Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’incontro ferrarese tra Giorgio de Chirico e Carlo Carrà sancisce la nascita del movimento metafisico, cui aderirà anche il bolognese Giorgio Morandi. Questa stagione artistica rappresenta uno degli snodi fondamentali del primo Novecento. I lavori metafisici infatti, a prescindere dalle differenziazioni tra un artista e l’altro, trovano un comun denominatore in quell’esigenza di rappel à l’ordre che si era andata delineando sin dal periodo bellico, e che avrà assertori convinti in Italia, in Francia e in Germania.
Il giovane Carlo Carrà, che durante la guerra aveva dovuto abbandonare i pennelli per partire alla volta della caserma di Pieve di Cento, riesce finalmente a incontrare nel 1917 Giorgio de Chirico, ricoverato all’ospedale militare di Ferrara.
La data, imprescindibile per chiunque voglia addentrarsi nello studio dell’arte di questo periodo, sancisce la nascita della scuola metafisica, determinando in tal modo la fine di un ciclo esplosivo e dinamico, quello delle avanguardie, e fissando l’inizio di una nuova fase storico-artistica a carattere implosivo, indirizzata verso un recupero di modelli e schemi figurativi tradizionali. In realtà la nuova spinta verso il passato aveva preso le mosse già qualche anno prima in Francia, dove nel 1913 per primo André Derain aveva deciso di abbandonare gli schiacciati dalle vivaci cromie fauves e di intraprendere un cammino che lo avrebbe condotto al recupero della verticalità gotica, contrassegno stilistico peculiare della tradizione francese. Anche de Chirico aveva iniziato quel viaggio a ritroso, e lo aveva fatto sin dal 1910 con opere quali Enigma di un pomeriggio d’autunno o L’enigma dell’oracolo, in cui risulta evidente l’influsso del modello della classicità. Inoltre, mentre in Derain il rimando al passato si cela dietro un’assonanza stilistica, in de Chirico la citazione si fa diretta, fra gessi antichi, statue e iscrizioni in latino che animano le cornici architettoniche circostanti, anch’esse all’antica.
Gli anni parigini (dal 1911 allo scoppio della prima guerra mondiale) e quelli ferraresi (dal 1915 al 1918) registrano il suo periodo più originale, poiché rappresentano anche la fase artistica in cui il pittore elabora compiutamente il proprio linguaggio. Capolavoro del periodo ferrarese è Le Muse inquietanti (1916-1917) nel quale le statue cedono il posto a manichini geometricamente perfetti. Le figure si stagliano, sotto fasci di luce innaturale che allungano le ombre come fossero spettri, davanti a uno sfondo in cui domina il castello degli Este con le sue sfumature calde e rossastre. De Chirico sembra voler giocare il ruolo del regista che assiepa su un palco ligneo svariati oggetti in primo piano, cose insolite e curiose come un bastoncino di zucchero o delle scatole di cartone variopinto abbinate secondo un montaggio libero, fuorviante e illogico. La pièce sta per essere messa in scena, ma siamo davvero certi che una voce infrangerà questo magico silenzio, o che qualcuno irromperà in questo perfetto teatrino per giocare la sua parte? Forse già tutto si sta compiendo sotto i nostri occhi in quella totale assenza di vita, in quella calda quiete del meriggio e in quell’immobilità di un’ora imprigionata tra le mura di prospettive allucinate. O forse è solo un sogno, un fugace viaggio della mente, e basterà riscuotersi un attimo perché tutto si trasformi di nuovo, la città si rianimi e i manichini riprendano le sembianze di persone in carne e ossa. A Ferrara, accanto a Carrà e de Chirico, gravita un gruppo di intellettuali e letterati, tra cui il pittore Andrea Savinio cioè Alberto de Chirico, fratello di Giorgio, e Filippo de Pisis, che per primo in Italia dedica ai lavori di de Chirico un articolo, uscito sulle pagine de “La Gazzetta” ferrarese. Il sodalizio tra Carrà e de Chirico è però di breve durata, appena un paio d’anni. Tra i due nascono subito screzi insanabili, che sfociano nella rottura definitiva in seguito alla pubblicazione del libro di Carrà La pittura Metafisica (1919), nel quale il nome di de Chirico non viene neppure menzionato. Paradossalmente, proprio nel momento in cui la Metafisica riscuote il favore della critica, essa cessa di esistere come movimento.
Nel frattempo, nella vicina Bologna, un maestro elementare da poco diplomatosi all’Accademia di Belle Arti, Giorgio Morandi , va elaborando un linguaggio molto prossimo alle sperimentazioni metafisiche. Il bolognese, in realtà, aveva intrapreso da anni un cammino che lo aveva condotto verso il recupero di modelli figurativi tradizionali. Sin dal 1915-1916 Morandi compone opere di una chiarezza e di un’immobilità insolite, fortemente debitrici verso l’arte del Trecento e del primo Quattrocento, da Giotto a Masaccio, da Paolo Uccello a Piero della Francesca, artisti che ha potuto conoscere e ammirare durante un suo viaggio a Firenze compiuto nel 1910. Si veda la splendida Natura morta del 1916 che, sebbene non sia stata eseguita in pieno periodo metafisico, è già improntata a quello stile, manifestando un interesse per l’oggetto, quotidiano ma enigmatico, che resterà il tema morandiano per eccellenza. Le bottiglie e i vasetti di tutti i giorni si dispongono in uno spazio-non spazio, totalmente privo di prospettiva e lontano dunque dalla tridimensionalità ironica e fallace di un de Chirico. Ciò che a Morandi interessa sono le cose comuni, rese nella loro essenza profonda – non a caso uno dei maestri che Morandi ammira in assoluto è Cézanne, sempre e innanzitutto preoccupato dall’indagine formale-geometrica delle cose, specchio della loro “anima”. La tela è giocata sulle tonalità dei bianchi che purificano la fisicità dell’oggetto, e lo collocano in un limbo senza spazio e senza tempo.
La visione romantica di Morandi come di un artista totalmente isolato dal suo tempo è solo in parte esatta; è indiscutibile il fatto che l’artista amerà restare nella sua città, ma è pur vero che egli conosce e medita l’arte del suo tempo attraverso riproduzioni, visitando mostre e mantenendo contatti con altri artisti. Nel 1918, il pittore può ammirare alcune riproduzioni di opere di de Chirico e Carrà (artisti che conoscerà l’anno successivo) sulle pagine de “La Raccolta”, una rivista bolognese di lettere e arti, e nello stesso anno incontra Mario Broglio, il fondatore della rivista d’arte romana “Valori plastici”. L’anno seguente Broglio stipula un contratto con Morandi iniziando ad acquistare alcuni suoi dipinti, tanto che nel 1921 l’opera del pittore sarà inclusa all’interno della mostra Das junge Italien, organizzata in Germania da Valori plastici.
Durante il periodo di Valori plastici, quello più propriamente metafisico, Morandi dipinge una serie di nature morte in cui gli oggetti, illuminati da una luce diretta e abbacinante, si ergono in uno spazio innaturale: è questo il caso della celebre Natura morta del 1918, conservata alla Pinacoteca di Brera. Influenzata dagli esempi dechirichiani, l’opera si situa su un’altra scala di valori: l’ironia provocatoria e il gioco kitsch-intellettualoide cedono il posto al distacco e alla misura, all’indagine dell’essere che è anche scavo e ripiego nel sé. I colori forti e stonati di de Chirico si trasformano in variazioni tonali, le sue prospettive sbilenche si annullano, i numerosi elementi illogicamente accostati si condensano per Morandi in pochi, sobri oggetti che vibrano intensamente in virtù del loro isolamento e della loro immobilità. È il caso di citare le parole con cui de Chirico, nel saggio per il catalogo della mostra fiorentina del 1922, parla di Morandi: “Egli guarda con l’occhio dell’uomo che crede e l’intimo scheletro di queste cose morte per noi, perché immobili, gli appare nel suo aspetto più consolante: nell’aspetto suo eterno.”
L’altro grande protagonista della stagione metafisica, come già anticipato, è Carlo Carrà che, dopo trascorsi futuristi vissuti in prima persona, volta pagina rivolgendosi al recupero del grande e glorioso passato dell’arte italiana. Il distacco dai precetti futuristi si concretizza in un periodo di studio e riflessione sui classici che sfocia in articoli quali Parlata su Giotto e Paolo Uccello costruttore, pubblicati nel 1916 sulle pagine della rivista fiorentina “La Voce”. In essi Carrà esalta l’arte del Trecento e del Quattrocento italiano per la sua nitidezza formale e profondità spirituale, rinnegando in tal modo gli statuti nichilisti e a-storici alla base della teoria di Marinetti. Appartengono a questa fase alcune opere quali l’Antigrazioso o Carrozzella (entrambe del 1916) in cui è già apertamente manifesto il desiderio del pittore di allontanarsi dal tumultuoso dinamismo futurista per dedicarsi all’approfondimento dei valori classici della prima pittura italiana. Il dipinto è molto importante poiché segna una fase di transizione della adesione alla metafisica. Infatti, se per questa tela è ancora improprio parlare di metafisica, si noterà come il linguaggio di Carrà sia, in questo caso, ben lontano anche dal modello futurista: nulla resta del rumore, del colore denso e chiassoso, della linea spezzata e dinamica o del vortice spaziale. Tutto è misurato, controllato, sintetizzato all’estremo. La figura, nella sua totale semplificazione, si erge solitaria in un tempo arcaico dove non ha alcun senso contare i minuti, le ore e i giorni. A differenza di de Chirico, che nella scelta delle stanze del museo privilegia quelle del Quattro-Cinquecento italiano, Carrà decide di spingere il pedale fino in fondo, alla ricerca di un passato più antico. Il suo affondo nella storia remota rappresenta forse una reazione agli eccessi futuristi cui aveva aderito in precedenza e ai quali ora tenta di reagire. Carrà non esita a utilizzare un linguaggio arcaico e primitivo. La sua spinta all’indietro lo porta a rendere essenziale il linguaggio, alla ricerca di forme primigenie e infantili. Dal fatidico 1917 Carrà si deciderà finalmente ad avanzare nelle stanze del suo privato museo virtuale, procedendo dai Primitivi verso il Quattrocento. Due esempi che testimoniano la sua adesione alla metafisica di de Chirico sono L’idolo ermafrodito e Musa metafisica, entrambe del 1917. È chiara l’influenza che Carrà subisce da parte del suo maestro; tra i due sussistono però anche notevoli differenze. Se de Chirico è solito riempire i vuoti e silenziosi fondali delle sue tele con ombre e fasci di luce deputati a determinare atmosfere “fantasmiche”, Carrà decide di occupare gli spazi in modo ben più concreto, insediandovi qua e là figure consistenti, a volte monumentali. In seguito Carrà deciderà di abbandonare il Quattrocento e di volgere i suoi interessi al “gotico” giottesco, regredendo ancora una volta verso stili a lui più confacenti, come nella tela dal titolo Le figlie di Loth del 1919.