L'Eta dei Lumi: l'avvento delle scienze della Natura 1770-1830. Il ripiegamento dell'avanguardia
Il ripiegamento dell'avanguardia
Nel periodo compreso tra il 1770 e il 1830 iniziò per l'astronomia una fase di trasformazione radicale, il cui completamento avrebbe richiesto altri cento anni. In primo luogo, in questo periodo si assiste alla graduale perdita di terreno della vecchia astronomia basata sullo studio delle posizioni dei pianeti, che aveva mantenuto un ruolo centrale dai tempi di Brahe e Kepler sino a quelli di Newton e dei suoi successori. In secondo luogo, si può constatare la tendenza degli astronomi, per la prima volta nella storia, a protendersi al di là del Sistema solare nello sforzo di comprendere la struttura dell'Universo su larga scala. In terzo luogo, si assiste alla nascita di relazioni nuove tra la fisica e l'astronomia, nell'avvio di quel campo di ricerca che sarebbe poi diventato l'astrofisica.
di James Evans
A più riprese, grazie sia agli affinamenti delle tecniche di misurazione della posizione dei pianeti sia agli intervalli temporali più lunghi coperti dalle osservazioni, furono scoperte nuove anomalie nel movimento dei pianeti e dei loro satelliti. Queste anomalie sottoposero non soltanto la legge della gravitazione universale di Newton, ma anche i metodi della meccanica celeste, a verifiche sempre più rigorose. Nell'arena accademica dell'astronomia s'ingaggiarono accese battaglie sulla legge di Newton, nelle quali si discuteva se la legge sulla dipendenza dell'attrazione gravitazionale dall'inverso del quadrato della distanza fosse davvero sufficiente a spiegare tutti i fenomeni osservati nel Sistema solare. Anche se la parte più accesa della disputa si era svolta all'inizio del XVIII sec., nel periodo che stiamo considerando la discussione giunse a una fase decisiva.
I maggiori teorici del periodo furono Joseph-Louis Lagrange (1736-1813), professore presso la Scuola di artiglieria di Torino (1755) e poi successore di Euler a Pietroburgo nella direzione della classe di fisica e matematica dell'Academia Scientiarum Imperialis Petropolitana dal 1766 al 1787, e Pierre-Simon de Laplace (1749-1827), professore di matematica presso l'école Normale di Parigi. Il capolavoro di Lagrange fu il trattato Méchanique analitique, pubblicato per la prima volta nel 1788, con il quale egli cercò di trasformare la meccanica in una branca dell'analisi matematica; l'approccio geometrico alla meccanica celeste che aveva caratterizzato la scuola di Newton era sostituito dunque, nell'opera di Lagrange, dal sistematico sviluppo algebrico di equazioni differenziali. La grande sintesi del pensiero di Laplace è contenuta nel Traité de mécanique céleste, pubblicato in cinque volumi tra il 1798 e il 1825.
Le carriere di Lagrange e Laplace, favorite entrambe dall'intervento di d'Alembert (allora il membro più influente dell'Académie Royale des Sciences di Parigi), sono un buon esempio di quelle dei pochi matematici che lavorarono sulla teoria planetaria nel XVIII secolo. Una delle anomalie più preoccupanti del moto dei pianeti era costituita da un'accelerazione a lungo termine di Giove e da una decelerazione di Saturno; i dati disponibili mostravano che questa tendenza persisteva da quasi due secoli. In base alla terza legge di Kepler (che lega il periodo dell'orbita di un pianeta alla sua distanza media dal Sole), l'accelerazione di Giove avrebbe implicato un suo costante avvicinamento al Sole. Se questo fosse continuato indefinitamente, Giove sarebbe alla fine caduto a spirale sul Sole. Malgrado gli intensi sforzi, gli studiosi di meccanica celeste non avevano saputo spiegare i moti osservati nei termini dell'attrazione reciproca tra Giove e Saturno, né d'altra parte erano riusciti a determinare l'esistenza di effetti in grado di controbilanciare le anomalie, sino a invertire l'andamento delle perturbazioni e preservare la stabilità del Sistema solare. Un altro dato inquietante era l'accelerazione della Luna, che implicava un suo costante avvicinamento alla Terra; per spiegare tale fenomeno si arrivò a ipotizzare l'esistenza di un mezzo rarefatto in grado di esercitare una forza di attrito sulla Luna, provocando il decadimento della sua orbita.
Newton aveva visto nell'organizzazione dei moti nel Sistema solare un segno della saggezza del Creatore, per il fatto che tutti i pianeti si muovono nella stessa direzione, quasi sullo stesso piano e su orbite quasi circolari. Egli però era stato anche il primo a ipotizzare che ogni pianeta esercitasse una forza in grado di perturbare il moto degli altri. Inoltre, poiché pensava che le piccole perturbazioni potessero lentamente accumularsi, sino ad assumere proporzioni preoccupanti, ipotizzò che potesse essere necessario di tanto in tanto un intervento del Creatore per correggere le orbite. Gli studiosi di meccanica del XVIII sec., tuttavia, erano molto meno inclini a confidare nella tempestività di tali interventi; alcuni, come Euler, accettavano di considerare l'eventualità che il Sistema potesse aver fine in una catastrofe, anche se la maggior parte dei teorici cercava un'altra via di uscita.
Nel 1772 Laplace dimostrò che la reciproca attrazione gravitazionale tra due pianeti non poteva produrre una modificazione secolare della distanza media di un pianeta dal Sole; nel peggiore dei casi, ogni pianeta avrebbe potuto causare soltanto un'oscillazione della distanza media dell'altro. La dimostrazione si fondava su alcune approssimazioni che rendevano possibile il calcolo, le quali, d'altra parte, non erano molto restrittive e potevano essere introdotte con tranquillità. Laplace pensò quindi che le accelerazioni di Giove e Saturno non potessero dipendere dalla loro reciproca interazione, e considerò l'ipotesi che esse potessero derivare dall'azione gravitazionale delle comete.
Nel 1774 Lagrange dimostrò che le inclinazioni delle orbite dei pianeti rispetto al piano dell'eclittica erano soggette solo a movimenti oscillatori e che le linee dei nodi delle orbite subivano solamente oscillazioni periodiche tra limiti fissati o, in alternativa, erano soggette a un moto retrogrado uniforme, cosicché anche in questo caso non si avevano soluzioni di fuga. Dopo aver letto il lavoro di Lagrange, Laplace proseguì applicando un metodo simile ad altre perturbazioni planetarie; dalla sua analisi emerse rapidamente il quadro di un Sistema solare stabile, i cui elementi mostravano un comportamento regolare, oscillando intorno ai loro valori medi.
La causa dell'accelerazione di Giove e della decelerazione di Saturno fu scoperta da Laplace soltanto nel 1785. Si trattava in realtà di un effetto periodico, e non secolare, sia pure dotato di un periodo piuttosto lungo, di circa 850 anni, e dipendente da un fenomeno di risonanza, dal momento che cinque periodi dell'orbita di Giove uguagliano approssimativamente due periodi dell'orbita di Saturno. Nello sviluppo in serie che aveva usato per mettere in luce l'effetto, Laplace considerò sino alla terza potenza l'eccentricità delle orbite e la loro inclinazione; termini di quest'ordine avrebbero potuto di norma essere trascurati ma, a causa degli effetti di risonanza, la diseguaglianza tra Giove e Saturno aveva un'ampiezza molto maggiore rispetto ad altri termini dello stesso ordine. In linguaggio matematico, il motivo è il seguente: se n è il movimento giornaliero di Giove in longitudine, n′ quello di Saturno e t il tempo, e A e c sono due costanti, possiamo rappresentare il termine dovuto alla differenza tra Giove e Saturno nelle equazioni differenziali, nella forma Asen(2nt−5n′t+c), integrando la quale due volte rispetto a t apparirà il divisore (2n−5n′)2, che, essendo di piccolo valore, incrementerà di molto l'ampiezza.
Nel 1787 Laplace trovò anche una spiegazione dell'accelerazione secolare della Luna, che risultava dovuta a un effetto indiretto e piuttosto difficile da individuare. L'eccentricità dell'orbita della Terra oscilla (con un periodo di oltre 100.000 anni), ma nel periodo storico in cui sono state accumulate registrazioni astronomiche è progressivamente diminuita. Il valore medio della componente radiale della forza perturbante del Sole sulla Luna risulta, per questo motivo, continuamente decrescente (la forza perturbante è la differenza tra la forza che il Sole esercita sulla Luna e quella che eserciterebbe se la Luna si trovasse al centro dell'orbita della Terra); perciò la forza esercitata sulla Luna dal Sole, diretta verso l'esterno, decresce e sottrae valori sempre minori dalla forza attrattiva della Terra sulla Luna, la quale, di conseguenza, tende a muoversi più velocemente lungo la sua orbita. Poiché la causa all'origine del fenomeno, cioè la diminuzione dell'eccentricità dell'orbita terrestre, ha una natura oscillatoria, Laplace concluse che anche l'accelerazione secolare della Luna alla fine avrebbe dovuto invertirsi.
La spiegazione di Laplace è corretta soltanto in parte. La Luna sta in effetti decelerando nel suo moto orbitale (e si sta quindi allontanando gradualmente dalla Terra); la causa di questa decelerazione sta nell'interazione gravitazionale della Luna con le maree che essa provoca sulla Terra. A causa di questa stessa interazione, la velocità di rotazione della Terra sta lentamente diminuendo (e, di conseguenza, il giorno sta allungandosi in modo analogo). Ai tempi di Laplace l'idea di una decelerazione della Terra nella sua rotazione intorno al proprio asse non era ancora accettata; tutti i calcoli astronomici erano eseguiti ipotizzando una rotazione uniforme della Terra, in grado di fornire un orologio assolutamente regolare. Gli astronomi, dunque, senza rendersene conto, stavano usando orologi sempre più lenti e, di conseguenza, la Luna sembrava accelerare. Questo fenomeno, osservato dagli astronomi del XVIII sec. e spiegato da Laplace, effettivamente esiste, ma è più che compensato dalla decelerazione della Luna dovuta agli effetti di marea. La decelerazione della Terra nella rotazione intorno al suo asse non sarebbe stata accertata prima del XX secolo.
Nel 1800 il Sistema solare appariva quindi l'esemplificazione di un ordine razionale. I moti erano senza dubbio complicati, ma i matematici avevano trovato l'origine di ogni anomalia osservata, e si erano convinti della stabilità dell'intero Sistema. Ordine, razionalità e causalità erano le parole chiave dell'Illuminismo. Malgrado affermazioni entusiastiche del contrario, la nostra stessa epoca non ha rinunciato a questo programma; la fisica e l'astronomia del XX sec. si sono però compiaciute nel reintrodurre una certa misura di disordine e di casualità. Vi sono aspetti del moto nel Sistema solare, in particolare nel caso di satelliti di Giove, di cui si può dimostrare la caoticità. Inoltre, le prove dell'estinzione di specie viventi nella storia della Terra, il frequente transito di asteroidi in vicinanza della Terra e la spettacolare collisione della cometa Shoemaker-Levy 9 con Giove nel 1998, dimostrano che nel nostro Sistema alcuni eventi possono avvenire in modo piuttosto casuale.
Laplace fu, oltre che il maggiore studioso di meccanica celeste del suo tempo, anche autore di importanti lavori di divulgazione scientifica. Tale fu la sua Exposition du système du monde, pubblicata in diverse edizioni tra il 1796 e il 1824, nella quale egli presenta tutti i fenomeni osservati nel Sistema solare, con la loro spiegazione in termini di gravitazione universale, seguiti da una breve storia dell'astronomia dall'Antichità al XVIII sec.; l'opera finisce con un breve resoconto di una teoria sull'origine del Sistema solare, divenuta nota come la sua 'ipotesi nebulare' (Tav. I).
Laplace è stato a volte descritto come un uomo privo d'immaginazione, anche se dotato di capacità di calcolo prodigiosa. Apparteneva a una generazione di scienziati francesi che avevano preso sul serio il monito di Newton a non formulare ipotesi. Il trionfo del programma di Laplace nello sviluppo della meccanica celeste e, più in generale, nel suo approccio alla fisica ebbe una grande influenza sul modo d'intendere e di sviluppare le scienze fisiche in Francia per gran parte del XIX secolo. Questo approccio comportava la rinuncia a un'immaginazione indisciplinata a favore di uno sviluppo attento, basato su equazioni differenziali, ed ebbe molto successo; gradualmente, tuttavia, durante il XIX sec. lo stile di Laplace sembrò sempre più inadeguato ad affrontare il gran numero di nuovi fenomeni che si andavano osservando. Laplace era incline, nel suo pensiero fisico, a rigettare tutto ciò che potesse apparire systématique, ossia basato su ipotesi non verificabili sui costituenti invisibili della materia, anche se egli non disdegnava l'analisi e la critica approfondita di teorie di questo tipo. La teoria della gravitazione proposta da Georges-Louis Le Sage (1724-1803), di Ginevra, ci fornisce un esempio dell'atteggiamento di Laplace (Tav. II).
di James Evans
William Herschel e la scoperta di Urano
Il principale esponente dell'astronomia osservativa del periodo fu William Herschel (1738-1822). La sua carriera fu molto diversa da quella di Lagrange o di Laplace, in parte a causa delle differenze tra l'attività di coloro che erano impegnati nelle osservazioni astronomiche e quella dei teorici, poiché l'astronomia osservativa offriva migliori opportunità a uno studioso brillante e volenteroso, anche se poco versato nella matematica superiore; in parte, poi, per i diversi tipi di patrocinio reale, in Inghilterra e sul Continente, e per l'avvio del processo di decentramento dell'astronomia che ebbe inizio durante la vita di Herschel.
William Herschel iniziò a produrre relazioni sui risultati delle sue osservazioni astronomiche e su varie altre questioni fisiche e filosofiche, che erano lette alla Philosophical Society di Bath. Il gruppo di dilettanti entusiasti che costituiva la Society aveva pensato di dare alle stampe i contributi dei suoi membri, ma il progetto non si era realizzato. Tuttavia, Herschel aveva impressionato favorevolmente William Watson (1715-1787), cittadino di Bath e membro della Royal Society di Londra, e i suoi primi articoli rilevanti di argomento astronomico, tra cui uno sul miglioramento della tecnica di Galilei per la misurazione dell'altezza delle montagne sulla Luna, furono comunicati da Watson alla Royal Society, e pubblicati sulle "Philosophical Transactions". Herschel cominciò dunque ad acquisire una certa fama già nel 1781, anche se era ancora un astronomo dilettante che si guadagnava da vivere con la musica.
La sera del 13 marzo 1781, mentre stava esaminando, durante le sue consuete esplorazioni del cielo, alcune piccole stelle nei Gemelli e nel Toro, Herschel ne notò una che sembrava più grande delle altre e sospettò si trattasse di una cometa. Quando cambiò l'oculare, per avere un migliore ingrandimento, l'oggetto apparve di dimensioni analoghe a quelle di un corpo celeste appartenente al Sistema solare, proprio come una cometa (le stelle, invece, sono così lontane che appaiono comunque puntiformi, anche con strumenti via via più potenti). Nei suoi appunti scrisse: "nel quartile vicino a ζ Tauri la più bassa delle due è uno strano oggetto, forse una stella nebulare o forse una cometa". Herschel osservò di nuovo lo stesso corpo celeste quattro notti dopo e vide che si era spostato; avendo inoltre dotato il suo telescopio di un micrometro a filo nel piano del fuoco principale, fu in grado di misurare il diametro angolare del corpo che stava osservando e di stimarne un aumento da ca. 3″ a ca. 5″ nel corso del mese seguente. Effettuò misurazioni accurate della posizione della cometa rispetto alle stelle vicine, e dedusse che la sua velocità lungo l'eclittica era di circa 2,25″ all'ora.
Il movimento della cometa era così lento e la sua luminosità così bassa che, dopo l'annuncio della scoperta da parte di Herschel, altri ebbero difficoltà a trovarla. Charles Messier (1730-1817), specialista nella caccia alle comete, manifestò il suo stupore per il fatto che Herschel fosse stato in grado di scoprirla. Ciò dimostra il notevole valore di Herschel, il quale, oltre ad avere fabbricato da solo i suoi telescopi ‒ caratterizzati da un livello di qualità ottica più alto di qualsiasi altro telescopio disponibile ‒ godeva di una vista eccellente ed era un osservatore assolutamente instancabile. Herschel comunicò la sua scoperta alla Royal Society di Londra per mezzo dell'amico Watson e il suo lavoro fu pubblicato sulle "Philosophical Transactions". Anche prima di scrivere il suo articolo, però, Herschel era stato in comunicazione con gli Osservatori di Oxford e Greenwich. A Nevil Maskelyne (1732-1811), astronomo reale, occorsero tre notti di osservazione per rilevare il movimento del corpo celeste. Scrisse a Herschel che era qualcosa di diverso da qualsiasi cometa avesse visto prima, considerato che mancava sia di coda sia di chioma, e che poteva trattarsi con uguale probabilità di un normale pianeta in movimento quasi circolare intorno al Sole, o di una cometa in moto su di un'ellisse molto eccentrica.
Gli astronomi con propensione per la matematica si misero a calcolare l'orbita del nuovo corpo celeste. I primi a cimentarsi con questo calcolo ipotizzarono che fosse una cometa con un'orbita parabolica. Tra questi il francese Pierre-François-André Méchain (1744-1804), il quale stimò che l'orbita fosse caratterizzata da un perielio pari a 0,46 (in unità del semiasse maggiore dell'orbita della Terra). Via via che si aggiunsero nuove osservazioni divenne evidente che la cometa sarebbe rimasta a grande distanza dal Sole. Anders Johan Lexell (1740-1784) assegnò al perielio un valore pari a 16, sempre ipotizzando che l'orbita del nuovo corpo celeste fosse parabolica. Ben presto però molti cominciarono a pensare che si potesse trattare di un'orbita ellittica di piccola eccentricità, ossia dell'orbita di un pianeta. Jean-Baptiste-Gaspard Bochart de Saron (1730-1794), Lexell e Laplace trovarono indipendentemente l'uno dall'altro elementi a favore di un'orbita circolare o ellittica.
Herschel non era abbastanza smaliziato da chiedere a Giorgio III un sostegno alle sue ricerche e attese passivamente un riconoscimento reale (non rendendosi conto che il re non avrebbe rischiato l'affronto di subire il rifiuto del suo patrocinio) fino a quando gli amici Joseph Banks (presidente della Royal Society; 1743-1820) e Watson, lo spinsero a rivolgersi al sovrano. Giorgio III gli riconobbe una pensione annua di 200 sterline; in cambio, Herschel avrebbe dovuto trasferire il suo osservatorio da Bath a una località vicina a Windsor, in modo da mostrare di tanto in tanto qualche corpo celeste interessante ai membri della famiglia reale, anche se quest'ultimo compito perse in seguito importanza. William Herschel e la sorella Caroline, sua collaboratrice, si spostarono a Datchet, vicino al castello di Windsor, e nel 1786 si trasferirono nella vicina Slough, dove sarebbero rimasti a lungo. La pensione consentì a Herschel di liberarsi dalle lezioni di musica, ma non era sufficiente a coprire tutte le necessità, ed egli continuò quindi a fabbricare telescopi da mettere in vendita. Si trattava di strumenti eccellenti, molto apprezzati da ricchi dilettanti, che tuttavia non furono mai realmente usati per svolgere ricerche astronomiche. Il re successivamente dispose anche l'erogazione di una pensione di 50 sterline a Caroline; fu probabilmente la prima volta nella storia in cui una donna ricevette un patrocinio reale per il suo lavoro in astronomia. Il re, inoltre, assicurò una sovvenzione di 4000 sterline per la costruzione del più grande telescopio costruito da Herschel (lunghezza focale di 40 piedi, ossia di 12,2 m ca.), anche se in seguito tale strumento risultò troppo ingombrante e complicato per un uso efficace.
Galilei aveva stabilito un buon precedente nel mietere ricompense, attribuendo a corpi celesti nuovi il nome di benefattori e mecenati illustri; aveva infatti chiamato i quattro satelliti di Giove 'Stelle Medicee', dal nome del suo mecenate toscano Cosimo de' Medici. Joseph Banks suggerì a Herschel l'opportunità di dedicare il pianeta al re, e chiese un parere a Watson il quale propose Georgium Sidus, in analogia con il Julium Sidus menzionato da Orazio e Virgilio; una nuova stella, o forse una cometa, era infatti apparsa nel 44 a.C., durante i giochi funebri di Giulio Cesare (la comparsa propizia dell'astro poco dopo l'assassinio di Cesare aveva rappresentato un vantaggio per la campagna di Augusto in favore della proclamazione della natura divina del padre adottivo assassinato). Herschel scrisse quindi una lettera aperta a Banks, da pubblicare sulle "Philosophical Transactions", in cui proponeva pubblicamente di chiamare il pianeta Georgium Sidus: se il pianeta avesse portato questo nome si sarebbe ricordata per sempre l'epoca della scoperta, e cioè il regno di Giorgio III. Egli aggiunse, inoltre, che il nome gli forniva l'opportunità di esprimere la sua gratitudine nei confronti di un monarca, protettore liberale delle arti e delle scienze. Georgium Sidus fu usato generalmente come nome del nuovo pianeta in Inghilterra, mentre nel Continente l'astronomo Sivry voleva chiamarlo Cibele e lo svedese Erik Prosperin (1739-1803) suggeriva Nettuno (nome che sarebbe stato ripreso per la successiva scoperta di un altro pianeta). Nel 1783 Johann Elert Bode (1747-1826), astronomo della Königliche Preussische Akademie der Wissenschaften (Accademia Reale Prussiana delle Scienze) di Berlino, propose il nome Urano. In una lettera a Herschel, Bode scriveva che sarebbe stato meglio ritornare alla mitologia, aggiungendo tuttavia che se si fosse trovato nella situazione di Herschel si sarebbe comportato nello stesso modo.
Quando gli astronomi riesaminarono le loro precedenti osservazioni, si resero conto che Urano era stato individuato molte volte prima che Herschel lo identificasse, ma era sempre stato confuso con una stella. Le vecchie osservazioni fornirono comunque una sequenza più estesa di dati di posizione, che furono usati da Jean-Baptiste-Joseph Delambre (1749-1822) per la compilazione delle tavole del moto di Urano, pubblicate nel 1790.
Riempire i vuoti: la 'legge' di Titius e Bode
Secondo la tradizione, nell'astronomia occidentale si cercava di spiegare le distanze dei pianeti derivandole da principî primi. Il tentativo più noto fu compiuto da Kepler, che nel suo Mysterium cosmographicum del 1596, affermava che Dio aveva creato sei pianeti perché esistevano cinque poliedri regolari. Kepler inscrisse un cubo all'interno della sfera di Saturno, e dentro questo la sfera di Giove; all'interno di questa inscrisse un tetraedro, e dentro quest'ultimo la sfera di Marte, e così via per Terra, Venere e Mercurio. I solidi regolari fungevano quindi da elementi di separazione tra le sfere dei pianeti. Quando Kepler calcolò i raggi delle sfere planetarie, che derivavano da questo schema, i risultati furono sorprendentemente vicini ai valori delle distanze dei pianeti fornite da Copernico nel suo De revolutionibus orbium coelestium. Kepler non considerava questi solidi regolari dotati di realtà fisica; essi costituivano piuttosto l'architettura segreta di Dio per il Cosmo.
Nel XVIII sec. nessuno credeva più nel pitagorismo kepleriano, ma molti continuavano a guardare alla sequenza di distanze planetarie in cerca di un ordine. Si sottolineava spesso, inoltre, che l'intervallo tra Marte e Giove era grande abbastanza da contenere un nuovo pianeta non ancora scoperto. Molti autori proponevano semplici sequenze numeriche che riassumevano i risultati sperimentali sulle distanze planetarie; la più nota fu proposta nel 1766 da Johann Daniel Titius (1729-1796), il quale inserì questa teoria come ipotesi anonima nella sua traduzione in tedesco della Contemplation de la nature di Charles Bonnet. Titius fissò la scala assegnando il valore 100 alla distanza tra il Sole e Saturno, che a quel tempo era l'ultimo pianeta conosciuto in ordine di distanza dal Sole; in questa scala, la distanza di Mercurio dal Sole è circa 4. Secondo Titius, la sequenza delle distanze planetarie aveva la forma seguente: 4, 4+3=7, 4+6=10, 4+12=16, 4+24=28, 4+48=52, 4+96=100.
Il primo termine è quindi 4 (per Mercurio), mentre i successivi sono della forma 4+(3×2n), dove n=0, 1,..., 5. Titius fece notare che v'era un posto vuoto a distanza 28 (n=3), che l'Architetto dell'Universo non avrebbe certamente lasciato vuoto; previde quindi che esso sarebbe stato occupato da satelliti di Marte ancora da scoprire. Questa sequenza fu utilizzata, senza riconoscere la paternità di Titius, da Bode nella seconda edizione della sua Anleitung zur Kenntniss des gestirnten Himmels (Guida alla conoscenza del cielo stellato); nelle successive edizioni egli riconobbe la paternità di Titius, ma questi passò inosservato, e per tutto il XIX sec. la sequenza delle distanze planetarie continuò a essere collegata al nome di Bode. Da un certo punto di vista Bode andò effettivamente oltre Titius, associando il vuoto a distanza 28 a un vero e proprio pianeta, e non a qualche misterioso satellite di Marte. In un'edizione successiva della sua Anleitung, Bode usò la terza legge di Kepler per calcolare il periodo orbitale del pianeta sconosciuto tra Marte e Giove, che stimò di 4,5 anni.
L'accordo tra la legge di Titius-Bode e le effettive distanze medie dei pianeti è sorprendentemente buono. Nella tab. 1 esse sono rappresentate in scala ponendo uguale a 10 la distanza media della Terra. La scoperta di Urano da parte di Herschel e il successivo calcolo della sua orbita sembrarono fornire una sorprendente conferma della regola.
Nel 1800 un piccolo gruppo di astronomi tedeschi s'incontrò a Lilienthal e costituì la Vereinigte Astronomische Gesellschaft (Società Riunita di Astronomia). Lo scopo era di assicurarsi la collaborazione di astronomi di altri paesi, di assegnare a ognuno una porzione dello Zodiaco e compilare nuove mappe stellari che facilitassero la ricerca di nuovi pianeti. Uno degli astronomi stranieri di cui speravano di ottenere la collaborazione era Giuseppe Piazzi (1746-1826), che da un decennio aveva costituito un nuovo osservatorio a Palermo. Nel gennaio del 1801, però, prima che la cooperazione internazionale lanciasse il suo progetto, Piazzi stesso scoprì un piccolo corpo celeste simile a un pianeta, che chiamò Cerere, come la dea protettrice della Sicilia. Nell'intervallo tra Marte e Giove fu osservato un altro corpo celeste, Pallade, scoperto da Heinrich Wilhelm Mathias Olbers (1765-1840) l'anno successivo. Questo spinse Herschel a coniare il termine 'asteroide', poiché questi corpi celesti non sembravano occupare le loro posizioni nel Sistema solare con dignità sufficiente da chiamarsi pianeti (il termine 'asteroide' è stato in effetti a lungo preferito, anche se ora gli astronomi chiamano questi corpi 'pianetini'). Furono scoperti in rapida successione altri asteroidi; Carl Ludwig Harding (1765-1834) trovò nel 1804 Giunone e Olbers identificò Vesta nel 1807. Non sorprende quindi che, per tutta la prima metà del XIX sec., la legge di Bode fosse generalmente accettata.
Nel 1820 nacquero problemi per le tavole di Urano compilate da Delambre, che iniziavano a divergere rispetto al movimento reale del pianeta. Nuove tavole, compilate da Alexis Bouvard (1767-1843), risultavano corrette soltanto trascurando le osservazioni 'antiche' (quelle cioè effettuate prima della scoperta del pianeta). Per aver adottato questo espediente, Bouvard fu severamente criticato da Le Verrier e da Friedrich Wilhelm Bessel. All'inizio degli anni Quaranta John Couch Adams (1819-1892) e Urbain-Jean-Joseph Le Verrier (1811-1877) cercarono in modo indipendente di risolvere il problema del movimento anomalo di Urano supponendo una perturbazione dovuta all'attrazione gravitazionale di un pianeta sconosciuto. Sottolineiamo il fatto che sia Adams sia Le Verrier ipotizzarono la validità approssimata della legge di Titius-Bode per semplificare i calcoli. Adams congetturò una distanza media di 372,5 (nelle stesse unità della tab. 1) per il pianeta invisibile, e Le Verrier di 361,5. La previsione di Le Verrier fu confermata da Johann Gottfried Galle (1812-1910), che nella notte del 23 settembre 1846 trovò il nuovo pianeta, oggi chiamato Nettuno, vicino al punto in cui si sarebbe dovuto trovare secondo Le Verrier. Tutto questo serve a ricordarci come sia spesso meglio disporre di una cattiva teoria piuttosto che di nessuna teoria. Nel XIX e nel XX sec. sono stati fatti molti tentativi per stabilire una base fisica a supporto della validità della legge di Titius-Bode, in termini sia di fenomeni di risonanza orbitale sia di possibili conseguenze dinamiche della condensazione e dell'evoluzione del Sistema solare. Non v'è di fatto consenso tra gli astronomi contemporanei riguardo alla validità della legge di Titius-Bode, e tanto meno su un'eventuale teoria fisica che pretenda di fornirne una spiegazione.
di James Evans
Nella prima parte del XVIII sec. i racconti di chi aveva visto pietre cadere dal cielo erano da attribuirsi, secondo l'opinione scientifica prevalente, a ignoranza, credulità o impostura, e anche se alcuni filosofi naturali accettavano per vero il racconto di qualche contadino, praticamente nessuno credeva che tali pietre potessero avere un'origine extraterrestre. Inoltre, le meteore (termine che viene dal greco μετέωϱα e significa 'cose che stanno in alto nell'aria') e le sfere di fuoco (cioè i fenomeni visibili nell'alta atmosfera) non erano associate, da molti scienziati, alla caduta di pietre (che oggi si chiamano 'meteoriti', quali frammenti di meteore), in quanto considerati fenomeni diversi e non collegati. Una solida obiezione all'idea che delle pietre potessero volare tra i pianeti fu avanzata da Newton. Questi aveva dimostrato che i pianeti si muovono in uno spazio così privo di materia da approssimare un vuoto perfetto, poiché sarebbe sufficiente una minima quantità di materia a opporre resistenza al moto e provocare un decadimento marcato delle orbite dei pianeti. I filosofi naturali che desideravano dare una collocazione a fenomeni quali le sfere di fuoco, le meteore e le pietre cadenti dal cielo dovevano quindi ricorrere a scienze diverse dall'astronomia, per esempio alla meteorologia, alla chimica o alla vulcanologia. Alcuni pensavano, per esempio, che le pietre fossero il condensato di fumi ed esalazioni provenienti dalla Terra, mentre le sfere di fuoco potevano derivare dalla combustione di questi vapori.
Nel ricostruire una vicenda storica, molti studiosi si sforzano di minimizzare il ruolo della casualità e d'imporre una struttura logica di causa ed effetto all'insieme degli eventi. Il dibattito sulla natura delle meteore, tuttavia, fu fortemente influenzato dall'osservazione casuale delle sfere di fuoco e della caduta di pietre, per cui non v'è modo di raccontarne la storia senza riconoscere il ruolo svolto dal caso. Il 26 novembre 1758, una sfera di fuoco apparve su Cambridge, in Inghilterra, e sfrecciò come un fulmine a nord-ovest, verso Inverness. Una studio svolto da John Pringle (1707-1782) attribuì all'oggetto la velocità incredibile di 30 miglia al secondo (48 km/s ca.), deducendola dal brevissimo tempo impiegato a percorrere 400 miglia. Secondo Pringle, questo fatto andava esplicitamente contro la teoria secondo la quale le sfere di fuoco erano vapori sulfurei provenienti dalla Terra. Pringle propose l'idea che le sfere di fuoco dovessero avere origine al di fuori dall'atmosfera e dovessero possedere, in effetti, la natura di corpi celesti.
Il 17 luglio 1771 una sfera di fuoco spettacolare apparve nel cielo dell'Inghilterra meridionale, attraversò il Canale della Manica ed esplose infine vicino Melun, a sud di Parigi. L'Académie Royale des Sciences di Parigi affidò a un suo membro, Jean-Baptiste Le Roy (1720-1800), il compito di studiare il fenomeno delle sfere di fuoco in generale, e in particolare di analizzare l'evento appena osservato. Gli osservatori stimarono che la quota di questa sfera di fuoco era compresa tra 25 e 50 miglia. È noto, tuttavia, che le stime delle quote dei corpi celesti e delle loro dimensioni, basate sui diametri angolari e sulla quota ipotizzata, sono inaffidabili. Più affidabili erano le stime del tempo di persistenza in cielo del corpo celeste, che risultò compreso tra 4 e 10 secondi, durante i quali esso aveva percorso una distanza di 180 miglia; la velocità della sfera di fuoco era dunque compresa tra 18 e 45 miglia al secondo (tra 29 e 72 km/s ca.). Ciononostante, Le Roy rigettò l'ipotesi di un'origine extraterrestre, come pure la vecchia idea che le sfere di fuoco fossero masse di materia terrestre infiammabile che prendeva fuoco negli strati superiori dell'atmosfera. L'interesse di Le Roy come sperimentatore era incentrato sull'elettricità; non sorprende molto, quindi, che egli proponesse l'idea che le sfere di fuoco fossero un qualche tipo di fenomeno elettrico.
In un lasso di tempo molto breve, essenzialmente in un solo decennio a partire dal 1794, scienziati più illuminati si convertirono all'idea che le meteore e le sfere di fuoco fossero manifestazioni visibili del passaggio di materia extraterrestre attraverso l'atmosfera a grande velocità, e che talvolta questi oggetti potessero cadere sulla Terra. Il 16 giugno 1794 apparve nel cielo di Siena una nuvola di fumo accompagnata da scintille e fulmini e seguita da una pioggia di pietre che caddero a sud e a est della città; ne seguì un vivace dibattito tra gli scienziati italiani sull'origine delle pietre. Ambrogio Soldani (1736-1808), professore di matematica a Siena, sostenne che le pietre si fossero formate dalla condensazione del vapore atmosferico. Giorgio Santi (1746-1822), professore di botanica a Pisa, ipotizzò dapprima che le pietre fossero state scaraventate in cielo dal Vesuvio, e poi che provenissero da un'eruzione vulcanica sottomarina. Lazzaro Spallanzani (1729-1799), professore di storia naturale a Pavia, riteneva che le pietre fossero state raccolte da una violenta tempesta, e poi bruciacchiate dall'elettricità. Per quanto gli eruditi italiani non fossero d'accordo sull'origine di tali pietre, lo erano invece sul fatto che esse fossero cadute dal cielo, e ciò costituiva comunque un notevole passo avanti. I lavori di alcuni scienziati italiani, inoltre, divennero noti sia in Germania sia in Gran Bretagna e frammenti di pietre furono portati in Inghilterra da turisti che si erano trovati a Siena nel momento della caduta. L'episodio di Siena e il dibattito successivo segnarono dunque un punto di svolta.
Nello stesso anno, il 1794, Ernst Florens Friedrich Chladni (1756-1827), meglio noto oggi per i suoi studi di acustica, pubblicò un breve libro su una scheggia di ferro trovata in Siberia, che divenne noto in Gran Bretagna dopo la pubblicazione di una sintesi nel "Philosophical Magazine". Chladni forniva un resoconto di diciannove piogge di ferro o pietre, comprese otto avvenute nel XVIII secolo. Egli discusse e confutò pazientemente la maggior parte delle teorie esistenti, concludendo che le pietre cadevano realmente dal cielo, che erano dello stesso materiale di cui sono composte le sfere di fuoco ed erano di origine cosmica, ossia provenivano dallo spazio esterno all'atmosfera della Terra. In seguito, per rispondere ad alcune critiche, modificò alcune delle sue opinioni senza tuttavia migliorarle.
Chladni affermò, inoltre, che sarebbe stato utile determinare le quote e le traiettorie delle meteore mediante osservazioni simultanee. Questa idea fu raccolta nel 1798 da due studenti di Gottinga, Heinrich Wilhelm Brandes (1777-1834) e Johann Friedrich Benzenberg (1777-1846). Dopo essersi sistemati agli estremi di una linea di riferimento lunga 15 km, osservarono circa 400 meteore, 22 delle quali furono considerate come viste contemporaneamente. Usando i loro dati di parallasse, calcolarono che la luminosità era apparsa a un'altezza massima di 226 km e a una minima di 10,5 km; sfortunatamente, alcune delle meteore osservate sembravano aver seguito percorsi ascendenti, il che difficilmente poteva dare un sostegno all'ipotesi della loro origine cosmica. Anche se le osservazioni di Brandes e Benzenberg furono un tentativo importante, erano troppo poche e imprecise. L'altezza delle quote stimate rafforzò l'ipotesi extraterrestre, ma i casi anomali in cui gli oggetti sembravano salire servirono soltanto a rendere il dibattito più confuso.
Tra le analisi chimiche e mineralogiche delle pietre cadute che furono pubblicate, la più completa, e di maggior impatto, fu quella di Edward Charles Howard (1774-1816), che riuscì a procurarsi frammenti delle pietre piovute su Siena e di quelle che nel 1795 caddero a Wold Cottage, nello Yorkshire, oltre a campioni di un'altra dozzina di reperti analoghi, sia pietre sia schegge di ferro. Nel suo resoconto, pubblicato nel 1802 sulle "Philosophical Transactions", Howard sottolineò le caratteristiche comuni dei campioni esaminati. Tutti presentavano incrostazioni nere di ossido di ferro, contenevano pirite e una lega di nichel e ferro. I campioni di ferro e quelli di pietra contenevano tutti nichel, e Howard concludeva chiedendosi se potessero avere in effetti la stessa origine, e se potessero essere i costituenti delle meteore.
Il fatto che le pietre cadenti dal cielo fossero reali fu generalmente accettato come vero dalla comunità scientifica britannica poco prima della pubblicazione del lavoro di Howard. Infatti, quando, nel 1801, il fisico ginevrino Marc-Auguste Pictet fece un viaggio nelle Isole britanniche, le cadute di pietre erano già tra gli argomenti ricorrenti delle conversazioni colte, insieme al gas esilarante di recente scoperta. Quando apparve il rapporto di Howard, Pictet ne pubblicò una sintesi nella "Bibliothèque Britannique" e dopo un breve ma intenso dibattito, le pietre cadenti dal cielo furono generalmente accettate anche dalla comunità scientifica francofona. La prova definitiva, tuttavia, si ebbe con la pioggia spettacolare di tremila pietre avvenuta il 26 aprile 1803 a l'Aigle, in Francia, e con il relativo studio compiuto da Jean-Baptiste Biot.
Il fenomeno delle pietre cadenti era ormai generalmente accettato come fatto reale, ma l'ipotesi di Chladni dell'origine extraterrestre delle meteore rimase controversa, visto che alcuni continuavano a insistere su un'origine atmosferica. Anche coloro che, in maggioranza, erano a favore dell'origine extraterrestre, non riuscivano a trovare un accordo su quale potesse essere. Secondo alcuni pareri autorevoli, le meteore erano costituite da materiale non consolidato residuo della formazione del Sistema solare (Chladni), da materiale espulso da vulcani lunari (Laplace) o da frammenti prodotti nell'urto tra pianeti o nella loro distruzione (Chladni e David Brewster). La dimostrazione conclusiva dell'origine cosmica delle meteore venne dall'osservazione che gli sciami hanno un punto 'radiante' da cui sembrano avere origine tutte le traiettorie, e che quindi le meteore viaggiano lungo percorsi paralleli; gli sciami più noti, che hanno una periodicità annuale, traggono appunto la loro denominazione dalla posizione del loro radiante; per esempio, si chiama sciame delle Leonidi quello, visibile tra il 12 e il 17 novembre, che ha il suo radiante nella costellazione del Leone. La prima osservazione su radianti di sciami meteorici fu effettuata proprio sulle meteore dello sciame delle Leonidi nel 1833 da Denison Olmsted a Yale e da Alexander C. Twining a West Point; questa stessa osservazione era stata fatta da Alexander von Humboldt fin dal 1779, ma era stata ignorata.
di James Evans
Nel 1718 Edmond Halley annunciò la scoperta dei moti propri delle stelle; egli aveva osservato, infatti, che diverse stelle luminose sembravano aver mutato leggermente posizione rispetto alle loro vicine. Halley riuscì a rilevare questo spostamento soltanto per Aldebaran, Betelgeuse, Sirio e Arturo. Il suo metodo consisteva nel confrontare i dati contenuti nell'Almagesto di Tolomeo con le posizioni attuali. I movimenti delle stelle erano così lenti che, per renderli visibili, era stato necessario accumulare il loro effetto per 1500 anni. In due casi (per le stelle Aldebaran e Betelgeuse) Halley risultò in errore, a causa di dati sbagliati sulle posizioni delle stelle nell'Antichità. Per quanto riguarda Arturo, la scoperta di Halley fu confermata da Jacques Cassini nel 1738. Johann Tobias Mayer (1723-1762) trovò le prove dei movimenti propri di molte stelle, confrontando le osservazioni di Ole Christensen Römer del 1706 con quelle effettuate da lui stesso e da Nicolas-Louis de Lacaille intorno al 1750, il che dimostra il progresso dell'astronomia posizionale nel XVIII secolo.
Una rilevante lezione della Rivoluzione scientifica riguardava l'importanza di sottrarre il movimento della Terra dal moto apparente dei corpi celesti. Nel caso dei pianeti esterni (Marte, Giove e Saturno), per esempio, gli epicicli della teoria planetaria tolemaica erano soltanto manifestazioni del moto della Terra stessa intorno al Sole, e ciò spiegava perché tali pianeti si muovessero nei loro epicicli in sincronia perfetta. Mayer fu il primo ad applicare lo stesso tipo di ragionamento al movimento proprio delle stelle, argomentando che se il Sistema solare si muovesse nello spazio nella direzione di moto del Sole, le stelle dovrebbero apparentemente allontanarsi le une dalle altre, mentre nella regione opposta del cielo dovrebbero apparentemente convergere. Sommerso dai dati pieni di errori sui movimenti propri delle stelle allora disponibili, Mayer non riuscì tuttavia a trovare alcuna regolarità.
Nel 1783 Herschel pubblicò una semplice analisi effettuata su un piccolo numero di movimenti propri (sette ricavati da Maskelyne e dodici da Lalande). Procedendo in modo analogo a Mayer, Herschel pensò che se il movimento delle stelle non aveva alcunché di comune, il loro moto apparente doveva essere attribuito al Sole, che si muove (nella direzione opposta) nello spazio portandosi dietro il sistema planetario. Gli spostamenti osservati dovevano inoltre essere inversamente proporzionali alle distanze delle stelle dalla Terra. Tuttavia, Herschel fece un uso soltanto qualitativo di questo fatto, facendo osservare, come aveva già fatto Halley, che gli ampi movimenti propri di Arturo e Sirio si accordavano con il fatto che queste stelle erano le più luminose e quindi, probabilmente, tra le più vicine.
Herschel scoprì che quasi tutti i movimenti propri, nel suo piccolo campione di stelle, si potevano spiegare a partire da un opportuno movimento ipotizzato del Sole. Egli calcolò che l'apice del percorso del Sole (il punto cioè verso il quale il Sole si muove) si trovasse nella costellazione di Ercole. Le sue conclusioni furono in un primo momento messe in dubbio da altri studiosi, in particolare da Bessel, che disponeva di dati migliori e più abbondanti sui movimenti propri, ma successivamente furono confermate.
di James Evans
Gli ambiti maggiormente interessati dalla trasformazione, occorsa sul finire del XVIII sec., della vecchia nella nuova astronomia ‒ di cui s'è parlato nell'introduzione del capitolo ‒ sono i più svariati; dello sviluppo di alcuni di essi s'è dato conto compiutamente in capitoli precedenti: per esempio, la grande questione della natura e della forma della Via Lattea e la definizione delle caratteristiche delle cosiddette 'nebulose', che costituì il più appassionante tema della ricerca osservativa di William Herschel. Ci si limiterà qui a ricordare le acquisizioni relative a due altri nuovi e importanti argomenti di astronomia stellare, ossia le 'stelle doppie' e le 'stelle variabili'; inoltre, nella Tav. III sarà ripreso il 'problema della longitudine' nell'astronomia nautica.
Le stelle doppie
Herschel tentò, come prima di lui James Bradley (1693-1762) e altri nello stesso secolo, di rilevare il moto orbitale annuo della Terra, cercando le parallassi delle stelle vicine. Che dovesse esserci una parallasse annua delle stelle era una conseguenza inevitabile del punto di vista copernicano, ma tutti i tentativi di rilevarla erano falliti; questo, d'altra parte, significava soltanto che il raggio dell'orbita terrestre era trascurabile rispetto alle distanze delle stelle più vicine. Ogni insuccesso nell'osservare la parallasse collocava le stelle sempre più lontano. Il metodo preferito da Herschel era il perfezionamento di un'idea suggerita per la prima volta da Galilei. Consideriamo una stella doppia e in particolare il caso in cui una sia molto più luminosa dell'altra; si potrebbe dedurre che la stella meno luminosa sia molto più lontana dell'altra. Herschel si attenne sempre all'ipotesi che tutte le stelle fossero intrinsecamente della stessa luminosità, più o meno equivalente a quella del Sole; le diverse magnitudini (ossia le diverse luminosità apparenti) delle stelle sarebbero dunque dovute esclusivamente alle diverse distanze che le separano dalla Terra. Anche se rozza, questa ipotesi era molto meglio di niente, e Herschel fece grandi progressi applicandola ripetutamente ai problemi sempre nuovi che a mano a mano affrontava. Secondo lui, vedendo una stella brillante e una poco luminosa separate da una piccola distanza angolare (per es., 5″), non si deve concludere che esse siano fisicamente collegate; l'accoppiamento sarebbe infatti del tutto casuale, dipendendo dalla prospettiva dell'osservatore sulla Terra, il quale vede le stelle quasi lungo la stessa direttrice pur trovandosi esse a distanze molto diverse. Osservando la coppia di stelle in diversi periodi dell'anno, potremmo cercare piccoli cambiamenti nella loro distanza angolare che, se effettivamente rilevati, fornirebbero una conferma del moto orbitale della Terra attorno al Sole.
Nel 1781 Herschel pubblicò il primo catalogo di stelle doppie (insieme a quelle che chiamò stelle triple, doppie-doppie, quadruple, doppie-triple e multiple), che raccoglieva 269 oggetti. Per ogni coppia annotò la separazione angolare delle stelle e l'angolazione della linea di congiunzione tra di esse. Essendo inoltre interessato a coppie di stelle di luminosità molto diversa, annotò anche le luminosità relative. Nello stesso periodo Christian Mayer (1719-1783), anch'egli interessato a coppie di stelle di diversa luminosità, compilò un catalogo di stelle doppie (che sperava di utilizzare per stabilire il movimento proprio delle stelle più brillanti). La ricerca di stelle doppie da parte di Herschel continuò e in pochi anni il suo elenco raggiunse quasi 1000 elementi.
Nel 1767 John Michell (1724-1793) aveva già sostenuto che la maggior parte delle stelle che appaiono doppie lo sono veramente, ossia che sono legate dalla forza di gravità e orbitano l'una attorno all'altra. La sua tesi si basava su un'argomentazione di tipo statistico, avendo egli dimostrato che il numero di stelle doppie è molto maggiore di quanto ci si aspetterebbe a partire da una distribuzione casuale delle stelle sulla sfera celeste. Anche se Michell aveva commesso degli errori, il suo metodo era importante, dal momento che introduceva un modo di ragionare completamente nuovo nell'astronomia. Nel 1802 Herschel pubblicò un lavoro che trattava dello stesso problema e giungeva a conclusioni analoghe, ossia che la casualità non giustifica il gran numero di stelle doppie, e che la loro esistenza deve dipendere da qualche legge generale della Natura. Queste conclusioni minarono naturalmente la possibilità da parte di Herschel di utilizzare il catalogo delle stelle multiple per il suo scopo originario.
Il catalogo, tuttavia, diede un contributo inatteso, poiché grazie a esso Herschel poté rendersi conto che nel caso di diverse stelle doppie le posizioni relative erano cambiate rispetto al momento delle prime osservazioni. I membri di queste coppie erano evidentemente in orbita attorno a un comune centro di gravità; ciò costituisce un importante elemento a favore della universalità della legge della gravitazione di Newton. Nel 1830 Félix Savary (1797-1841) pubblicò un lavoro in cui ricavava l'orbita ellittica delle due stelle appartenenti alla doppia ξ Ursae Majoris.
Le stelle variabili
All'inizio del XVIII sec. il più spettacolare tra gli esempi conosciuti di variabilità della luminosità delle stelle erano le novae del 1572 e del 1604; per alcuni altri casi si avevano solo caute testimonianze di variabilità. Nel 1596 David Fabricius annunciò la scoperta di una nova nella costellazione della Balena. Come per altre novae, anche in questo caso la luminosità diminuì gradualmente ed essa scomparve alla vista, ma un'altra nova fu osservata nella stessa posizione nel 1638. Con il tempo divenne chiaro che la stella di Fabricius (che sarebbe stata presto chiamata Mira, la 'splendida') scompariva periodicamente, per poi ricomparire come stella di magnitudine tre. Nel 1667 Bullialdus (Ismaël Boulliau, 1605-1694) dimostrò che, anche se Mira non mostrava la stessa luminosità in ogni ciclo, aveva in effetti un periodo abbastanza regolare di circa undici mesi. D'altra parte Algol (β Persei), nel corso del XVII sec., in due circostanze era apparsa di magnitudine 4 invece che 2, come di consueto. La spiegazione più frequentemente adottata per la variabilità era la rotazione di una stella coperta da chiazze scure, e l'eventuale assenza di regolarità poteva essere motivata con uno spostamento delle chiazze.
Nel 1715 Edmond Halley pubblicò una rassegna delle prove disponibili della variabilità della luminosità delle stelle, riuscendo a indicare soltanto sei casi, comprese le novae (anche se trascurò Algol). Le stelle variabili suscitarono scarso interesse sino agli anni intorno al 1780, quando gli astronomi dilettanti John Goodricke (1764-1786) ed Edward Pigott (1753-1825) richiamarono nuovamente l'attenzione sul fenomeno, incrementando significativamente il numero di esempi noti e dimostrando che, almeno per alcune, si poteva trovare una spiegazione in termini di corpi che si eclissano reciprocamente. La tecnica usata da Goodricke e Pigott richiedeva d'individuare con molta precisione le sequenze di luminosità delle stelle, per poterle confrontare con oggetti sospettati di essere stelle variabili. I due astronomi esaminarono tutte le stelle variabili note e quelle sospettate di esserlo, comprese Mira e Algol, e cercarono anche le novae scomparse del passato. Nel novembre del 1782 Goodricke stava osservando, come al solito, Algol, che era allora di magnitudine 2; cinque notti dopo la magnitudine era scesa a 4, per tornare a 2 la notte seguente. Goodricke era sbalordito dalla rapidità del cambiamento; controllò ripetutamente la stella e determinò il suo periodo in 2 giorni, 20 ore, 45 minuti (che corresse successivamente in 2 giorni, 20 ore, 48 minuti e 56 secondi). Nel maggio 1783 egli comunicò i suoi risultati alla Royal Society con una lettera, che andò immediatamente in stampa. Goodricke e Pigott si spronavano l'un l'altro; nel 1784 Pigott scoprì la variabilità di η Aquilae, e Goodricke scoprì altre due stelle variabili visibili a occhio nudo, β Lyrae e δ Cephei. Nell'aprile 1786 Goodricke fu eletto membro della Royal Society di Londra, ma morì dopo due sole settimane, a ventun anni, forse a causa di una polmonite contratta osservando il cielo nel freddo della notte. Nello stesso anno Pigott pubblicò un catalogo di dodici stelle variabili confermate come tali (incluse le novae), seguite da una lista di altre 38 di cui propose uno studio ulteriore e l'eventuale autenticazione. Nel 1795, infine, aggiunse R Scuti e R Coronae Borealis all'elenco delle stelle variabili note.
L'origine della variabilità di queste stelle rimase controversa. Nel suo lavoro su Algol, pubblicato nel 1783 sulle "Philosophical Transactions", Goodricke riproponeva la spiegazione usuale della variabilità, in termini di chiazze scure sulla superficie di stelle rotanti; suggeriva però anche la possibilità che la variabilità periodica potesse derivare dall'interposizione di un oggetto di grandi dimensioni in rotazione attorno ad Algol. Questa idea era venuta in mente anche a Pigott; i due amici però alla fine abbandonarono l'ipotesi dell'eclissi (considerata oggi valida per questa stella). Le loro osservazioni successive di Algol sembravano rivelare nell'andamento della luminosità delle irregolarità che non erano coerenti con l'andamento semplice che ci si sarebbe aspettato nel caso di una stella eclissata da un grande pianeta. Era chiaro, inoltre, che alcune delle loro più recenti scoperte non potevano spiegarsi in termini di eclissi. Per esempio, η Aquilae ha un periodo regolare di sette giorni, ma la sua luminosità impiega molto più tempo a diminuire che ad aumentare (η Aquilae e δ Cephei sono in effetti stelle variabili regolari). L'ipotesi dell'eclissi per Algol non fu confermata con sicurezza sino al 1889, quando Hermann Vogel dimostrò che si tratta di una stella binaria spettroscopica, e che le congiunzioni del sistema coincidono con i minimi della luminosità. Il fatto che lo studio delle stelle variabili languì dopo Goodricke e Pigott non deve stupire troppo, poiché sino all'avvento dell'astrofisica non ci furono strumenti a disposizione in grado di fornire una spiegazione dei diversi tipi di sistemi variabili, fatta eccezione per le binarie a eclissi. Le variabili irregolari ‒ come, per esempio, R Coronae Borealis ‒ rimasero un mistero, a meno d'invocare per esse la teoria delle chiazze scure, che, per sua natura, poteva facilmente adattarsi alle più varie circostanze.
di James Evans
Newton aveva dimostrato, nei suoi esperimenti di ottica intorno al 1670 e nel suo lavoro Opticks del 1704, che la luce bianca del Sole è composta da uno spettro di raggi colorati, con proprietà diverse di rifrazione. Newton aveva fatto passare la luce solare attraverso un piccolo foro nelle persiane di una finestra e poi attraverso un prisma; le luci colorate, la cui sovrapposizione costituiva la luce solare, apparvero come uno spettro ordinatamente colorato dal rosso al violetto visibile sulla parete opposta. Per lungo tempo non ci furono progressi fondamentali rispetto agli esperimenti di Newton; nell'ultimo quarto del XVIII sec., però, gli studiosi di fisica iniziarono a fare esperimenti con il calore radiante, il che provocò l'estensione dello spettro solare al di là degli estremi rosso e violetto, portando alla scoperta di una struttura all'interno dello spettro della luce solare e alla nascita della spettroscopia.
Entro il 1780 erano stati ottenuti due risultati importanti. In primo luogo era stata operata una distinzione tra il calore radiante e quello ordinario, cioè quello associato ai fenomeni di conduzione e convezione termiche. In secondo luogo il calore radiante era stato distinto dalla luce, sebbene si fosse scoperto che obbediva alle stesse leggi dell'ottica. Lambert fece notare come un vetro trasparente protegga il viso dal calore di un incendio, anche il più furioso, finché non diventa anch'esso molto caldo. Questo fatto sembrava suggerire che i raggi luminosi potessero attraversare il vetro e che ciò fosse invece impedito ai 'raggi di calore'. Carl Wilhelm Scheele (1742-1786), tra gli altri, usò specchi di metallo per riflettere i raggi di calore e focalizzarli. Per distinguere questa forma di calore (che si propaga in linea retta e può essere riflesso) da quello che si associa ai corpi, Scheele coniò il termine 'calore radiante'.
Nel 1800 Herschel ripeté gli esperimenti classici sulla riflessione del calore radiante da parte di uno specchio. Egli studiò, tra l'altro, il potere di riscaldare delle diverse componenti cromatiche della luce solare. In uno dei suoi esperimenti, faceva passare la luce solare attraverso una fenditura, in modo da produrre un fascio ben definito, e poi attraverso un prisma per separare il fascio luminoso nei colori che lo componevano. Collocando diversi termometri in ogni parte dello spettro, Herschel scoprì che il maggiore effetto sui termometri si aveva quando si trovavano oltre l'intervallo rosso dello spettro, in cui non si aveva luce visibile. L'esperimento dimostrava, secondo Herschel, che "dal Sole provengono dei raggi che si rifrangono meno di qualsiasi raggio visibile, e che possiedono una capacità elevata di scaldare i corpi, e nessun potere illuminante" (The scientific papers, II, p. 75).
Se Herschel aveva esteso lo spettro solare al di là del rosso, Johann Wilhelm Ritter (1776-1810) fece ben presto altrettanto all'estremità violetta dello spettro. Scheele aveva già notato che un foglio di carta imbevuto di cloruro d'argento annerisce quando è esposto alla luce del Sole. Dopo aver saputo della scoperta, da parte di Herschel, dei raggi di calore oltre il limite rosso dello spettro, Ritter si mise immediatamente a cercare un'attività fotochimica oltre l'estremo blu; dopo aver separato la luce solare mediante un prisma, ne studiò gli effetti sul cloruro d'argento. La maggiore attività si aveva poco oltre il limite violetto dello spettro, in quella che oggi chiamiamo 'regione ultravioletta'.
Sebbene già Newton avesse scomposto la luce solare nelle sue componenti cromatiche, v'era ancora disaccordo sul numero di colori presenti; alcuni ne vedevano sette, altri sei e altri ancora cinque; il giudizio individuale giocava quindi un ruolo determinante. Si deve considerare anche, però, la bassa risoluzione dell'apparato sperimentale di Newton. La risoluzione ottenibile con un apparato di quel tipo dipendeva da due fattori. Il primo era il potere rifrangente variabile del vetro, differente per i diversi colori; infatti, la luce blu è rifratta un po' di più della luce rossa, ma soltanto di poco. Il secondo fattore è invece legato alla larghezza del foro o della fenditura di collimazione. Si può pensare che essa agisca come un foro stenopeico, generando un'immagine del Sole sulla parete; per la presenza del prisma, la posizione dell'immagine sarà diversa per ognuno dei colori dello spettro. A causa però della dimensione finita del foro, le immagini non saranno del tutto nitide (d'altra parte, per avere un'immagine abbastanza luminosa da essere visibile sulla parete, la fenditura doveva essere di dimensioni apprezzabili).
Nel 1802 il medico inglese William Hyde Wollaston (1766-1828) usò una fenditura molto stretta (circa un ventesimo di pollice, pari a circa 1,3 mm) al posto della persiana forata di Newton. A 3-3,5 m di distanza la luce passata attraverso la fenditura era sufficientemente attenuata da consentire a Wollaston d'intercettare lo spettro con l'occhio, direttamente al di là del prisma. Wollaston vide diverse righe scure nello spettro e le interpretò come i confini naturali tra i colori; v'erano però due righe che non si potevano interpretare in questo modo. La scoperta di Wollaston non destò molta attenzione poiché egli non era in grado di offrire una spiegazione convincente della presenza delle righe osservate e, d'altra parte, la comunicazione di tale scoperta era celata in un lavoro dedicato alla misura dell'indice di rifrazione della cera d'api, dell'olio di chiodi di garofano e di un'altra dozzina di sostanze.
Le righe scure nello spettro della luce solare furono riscoperte, indipendentemente, intorno al 1814 da Joseph von Fraunhofer (1787-1826). Fraunhofer era un ottico, socio di una ditta che fabbricava strumenti ottici a Monaco. Il suo scopo era riuscire a fabbricare migliori lenti acromatiche e per questo egli cominciò a studiare le proprietà di rifrazione dei diversi colori 'puri' con il vetro crown e il vetro flint. Fraunhofer fece passare un fascio di luce solare attraverso una fenditura molto stretta, scompose la luce nei colori mediante un prisma ed esaminò lo spettro in grande dettaglio usando un piccolo telescopio. Egli riconobbe circa 500 righe scure nello spettro della luce solare e usò lettere dell'alfabeto per contrassegnarne le principali. Modificando la procedura sperimentale, si convinse che le righe non erano dovute a percezioni illusorie o a effetti di diffrazione, ma alla natura stessa della luce solare; tra l'altro, mise in evidenza il fatto che la riga scura 'D' nella parte gialla dello spettro presentava una notevole corrispondenza con la riga già nota nella luce emessa dalla fiamma di una candela. Pur non potendo pronunciarsi in modo preciso sulla loro origine fisica, Fraunhofer continuò anche a trovare righe scure negli spettri della luce di pianeti e stelle. Già nel 1814 si accorse che la luce di Venere mostra la stessa struttura di quella del Sole, e riuscì perfino a discernere tre ampie bande nello spettro di Sirio che non corrispondevano alle righe osservate nello spettro solare. Nove anni dopo, usando un rifrattore da 10 cm, Fraunhofer osservò righe scure negli spettri di Sirio, Castore, Polluce, Capella, Betelgeuse e Procione.
Dopo le scoperte di Fraunhofer, la spettroscopia fece scarsi progressi sino al 1859, quando Robert Wilhelm von Bunsen (1811-1899) e Gustav Robert Kirchhoff (1824-1887) mostrarono in quale modo si potessero associare le righe spettrali con specifici elementi chimici. Una ragione del lento sviluppo della spettroscopia risiedeva nella difficoltà di produrre sostanze chimiche pure. In particolare, le impurità di sodio erano così onnipresenti che prima del successo ottenuto da Bunsen nel produrre sostanze chimiche talmente pure da eliminare le righe del sodio, fu difficile accertare che ogni elemento possedeva righe spettrali caratteristiche.
di James Evans
Il ritmo sempre più rapido degli sviluppi dell'astronomia nel periodo tra il 1770 e il 1830 fu in parte dovuto alla nascita di nuove istituzioni, tra cui riviste scientifiche, accademie di studiosi e osservatori astronomici. Tra i periodici scientifici, la "Bibliothèque Britannique" (poi "Bibliothèque Universelle") di Marc-Auguste Pictet (1752-1825), pubblicata a Ginevra, svolse un ruolo fondamentale nel tenere gli scienziati europei al corrente dei nuovi sviluppi della disciplina in Gran Bretagna, specialmente durante i periodi in cui le comunicazioni erano interrotte a causa delle guerre napoleoniche. Pictet stampò anche traduzioni in francese di lavori italiani e tedeschi, e recensioni dettagliate di libri. Come abbiamo visto, la rivista di Pictet fu sede di un dibattito sulla natura delle meteore. Nuove riviste dello stesso genere nate in Gran Bretagna, come il "Philosophical Magazine", diedero la possibilità di pubblicare rapidamente i risultati delle nuove ricerche, senza gli ostacoli posti dal carattere esclusivo delle pubblicazioni delle accademie nazionali. Altre caratteristiche notevoli del "Philosophical Magazine" erano i resoconti e le traduzioni di pubblicazioni straniere (come, per es., il libro di Chladni sulle piogge di pietre e ferro).
La "Bibliothèque Britannique" e il "Philosophical Magazine" erano esempi tipici di un numero crescente di periodici scientifici d'interesse generale. Tuttavia, nello stesso periodo apparvero per la prima volta diverse riviste dedicate in gran parte, o anche esclusivamente, all'astronomia. La "Monatliche Correspondenz zur Beförderung der Erd- und Himmelskunde" (Corrispondenza mensile per l'avanzamento della geografia e dell'astronomia), fondata nel 1800 da Franz Xaver Freiherr von Zach (1754-1832), consentiva una rapida pubblicazione dei risultati scientifici. La più importante tra le nuove riviste, le "Astronomische Nachrichten", fu fondata da Heinrich Christian Schumacher (1780-1850) nel 1823 e pubblicata ancora oggi. Schumacher è stato a volte definito scherzosamente il 'ministro delle poste dell'astronomia' in quanto favorì, sia pure in forma non ufficiale, la più ampia circolazione delle notizie astronomiche. Gli astronomi gli scrivevano esponendo i loro ultimi lavori; lui copiava le lettere e le distribuiva ai suoi numerosi corrispondenti. Le "Astronomische Nachrichten" presero avvio come formalizzazione di questo scambio non ufficiale d'informazioni.
La Astronomical Society di Londra fu fondata nel 1820; undici anni dopo ebbe lo statuto che la trasformò nella Royal Astronomical Society. Questa organizzazione offrì una sede per le conferenze di astronomia e iniziò presto a pubblicare una serie di Memoirs tecniche. Nel 1827 iniziò la pubblicazione delle "Monthly Notices of the Royal Astronomical Society", un periodico che si può considerare la risposta britannica alla recente fondazione delle riviste astronomiche tedesche. Furono anche costruiti nuovi osservatori, con il sostegno e il patrocinio governativo, tra cui l'importante Osservatorio di Königsberg nel 1809, di cui Friedrich Wilhelm Bessel (1784-1846) fu il primo direttore.
La rivoluzione astronomica di Copernico e di Kepler distrusse la vecchia fisica di Aristotele. Molto di ciò che avvenne nel XVII sec. può essere interpretato come ricerca di una nuova fisica con cui sostituire la vecchia, ormai naufragata. Gli uomini guida in questa ricerca furono Galilei, Descartes e Newton. Poco dopo l'inizio del periodo preso in esame in questo capitolo, con la pubblicazione degli studi di meccanica celeste di Lagrange e di Laplace, e con l'elaborazione e la verifica di tutte le implicazioni della legge gravitazionale di Newton, la fisica si adattò di nuovo alle necessità dell'astronomia.
Nel 1770, per astronomia s'intendeva per lo più la misurazione attenta di posizioni, sia delle stelle fisse sia dei pianeti. Le osservazioni straordinariamente accurate dei pianeti servirono a mettere in discussione, estendere e correggere i metodi di calcolo della meccanica celeste. Dopo il 1770, però, il rapido miglioramento della qualità degli strumenti astronomici e la maggiore perseveranza e capacità tecnica degli astronomi che compivano le osservazioni, sollevarono presto problemi a cui la fisica dell'epoca non era in grado di dare una risposta. Le stelle variabili, le righe scure negli spettri della luce del Sole, dei pianeti e delle stelle, la rapida crescita del numero di nebulose, erano tutti esempi di un'astrofisica emergente, in cui l'osservazione e la catalogazione dei fenomeni procedeva molto più velocemente della capacità della fisica contemporanea di darne spiegazione. Verso la fine del periodo anzidetto l'astronomia si trovava alle prese con un Universo più grande e più dinamico. Gli astronomi continuavano senz'altro il lavoro tradizionale di catalogare le stelle e misurare le loro posizioni e, in effetti, i Fundamenta astronomiae, pubblicati da Bessel nel 1818 e basati sulle osservazioni di Bradley del 1755 elevarono il catalogo stellare a un nuovo livello di precisione. Le stelle però non costituivano più semplicemente uno sfondo statico per l'osservazione dei movimenti dei pianeti; il sistema delle stelle era diventato dinamico. I loro movimenti propri erano misurati e l'esistenza di sistemi di stelle multiple legate dalla forza di gravità era ormai accettata. La distribuzione delle stelle nello spazio tridimensionale era entrata nell'elenco dei problemi che un astronomo poteva affrontare con qualche speranza di successo, e anche le misteriose nebulose potevano ormai essere considerate un problema astronomico, anche se sarebbe stato necessario un altro secolo per la sua risoluzione.
William Herschel, più di tutti, contribuì ad avviare la trasformazione dell'astronomia. Molti astronomi tardarono ad accorgersi della rivoluzione in arrivo. Laplace, per esempio, dedicò quasi tutta la sua Exposition du système du monde al Sistema solare e alla sua dinamica, cioè alla vecchia astronomia. Delambre, nella sua opera Histoire de l'astronomie au dix-huitième siècle, molto diffusa, si occupò poco di Herschel, salvo che come scopritore di Urano. Laplace e Delambre appartenevano alla vecchia scuola, che aveva ben appreso la lezione di Newton e aveva ripudiato vane ipotesi a favore di misure e calcoli accurati. Herschel però, nel suo lavoro del 1785 sulla 'costruzione dei cieli', sottolineava che gli astronomi avrebbero dovuto evitare due estremi opposti:
Se indulgiamo in un'immaginazione fantasiosa e ci costruiamo da soli i nostri Universi, non ci dobbiamo meravigliare se ci allontaniamo dal sentiero della verità e della Natura; ma queste cose comunque scompariranno, come i vortici di Descartes, che cedettero subito il passo appena furono disponibili teorie migliori. D'altra parte, se aggiungiamo osservazioni a osservazioni senza tentare di trarne non soltanto qualche risultato, ma anche delle visioni ipotetiche, offenderemmo gli stessi fini che forniscono la sola giustificazione per le osservazioni stesse. (The scientific papers, I, p. 223)
Il programma scientifico di Herschel ebbe un importante ruolo complementare rispetto a quello della scuola laplaciana. Nell'ultima parte del XX sec. l'astronomia è diventata una branca della fisica, caratterizzata da margini d'incertezza particolarmente ampi; i tratti distintivi dell'astronomia contemporanea sono la ricerca di telescopi in grado di osservare sempre più in profondità nello spazio e una notevole libertà di avanzare congetture (che riconosciamo come valori tipici dell'approccio di Herschel), sostenuta però da calcoli rigorosi (per i quali lo stesso Herschel mancava sia dell'inclinazione sia della formazione). In definitiva, possiamo considerare l'astronomia contemporanea come una fusione dei programmi scientifici di Herschel e di Laplace.
di Jessica Riskin
"Rose alle quali sono state accuratamente tolte le spine": così, nel 1829, Jean-Sébastien-Eugène Julia de Fontenelle (1780-1842) definì, elogiandolo, il contenuto del Manuel de physique amusante ou nouvelles récréations physiques (1826). La filosofia amusante, come sostenne William Hooper nelle Rational recreations (1774), doveva rendere le conoscenze utili "facili, dolci, dilettevoli, attraenti e seducenti, e non monotone, noiose, spiacevoli, aspre e confuse, severe e imperiose" (ed. 1787, p. VI). Secondo quanto sosteneva M.L. Despiau in Choix d'amusemens physiques et mathématiques (1799) i divertimenti filosofici erano "rimedi inventati per rianimare gli spiriti depressi" e potevano essere convenientemente usati per "decorare la mente" come affermava Edmé Guyot nelle sue Nouvelles récréations physiques et mathématiques (1769-1770). Non dovevano opprimere, far soffrire o confondere, ma affascinare e sedurre, abbellire e rallegrare ‒ la physique amusante, in conclusione, doveva amuser.
Questa esigenza imponeva precisi confini al campo d'azione della scienza naturale popolare. La rimozione delle spine dalla rosa della fisica fu il risultato di un progetto accuratamente studiato che nasceva dalla constatazione di un'evidente realtà commerciale: il pubblico amava i fenomeni straordinari e, per osservarli, sarebbe accorso in gran numero alle dimostrazioni. Questo progetto, tuttavia, si fondava anche su una teoria pedagogica, il cui principio informatore fu esaurientemente definito da Joseph Priestley (1733-1804) in una esortazione alla formulazione di un programma educativo nazionale di scienza naturale contenuta negli Experiments and observations: "Bisogna suscitare in ogni modo curiosità e sorpresa nei giovani; non ci si deve preoccupare troppo che essi comprendano correttamente ciò che vedono. In un primo momento, sarà sufficiente che i fenomeni straordinari si imprimano nelle loro menti, in modo tale da poter essere ricordati. A tutte le età, abbiamo troppa premura di comprendere [...] le apparenze che si presentano al nostro sguardo" (1779-1786, I, p. X).
Il programma di studi della physique amusante era costellato di riferimenti all'importanza della semplice osservazione. Questa nozione, in realtà, era implicita nella parola stessa. Sia il verbo francese amuser che quello inglese to amuse furono coniati all'inizio del XVII sec. a partire da una combinazione di semantemi francesi che significava 'far spalancare gli occhi per lo stupore'; nei primi esempi dell'uso di questo termine è implicito il riferimento alle nozioni di seduzione visiva e inganno.
Nel corso del XVIII sec., il termine amusement ‒ ciò che seduce e manipola il senso della vista ‒ iniziò a essere impiegato in riferimento a scopi intellettuali. Questa evoluzione ebbe origine nell'ambito delle diffuse teorie della pedagogia sensista che si basavano sull'assioma secondo cui la conoscenza penetrava nella mente attraverso i sensi. Per insegnare la scienza naturale al grande pubblico, quindi, bisognava mostrare le proprietà e i principî abitualmente nascosti nei loro più diversi e straordinari aspetti, traducendo le teorie in sensazioni fisiche. Sin dalle sue origini, che risalgono alla fine del XVII sec., lo studio amusant della Natura si era fondato su questo precetto e, mentre tutto il resto cambiava, il sensismo persisteva.
Nel 1770, la filosofia popolare della Natura esisteva già da quattro generazioni e i suoi fondamenti originari erano stati distinti in due categorie: quella che riguardava le proprietà generali (estensione, divisibilità, attrazione e repulsione) e quella concernente le proprietà particolari della materia (ottica, idrostatica e pneumatica). Verso la metà del XVIII sec., la parte centrale del programma, precedentemente incentrata sulla pompa ad aria e sulla lanterna magica, iniziò a essere occupata da dimostrazioni sempre più dinamiche. Le virtuosistiche performance degli automi musicisti e le violente scosse della bottiglia di Leida sollevarono nuove questioni e condussero all'elaborazione di una serie di temi: l'osservazione degli effetti della pressione dell'aria contribuì all'individuazione di diversi corpi aeriformi e delle loro numerose proprietà; quella dell'elettricità aprì la strada all'identificazione di diversi fluidi imponderabili e delle loro diverse proprietà, mentre l'analisi degli automi di Jacques de Vaucanson (1709-1782), tra cui ricordiamo in particolare l'anatra meccanica e il suonatore di flauto, diede origine a congegni automatici in grado di scrivere, disegnare, giocare a scacchi e, soprattutto, parlare. Questo paragrafo e i successivi sono dedicati ai diversi corpi aeriformi e a una delle loro applicazioni, cioè i palloni aerostatici; alla fisica dei fluidi imponderabili, inclusi l'elettricità, il calore e il magnetismo animale; ai nuovi tipi di automi.
I palloni aerostatici
Nel periodo compreso tra il 1770 e il 1780, la rivoluzione chimica trasformò l''aria', che nella fisica aristotelica era considerata un unico elemento, in una pluralità di corpi aeriformi distinti tra loro in base alle diverse proprietà e al loro comportamento. I gas e le loro diverse nature furono presi in esame in numerose dimostrazioni popolari. L'idrogeno, per esempio, si distingueva per la sua infiammabilità. I dimostratori introducevano in una piccola ampolla alcuni pezzi di ferro o di zinco e versavano su di essi una soluzione di acido solforico, quindi chiudevano l'ampolla con un tappo di sughero in cui si inseriva un piccolo tubo. Per dimostrare che il vapore che usciva dal tubo era il gas idrogeno, si avvicinava una candela al vapore che prendeva immediatamente fuoco. La principale caratteristica dell'ossigeno, invece, era quella di essere indispensabile alla respirazione e alla combustione. Per dare una prova di queste proprietà, si immettevano i diversi gas in recipienti chiusi contenenti topi e candele.
Nel corso degli anni Ottanta del XVIII sec., le esperienze scientifiche da intrattenimento condotte sui corpi aeriformi diedero un impulso decisivo allo sviluppo dei viaggi con i palloni aerostatici. L'invenzione di questi ultimi fu in gran parte il risultato dei tentativi di offrire esaurienti esempi delle diverse proprietà dell'aria: l'espansibilità, la leggerezza e l'infiammabilità. Ma, soprattutto, scaturì da un preciso metodo di insegnamento che si fondava su queste proprietà e sulla loro dimostrazione. Gli inventori dell'aviazione, infatti, furono allo stesso tempo interpreti e continuatori della tradizione della fisica amusante.
Joseph-Michel Montgolfier (1740-1810), che per primo concepì l'idea di compiere viaggi con il pallone aerostatico, era un autodidatta. La sua istruzione informale nel campo della nuova chimica dei gas derivava largamente, sebbene per via indiretta, dalle conferenze popolari. Suo cugino Mathieu Duret (1758-1841), in attesa di dedicarsi allo studio della medicina, aveva seguito i corsi dei più autorevoli divulgatori parigini della chimica pneumatica: Guillaume-François Rouelle (1703-1770), Jean-Baptiste-Michel Bucquet (1746-1780), Pierre-Joseph Macquer (1718-1784), Jean Darcet (1725-1801) e Antoine-François de Fourcroy (1755-1809). Montgolfier interrogò a lungo Duret e le sue risposte lo indussero ad adottare la nozione secondo cui il calore stesso era un gas, il 'gas igneo'. Dal momento che era un fluido espansivo ed elastico, il calore poteva essere sfruttato per compiere operazioni meccaniche e, combinato con l'aria atmosferica, poteva essere impiegato per formare un nuovo gas, dotato della tendenza a librarsi in aria, ovvero dotato di una forza ascensionale.
Con la collaborazione di suo fratello Étienne-Jacques (1745-1799), Montgolfier tentò di verificare questa nozione imprigionando il gas igneo in contenitori ermetici. La prima Montgolfière fu costruita con un sacco di taffettà, foderato di carta per ottenere una buona tenuta, che raccoglieva il gas igneo prodotto da un braciere di stracci di lana e paglia, e il 5 giugno del 1783 si librò in aria ad Annonay, sede della fabbrica di carta della famiglia Montgolfier. Il Réveillon, una versione perfezionata del primo modello di mongolfiera costruita grazie al finanziamento del ministero delle Finanze, si sollevò in volo a Versailles il 19 settembre dello stesso anno. Il parco, le finestre e il tetto del castello erano gremiti di spettatori che volevano assistere alla partenza del pallone su cui erano stati imbarcati i primi ascensionisti aerei, una pecora, un gallo e un'anatra, che avrebbero volato rinchiusi in una gabbia sospesa. Gli animali atterrarono due miglia più in là, sani e salvi.
La successiva mongolfiera avrebbe avuto come passeggeri esseri umani, Étienne-Jacques Montgolfier e un collaboratore dei due fratelli, Jean-François Pilâtre de Rozier (1756-1785), il quale aveva acquisito una formazione scientifica frequentando nella capitale francese i corsi pubblici dedicati ad argomenti scientifici e, in seguito, aveva guidato una dimostrazione di scienza popolare promossa dalla corte al Palais Royal. In questa occasione aveva discusso in modo amusant di argomenti di fisica e chimica, e aveva dimostrato fenomeni elettrici e chimici. A Pilâtre de Rozier spettò il triste privilegio di essere la prima vittima di un incidente aereo. Egli, infatti, ebbe l'infausta ispirazione di combinare due progetti, il pallone a gas igneo e il pallone ad 'aria infiammabile' (cioè a idrogeno), sperando di sfruttare le caratteristiche più promettenti di entrambi: la rapidità d'ascesa dell'aria infiammabile e la facilità di salita e discesa dell'aria calda. Benché i fratelli Montgolfier lo avessero sconsigliato di mettere in pratica questo progetto, il ragionamento di Pilâtre de Rozier si accordava perfettamente al principio su cui si basava la loro progettazione dei palloni aerostatici, cioè quello secondo il quale bisognava tentare di sfruttare tutti i fluidi dotati di forza ascensionale. Joseph-Michel Montgolfier, infatti, aveva ideato il suo pallone ad aria calda in modo da farlo funzionare non con il solo calore, bensì con una mescolanza di fluidi ascensionali, le cui proprietà espansive erano state dimostrate nei corsi seguiti da suo cugino Duret ‒ vapori acquei e oleosi e corpi aeriformi infiammabili, prodotti dalla combustione e dall'elettricità ‒ che sarebbero stati raccolti dal pallone durante la sua ascesa.
Nello stesso periodo, un fisico amusant esemplare, Jacques-Alexandre-César Charles (1746-1823), inventò il pallone a idrogeno allo scopo di perfezionare l'arte della sperimentazione: essa doveva rivelare alla vista tutte le verità della fisica con la stessa esattezza con cui la matematica le rivelava alla mente. Charles tenne uno dei corsi di fisica sperimentale più alla moda di Parigi. Nel corso delle sue conferenze, volle rendere visibili al pubblico le proprietà ascensionali dell'aria infiammabile, usando questo gas per creare bolle di sapone che salivano diritte verso il soffitto. Quindi egli passava a illustrare l'infiammabilità del gas, avvicinando una fiamma alle bolle per provocare piccole esplosioni. Nel corso dell'estate del 1783, nel periodo immediatamente successivo all'ascesa di Annonay, il progetto del pallone aerostatico dei fratelli Montgolfier era ancora segreto. Charles però volle ugualmente tentare di replicare la loro impresa a Parigi, dove il suo fedele e generoso pubblico decise di sostenerlo in questa prova con una sottoscrizione, com'era già avvenuto per il suo corso di conferenze. Pensando all'aria infiammabile immessa nelle bolle di sapone, Charles fabbricò il suo pallone con taffettà e caucciù; quindi lo riempì d'aria infiammabile per mezzo di un generatore costituito da un barile di limatura di ferro in cui era stata versata una certa quantità di olio di vetriolo (acido solforico). La Charlière si sollevò in volo la sera del 27 agosto del 1783 al Champ de Mars. Il parco e le finestre della vicina Scuola Militare erano gremiti di sottoscrittori; altri spettatori si accalcavano sui tetti circostanti e lungo la riva opposta della Senna, mentre la strada per Versailles era impraticabile a causa dell'intenso traffico di carrozze. Lo spettacolo non durò a lungo: due minuti dopo essersi sollevato in volo, il pallone raggiunse l'altezza di 1500 piedi e scomparve dalla vista.
di Jessica Riskin
Verso il 1770, la filosofia della Natura attribuiva le forze ai fluidi imponderabili. Tra i primi quattro fluidi imponderabili ‒ elettricità, magnetismo, calore e luce ‒ quello elettrico dava luogo alle manifestazioni più spettacolari, e, a partire dalla fine degli anni Quaranta del XVIII sec., fu frequentemente oggetto di nuove ed elaborate dimostrazioni. Per esempio, lo studio del comportamento del fluido elettrico consentì al conferenziere e fabbricante di strumenti Joseph-Aignan Sigaud de La Fond (1730-1810), e a molti altri, di illustrare il funzionamento del parafulmine mediante un congegno a cui attribuì il nome di 'casa del tuono'.
La nozione secondo cui il calore era trasportato da un fluido privo di peso, chiamato 'calorico', ispirò l'invenzione del calorimetro a ghiaccio, compiuta nel 1777 da Antoine-Laurent Lavoisier e da Pierre-Simon de Laplace. Questo strumento si basava sul principio secondo cui, combinato con il ghiaccio, il calorico produceva acqua. Il calorimetro misurava la quantità di calorico emessa da un piccolo animale, da un oggetto in via di raffreddamento o da una reazione chimica in base alla quantità di ghiaccio che questi ultimi erano in grado di sciogliere. Alla fine del XVIII sec., la misurazione del calore divenne un passatempo molto popolare. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta di quel secolo, il crescente interesse per ogni sorta di misurazione accurata e precisa condusse all'ideazione di termometri affidabili, i cui dati erano tra loro raffrontabili. Questi strumenti erano presenti in tutti i gabinetti degli amatori della filosofia della Natura, molti dei quali iniziarono a registrare ogni giorno le misurazioni della temperatura atmosferica e della pressione barometrica.
Il mesmerismo
Il fluido privo di peso del calore era esplicitamente associato alla vita e ai processi di crescita degli animali. Alcuni ritenevano che il calore fosse il principio vivificante della Natura ed era quindi lecito supporre che un altro ente imponderabile fosse all'origine delle sensazioni. Ci riferiamo al magnetismo animale, il fluido imponderabile che, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, consentì al medico viennese Franz Anton Mesmer (1734-1815) di divertire e, a quanto sembra, anche di curare un largo settore della società francese. Prendendo le mosse dalle teorie degli altri fluidi imponderabili, Mesmer affermò che ogni essere umano è riempito di un fluido di origine stellare, che entra dal polo nord della testa ed esce dal polo sud dei piedi. Mesmer, che in un primo momento aveva impiegato alcuni magneti per manipolare questo fluido, finì per scegliere come principali strumenti terapeutici una bacchetta di metallo e la propria personalità magnetica.
La fisica popolare aveva preparato il pubblico a interessarsi al nuovo fluido e alle sue straordinarie proprietà. La clinica di Mesmer, fondata nel febbraio del 1778, subito dopo il suo arrivo a Parigi, riscosse quindi un immediato successo. Non disponendo di un sufficiente spazio per ricoverare tutti i malati parigini che si presentavano nella sua clinica, Mesmer fu costretto a magnetizzare un albero presso la Porte Saint-Martin per soddisfare la clientela in esubero; egli, inoltre, riuscì a convertire alla sua dottrina un piccolo ma rappresentativo gruppo di professori della Facoltà di medicina, incluso Charles Deslon (1750-1786), medico personale del conte d'Artois. Per un certo periodo, Deslon fu il più importante discepolo di Mesmer e, quando abbandonò il maestro per fondare una scuola concorrente, il ruolo di primo discepolo fu svolto da un altro paziente e allievo di Mesmer, Nicolas Bergasse (1750-1832), un avvocato di Lione. Bergasse e Mesmer fondarono anche la Società dell'Armonia Universale. Dopo due anni d'attività i due avevano guadagnato 350.000 livres e fondato due società nella provincia: la loro clientela era costituita da pazienti che potevano permettersi di pagare 100 luigi di onorario, e quindi soprattutto da membri della nobiltà o della ricca borghesia, imprenditori, banchieri, avvocati e dottori.
I saloni nei quali Mesmer riuniva i suoi seguaci erano ornati da pesanti tendaggi, alti tappeti e decorazioni murali astrologiche, ed erano immersi in un'atmosfera tenebrosa e suggestiva che lo stesso Mesmer contribuiva a creare indossando una tunica di taffettà color lilla. I pazienti, legati tra loro per mezzo di corde, si raccoglievano intorno ai baquets ‒ tinozze piene d'acqua in cui erano immersi pezzi di vetro e di metallo ‒ da cui sporgevano bacchette di ferro flessibili, premevano queste bacchette sul loro ipocondrio sinistro (l'alto addome) e univano i pollici per intensificare la trasmissione del fluido magnetico.
In altre occasioni, i pazienti opponevano i propri poli magnetici a quelli del magnetizzatore insinuando le loro ginocchia tra le sue: a questo punto il magnetizzatore premeva e pungolava i loro corpi con una bacchetta mesmerica o, più frequentemente, con le dita. Queste pratiche titillatorie provocavano violente crisi, convulsioni e svenimenti; i pazienti in preda a crisi particolarmente violente erano rinchiusi in stanze separate rivestite di materassi; si riteneva che questi accessi fossero una chiara conferma empirica dell'esistenza del fluido magnetico animale.
Come le altre componenti della fisica popolare, il mesmerismo si fondava sul sensismo; il magnetismo animale era un 'sesto senso' e Mesmer sosteneva che questo fluido non poteva essere descritto né definito proprio a causa della sua natura sensoria; infatti i sensi precedevano le idee e potevano essere colti solo attraverso l'esperienza. Inoltre, il fluido di Mesmer non si limitava a influenzare il sesto senso, ma era alla base di tutta l'esperienza sensibile, un agente che operava sui nervi del corpo animale. Armand-Marie-Jacques de Puységur (1751-1825), che fu l'inventore dell'ipnosi e il mesmerista che avrebbe esercitato la maggiore influenza sulla storia della psicologia, adottò la stessa strategia argomentativa. Nei suoi Mémoires pour servir à l'histoire et à l'établissement du magnétisme animal (1786), egli affermò, infatti, che "è sulle nostre 'sensazioni' che [Mesmer] è giunto a illuminarci", e che quindi "la sua dottrina tende a offrire un sostegno a tutte le verità che finora hanno parlato solo alla 'mente'" (pp. 147-148). Dal momento che era un senso, il magnetismo animale poteva essere compreso, secondo Puységur, solo attraverso l'esperienza diretta. Sia Mesmer che Puységur, ricorrendo a una celebre metafora illuminista, sostennero che era impossibile descrivere il senso magnetico a chi non lo aveva mai sperimentato, così come non sarebbe stato possibile descrivere i colori a un cieco.
Nell'estate del 1784, il re di Francia Luigi XVI istituì due commissioni, una formata da membri dell'Académie Royale des Sciences e della Facoltà di medicina e l'altra da affiliati della Société de Médecine, assegnando loro il compito di prendere in esame le pratiche di Mesmer. Entrambe le commissioni negarono l'esistenza del fluido animale e attribuirono le crisi subite dai pazienti ad altre cause; una di queste fu indicata in un documento segreto destinato a essere letto solo dal re. I pazienti di Mesmer, così come, più in generale, coloro che assistevano alle dimostrazioni popolari di fisica, erano per la maggior parte donne, mentre i mesmeristi erano sempre uomini. Colpiti da questa circostanza, nel loro rapporto segreto dell'11 agosto del 1784, Jean-Sylvain Bailly (1736-1793) e gli altri membri delle commissioni indicarono una possibile causa di alcuni degli effetti mesmerici "nell'ascendente di cui la Natura ha dotato uno dei sessi affinché lo eserciti sull'altro, per affascinarlo ed eccitarlo", provocando così "uno stato convulsivo che è stato confuso con altri generi di crisi" (Rapport secret, pp. 43-44). Le due commissioni individuarono in conclusione una causa più generale, non meno potente del misterioso magnetismo animale: il potere dell'immaginazione.
Questa tesi, così come l'invenzione dell'ipnosi da parte di Puységur, esercitò una profonda influenza sulla successiva storia della psicologia. Tuttavia i mesmeristi e i loro numerosi seguaci non si rassegnarono: "Avete [...] visto dei fatti da cui siete stati sorpresi; fatti straordinari", esclamò nel 1784 Jean-Baptiste Bonnefoy (1756-1790), un discepolo di Mesmer, "e li avete ignorati" (Analyse raisonnée des rapports des commissaires, p. 53). Le commissioni incaricate di prendere in esame il mesmerismo si scontrarono con una convinzione profondamente radicata nel pubblico, quella secondo cui la conoscenza dei fenomeni naturali si basava su manifestazioni evidenti e percettibili di principî abitualmente nascosti. Negando il mesmerismo, e soprattutto attribuendo i suoi effetti all'immaginazione, le commissioni sfidarono l'autorità epistemologica della sensazione, ma non riuscirono a minarla.
Il mesmerismo, infatti, giunse fino alle soglie del XIX sec. e le superò. Rivoluzionari come Pierre-Samuel Dupont de Nemours (1739-1817), Louis-Sébastien Mercier (1740-1814) e Jean-Louis Carra (1743-1793) si richiamarono a fluidi universali che agivano sui sensi interni e che rappresentavano l'unione tra le forze fisiche e quelle morali, e quindi la speranza di una politica basata sulle leggi della Natura e volta alla realizzazione dell'armonia universale. La Società dell'Armonia Universale, che aveva cessato la sua attività nel 1789, fu ricostituita nel 1815 da Puységur con il nome di Società del Mesmerismo. Nello stesso anno fu inaugurato, sotto gli auspici dello stesso Mesmer, un corso di mesmerismo all'Università di Berlino. Tra il 1825 e il 1840, la Société Royale de Médecine si trovò di nuovo coinvolta in indagini sul magnetismo animale.
di Jessica Riskin
L'intento pedagogico delle dimostrazioni che facevano leva sull'esperienza sensibile aveva influenzato la ricerca nel campo delle scienze naturali e nelle sue applicazioni. L'invenzione del pallone aerostatico è un esempio rappresentativo di un'area d'indagine strettamente legata alle dimostrazioni della fisica popolare e ai tentativi di rendere visibili i principî naturali ‒ in questo caso le proprietà dell'aria. Anche lo studio psicologico dell'immaginazione e lo sviluppo dell'ipnosi emersero, attraverso il mesmerismo, dall'importanza attribuita nelle conferenze pubbliche all'interazione tra i principî naturali e i sensi. Il terzo esempio dell'influenza esercitata dalla fisica amusante sulla ricerca è la proliferazione e l'elaborazione degli automi. Quando la dimostrazione delle teorie naturali assunse un valore pedagogico, gli automi, da oggetti di semplice amusement, si trasformarono in strumenti di amusement filosofico. I fabbricanti di automi presero atto dell'ampliamento delle possibilità filosofiche e pratiche della loro arte e, applicando in modo nuovo le tecniche dell'automazione a progetti di tipo filosofico, dovettero affrontare la questione dei limiti del meccanicismo secondo nuovi criteri di valutazione pratica.
Gli automi si svilupparono tentando di imitare fedelmente i loro modelli naturali. Tra il 1773 e il 1774, l'orologiaio svizzero Pierre Jaquet-Droz (1721-1790), suo figlio Henri-Louis (1752-1791) e il loro collaboratore Jean-Frédéric Laschot (1746-1824) costruirono e presentarono al pubblico, prima a La Chaux-de-Fonds, la cittadina in cui vivevano, e poi a Parigi, tre automi: un organista, uno scrivano e un disegnatore, tutti di statura analoga a quella di un bambino.
I movimenti di queste macchine erano guidati da alberi a camme che scomponevano in elementi semplici la formazione delle lettere e delle immagini delineate con la penna o l'esecuzione delle note sulla tastiera dell'organo. Ciascuna delle lettere dello scrivano, per esempio, era composta da tratti di penna verticali e orizzontali e, variando le velocità relative dei moti verticali e orizzontali, era possibile programmare anche l'esecuzione di linee curve e diagonali.
Le mani e le braccia dei tre automi erano state progettate con la collaborazione di un medico legato da rapporti di amicizia alla famiglia Jaquet-Droz, ed erano riproduzioni così fedeli che nel 1775, un anno dopo il loro arrivo a Parigi, Henri-Louis Jaquet-Droz e Laschot furono incaricati di progettare due mani meccaniche protesiche, il primo dei numerosi congegni di questo genere realizzati dai due costruttori di automi. Nella progettazione delle loro macchine, i Jaquet-Droz non tenevano conto solo della fedeltà anatomica, ma anche dei particolari estetici ed emozionali. I tre automi sapevano girare la testa e seguire il movimento delle dita con gli occhi. Il disegnatore soffiava via la polvere del carboncino dal foglio per poter seguire più attentamente l'esecuzione della sua opera. Il torace dell'organista si sollevava con evidente emozione durante i brani melodici, fornendo così un ulteriore argomento alla tesi, già sostenuta da Julien Offroy de La Mettrie (1709-1751), secondo la quale le passioni sono le più meccaniche delle facoltà umane.
Al centro della questione della distinzione tra Natura e artificio, tra animato e inanimato, tra umano e non umano, sembravano tuttavia trovarsi altri due fenomeni, ancora più decisivi di quelli della sensibilità artistica e dell'emotività. Il primo era quello del moto perpetuo. Mettendo alla prova il principio aristotelico secondo cui il naturale si distingueva dall'artificiale per un principio di moto interno, fino agli ultimi decenni del XVIII sec. e dei primi decenni del XIX, i Jaquet-Droz e molti altri tentarono di dimostrare che era possibile costruire una macchina dotata di moto perpetuo; questo problema suscitò un tale entusiasmo che nel 1775 l'Académie di Parigi annunciò che non sarebbero più state prese in considerazione proposte riguardanti macchine dotate di moto perpetuo.
Il secondo fenomeno che sembrava presentarsi come una prova decisiva dei limiti dei congegni meccanici era il linguaggio parlato. Nel 1783, l'abate Mical (1730-1789) presentò a Parigi una coppia di teste parlanti che esaltavano la gloria del re. Le loro voci, prodotte da glottidi artificiali e da membrane tese erano, secondo i contemporanei, meno perfette dell'ortodossia dei loro sentimenti politici. Alle teste parlanti furono riservati anche alcuni giudizi favorevoli, ma l'Académie rifiutò di acquistarle e non si sa nulla della loro sorte successiva.
Il tentativo di realizzare una voce artificiale compiuto dall'ingegnere, medico e consigliere privato ungherese Wolfgang von Kempelen (1734-1804), non fu molto più fortunato. Sorretto dalla convinzione che il linguaggio deve essere imitabile, per venti anni Kempelen si dedicò alla sperimentazione, applicando mantici e risonatori a strumenti musicali che emettevano suoni simili alla voce umana, oboi, clarinetti e canne d'organo del registro vox humana. Questi tentativi lo condussero all'ideazione di una macchina parlante costituita da un mantice inserito in una cassa di risonanza. Questa macchina articolava le vocali e le consonanti con una voce infantile e pronunciava parole come 'mamma' e 'papà'. Poteva pronunciare anche alcune brevi frasi come, per esempio, 'mia moglie è mia amica' o 'vieni con me a Parigi', ma solo in modo molto indistinto. Sembra che la sua conversazione abbia annoiato Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) che giudicò la macchina non molto loquace. Kempelen e i suoi stessi sostenitori tenevano a ricordare che questo congegno imperfetto rappresentava la possibilità più che la realizzazione di una macchina in grado di parlare.
Inoltre, ascoltando la voce indistinta della sua macchina, Kempelen notò un altro problema del linguaggio meccanico: la dipendenza della comprensibilità dal contesto. Questa osservazione era legata a una questione a cui Kempelen era interessato: la possibilità di meccanizzare il pensiero. Nel 1769 costruì un altro automa, il turco giocatore di scacchi, che nel corso degli anni Quaranta del secolo successivo fu esibito in Europa e in America da molte persone, tra cui il meccanico tedesco Leonard Maelzel (1776-1855).
Il turco non solo giocava con avversari umani, ma correggeva anche generosamente i loro errori. Nel corso della sua lunga carriera, sconfisse Napoleone I Bonaparte e Charles Babbage (1791-1871). Le sue mosse erano guidate da un giocatore di scacchi in carne e ossa nascosto all'interno del piedistallo del congegno, ma ciò fu definitivamente accertato solo verso la metà del XIX secolo.
Kempelen, ciarlatano riluttante, parlava del suo turco come di una semplice bagattella e insinuò persino che fosse interessante soprattutto come gioco di prestigio. Queste affermazioni, tuttavia, non toglievano nulla al suo fascino. Quasi tutti i seguaci di Kempelen ritenevano che il turco nascondesse un trucco, ma, in ogni caso, si trattava di un trucco interessante, che metteva in discussione il confine che divideva la mente umana dai meccanismi. In un racconto intitolato La ragione inanimata, un amico e ammiratore di Kempelen, Karl Gottlieb von Windisch (1725-1793), analizzò il turco attribuendogli due distinte facoltà, quella visibile di movimento e quella nascosta di direzione. Windisch lodò l'abilità con cui Kempelen aveva riunito queste due facoltà al di là della linea di demarcazione che separava le macchine dall'intelligenza umana. Quest'analisi era destinata a esercitare una profonda influenza. Nel 1819, Babbage si recò a un'esibizione del turco agli Spring Gardens di Londra portando con sé una copia de La ragione inanimata a margine della quale annotò alcune osservazioni.
Nel 1836, Edgar Allan Poe (1809-1849) prese in esame la plausibilità dell'automa costruito dallo stesso Babbage, il 'Difference engine', paragonandolo al turco di Kempelen. Lo scrittore finì con l'esprimersi a favore della macchina calcolatrice di Babbage, affermando che l'aritmetica era "fissa e determinata", e contro il turco perché, scrisse, gli scacchi erano un'attività "incerta". Questa non fu però l'ultima parola sul tema della meccanizzazione del gioco degli scacchi o, più in generale, su quello dei limiti dei meccanismi. Il turco di Kempelen traduceva il problema del rapporto esistente tra la mente e il corpo in un progetto tecnologico che prosegue ancora oggi.
La combinazione di trucchi e vere dimostrazioni, di divertimento e pedagogia della physique amusante, spiega perché sino alla fine del XVIII sec. il termine physicien seguitasse a significare anche 'mago', 'ciarlatano' o 'filosofo naturale'. Tuttavia, l'eccentrico bagaglio del fisico amusant era il prodotto di un'importante tradizione. I progetti dei palloni aerostatici dei fratelli Montgolfier e di Charles nacquero dalle illustrazioni della nuova chimica dei gas; Mesmer e i suoi seguaci estrapolarono una teoria materialista della coscienza dalle dimostrazioni dei fluidi imponderabili condotte dai fisici; il turco di Kempelen metteva in scena di fronte al grande pubblico un problema di carattere filosofico. Si potrebbe affermare con un po' d'esagerazione che l'aviazione, la psicologia moderna e l'elaborazione elettronica discendono quindi da uno stesso antenato, le illustrazioni sensiste della physique amusante.
Tavola III - LONGITUDINE E NAVIGAZIONE
Nella geografia antica, le distanze in longitudine erano considerate quasi esclusivamente sulla base degli itinerari di viaggio e dei tempi di viaggio. Claudio Tolomeo, come Ipparco prima di lui, sostenne che l’astronomia potesse aumentare la precisione delle carte geografiche e che, in particolare, un’eclisse di Luna osservata simultaneamente in due siti diversi potesse essere usata per stabilire la loro differenza di longitudine sulla superficie terrestre. Nella sua Geografia, Tolomeo usò i dati sull’eclisse di Luna che si verificò poco prima della battaglia di Arbela tra Alessandro Magno e Dario III di Persia, nel 331 a.C., per stabilire la differenza di longitudine tra Arbela e Cartagine. Secondo gli storici della campagna di Alessandro, l’eclisse si verificò ad Arbela alla quinta ora della notte, ma fu osservata a Cartagine alla seconda ora della notte; Tolomeo ne dedusse una differenza di longitudine tra le due località di tre ore di tempo, ossia 45°, un valore troppo grande rispetto al vero, che è di circa 34°. Questa sovrastima da parte di Tolomeo delle dimensioni del mondo conosciuto influenzò la geografia europea sino al Rinascimento.
All’inizio del XVIII sec. la navigazione era ancora un’arte più che una scienza. Per dedurre la latitudine del luogo in cui si trovava, un navigante poteva misurare l’altezza sull’orizzonte della Stella Polare di notte, oppure del Sole a mezzogiorno. Per la longitudine era tutt’altro affare. Come abbiamo appena ricordato, le eclissi di Luna potevano essere usate a tal fine, ma esse capitavano troppo raramente (non più di due all’anno) per poter essere veramente utili nella navigazione. Non esistevano altri metodi per determinare la longitudine con la necessaria combinazione di precisione e praticabilità richiesta per l’uso a bordo di una nave. Un metodo correntemente seguito da navi provenienti dall’oceano aperto era di portarsi da nord o da sud alla latitudine del porto di destinazione e poi seguire la linea di questa latitudine, ossia il parallelo giusto, sino a scoprire il porto desiderato; si trattava però di un metodo che era rischioso in condizioni di scarsa visibilità, ossia di notte o con cattivo tempo, in quanto il navigante non aveva modo di giudicare quanto la nave dovesse veleggiare verso est oppure verso ovest lungo il parallelo né in genere aveva idea degli eventuali ostacoli lungo di esso, quali isole, lingue di terra e simili, per cui questi tentativi di atterraggio si concludevano piuttosto frequentemente in naufragi.
Già nel XVI e nel XVII sec. vari Stati s’erano sforzati di aiutare i naviganti a superare questa difficoltà. Così, nel 1567 Filippo II di Spagna e, nel 1598, Filippo III offrirono ricompense per colui che fosse stato capace di trovare un sistema per determinare la longitudine in mare aperto; lo stesso fecero anche Luigi XIV di Francia e gli Stati Generali d’Olanda. Nel 1707 lo spettacolare disastro occorso a una flotta inglese sotto il comando di Sir Clowdisley Shovell richiamò nuovamente l’attenzione su questo problema. Dirigendosi verso est al sopraggiungere di una tempesta, Shovell pensava di essere al sicuro all’imboccatura del Canale della Manica; la flotta incappò invece nell’arcipelago delle Scilly, con il conseguente naufragio di quattro navi e la morte di circa duemila uomini. Ancora una volta, non conoscere la propria longitudine, e quindi la propria posizione, aveva avuto tristi conseguenze.
Ci sono due vie principali per risolvere quello che per molto tempo si è chiamato ‘problema della longitudine’. La prima via, che comprende i cosiddetti ‘metodi geografici’ è basata sul riferirsi a qualcosa che sia, o possa interpretarsi come, una ‘marca di longitudine’ presente nell’ambiente terrestre. La seconda via, che comprende i cosiddetti ‘metodi cronometrici’, cioè la differenza di tempi, è basata sul confronto tra il ‘tempo locale’, per esempio scandito dall’altezza del Sole sull’orizzonte, la quale è massima al mezzogiorno locale, e un ‘tempo assoluto’, qual è, per esempio, quello scandito da un fenomeno astronomico (moti di astri e, in particolare, loro distanze, loro eclissi e simili) oppure, più modernamente, quello indicato da un orologio dalla marcia sufficientemente stabile e regolato su un tempo locale di riferimento, per esempio quello del meridiano di Greenwich, località suburbana di Londra sede di un Osservatorio astronomico britannico che è l’origine delle longitudini terrestri. Nel corso dei tempi si sono utilizzati vari metodi di determinazione della longitudine, facenti capo all’una o all’altra di queste vie.
Ad alcuni di questi metodi s’è fatto un conciso accenno in precedenza (v. cap. III, Tav. II); altrettanto valide ragioni di opportunità giustificano qui una più ampia e completa ripresa di quel problema, sia pure limitata ai metodi che nel corso dei tempi hanno avuto applicazione pratica. Ricordiamo, incidentalmente, che la risoluzione del problema della longitudine, avvenuta, come presto accenneremo, a opera di un tecnico britannico, aprì alla Marina inglese le sconosciute vie dei grandi oceani, specialmente di quelli australi, fatto che costituì il nerbo del dominante potere navale della Gran Bretagna e il motivo principale del formarsi del grande impero inglese, che così larga parte ebbero nelle vicende mondiali nei secc. XIX e XX.
Metodi geografici
a) Il metodo magnetico. Il solo metodo ‘geografico naturale’ da ricordare è quello basato sulle variazioni della ‘declinazione magnetica’ locale (l’angolo che la componente orizzontale del campo magnetico terrestre – ossia l’ago di una bussola magnetica – forma con la direzione locale del Nord geografico) oppure sulle variazioni dell’‘inclinazione magnetica’ locale (l’angolo che il campo magnetico terrestre forma con il piano orizzontale locale); usualmente, si parlava di ‘variazione magnetica’ per indicare direttamente la declinazione.
Edmond Halley (1656-1742), tra gli altri, propose che la misurazione della declinazione magnetica in molti punti della Terra e la pubblicazione di relative carte potessero risolvere il problema della navigazione. Nel 1701, dopo un viaggio nell’Atlantico meridionale, Halley pubblicò una carta dell’Atlantico sulla quale erano tracciate linee di uguale declinazione magnetica (isogone magnetiche), basata in parte sulle proprie misurazioni. Tuttavia, il numero delle misure magnetiche necessarie per tracciare una carta adeguata sarebbe stato enorme; inoltre, le linee di uguale declinazione sarebbero state utili soltanto laddove fossero state parallele alla costa, come, per esempio, lungo l’estremità sud dell’Africa, mentre non sarebbero servite a nulla nelle zone dove fossero state ortogonali alla costa, come, per esempio, lungo quella orientale del Brasile. A parte tutto, poi, era già noto che la declinazione magnetica in un determinato sito dellaTerra varia in continuazione nel tempo, cosicché, come lo stesso Halley precisò, le carte avrebbero dovuto essere verificate regolarmente. Infine, la precisione delle misurazioni magnetiche di allora, che a bordo erano perturbate fortemente a causa del rollio e del beccheggio della nave, era ben lungi dall’essere adeguata per la navigazione. Nonostante i vari e continui sforzi, né le variazioni di declinazione né quelle d’inclinazione poterono essere utilizzate per risolvere il problema della longitudine.
b) Il metodo delle navi stazionarie. Un metodo geografico ‘artificiale’ fu proposto nel 1713 da William Whiston (1667-1752) e dal maestro di scuola inglese Humphrey Ditton (1675-1714). Essi annunciarono di avere risolto il problema della longitudine e chiesero al Parlamento un compenso in denaro, in cambio del quale promisero di rivelare il loro segreto. Il metodo di Whiston e Ditton consisteva nell’ancorare ‘navi stazionarie’ lungo le principali rotte commerciali, con l’istruzione di accendere un segnale a forma di stella posto in cima d’albero, esattamente alla mezzanotte del tempo del Picco di Tenerife. I due non davano però alcuna indicazione su come ancorare le navi in acque molto profonde e per di più la soluzione si presentava proibitivamente costosa. Comunque, anche se non attuata, la proposta servì a concentrare l’attenzione ancora una volta sul vecchio problema.
Nel 1714, un comitato della Camera dei Comuni inglese sollecitò un parere da un gruppo di esperti, includente Halley e Newton, il quale era allora presidente della Royal Society di Londra. Newton commentò il metodo di Whiston e Ditton, e ne menzionò altri tre – l’uso di un orologio che conservasse il tempo esatto, il metodo dei satelliti di Giove e quello delle distanze lunari, ricordati più avanti –, precisando che cosa occorresse ancora per rendere operativo ciascuno di questi metodi. Nello stesso anno, il Parlamento approvò il Longitude Act, che fissava nuovi compensi per la soluzione del problema. Questa legge stabiliva infatti un premio di 10.000 sterline per l’accuratezza di 1° (60 miglia marine ca.) nella determinazione della longitudine, di 15.000 sterline per un’accuratezza di due terzi di grado e di 20.000 sterline per un’accuratezza di mezzo grado; essa indicava nel Longitude Board l’ente giudicante le invenzioni presentate e aggiungeva un premio fino a 2.000 sterline quale riconoscimento di progetti ritenuti promettenti ma che non avessero ancora raggiunto le condizioni di sviluppo richieste per i premi veri e propri.
Metodi basati sul tempo
a) I satelliti di Giove. Si tratta dei quattro satelliti principali del pianeta, che Galilei scoprì con il cannocchiale nel 1610 e che sono perciò noti anche come ‘satelliti galileiani’. Il sistema di questi satelliti costituisce un ‘orologio’ messo generosamente a disposizione dalla Natura. Subito dopo averli scoperti, Galilei comprese che essi avrebbero potuto essere usati per risolvere il problema della longitudine, in quanto sono eclissati e passano dentro e fuori l’ombra del pianeta, il tutto con una periodicità molto regolare. Se si preparano tavole di queste eclissi, esse costituiscono per il navigante una scala di tempo assoluto sufficientemente accurata che, tramite il confronto con il tempo locale, permette di determinare la longitudine. Nel 1616 Galilei presentò questo metodo alla corte spagnola, ma non ottenne il premio in palio; uguale insuccesso ebbe presso gli Olandesi.
Nel 1668 Gian Domenico Cassini (1625-1712) pubblicò un almanacco delle eclissi previste dei satelliti di Giove; per quanto i dati di questo almanacco non fossero sufficientemente accurati per il metodo di Galilei, essi permettevano comunque di pianificare osservazioni simultanee. Quando Cassini andò in Francia per diventare il primo direttore dell’Osservatorio di Parigi, egli introdusse tra gli astronomi francesi il suo metodo per la longitudine. Nel 1671, Jean Picard (1620-1682) si recò in Danimarca per stabilire accuratamente la longitudine dell’Osservatorio di Tycho Brahe, allo scopo di rendere meglio utilizzabili i dati raccolti da quest’ultimo. In Danimarca, Picard osservò parecchie eclissi dei satelliti di Giove, che furono viste contemporaneamente da Cassini a Parigi. Dopo questo successo, i satelliti galileiani di Giove furono usati da Picard e dai suoi collaboratori per determinare la longitudine di città costiere per la nuova mappa della Francia, pubblicata nel 1693. V’erano tuttavia varie complicazioni nell’usare le eclissi dei satelliti di Giove per la navigazione. Poiché la luce si propaga con velocità finita, i tempi osservati di un’eclisse ritardano progressivamente rispetto ai dati previsti quando la Terra s’allontana da Giove e, al contrario, anticipano quando la Terra s’avvicina a Giove. Nel 1674 Ole Christensen Römer (1644-1710) interpretò correttamente queste differenze delle eclissi rispetto ai tempi predetti nelle tavole come una conseguenza della progressiva propagazione della luce, e Christiaan Huygens (1629- 1695) le usò poi per calcolare la velocità della luce. Per determinare la longitudine da osservazioni simultanee delle eclissi in luoghi differenti – come faceva Picard – non è necessario considerare il tempo di propagazione della luce, ma se le eclissi dei satelliti di Giove dovevano essere utilizzate per la navigazione, le tavole dei tempi avrebbero dovuto essere basate sui valori più accurati possibile dei periodi orbitali e opportunamente corretti per la velocità della luce. A prima vista ciò appariva discutibile, ma i ritardi di tempo potevano eventualmente essere inclusi nelle tavole. Il metodo dei satelliti di Giove divenne quello preferito per osservazioni su terra, ma si dimostrò impraticabile nella navigazione. A causa del notevole ingrandimento necessario per osservare quei satelliti e le loro eclissi, occorrevano telescopi con lunghezze focali da 15 a 18 piedi (da 4,6 a 5,5 m ca.) e, a parte il loro notevole ingombro, era praticamente impossibile mantenere Giove nel ristretto campo di vista di un tale telescopio sulla coperta rollante e beccheggiante di una nave, e ancor più cogliere il momento dell’eclisse di uno dei satelliti.
b) Il metodo delle distanze lunari. Questo metodo prevede che l’osservatore determini la posizione della Luna nello Zodiaco misurandone la distanza da una stella di riferimento; la posizione della Luna va poi confrontata con tavole di analoghe posizioni calcolate per un certo meridiano di riferimento; dal confronto l’osservatore può ricavare il tempo che, a quell’istante, si ha lungo questo meridiano e finalmente, mettendo in relazione tale tempo con quello locale, si ha immediatamente la sua longitudine rispetto al meridiano di riferimento. Questo metodo per determinare la longitudine fu proposto da Johann Werner nel 1514 e da Pietro Apiano nel 1524. Bisogna ricordare che i quadranti e gli strumenti a essi correlati erano ancora nell’uso corrente all’inizio del XVIII secolo. Fra tutti i metodi proposti per trovare la longitudine nel Settecento, quello delle distanze lunari occupò il primo posto nella scienza del tempo, come pure nel bagaglio culturale dei naviganti, e fu il metodo la cui validità fu sostenuta dalla maggior parte degli astronomi inglesi. Il limite più basso per il premio offerto dall’Inghilterra per la soluzione del problema della longitudine era un errore di un grado di longitudine, corrispondente, in termini di tempo, a 1/15 di ora, ossia a 4 minuti. Orbene, in un giorno la Luna si sposta di soli 13° rispetto alle stelle; così, per misurare il tempo con l’accuratezza di 1/15 di ora usando la longitudine sarebbe necessario misurare la posizione della Luna con un’accuratezza di 13°/(24·15)=0,036°, cioè di circa 2 minuti sessagesimali di angolo (2’): ciò costituiva un ostacolo sostanziale per quanto riguardava sia la meccanica celeste sia la tecnologia degli strumenti disponibili. Al tempo di Newton la teoria dei moti della Luna non permetteva di calcolare le longitudini lunari con un’accuratezza migliore di 5’ e, per di più, i quadranti erano completamente inutilizzabili per misurare distanze lunari dell’ordine di 2’ o meno.
Nel 1731, John Hadley (1682-1744) annunciò di avere inventato un quadrante riflettore, un nuovo strumento per misurare angoli. Il quadrante di Hadley costituiva effettivamente un grande progresso rispetto al quadrante ordinario e a strumenti analoghi per misurare l’altezza del Sole, in quanto l’osservatore lo vedeva contemporaneamente all’orizzonte locale e, ruotando un braccio dello strumento, poteva portare l’immagine del Sole sull’orizzonte e leggerne l’altezza su un’apposita scala. Lo strumento poteva essere usato in modo analogo per misurare la distanza angolare tra la Luna e una stella; anzi, Hadley propose espressamente il suo strumento per misurare distanze lunari, come suo contributo alla risoluzione del problema della longitudine. Lo strumento è dotato di un scala estesa per 1/8 di cerchio, ossia per 45°, e per tale ragione il suo quadrante è talvolta chiamato ‘ottante’; tuttavia, poiché il cammino della luce sugli specchi che corredano lo strumento porta a 90° il campo degli angoli osservabili, i naviganti hanno sempre parlato di ‘quadrante di Hadley’. Le prove su navi alle quali Hadley sottopose il suo quadrante negli anni Trenta dimostrarono che si trattava di un eccellente strumento per la navigazione; nel 1757, su richiesta di James Bradley (1693-1762), che allora era l’astronomo reale, il costruttore di strumenti John Bird (1709-1776) costruì un quadrante di Hadley con una scala più ampia: il primo sestante. Nella teoria dei moti della Luna il più notevole progresso fu fatto da Leonhard Euler (1707-1783), stimolato dai due concorsi a premio banditi dall’Academia Scientiarum Imperialis Petropolitana nel 1750 e nel 1752. Un professore di Gottinga, Johann Tobias Mayer (1723-1762), elaborò tavole per i moti lunari basate sulla teoria sviluppata nel frattempo da Euler e le presentò al concorso del 1755. Le tavole di Mayer furono esaminate da Bradley, il quale trovò che esse erano in ottimo accordo con le sue osservazioni della Luna; esse furono poi confrontate con pieno successo su navi in mare con i dati ricavati utilizzando una grande varietà di strumenti d’osservazione. Mayer morì nel 1762, prima che il Longitude Board, ben noto per la sua lentezza, avesse preso una decisione sul valore delle sue tavole; è notevole il fatto che Mayer, proprio prima di morire, avesse preparato nuove e migliori tavole, che la sua vedova ripresentò per il concorso.
c) Il metodo cronometrico. Rainer Gemma Frisius aveva notato nel 1530 che un orologio meccanico sufficientemente affidabile avrebbe potuto servire per determinare la longitudine; il problema pratico consisteva nel fabbricare un orologio che funzionasse regolarmente per mesi anche se sballottato su una nave in mare aperto. Quando Christiaan Huygens inventò l’orologio a pendolo nel 1656 espresse la speranza che esso potesse costituire un ‘conservatore’ del tempo del porto di partenza – o di un altro porto di posizione nota – con un’accuratezza sufficiente per risolvere il problema della longitudine; le prove in mare di orologi costruiti da Huygens, come pure dal suo amico, l’inventore scozzese Alexander Bruce, mostrarono subito che una nave rollante e beccheggiante non poteva andare d’accordo con un orologio a pendolo.
Un carpentiere e costruttore d’orologi inglese, di nome John Harrison (1693-1776), attratto dai lauti premi promessi dal Parlamento, cominciò a costruire ‘orologi marini’ – cioè capaci di funzionare soddisfacentemente anche con gli scossoni della navigazione – intorno al 1730 e dedicò il resto della sua vita a questa arte. Harrison costruì una serie di orologi, con crescenti accuratezza, affidabilità e regolarità di marcia; per ottenere ciò dovette inventare sin dall’inizio principî di tecnica orologiaia completamente nuovi. Il primo orologio, ora noto con la sigla H1, fu completato nel 1735; si trattava di un dispositivo alto 3 piedi (1 m ca.), troppo pesante e delicato per essere uno strumento marinaresco sufficientemente pratico, ma si comportò ragionevolmente bene in un viaggio a Lisbona e ritorno. Il Longitude Board dette a Harrison un modesto ma incoraggiante premio, e gli elargì molte altre somme simili ripetutamente per un periodo di circa 25 anni durante il quale egli costruì orologi sempre migliori. L’orologio H4 , che, a differenza di H1, aveva la struttura di un orologio da tasca, sia pure più grande (diametro di 13 cm), fu completato nel 1760. Nonostante le obiezioni di Harrison, che sosteneva la rispondenza di quell’orologio alle condizioni stabilite per il premio, il Longitude Board esitò a pagare prima di effettuare altre prove.
Nel 1765 il Parlamento inglese approvò un secondo Longitude Act, che concesse un modesto premio a Euler per la sua teoria dei moti della Luna e un altro premio, più consistente, alla vedova di Mayer per le tavole lunari. Questo stesso Act istituì il Nautical almanac, che fu presto pubblicato ogni anno con le tavole delle distanze lunari per il metodo di determinazione della longitudine che gli astronomi seguitavano a preferire. Per quanto riguarda il metodo cronometrico, il Parlamento non se ne dimenticò del tutto. In cambio di un premio di 10.000 sterline Harrison cedette tutti i suoi orologi all’astronomo reale, Nevil Maskelyne (1732-1811), in modo che potessero essere provati a sua discrezione; l’elargizione delle restanti 10.000 sterline del complessivo primo premio di 20.000 sterline fu condizionata alla costruzione, da parte di un altro orologiaio, di una copia dell’orologio H4 e al superamento da parte di questa copia di una serie di prove in navigazione. Una copia dell’H4 fu costruita da Larcum Kendall (1719-1790) e provata esaurientemente e felicemente durante un viaggio di tre anni del capitano James Cook nell’Oceano Pacifico. Fu soltanto nel 1773 che il Parlamento concesse una somma finale di 8.750 sterline all’ormai ottantenne Harrison, che aveva iniziato la sua fruttuosa opera più di quarant’anni prima.
A quel tempo gli unici due metodi usati effettivamente per determinare la longitudine erano quello delle distanze lunari e quello cronometrico. L’applicazione del metodo delle distanze lunari costituiva un saggio di alta qualità astronomica – e per questo motivo era preferito, come abbiamo accennato, dagli astronomi –, ma in pratica richiedeva molta attenzione e molto tempo; i calcoli occorrenti, comprendenti minute correzioni per la rifrazione e la parallasse lunare, mettevano a dura prova la pazienza e la bravura della maggior parte degli ufficiali navali. Il metodo cronometrico era invece di applicazione molto più semplice e rapida, e nel corso del XIX sec. divenne quello universalmente praticato nella marineria di tutti gli Stati.