 1799, nel momento più alto della fisica speculativa a Jena, il poeta Novalis, che attirò Ritter nel circolo dei romantici locali, scrisse: "Ritter ist Ritter, und wir sind nur Knappen" (Ritter è cavaliere, e noi siamo soltanto scudieri). Scrivendo di lui nel 1800, Goethe lo definì "un fenomeno impressionante, un vero cielo di conoscenza sulla Terra". Un altro letterato, Clemens Brentano (1778-1842), vedeva in Ritter un uomo "che, come Mosè con il suo bastone, batte la dura roccia della scienza, dalla quale zampilla una cristallina sorgente di sapienza, ed egli ne riempie audacemente la sua coppa". Al pari di Mosè, Ritter non entrò nella Terra promessa: "Oh Dio, se soltanto fossi tutt'uno con la Natura! Ma questo posso sperarlo solamente dalla tomba" (Schipperges 1969, frr. [16-19]).
Il Giosuè di Ritter, Oersted, anch'egli con formazione da farmacista, ottenne il dottorato dall'Università di Copenaghen nel 1799 con una tesi sugli Anfangsgründe di Kant. Un viaggio in Germania lo aveva portato a Jena, da Schelling e, soprattutto, da Ritter, le cui idee egli abbracciò fin troppo fiduciosamente. Quando a Parigi mostrò l'accumulatore, Oersted difese anche la dimostrazione di Ritter dei poli elettrici della Terra e altre scoperte false. Tornato a Copenaghen nel 1804 con la reputazione di uno che si era fatto prendere da frettoloso entusiasmo, Oersted decise di far arretrare la Naturphilosophie da guida fidata a orientamento generale per il lavoro empirico. Il primo risultato importante del conseguente lavoro empirico, che recava il titolo dal moderato tono naturphilosophisch, Recherches sur l'identité des forces électriques et chimiques (1813), discuteva dei cambiamenti richiesti per adattare le scoperte che non concordavano con la chimica di Lavoisier (per es., l'assenza di ossigeno nell'acido cloridrico) e sottolineava un esperimento per dimostrare la connessione o conversione fra l'elettricità e il magnetismo.
Oersted considerava la corrente galvanica non come un flusso costante ma come una serie di getti, la conseguenza di una rapida successione di cariche e scariche attuata sugli elettrodi dalla manifestazione della forza chimica sotto forma di elettricità. Questi getti, che procedevano da ciascuna terminazione del filo, si annullavano reciprocamente verso la metà, producendo calore e luce (che sono altre manifestazioni del carattere dinamico della materia). Questo "conflitto", come Oersted lo chiamò, doveva anche manifestarsi come forza magnetica in accordo con l'unità fondamentale insegnata dalla Naturphilosophie. Quando alla fine, nel 1820, Oersted scoprì l'effetto fu sorpreso che le condizioni più adatte per produrlo erano notevolmente diverse da quelle da lui scelte nell'impostare i suoi esperimenti: il filo conduttore di corrente doveva offrire la minima resistenza possibile (Oersted aveva provato con fili stretti per accrescere l'intensità del conflitto) e l'ago della bussola, usato come rilevatore, doveva essere posto parallelamente al filo (Oersted lo aveva sistemato perpendicolarmente, per migliorare l'osservabilità del conflitto). Egli immaginò che il conflitto avvolgesse il filo mentre procedeva lungo di esso, muovendosi in spirali che giravano in senso opposto. L'ago posto parallelamente al filo riceveva la forza magnetica delle spirali ad angolo retto e, essendo polarizzato, andava a posizionarsi di traverso rispetto al filo, fino a raggiungere l'equilibrio con il conflitto che avvolgeva il filo stesso. Fu compiuto così il primo passo essenziale verso l'elettromagnetismo. Esso richiedeva il riconoscimento di una forma di forza ‒ una progressione rotatoria (come la vedeva Oersted) intorno alla linea contenente la sede del potere attivo (i getti), mentre il cicerone di Oersted, Kant, aveva dimostrato che le forze agenti fra porzioni di materia dinamica possono operare solamente lungo la linea che le collega.
Thomas Seebeck (1770-1831) seguì la scia della scoperta di Oersted in un modo accessibile forse solamente a un Naturphilosoph. Conseguito il titolo di Medicinae Doctor a Gottinga, Seebeck passò alcuni anni a Jena, dove divenne intimo amico di Ritter e cominciò a collaborare con Goethe. Il loro lavoro si concentrò sulla Farbenlehre (Teoria dei colori, 1810) di Goethe, un libro che mirava a correggere le esagerazioni delle teorie ottiche di Newton e a fornire un esempio di trattazione olistica, qualitativa, meno ostica e globale, di una branca della filosofia naturale. Il lavoro su questo progetto portò Seebeck alla scoperta di certi modelli colorati evidenziati su vetro visti attraverso luce polarizzata (figure entoptiche), per cui nel 1816 vinse il premio dell'Académie Royale des Sciences. Egli interpretò la scoperta di Oersted come una manifestazione della forza chimica della batteria nel magnetismo, che muoveva l'ago della bussola. Questa interpretazione portò Seebeck a riconoscere, e a fraintendere, il significato di un'osservazione da lui fatta mentre studiava le anomalie di metalli, come il bismuto, quando erano usati come elettrodi. Egli prese un pezzo di bismuto, lo collegò a una terminazione di un filo di rame e vi mise vicino un ago di bussola per controllare il magnetismo utilizzando l'effetto Oersted. Quando Seebeck chiuse il circuito premendo con il dito la terminazione libera del filo di rame nel bismuto, l'ago si mosse. Dopo parecchi tentativi, egli attribuì la causa del movimento dell'ago al calore trasmesso al circuito dal suo dito; ne concluse (nel 1822) che aveva scoperto un termomagnetismo simile al 'chemico-magnetismo' di Oersted. Accettando l'elettromagnetismo e interpretando la sua scoperta come termoelettricità, Seebeck avrebbe potuto inferire, in modo naturale per un Naturphilosoph, che una corrente che passava attraverso un circuito bimetallico creava interessanti effetti di riscaldamento nei punti di giunzione. Questa scoperta fu realizzata nel 1834 da un orologiaio francese, Jean-Charles-Athanase Peltier (1785-1845), il quale aveva cominciato a studiare l'elettricità osservando gli effetti del galvanismo nel corso di vivisezioni, di cui intendeva occuparsi nel momento in cui fosse andato in pensione.
Nella Farbenlehre Goethe propose la critica della Naturphilosophie alla scienza meccanicistico-matematica tramite un attacco diretto all'Opticks di Newton. "Si ha l'impressione di trovarsi in tombe egizie" ‒ scrisse Goethe a proposito delle sensazioni che provava leggendo i newtoniani ‒ "i fenomeni sono stati sventrati e imbalsamati con numeri e simboli, la bara scientifica è dipinta con figure sgargianti [...]. Chi mi salverà dai risultati di questa morte?" (Nielsen 1989, p. 140). Goethe dava la precedenza ai risultati immediati della percezione; l'azzurro del cielo, il rosso del tramonto, erano per lui Urphänomenen (fenomeni originari), mentre gli esperimenti di Newton con il prisma erano ritrovati arbitrari e innaturali. Per Goethe, come per i filosofi prima di Newton, la luce bianca era pura e omogenea; i colori nascevano dal fatto che si tinteggiava di bianco l'oscurità. Insistendo sul dato immediato, Goethe sperava di recuperare gli aspetti affettivi, emotivi, del mondo fisico, e anche la sua verità, credendo con Schelling che, grazie alla distribuzione della Weltseele, i sensi umani forniscano un accesso privilegiato alle forze della Natura. Goethe adduceva una gran quantità di osservazioni personali, alcune acute e non facili da spiegare, a sostegno della sua visione eterodossa e, con l'aiuto di Seebeck, sviluppò analogie polari nella teoria dei colori e altre tesi che si richiamavano a Ritter e Schelling. Le sue invettive, la sua disorganizzazione ed eterodossia, però, fecero sì che la maggior parte dei filosofi naturali tedeschi, e a fortiori i recensori di Francia e Gran Bretagna, condannassero la Farbenlehre come la fisica di un poeta.
Benché nel 1830 la Naturphilosophie avesse visto diminuire l'influenza che aveva esercitato sulle università tedesche, i suoi ideali di unità e interrelazioni di forze continuarono a ispirare i filosofi naturali. Molti enunciatori del principio di conservazione dell'energia mantenevano questi ideali. Una forma attenuata di Naturphilosophie o, almeno, di fisica dinamica è stata individuata nell'opera di Humphry Davy e di Michael Faraday. Benché nessun filosofo naturale produttivo coltivasse la scienza seguendo alla lettera le linee indicate dalla rivoluzione di Schelling, molti ne trassero ispirazione per sviluppare indirizzi di indagine non aperti a coloro che sventravano e imbalsamavano la scienza naturale. Come scrisse l'imparziale Fischer, "i nuovi filosofi, specialmente Schelling e i suoi seguaci, ebbero la buona idea di sviluppare una Naturphilosophie dagli insegnamenti di Kant. Bisognava dimostrare la possibilità di costruire la Natura [da una considerazione delle leggi necessarie per l'esistenza delle cose]. Ma l'impossibilità di questa idea risulta abbastanza chiaramente dall'osservazione che [...] l'esistenza non può essere presentata in una induzione pura" (Physikalisches Wörterbuch, X, p. 158). Non c'è dubbio, però seguendo idee sbagliate Colombo scoprì l'America.
di Anders Lundgren
Nella storia della scienza la fine del XVIII sec. coincide con l'epoca in cui si realizza l'evento già allora definito 'rivoluzione chimica', nel corso del quale ‒ soprattutto grazie alle ricerche di Lavoisier, il 'Newton della chimica' ‒ prende forma la chimica moderna. Questa rivoluzione è stata identificata con lo sviluppo dell'analisi quantitativa e la parallela diffusione dell'uso della bilancia e, in una misura non trascurabile, con l'abbandono della teoria del flogisto, sostituita da una teoria basata sull'ossigeno. Si è anche affermato che con questa sostituzione una teoria moderna e coerente veniva infine a rimpiazzarne una vecchia e incoerente. In realtà, il quadro della situazione è più complicato; innanzitutto, l'abbandono della teoria del flogisto e la scoperta dell'ossigeno non sono state le principali caratteristiche della rivoluzione chimica. Di conseguenza, non si può negare l'esistenza di una certa continuità tra la chimica pre- e postrivoluzionaria, che spesso è stata messa in ombra dalla tesi aprioristica secondo cui l'affermazione della nuova chimica s'identificava con l'idea stessa di progresso scientifico ed era destinata a condurre quella disciplina alla situazione attuale.
La nascita della chimica antiflogistica
La teoria del flogisto spiegava la combustione ipotizzando l'esistenza di un principio comune ai corpi combustibili, appunto il flogisto, che durante la reazione si liberava dai corpi che lo contenevano; con l'esaurimento del flogisto la combustione cessava, lasciando come residuo una sostanza semplice, cioè una 'calce' (ossido). La teoria era dotata di una certa efficacia, in quanto poteva spiegare in termini generali l'ossidazione e la riduzione e conferire un ordine e una struttura a un corpus di conoscenze chimiche estremamente diversificato. Come nel caso di altre sostanze chimiche considerate elementari, nel XVIII sec. si riteneva che anche il flogisto possedesse alcune qualità essenziali e avesse la capacità di conservarle allorché si trovava allo stato combinato; in particolare si pensava che avesse il potere di determinare l'infiammabilità dei corpi nei quali era presente, essendo esso stesso il principio dell'infiammabilità.
Le difficoltà dell'analisi chimica costituivano un ostacolo insormontabile per il concetto di misurazione. Per esempio, non esisteva un criterio in base al quale stabilire se una sostanza fosse o no pura e, a prescindere dall'abilità dell'analista, misurando due volte consecutive le stesse sostanze con gli stessi metodi si poteva giungere a risultati quantitativi estremamente diversi; soltanto in seguito alla rivoluzione chimica furono attribuite funzioni ben definite alle misurazioni quantitative e alla bilancia. Lavoisier fu una figura chiave in questo processo, anche se sarebbe inesatto identificare la rivoluzione chimica con le sue ricerche.
Lavoisier aveva iniziato a elaborare una nuova teoria della combustione fin dagli anni Settanta del Settecento, nell'ambito di un più vasto progetto di studio sulla fissazione dei gas. Fu un processo lento perché egli non si era ancora liberato dell'idea secondo la quale nella reazione era coinvolto un unico gas, cioè l''aria fissa' (anidride carbonica). Nel 1789, infine, nel celebre Traité élémentaire de chimie egli riuscì a formulare per la prima volta una teoria completa della combustione, alternativa a quella del flogisto, i cui elementi fondamentali, tuttavia, erano già stati resi noti da qualche anno dallo stesso Lavoisier in numerosi lavori scientifici particolari. Secondo la sua nuova teoria l'aria era costituita da due gas differenti, l'ossigeno e l'azoto; il calore doveva essere considerato l'effetto sensibile di un fluido imponderabile, cioè di una sostanza materiale priva di peso, e l'ossigeno allo stato gassoso era un composto chimico formato dall'ossigeno e dalla 'materia del calore' (detta poi 'calorico') che nel corso della combustione si decomponeva, per cui l'ossigeno era assorbito dal corpo combustibile (la qual cosa spiegava l'aumento di peso di quest'ultimo), mentre la 'materia del calore' si disperdeva nell'ambiente di reazione, dando luogo agli effetti termici tipici associati a questa reazione.
Nell'ambito di queste nuove scoperte, Lavoisier aveva compiuto una scelta molto importante, quella di attribuire un nome, derivandolo dal greco, al gas che agiva come protagonista principale chiamandolo ‒ come si è detto ‒ 'ossigeno', cioè, 'generatore di acido', perché egli supponeva che esso fosse il costituente elementare caratteristico di tutti gli acidi. Come testimonia la stessa teoria del flogisto, i chimici del XVIII sec. facevano abitualmente uso di corpi semplici che erano identificati con proprietà caratteristiche di un'intera classe di sostanze; utilizzando il termine 'ossigeno' per la componente dell'aria atmosferica responsabile del fenomeno della combustione (e anche della calcinazione e della respirazione), Lavoisier dimostrò di essere in una certa misura ancora legato al modo di pensare di tipo qualitativo. Tuttavia, l'attribuzione di un nuovo nome a un gas già noto comportava il suo inserimento in un nuovo contesto teorico, evidenziando così una delle principali caratteristiche della rivoluzione chimica, consistente nella reinterpretazione di fatti già conosciuti. Lavoisier, infatti, non cessò mai d'integrare i suoi esperimenti con un attento studio degli sviluppi della chimica pneumatica a lui contemporanea.
Alcuni studiosi ritengono che la rivoluzione chimica sia stata caratterizzata dalla 'quantificazione' della chimica. In una certa misura ciò corrisponde al vero; in effetti, attraverso il metodo del bilancio della materia e dei corpi semplici coinvolti nelle reazioni elaborato da Lavoisier, ai numeri esprimenti misure e alla stessa bilancia era attribuito un nuovo significato poiché, sebbene fosse noto da molto tempo, questo metodo non si confaceva alle tecniche analitiche di tipo qualitativo allora in uso; si riteneva, infatti, che fosse importante l'uso retorico delle misure numeriche piuttosto che la loro effettiva esattezza. In realtà, la precisione delle misurazioni eseguite con le migliori bilance superava le necessità relative alle verifiche sperimentali delle argomentazioni basate sul metodo del bilancio di materia. Poiché quest'ultimo presupponeva un confronto tra la quantità delle sostanze prima e dopo la reazione, a partire da questo momento la legge della conservazione della materia, di cui già da molto tempo era stata intuita la verità, divenne un fondamentale strumento d'indagine analitica. A grandi linee, si può identificare la rivoluzione chimica con lo sviluppo degli studi sui gas che, insieme al metodo del bilancio di materia, produsse nuovi risultati quantitativi, rese possibile una nuova interpretazione di fatti già noti e creò una nuova teoria della combustione.
Non si può spiegare in modo lineare un evento così complesso come quello appena descritto sommariamente; alcuni autori ritengono che l'influenza metodologica della fisica sperimentale sia stata determinante e che Lavoisier abbia deliberatamente usato i metodi di tale disciplina per rivitalizzare lo studio della chimica. Altri affermano che il metodo del bilancio di materia sia stato la logica conseguenza dell'interesse lavoisieriano per gli esperimenti di Stephen Hales (1677-1761) e di Joseph Black (1728-1799). Anche se nel corso della prima fase delle sue ricerche Lavoisier non fu direttamente influenzato dalla fisica sperimentale, non vi è alcun dubbio che successivamente la direzione presa da quest'ultima rafforzò le sue convinzioni; essa, in effetti, esercitò una profonda influenza sull'intera chimica, suscitando un maggiore interesse per i numeri e favorendo l'uso e lo sviluppo di nuovi strumenti, tra cui, per esempio, il 'calorimetro a ghiaccio', grazie al quale lo stesso Lavoisier e Laplace (che ne fu l'inventore principale) determinarono la quantità di calore emessa durante una reazione misurando la quantità di ghiaccio che questa era in grado di fondere. Inoltre, lo sviluppo della fisica sperimentale incoraggiò una concezione strumentale della teoria, considerata come una generalizzazione provvisoria basata sull'evidenza empirica. Secondo Lavoisier, infatti, un elemento era la sostanza più semplice che un chimico potesse ricavare mediante l'analisi; si trattava quindi di una definizione empirica che consentiva di modificare la tavola delle sostanze elementari a seconda dell'evolversi delle tecniche di laboratorio.
La definizione degli elementi era connessa alla formulazione di una nuova nomenclatura chimica, che Lavoisier intraprese ispirandosi al filosofo étienne Bonnot de Condillac (1714-1780). Egli riteneva che agli elementi più semplici dovessero essere attribuiti nomi semplici e definiti e che, invece, i nomi dei composti chimici dovessero risultare dalla combinazione dei nomi delle loro parti costituenti, in modo che la composizione delle sostanze più complesse fosse specificata direttamente nel loro nome, ottenendo dunque una nomenclatura in grado d'informare il lettore e di sintetizzare le conoscenze chimiche. Lavoisier espose queste idee nell'opera Méthode de nomenclature chimique (1787), redatta in collaborazione con Louis-Bernard Guyton de Morveau (1737-1816), Claude-Louis Berthollet (1748-1822) e Antoine-François de Fourcroy (1755-1809).
Benché condizionata dall'influenza della fisica sperimentale, la chimica non si confuse mai con essa. Come fu più volte affermato nel corso del XVIII sec., e anche successivamente, si riteneva che la principale differenza tra le due discipline consistesse nel fatto che la fisica era una disciplina generale, che si occupava delle proprietà comuni a tutti i corpi, mentre la chimica studiava le proprietà specifiche delle singole sostanze. Questa distinzione seguitò a essere adottata anche quando i campi delle due discipline rischiarono di confondersi dal momento che sia il flogisto sia l'ossigeno, cioè singoli elementi chimici, erano impiegati per spiegare proprietà comuni a molte sostanze, rispettivamente l'infiammabilità e l'acidità.
Spesso la diffusione della chimica antiflogistica è stata descritta come una crociata e come un'impresa di conversione alla verità; in effetti, diversi fattori, sia di tipo scientifico sia di tipo culturale e nazionale, concorsero a suscitare un vasta reazione contro la nuova teoria. Uno dei primi studiosi ad accettarla fu Black, e ciò è abbastanza ovvio, dal momento che Lavoisier era stato un continuatore della sua opera. I colleghi e i collaboratori francesi di Lavoisier, ossia Guyton de Morveau, Berthollet e Fourcroy, l'adottarono nel corso degli anni Ottanta, spinti anche dall'orgoglio nazionale. I chimici che conoscevano la fisica sperimentale o che avevano seguito un ideale metodologico che derivava da questa disciplina, accettarono con relativa prontezza la nuova teoria perché erano più inclini a evitare giudizi assoluti e più aperti nei confronti delle moderne formulazioni, che si basavano su risultati sperimentali inspiegabili nell'ambito delle vecchie concezioni. L'opposizione alla chimica antiflogistica aveva molte cause, e i sentimenti nazionalistici non furono certamente estranei alle prese di posizione dei chimici tedeschi, che tendevano a svalutare gli insegnamenti di Lavoisier sostenendo che la sua non era altro che una teoria francese à la mode. Non bisogna dimenticare che la teoria del flogisto era sperimentalmente molto ben fondata e aveva dimostrato la sua attendibilità prevedendo fenomeni empiricamente accertati. Per esempio, nel campo della produzione mineraria e della metallurgia, essa spiegava in modo soddisfacente l'ossidazione e la riduzione. In Svezia, una forte opposizione alla chimica antiflogistica si sviluppò tra coloro che operavano nel settore minerario, nel quale la chimica era impiegata prevalentemente nell'analisi qualitativa, e dove i gas svolgevano un ruolo insignificante. Anche i farmacisti, chimici pratici che eseguivano soprattutto analisi qualitative senza l'intervento dei gas e quasi esclusivamente per compilare ricette rudimentali, si schierarono spesso contro la nuova teoria; in Francia e in Germania essi furono i più ostinati oppositori delle idee di Lavoisier.
Tuttavia, molti chimici pratici seguitarono a considerare ed esercitare la loro disciplina fondamentalmente in maniera descrittiva, e uno dei loro obiettivi più importanti fu l'elaborazione di sistemi di classificazione delle sostanze. Le questioni su cui era imperniata la rivoluzione chimica influirono in misura trascurabile sulla loro attività, che invece richiamava l'attenzione di un gran numero di chimici. Ciò non significa che questi ultimi non contribuissero in alcun modo allo sviluppo della disciplina; al contrario, mentre agli inizi del XVII sec. la classificazione mineralogica si limitava a prendere in considerazione le cosiddette caratteristiche esterne dei minerali ‒ come, per esempio, il colore e la struttura superficiale ‒ alla fine del secolo queste ultime furono sostituite dalle caratteristiche interne, cioè soprattutto dalla composizione chimica. Questo cambiamento derivava dallo sviluppo delle tecniche analitiche di tipo inorganico e non fu determinato dalle discussioni teoriche scaturite dalle problematiche sollevate dalla rivoluzione chimica oppure dalla nascita della chimica antiflogistica stessa.
Atomi e affinità
Nel corso degli anni Novanta del XVIII sec. la crescente precisione nella determinazione della composizione chimica delle sostanze condusse alla formulazione della 'legge delle proporzioni definite', secondo la quale nei composti chimici i differenti elementi si univano sempre secondo le stesse proporzioni in peso. Enunciata per la prima volta da Joseph-Louis Proust (1754-1826), tale legge suscitò un dibattito al quale partecipò da antagonista Berthollet; questi, basandosi sullo studio delle soluzioni e delle leghe, sosteneva che i rapporti tra gli elementi costituenti un composto potevano variare a seconda delle condizioni della sua formazione. Proust riuscì però a far prevalere la sua tesi, dimostrando che alcuni composti citati da Berthollet come prova di una variazione continua del rapporto tra i loro elementi costituenti erano in realtà combinazioni di due definiti composti.
John Dalton (1766-1844) spiegò la legge delle proporzioni definite con l'aiuto della teoria atomica che, in questo periodo, iniziava a svolgere un ruolo significativo nella ricerca chimica. Pur essendo uno specialista di meteorologia, egli diede un contributo decisivo allo sviluppo della chimica, dimostrando in tal modo quanto le conoscenze relative a un campo di studi possano rivelarsi determinanti in un altro. Dalton aveva formulato le sue idee sui modi di dispersione dei differenti gas nell'aria basandosi sulla teoria corpuscolare di Newton. Infatti, per spiegare la diffusione dei gas ipotizzò che ognuno di essi fosse costituito da piccoli atomi dotati di un peso caratteristico e che gli atomi di un dato tipo di gas non interagissero con quelli di altri gas; identificò poi questi piccolissimi e semplicissimi atomi con gli elementi, così come erano stati definiti da Lavoisier. Inoltre, elaborò un metodo per determinare il peso atomico relativo, secondo il quale se due elementi si combinavano tra loro per formare un solo composto, le parti più piccole di quest'ultimo sarebbero state costituite da un atomo di ciascun elemento. Se, come sosteneva Proust, le proporzioni tra gli elementi di un composto erano costanti, allora dovevano esserlo anche quelle tra i loro rispettivi pesi atomici. Per esempio, se il risultato dell'analisi dell'acqua indicava costantemente un rapporto ponderale tra idrogeno e ossigeno di circa 1:5,5 e se l'acqua era costituita da un atomo di ogni elemento, allora il peso di un atomo di ossigeno doveva essere 5,5 volte maggiore di quello di un atomo d'idrogeno. La teoria atomica, inoltre, servì da base per la formulazione della legge delle proporzioni multiple, secondo la quale se due elementi si combinano tra loro per formare due o più composti, le quantità in peso degli elementi presenti nei composti possono essere espresse secondo numeri interi razionali e piccoli.
La teoria atomica di Dalton è un esempio significativo di come un'ipotesi piena di errori e basata su presupposti arbitrari possa rivelarsi efficace da un punto di vista operativo. Tuttavia, se oggi questa teoria è considerata scientificamente valida, ai suoi tempi fu spesso criticata perché indimostrabile e, appunto, arbitraria; va infatti ricordato che nei primi anni dell'Ottocento non vi era unanime consenso sull'effettiva esistenza degli atomi, né sulla validità della legge delle proporzioni multiple.
Jöns Jacob Berzelius (1779-1848), nella cui opera si è vista una conferma delle idee di Dalton, era invece piuttosto critico nei loro confronti. Berzelius aveva acquisito una competenza analitica superiore a quella di qualsiasi altro chimico dell'epoca e il suo interesse per la determinazione della composizione delle sostanze chimiche si rafforzò grazie alla lettura dell'opera di Jeremias Benjamin Richter (1762-1807) dedicata alle capacità di saturazione fra acidi e basi, nella quale era definito e sviluppato un nuovo campo di studi, chiamato 'stechiometria'. Richter determinava le differenti quantità di una base necessarie a saturare una data quantità degli acidi allora conosciuti (e viceversa), cioè quelli che oggi chiamiamo 'pesi equivalenti' nelle reazioni di neutralizzazione. Berzelius determinò i pesi equivalenti ottenibili analiticamente e seguitò a sviluppare le leggi delle proporzioni chimiche. Verso il 1810, mentre si dedicava a quest'attività di ricerca, venne a conoscenza della teoria atomica, ma decise di non usarla perché contraddiceva una delle sue leggi delle proporzioni, cioè quella secondo cui, in un composto chimico, uno degli elementi costituenti doveva essere presente nella sua più piccola unità proporzionale, vale a dire che, nella serie dei composti formati da A e B, potevano figurare AB, AB2, AB3, ecc., ma non A2B3, che sarebbe stato in contraddizione con la legge delle proporzioni definite e semplici; era invece ipotizzabile l'esistenza di un composto di formula AB1½ che però presumeva l'esistenza di un mezzo atomo, cosa ritenuta impossibile da Dalton. Nel 1818, dopo un'accurata analisi dei sali dell'acido solforico, Berzelius finì con l'accettare come un'eccezione alla sua legge i composti di tipo A2B3, che gli consentirono di servirsi ampiamente della teoria atomica daltoniana. Tuttavia, nel corso del XIX sec., i chimici continuarono in larga misura a esprimersi in termini di pesi equivalenti, piuttosto che in termini di atomi.
Parallelamente alla teoria di Dalton se ne svilupparono altre per spiegare l'affinità chimica. La prima a essere elaborata fu di tipo newtoniano, in quanto l'affinità era ritenuta un'attrazione di tipo particolare che si esercitava tra i differenti corpuscoli delle sostanze reagenti; tuttavia, i pochi tentativi intrapresi per calcolarla fallirono perché le unità fondamentali, i corpuscoli appunto, non potevano essere osservati empiricamente. Quindi, nella teoria chimica dell'affinità, in linea con l'ideale epistemologico di basare le conclusioni fondamentali soltanto sull'evidenza empirica, l'esistenza degli atomi seguitò a essere considerata una questione filosofica. Il problema divenne più interessante in seguito all'invenzione della pila elettrica da parte di Volta, che diede modo ai chimici d'indagare sulle reazioni prodotte da una corrente elettrica. Erano enormi e molto potenti le pile con l'aiuto delle quali Humphry Davy decompose per via elettrolitica gli alcali, ottenendo per la prima volta il sodio e il potassio allo stato libero; da qui nacque l'idea che, dal momento che l'elettricità era in grado di decomporre le sostanze, l'affinità poteva essere identificata con una forza di tipo elettrico. Uno dei più celebri fautori di questa tesi fu lo stesso Richter, che s'ispirava ai principî della Naturphilosophie, secondo i quali tutte le diverse forze agenti nella Natura avevano il loro fondamento in una forza comune universale. Anche Berzelius riteneva che l'affinità chimica fosse di tipo elettrico e associò questa intuizione alla teoria atomica. Egli aveva adottato l'idea di Richter in base alla quale l'elettricità prodotta dalla pila aveva un'origine chimica e fece di questa tesi la pietra angolare della sua teorizzazione; infatti, spiegò l'affinità chimica usando un modello fisico molto concreto nel quale la carica elettrica si distribuiva in tutto l'atomo, in modo da polarizzarlo. Questo modello contribuì a diffondere l'opinione secondo cui la teoria chimica di Berzelius fosse di tipo atomistico.
Continuità e rottura fra XVIII e XIX secolo
In conclusione, si può affermare che per la chimica gli anni compresi tra il 1770 e il 1830 coincidono con un periodo di continuità e, al tempo stesso, di rivoluzione. Benché la costituzione della chimica antiflogistica sia considerata l'evento più importante, tuttavia questo periodo fu contrassegnato da molti altri avvenimenti significativi rispetto a quelli maggiormente noti dello sviluppo della chimica pneumatica, della scoperta dei gas, della diffusione dell'uso della bilancia e dell'utilizzazione retorica dei numeri. Per esempio, indipendentemente dalle novità che giungevano da Parigi, proseguì l'elaborazione di classificazioni chimiche dei diversi minerali, e la quantificazione che si esprimeva nell'uso crescente dei numeri proporzionali era il risultato del perfezionamento delle tecniche analitiche e non dell'affermazione della nuova chimica lavoisieriana. Altre importanti aree d'interesse, che rimasero relativamente estranee all'influenza della rivoluzione chimica, furono quelle delle teorie dell'affinità e dello studio delle proporzioni chimiche; si può quindi affermare che, per lo sviluppo della nuova chimica, la teoria atomica è stata importante almeno quanto l'abbandono della teoria del flogisto.
Gli elementi di continuità presenti negli studi chimici nel periodo compreso tra il 1770 e il 1830 devono essere posti in relazione sia con le tecniche analitiche in uso sia con uno dei più importanti obiettivi della chimica, cioè la descrizione e la caratterizzazione delle singole sostanze; un compito che seguitò a essere svolto con le stesse tecniche qualitative adoperate prima, durante e dopo la rivoluzione lavoisieriana, persino nel XX secolo. Queste tecniche apparentemente 'ingenue', tra cui figuravano, per esempio, l'uso dell'odorato e del tatto, e le analisi condotte con il cannello ferruminatorio, continuarono a essere impiegate anche nei secoli successivi; esse furono integrate in misura sempre maggiore dall'analisi quantitativa, ma quest'ultima non riuscì mai a sostituirle del tutto. Benché ormai considerassero la mineralogia una scienza quantitativa, i chimici di molti paesi compilarono ponderosi volumi sull'uso del cannello ferruminatorio; infatti, si riteneva che le tecniche qualitative fossero più vicine alla verità perché osservavano direttamente la Natura; tuttavia, l'importanza di queste tecniche nello sviluppo della teoria chimica più in generale deve essere ancora pienamente valutata. Dal momento che nella ricerca chimica continuavano a essere impiegate le stesse tecniche, non bisogna stupirsi dell'esistenza di alcuni tentativi di combinare le teorie flogistiche con quelle antiflogistiche. Nulla proibiva a un chimico d'ipotizzare che la liberazione del flogisto e l'assorbimento dell'ossigeno fossero due aspetti di uno stesso fenomeno; inizialmente, tra i sostenitori di quest'ipotesi figurava anche il giovane Lavoisier.
In seguito all'emergere della chimica antiflogistica, i ricercatori iniziarono spesso a 'tradurre' (è il verbo con cui essi stessi designavano quest'operazione) i risultati sperimentali del periodo che l'aveva preceduta nel linguaggio del loro tempo poiché uno stesso esperimento poteva essere realizzato nei due differenti contesti teorici. Spesso le traduzioni erano influenzate da fattori non scientifici, per esempio dai sentimenti nazionalistici; in alcuni casi, infatti, il sostegno alla chimica flogistica era dato per una sorta di difesa dell'onore nazionale, allo scopo di mostrare che i risultati raggiunti grazie all'abilità professionale dei praticanti di un determinato paese potevano ancora essere utilmente adoperati. Un altro esempio di traduzione in un differente contesto teorico riguarda l'opera di Richter. Infatti, molti di quei chimici che a gran voce si erano dichiarati contrari alle idee della Naturphilosophie poterono ugualmente utilizzare i risultati ottenuti da uno dei suoi sostenitori.
I metodi qualitativi continuarono a rivestire una grande importanza anche perché le misurazioni quantitative si dimostrarono tutt'altro che esatte. Le determinazioni del peso atomico eseguite da Dalton erano molto rudimentali ed egli fu spesso costretto a correggere i suoi stessi risultati. Quindi poteva essere presa in seria considerazione anche l'ipotesi di William Prout (1785-1850), secondo la quale tutti i pesi atomici dovevano essere considerati multipli del peso atomico dell'idrogeno. Prima della formulazione della teoria di Dalton, dalla quale erano state dedotte, le proporzioni multiple non erano mai state osservate, e soltanto a partire da questo momento i chimici iniziarono a studiarle.
Con ciò non intendiamo negare che i decenni compresi tra la fine del XVIII sec. e gli inizi del XIX abbiano visto un significativo sviluppo delle ricerche quantitative. Come l'abbandono della teoria del flogisto non è stato l'unico argomento della rivoluzione chimica, così, agli inizi del XIX sec., la quantificazione non è stata la sola caratteristica significativa della nuova chimica che, al contrario, presentava ancora tratti tipicamente qualitativi.