L'esperienza degli statuti regionali
L’obiettivo di questo saggio è triplice: a) evidenziare, nella ricostruzione del caso italiano, i modi, le forme e le questioni principali riguardo alla redazione degli statuti regionali, tenendo evidentemente presenti anche le ragioni politiche, storiche e politologiche che inverano le varie fasi della loro evoluzione; b) far emergere le scelte adottate e i nodi problematici scaturiti, usando a parametro soprattutto la dinamica intorno alla forma di governo; c) provare a identificare, soprattutto in relazione alla fase successiva alla riforma del titolo V della Costituzione, alcune conclusioni più generali sulla natura e sul tipo della forma di Stato in Italia.
Lo Statuto albertino divideva il territorio del Regno d’Italia in comuni e province. Ciò nonostante, le premesse politico-culturali di un regionalismo nel nostro Paese si possono ritrovare sin dai primi momenti successivi all’Unità d’Italia, in ragione di due disegni di legge presentati alla Camera dei deputati il 31 marzo 1861 da Marco Minghetti (1818- 1886), ministro dell’Interno nel governo guidato da Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861). Tali proposte, peraltro, si dimostravano in linea con quanto era già stato predisposto dal predecessore, Luigi Carlo Farini (1812-1866), in base all’operato della Commissione legislativa per lo studio e la compilazione di progetti di legge sulla riforma dell’ordinamento amministrativo dello Stato, istituita presso il Consiglio di Stato all’indomani dell’Unità (Malandrino, in Il regionalismo italiano dall’Unità alla Costituzione e alla sua riforma, 2012).
In particolare, sebbene il secondo disegno di legge configurasse le regioni come ‘enti autarchici’, ossia enti i cui fini potevano essere perseguiti solo in quanto compatibili con lo Stato, l’opposizione parlamentare ritenne che se il Parlamento avesse operato la scelta istituzionale di introdurre nel nascente ordinamento italiano, oltre ai comuni e le province, anche le regioni, l’unità politico-giuridica dello Stato sarebbe stata messa in pericolo.
Le regioni vennero dunque sacrificate all’unità e all’uniformità di un ordinamento che aveva bisogno di soddisfare anzitutto le istanze di centralizzazione, e i progetti che nel tempo vennero via via presentati non trovarono mai la strada di un’approvazione parlamentare. Fino a tutto il primo dopoguerra, quando la pressione del Trentino-Alto Adige già autonomo sotto l’Impero austro-ungarico iniziò a farsi (ben) sentire, l’istanza regionalista rimase pressoché marginale, agitata di quando in quando nei dibattiti parlamentari e per lo più legata al tema, uguale ma opposto, della ‘questione meridionale’.
Il salto qualitativo, che nel contesto politico istituzionale italiano di allora determinò l’introduzione del tema di un regionalismo nello sviluppo della forma di Stato (e dunque anche di quella di governo), si deve al fondatore del Partito popolare italiano, don Luigi Sturzo (1871-1959). Nel III Congresso nazionale del partito, a Venezia, nell’ottobre del 1921, Sturzo sostenne infatti una riforma amministrativa dello Stato che, partendo dalle autonomie locali, riconoscesse un ruolo giuridico alle regioni. Queste, dal suo punto di vista, non dovevano essere meri enti amministrativi, espressione di un decentramento, quanto piuttosto enti rappresentativi, elettivi e autonomi, con poteri sia amministrativi sia legislativi. L’avvento del fascismo, tuttavia, chiuse ogni spiraglio.
Su queste non deboli – ma di sicuro accidentate – premesse politico-culturali, quando le vicende storiche consentirono di aprire il tema della democrazia e di riaprire quello dei modi e delle forme dell’articolazione del pluralismo politico-istituzionale nel nostro Paese, il terreno per sviluppare forme di decentramento e di regionalismo, quindi, non si presentò del tutto vergine. E non lo fu, per due ulteriori ragioni. In primo luogo, la spinta verso un sistema di autonomie regionali e locali si concretizzò proprio in opposizione alla deriva nazionalista e centralista del regime fascista. E, in secondo luogo, tale spinta cavalcò la forte pressione secessionistica, oltremodo identitaria, delineata proprio sul figurino regionale, nel Sud (in particolare, in Sicilia e Sardegna) e nel Nord (in particolare, in Valle d’Aosta e in Trentino-Alto Adige), che si affermò – come noto – addirittura prima dell’elezione dell’Assemblea costituente.
In tal senso, proprio per l’aggravarsi delle spinte separatiste ‒ che consentirono alla Sardegna di dotarsi di una Consulta e di un Alto commissario (d. legisl. 28 dic. 1944 nr. 417), alla Valle d’Aosta di un governo locale (d. legisl. 7 sett. 1945 nr. 545), alla Sicilia di uno statuto elaborato all’interno della sua Consulta regionale, poi semplicemente recepito dallo Stato italiano (r.d. legisl. 15 maggio 1946 nr. 455), e al Trentino- Alto Adige di adottare ordinamenti autonomistici in base agli accordi De Gasperi-Gruber del 5 settembre 1946 ‒ il contesto politico-culturale del dibattito precostituente e poi di quello costituente si presentò decisamente favorevole ad affrontare il tema del regionalismo nel nostro Paese, senza più forti remore.
Eppure, mentre su una base politico-culturale l’istituzione delle regioni in Italia era riuscita a far breccia, trovando ormai un terreno fertile e ottenendo un ruolo nel testo costituzionale redatto dall’Assemblea costituente, fu lo scontro politico tra i due maggiori partiti, Democrazia cristiana (DC) e Partito comunista italiano (PCI), amplificato e strutturato nel contesto internazionale caratterizzato dalla cosiddetta guerra fredda, a impedire una concreta istituzionalizzazione delle stesse fino al 1970; in quell’anno, infatti, vennero istituite le regioni a statuto ordinario (che dapprima erano 14 e poi divennero 15, con la separazione nel 1963 dell’Abruzzo dal Molise), differenziandole nella loro definizione d’autonomia da quelle primigenie, cioè la Sicilia, la Sardegna, la Valle d’Aosta e il Trentino-Alto Adige, a cui poi si aggiungerà il Friuli Venezia Giulia, connotate dall’attribuzione di poteri più estesi, che le resero, infatti, regioni a statuto speciale.
Le scelte dell’Assemblea costituente, assunte in esito ai lavori della Commissione Forti, risentirono nella definizione del ruolo delle regioni (ma ovviamente non solo di queste) di un contesto favorevole dal punto di vista culturale, ma sfavorevole dal punto di vista politico. Si era nella primavera del 1947, alla fine dei governi di ampia coalizione, ossia con la fuoriuscita delle sinistre dal governo, in un clima di forte contrapposizione politica. Per cui, il non semplice compromesso trovato sul modello di regione da istituire, evidentemente in primis di quelle a statuto ordinario, finì per determinare questo ente in modo asimmetrico: superiore e differenziato nel ruolo e nella posizione rispetto alle altre autonomie, ossia le province e i comuni, e tuttavia fortemente subordinato, per poteri e funzioni, alle determinazioni parlamentari espresse con legge ordinaria dello Stato.
Naturalmente questo non avvenne per le regioni speciali che videro, invece, la loro autonomia già delineata nella fase precostituente, sostanzialmente confermata nei primi mesi del 1948, quando l’Assemblea approvò con legge costituzionale tanto lo statuto della Regione siciliana (l. cost. 26 febbr. 1948 nr. 2) quanto gli statuti speciali di Sardegna, Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige con le leggi cost. 26 febbr. 1948 nr. 3, 4 e 5. Soltanto nella X Disposizione transitoria e finale della Costituzione, in ragione della situazione internazionale, rimase la disciplina della Regione Friuli Venezia Giulia, che trovò un primo sblocco nell’ottobre 1954, quando la zona A del Territorio libero di Trieste venne data in amministrazione all’Italia (la zona B, come noto, restò invece alla Jugoslavia), trasformando poi, dal 1963, con l’approvazione dello statuto, il Friuli in Friuli Venezia Giulia, quando lo Stato italiano decise di unire la parte italiana del Territorio Libero di Trieste al Friuli.
L’insieme di queste asimmetrie (politiche, culturali, linguistiche ed etniche) finirono per far emergere in Assemblea costituente un figurino istituzionale di regione ambiguo, generico e ‘neutrale’, sostanzialmente basato su un progetto che, pur privilegiando il ruolo della regione come ‘cerniera’ tra Stato e autonomie, e dunque il suo ruolo ordinamentale, tralasciava di definire l’organizzazione dei poteri, a discapito di una reale autonomia alternativa a quella dello Stato.
In questa ambiguità, le regioni hanno avuto solo in apparenza una centralità nell’ordinamento nazionale (De Siervo 1974; e più di recente, Rubechi 2010); ma tutto ciò, naturalmente, non avvenne per caso. Fu il risultato di un concepimento costituzionale che, dal punto di vista politico, viveva su un assunto di chiaro compromesso, ossia che nessuna delle forze politiche potesse ‘utilizzare’ questi enti come luoghi dove esercitare, attraverso un’autonomia giuridica di poteri e funzioni, anche un’autonomia propriamente politica.
Ciò, non da ultimo, anche a causa di un’inversione di strategia politica da parte dei partiti di sinistra, usciti dal governo e ora sostenitori delle regioni, alla ricerca appunto di un ‘contraltare istituzionale’ al governo dominato dalle forze di centro. Queste ultime si dimostrarono, ugualmente, del tutto contrarie, in questo nuovo contesto, a dar vita a un operante regionalismo, bloccando nella pratica – al di là di quanto avvenne per le regioni speciali – qualsiasi opzione per dare piena e concreta attuazione alle regioni (Rotelli 1973).
D’altronde, l’obiettivo di fondo per la maggior parte delle forze del sistema politico italiano era quello di sterilizzare – dopo l’emarginazione delle forze di sinistra dal governo e la loro volontà di conquistare strategicamente ‘i poteri locali’ – l’autonomia politica delle regioni, posto che l’alternativa avrebbe rischiato di minare quel complesso mosaico di veti partitici incrociati e di pressioni politiche, di tipo interno ma soprattutto internazionale, che teneva in vita la neonata Repubblica italiana (Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, 1995).
Tra il ‘già’ e il ‘non ancora’, il modello di regione – che solo sulla Carta costituzionale poteva apparire quindi di una certa qualità e densità – venne subito impedito nel suo farsi concreto, procrastinando l’adozione di tutte quelle previsioni legislative (relative all’organizzazione delle elezioni, all’individuazione delle funzioni, degli uffici e del personale, ai rapporti finanziari tra le regioni e lo Stato) che, elencate nella IX Disposizione transitoria della Costituzione, non videro la luce fino al 1970, quando vennero istituite le regioni ordinarie eleggendo per la prima volta i consigli e adottando gli statuti. Ma solo nel 1977 fu completato il trasferimento delle funzioni elencate all’art. 117 della Costituzione.
Con il passare del tempo e con l’evolversi degli eventi, anche la mancata attuazione costituzionale sul piano della forma di Stato ha contribuito a determinare per decenni un sostanziale blocco nella definizione di un assetto politico propriamente liberaldemocratico, almeno secondo gli stilemi propri delle democrazie pluraliste. Il sistema politico istituzionale italiano si è costruito esclusivamente intorno a un partito sempre al governo, la DC, e a un altro sempre all’opposizione, il PCI, secondo la nota formula della conventio ad excludendum (Elia 1970; Scoppola 1997). Partiti che, come i sindacati, le associazioni di categoria e molti altri soggetti associativi sono stati anch’essi, e a maggior ragione, costruiti intorno a un ‘formato nazionale’, contribuendo a evitare ogni forma di reale decentramento, nonostante il fortissimo radicamento territoriale, e acuendo in tal modo quel ritardo nella messa in opera del titolo V, anche dal lato della politica e delle classi dirigenti locali, che poi sarà uno dei prodotti più evidenti di un Paese bloccato (De Siervo 1974; P. Caretti, U. De Siervo, Diritto costituzionale e pubblico, 2012).
Su questa base, nel passaggio «dal regionalismo alla Regione» (Rotelli 1973), le vicende che hanno condotto all’adozione e alla successiva revisione degli statuti regionali ordinari possono essere divise in tre fasi: la fase del ‘silenzio’, che dal 1948 arriva al 1970; la fase della scoperta di sé, dal 1971 al 1999; la fase di un (apparente) rilancio che dall’inizio degli anni 2000 arriva alla metà del secondo decennio.
La fase del silenzio (1948-70)
Nel periodo 1948-70 emerge con chiarezza l’ambiguità e la lacunosità del disegno del titolo V della Costituzione, capace di consentire, in più punti, addirittura diverse applicazioni, e di giustificare l’affermazione di Gaetano Salvemini per il quale la disciplina costituzionale in merito non era altro che «un vaso vuoto con sopra la targhetta di Regione» (Mangiameli 2013, p. 93).
Per cui, nonostante quanto previsto dalla legge Scelba (l. 10 febbr. 1953 nr. 62 sulla costituzione e il funzionamento degli organi regionali) ‒ che prevedeva un obbligo per i consigli regionali di disciplinare l’organizzazione regionale interna, dando seguito a quanto delineato dall’art. 123 Cost. («Ogni Regione ha uno statuto il quale, in armonia con la Costituzione e con le leggi della Repubblica, stabilisce le norme relative all’organizzazione interna della Regione. Lo statuto regola l’esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione e la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali. Lo statuto è deliberato dal consiglio regionale a maggioranza assoluta dei suoi componenti, ed è approvato con legge della Repubblica») ‒ il ‘congelamento’ della Costituzione, in realtà, non diede alcun concreto sbocco.
Ne conseguì che, nonostante tutti i governi inserissero nel proprio programma la necessaria attuazione del titolo V della Costituzione, fino all’elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario del 7 giugno 1970 nulla accadde e si dovette attendere il finire degli anni Sessanta, quando, con lo scongelamento del sistema politico partitico dopo i governi di centrosinistra, vennero approvate tre leggi chiave che consentirono l’attuazione costituzionale delle regioni ordinarie: la l. 17 febbr. 1968 nr. 108 (Norme per la elezione dei consigli regionali delle regioni a statuto normale); la l. 16 maggio 1970 nr. 281 (provvedimenti finanziari per l’attuazione dell’ordinamento regionale e delega legislativa al governo per il passaggio delle funzioni e del personale statale alle regioni nelle materie di loro competenza ex art. 117, 1° co., Cost.); infine, la l. 23 dic. 1970 nr. 1084 (provvedimenti finanziari per l’attuazione delle regioni a statuto ordinario).
Su questa normativa prese vita quindi la prima fase, caratterizzata da entusiasmo e passione civile, sebbene, fin dal procedimento di approvazione statutaria, l’impronta centralista fu ben chiara. Infatti, approvati da ogni consiglio regionale a maggioranza assoluta dei propri componenti (ai sensi dell’art. 123, 2° co., Cost.), gli statuti delle regioni ad autonomia ordinaria vennero esaminati tanto dalla Camera quanto dal Senato attraverso un disegno di legge di approvazione della delibera statutaria.
Eppure, questo disegno, proprio per evitare che gli statuti venissero approvati dai consigli regionali ma rischiassero di essere eventualmente respinti dal Parlamento, creando quindi un primo conflitto tra Stato e regioni, fu predisposto in modo tale che, attraverso incontri informali tra i membri dell’ufficio di presidenza della Ia Commissione del Senato e i delegati regionali, si concordassero le modifiche ritenute necessarie dal Parlamento. D’altronde, dietro il paravento di ragioni di sistematica giuridica, il controllo preventivo della legittimità da parte del governo, rappresentato simbolicamente dal 1° co. dell’art. 6 della legge Scelba («il Presidente del Consiglio regionale trasmette copia dello Statuto deliberato dal Consiglio regionale al Presidente del Consiglio dei Ministri, che lo presenta entro quindici giorni al Parlamento»), rivelò come gli statuti regionali non potessero essere vere e proprie carte d’identità delle rispettive comunità regionali, al contrario di quanto alcuni spesso sostenevano nei loro interventi in Parlamento quando si discuteva di questo tema.
Così, se da un lato, di fatto, si rallentò – anzi si sospese quasi – l’esame parlamentare degli statuti in attesa che i consigli regionali ‘autonomamente’ ne riesaminassero quelle parti che informalmente, in sede parlamentare, erano state segnalate per modifiche, dall’altro i consigli regionali accettarono quasi senza colpo ferire le richieste del Parlamento. Riemendarono così i propri statuti, che poi furono trasmessi dagli organi regionali al presidente del Consiglio dei ministri, che li presentò in Parlamento, in primis al Senato, che deliberò nel periodo marzo-aprile 1971, con procedura d’urgenza, e poi alla Camera, che li approvò senza ulteriori modifiche il 21 maggio 1971, a eccezione degli statuti abruzzese e calabrese, approvati successivamente, cioe il 22 luglio 1971 e il 28 luglio 1971 (Armaroli 1971; De Siervo 1974). Pertanto, nonostante la consapevolezza che lo «spazio che la Costituzione attribuisce alla Regione in materia di statuti è abbastanza ampio» (Elia 1970), da questo procedimento di approvazione scaturì una forte omologazione tanto nella struttura quanto nei contenuti e quelle carte di autonomia che dovevano definire le caratteristiche, anche simbolico culturali, di ciascuna realtà territoriale, nei fatti divennero carte giuridiche con mere differenziazioni formali, ma non molto di più (De Siervo 1974).
Ne conseguì che, nonostante i margini di apertura della disciplina costituzionale rimessi all’integrazione statutaria, la stagione tra il 1970 e il 1971 non denotò particolari innovazioni o ‘invenzioni’ che valessero a differenziare nettamente gli statuti regionali tra loro. Anzi, questi si caratterizzarono per omologare l’ordinamento regionale rispetto al sistema politico e istituzionale nazionale esistente, al punto da favorire, con il collasso di quel sistema politico istituzionale, pure un avvitamento dell’esperienza del regionalismo italiano, fino ad arrivare – in un arco di tempo relativamente breve – a forme di degenerazione sistemica tali da portare poi alla necessità di una riforma costituzionale dell’intero titolo V (D’Atena 1991).
La fase della scoperta di sé (1971-99)
Con l’istituzione vera e propria delle regioni ad autonomia ordinaria, attraverso l’approvazione degli statuti regionali, grazie appunto alla l. nr. 281 del 1970 e alle leggi ‘fotocopia’ che tra maggio e luglio 1971 furono approvate, si apre la seconda fase delle regioni, quella della scoperta di sé.
Questa seconda fase di regionalismo in Italia, che naturalmente può essere ulteriormente periodizzata, avendo le regioni ordinarie vissuto periodi alterni in questo trentennio, si caratterizzò per un iniziale trasferimento di alcune funzioni amministrative (1972), che vennero poi ulteriormente rafforzate da un successivo passaggio di funzioni (a partire dalla l. 22 luglio 1975 nr. 382, concernente norme sull’ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica amministrazione).
Nel tempo, infatti, tanto in ragione del fallimento della programmazione nazionale come metodo di azione, quanto in ragione di una sorta di ‘tiro alla fune’ tra Stato e regioni sul trasferimento delle funzioni e degli uffici, che si sviluppò subito dopo il 1970, l’ambito di intervento delle regioni si ampliò, fino ad arrivare – dopo il d.p.r. nr. 616 del 1977 in attuazione dell’art. 1 della l. 382 del 1975, concernente norme sull’ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica amministrazione – a far sì che l’oggetto della legislazione regionale rappresentasse quasi un quarto del bilancio nazionale, in particolare a seguito del trasferimento di settori relativi alla gran parte dei servizi sociali e alla gestione del territorio (F. Bassanini, Le Regioni tra Stato e comunità locali, 1976).
In questo rapido evolversi, gli statuti regionali divennero sempre più secondari proprio perché, invece di essere stati predisposti per differenziare, erano stati pensati per favorire una omogeneizzazione tra le regioni (per es. l’adozione di una medesima forma di governo di tipo parlamentare, con la giunta dipendente dalla fiducia consiliare), ossia un mero decentramento, piuttosto che una reale autonomia, nonostante i legislatori regionali appena insediati avessero concepito l’elaborazione dello statuto come una reale fase costituente che definisse, accanto all’organizzazione e alle funzioni, pure le norme di principio e i valori nei quali le comunità regionali si riconoscevano (Bassanini, Onida 1971).
Cosicché la spinta a trovare modi e forme per consentire alle singole realtà regionali di proporsi in autonomia venne a scaricarsi sia sulla legislazione sia sulla capacità di ciascuna regione di determinare le proprie politiche alla luce dei principi-quadro individuati dallo Stato.
Se si aggiungono i frequenti conflitti tra lo Stato e le regioni, che non di rado finirono per risolversi con giudizi di fronte alla Corte costituzionale e per prevenire i quali fu istituzionalizzato, a partire dal 1983, il sistema delle Conferenze (in primis la Conferenza Stato-regioni), ci si può rendere facilmente conto delle ragioni che portarono alla crisi di un decentramento costruito per favorire, secondo il principio di leale collaborazione e in armonia con la Costituzione, un indirizzo e un coordinamento comune delle decisioni politiche e dell’azione amministrativa, in un quadro di regionalismo cooperativo.
Il tema dell’indirizzo e del coordinamento – presunto, mancato o da attuare – tra soggetti dell’ordinamento divenne così il simbolo plastico del primo quindicennio poststatutario; periodo che fece emergere con chiarezza una irrisolta confusione ordinamentale in tema di decentramento regionale o meglio di regionalizzazione alla quale la politica, cioè il sistema partitico che era esso stesso in forte trasformazione proprio in quegli anni, non aveva voluto (o potuto) dare soluzione. Eppure, tra disciplina giuridica e realtà, in qualche esperienza regionale fin da subito si cercò di interpretare il favor, le attese e le positività che sembravano registrarsi nella società italiana in merito al tema del decentramento.
Questa operazione venne tentata anzitutto dai partiti di sinistra. Anzi, per il PCI, il decentramento regionale rappresentò l’occasione tanto voluta, oltre a quella da tempo disponibile delle grandi città, per dimostrare la propria capacità di governo (a compensazione della conventio ad excludendum dal livello nazionale, fondata su ragioni di politica internazionale), moltiplicando così la propria capacità di penetrazione al livello dei consensi elettorali, che, non a caso, in quella fase raggiunse la massima espansione storica. L’obiettivo infatti era quello di dimostrare all’opinione pubblica e all’intera società italiana che, pur vestendo tutte le regioni a statuto ordinario il medesimo e unitario abito giuridico, era possibile un modo diverso di governare, basato su un migliore rapporto tra eletti ed elettori, su un’amministrazione più vicina al cittadino e dunque più attenta alle sue necessità e alle sue richieste.
Per il PCI, insomma, il ‘diversamente operare’ sulle politiche avrebbe reso più semplice il misurare (e far misurare agli elettori) la differenza sulla politica, sia rispetto alle altre regioni governate non ‘da sinistra’ sia – se non soprattutto – rispetto al governo dello Stato, dal quale il PCI era escluso. Questa sorta di metatesto politico (un modo diverso di governare, che poi per tutto il trentennio di questa fase divenne un perdurante slogan politico della sinistra) in molti casi si dimostrò assai efficace, favorendo anche un radicamento del regionalismo alla luce di una nuova qualità del governo regionale che in alcuni casi e in più momenti si rivelò maggiore rispetto ad altre realtà regionali o a quella nazionale. Tuttavia, la forte presenza di elementi uniformanti nell’ordinamento regionale e le difficoltà che la tumultuosa crescita di un sistema amministrativo-burocratico comporta, a maggior ragione se aggravate da un uso politicamente irresponsabile delle finanze e delle risorse regionali, non favorirono uno sviluppo armonico su tutto il territorio nazionale della capacità di governare il decentramento; così, nel complesso, sia la regionalizzazione come processo culturale, sia l’autonomia regionale come processo politico istituzionale e come produzione legislativa, entrarono in crisi a metà degli anni Ottanta, finendo per mostrare tutte le lacune e le aporie di una scelta che, allora, ancora non aveva pari nelle democrazie complesse dell’Occidente.
Questo determinò dinamiche speculari e simmetriche esperienze, sia sul piano dell’ordinamento regionale nel rapporto con gli enti locali, sia su quello della forma di governo regionale nel rapporto tra sistema politico e istituzioni. L’insieme delle due realtà non faceva altro che mostrare le difficoltà di una scelta ordinamentale che, costruita nel 1948 intorno al tema del decentramento, alla prova dell’attuazione, invece, vedeva crescere una spinta verso l’autonomia progressivamente sempre più forte.
Compressa in un decentramento istituzionale anacronistico, con una gestione politico-amministrativa inadeguata a governare le contraddizioni di un Paese storicamente diviso, sorretto meccanicamente da statuti-fotocopia senza margini di flessibilità, l’esperienza del regionalismo italiano entrò definitivamente in crisi e il disegno organizzativo, tra testo giuridico e prassi politica, portò a un duplice effetto: da un lato, il sostanziale svuotamento di ruolo – pur nell’alto numero di funzioni attribuite – del Consiglio regionale in favore delle soluzioni approntate dalla Giunta che, via via, ampliava la sua capacità di intervento; dall’altro, un aumento crescente ed esasperato dell’instabilità politica attraverso crisi extraconsiliari che andavano ulteriormente destabilizzando e indebolendo un sistema politico istituzionale, già complesso e fragile (Ferrara 2001; Bartole et al. 2003).
Gli statuti regionali del 1971, svuotati del loro fondamento originario, vengono dunque vanificati dagli eventi che sostanzialmente ne annullano la portata.
Nel tentativo di trovare una soluzione a una chiara friabilità politico-istituzionale, si aprì, verso il finire degli anni Ottanta, una nuova stagione in cui alcune regioni rividero integralmente i loro statuti, come l’Umbria o l’Emilia-Romagna, e altre presentarono invece proposte importanti di revisione, come la Liguria, il Veneto o la Calabria. Tuttavia, questi processi di riforma non andavano lontano perché il sistema politico partitico nazionale, da cui dipendeva quello regionale, stava cambiando e i tentativi regionali di adeguarvisi non andarono a buon fine, anche alla luce di un incrementale protagonismo degli enti locali, come emerse dall’approvazione della l. 8 giugno 1990 nr. 142 sull’ordinamento delle autonomie locali.
Questo testo, che contribuisce a garantire l’autonomia degli enti locali prevista dall’art. 5 Cost., rappresenta un reale spartiacque per gli enti locali ma anche per il legislatore regionale, poiché introduce come principio vincolante il principio-criterio della sussidiarietà nel rapporto tra regioni ed enti locali, e poi impone alle regioni una più attenta e consapevole riallocazione delle funzioni amministrative tra gli enti locali. Di fatto, gli enti locali assumono una forza e una rilevanza nuova.
Gli statuti regionali apparvero ormai del tutto inadeguati per sostenere, nella dimensione regionale, le dinamiche e gli effetti delle trasformazioni politiche che erano in corso a livello nazionale. Per cui, di fronte ai tre grandi fattori di cambiamento generale emersi in quel quinquennio (i referendum del 1991 e del 1993 sull’abolizione della legge elettorale proporzionale e le nuove leggi elettorali di Camera e Senato del 1994; la stagione di tangentopoli, nel 1992, che fece emergere un sistema di corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti a tutti i livelli; e l’introduzione della l. 15 marzo 1993 nr. 81 sull’elezione diretta del sindaco e del presidente della Provincia), la V legislatura regionale (1990-95) non fece altro che mostrare tutti i limiti di una forma di governo classicamente di tipo parlamentare, incentrata sul rapporto fiduciario giunta-consiglio, e su una dinamica politica fortemente condizionata dalle logiche del proporzionalismo mentre, invece, proprio il sistema politico partitico nazionale sul quale si basava quello regionale, si stava sfarinando.
Se poi si aggiungono a questi fattori i primi importanti successi elettorali della Lega Nord, un partito nato alla fine degli anni Ottanta dall’unione di sei movimenti autonomisti regionali del Nord d’Italia, la crisi del sistema politico istituzionale regionale si mostra con tutta evidenza (G. Passarelli, D. Tuorto, Lega & Padania. Storie e luoghi delle camicie verdi, 2012).
A dare una prima risposta, in primis riguardo al sistema elettorale, fu l’approvazione della l. 23 febbr. 1995 nr. 43, il Tatarellum (dal nome dal suo primo firmatario, il deputato di Alleanza Nazionale Giuseppe Tatarella). Questa legge fu concepita per adeguare il sistema elettorale delle regioni a statuto ordinario al mutamento dei sistemi elettorali in corso, e la sua approvazione concluse quel processo che, nell’arco di soli due anni, fece passare il sistema politico italiano da una pressoché assoluta sostanziale omogeneità di sistemi elettorali, tutti incentrati intorno a meccanismi di carattere essenzialmente proporzionale, a una pari omogeneità su impianti a effetti di tipo maggioritario (Di Giovine, Pizzetti 1996; Fusaro, Rubechi 2005).
Su questa base, la legislatura regionale 1995-2000 si presentò sostanzialmente di transizione, nella crescente consapevolezza che alla debolezza del sistema politico partitico dovesse corrispondere non soltanto una ristrutturazione sul piano dell’offerta politico-elettorale ma anche un completo ripensamento delle stesse disposizioni costituzionali relative ai rami bassi dell’ordinamento, attraverso un intervento modificativo dell’intero titolo V della Costituzione, provando così a dare soluzioni ai maggiori punti deboli dell’originario modello costituzionale. Questi si possono riassumere, in particolare, almeno lungo quattro grandi filoni problematici:
1) una dinamica politico-istituzionale, tra forma di governo e sistema elettorale, ormai totalmente inadeguata rispetto all’evoluzione nel frattempo intervenuta a livello nazionale;
2) una difficile separazione nella realtà concreta, riguardo alle materie indicate nel 1° co. dell’art. 117, del riparto tra principi fondamentali dello Stato da fissare e norme di dettaglio delle regioni (se non a opera della Corte costituzionale, sollevando un contenzioso di fronte a essa contro lo Stato);
3) un parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative, che era uno degli assi ordinatori della ripartizione delle attribuzioni tra gli enti, ampiamente scalzato dal principio di sussidiarietà come criterio di allocazione delle funzioni amministrative;
4) una disciplina relativa alla finanza, delineata dall’art. 119 Cost., che favorì l’instaurazione di un sistema di finanza derivata che vanificava forme di autodeterminazione regionale, cioe di autoresponsabilizzazione politica (e quindi pure semplicemente di mero ‘controllo’ da parte dello stesso corpo elettorale regionale), individuando la tipologià delle entrate regionali – tributi propri, quote di tributi erariali e contributi speciali – senza però specificare i rapporti tra essi. Su questa base, quindi, quelle «regioni senza volto», prive di una «vocazione funzionale chiaramente decifrabile», venivano poste di fronte a un cambiamento ineludibile (La repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V, 2003; A. D’Atena, Le regioni dopo il big bang: il viaggio continua, 2005; Caravita 2006).
La nuova fase di un (apparente) rilancio
Il cambiamento si venne a manifestare con l’intera modifica del titolo V, a opera della l. cost. 22 nov. 1999 nr. 1, che fece entrare in una nuova fase gli statuti regionali, ai sensi del nuovo art. 123 della Costituzione.
Infatti, la novella costituzionale innova profondamente tanto il procedimento di approvazione degli statuti, che vengono liberati dal vincolo della necessaria approvazione da parte del Parlamento, quanto il contenuto degli stessi, pure in ragione del mutamento del riparto e delle materie di competenza regionale. In particolare, il nuovo art. 123 affida per la prima volta, proprio agli statuti regionali, il compito e la decisione in ordine alla «forma di governo» regionale, in precedenza – appunto – disciplinata direttamente dalla Costituzione.
Questa nuova possibilità aprì un acceso dibattito nei consigli regionali che portò, anche in questo caso, subito di fronte alla Corte costituzionale (Carli, Fusaro 2002; La repubblica delle autonomie, 2003; D’Atena, Le regioni dopo il big bang, cit., 2005; Gli statuti di seconda generazione. Le Regioni alla prova della nuova autonomia, 2006; I nuovi statuti delle regioni ordinarie. Problemi e prospettive, a cura di M. Carli, G. Carpani, A. Siniscalchi, 2006; Caravita, 2006; V. Sannoner, Le carte statutarie dopo la riforma del titolo V della Costituzione, 2006; D’Alessandro 2009; Rubechi 2010). Così, per restare «in armonia con la Costituzione» ai sensi dell’art. 123 Cost. («Ciascuna Regione ha uno statuto che, in armonia con la Costituzione, ne determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento»), tre principali nodi di conflitto emersero: riguardo ai limiti di forma, riguardo a quelli di contenuto e riguardo ai limiti di competenza.
Sui limiti di forma, dopo lungo ragionare, il confine dell’armonia tra statuti e Costituzione venne a fissarsi, più che su ragioni di supremazia costituzionale, su ragioni di necessaria omogeneità da mantenere fra ordinamento nazionale e ordinamento regionale; omogeneità che, almeno riguardo ai modi e alle forme per approvare e rivedere il testo dello statuto, alla maggioranza dei commentatori è parsa assai ragionevole, proprio in quanto essa non veniva a prospettarsi come una clausola di supremazia (Gli statuti di seconda generazione 2006; D’Alessandro 2009).
Riguardo ai limiti di contenuto che gli statuti delle regioni ad autonomia ordinaria dovevano porsi per restare «in armonia con la Costituzione» ai sensi dell’art. 123, due grandi questioni si sono poste all’attenzione della potestà statutaria delineando, con chiara durezza grazie all’intervento della Corte costituzionale, i confini di intervento del legislatore regionale rispetto allo spazio di autonomia che il nuovo titolo V della Costituzione offriva.
Il primo nodo problematico ha riguardato i Preamboli, ossia le norme programmatiche inserite nei nuovi statuti, rispetto alle quali la Corte costituzionale ha segnalato che «le proclamazioni di obiettivi ed impegni [inserite negli statuti] esplicano una funzione, per così dire, di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa». In tal senso, la scelta di non riconoscere alcuna efficacia giuridica a quelle proclamazioni, ‘denormativizzando’ gli statuti regionali, secondo un’evidente tendenza riduttiva della potestà statutaria regionale da parte della giurisprudenza della Corte, venne operata anche per evitare che il regionalismo, forte del nuovo titolo V, non si trasformasse in un reale federalismo, come a lungo peraltro questa riforma è stata intesa e pure interpretata dagli stessi attori politici e istituzionali (sentt. 372, 378, 379/2004 sugli statuti di Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna).
Il secondo nodo problematico ha riguardato proprio il tema della forma di governo. Previsto dall’art. 5 della l. cost. nr. 1 del 1999, il modello transitorio, che impone il ritorno obbligatorio alle urne entro tre mesi «nel caso in cui il Consiglio regionale approvi a maggioranza assoluta una mozione motivata di sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta regionale […], o in caso di dimissioni volontarie, impedimento permanente o morte del Presidente», è divenuto infatti lo ‘standard’ (Carli, Fusaro 2002; Rubechi, 2010). E in tal senso molto efficaci sono stati i referendum confermativo espresso dal corpo elettorale regionale del Friuli Venezia Giulia (2002), soprattutto in tema di forma di governo, e le determinazioni della Corte, che non ha vincolato le regioni ad adottare una forma di governo identica a quella neoparlamentare, delineata nel modello transitorio della l. nr. 1 del 1999 (sent. 304/2002 relativa allo statuto della Regione Marche) ma è stata ben attenta a non snaturare la forma di governo transitoria con scelte che apparissero incoerenti e disomogenee.
In particolare, riguardo alle scelte operate dalla Regione Calabria – attraverso lo schema di una ‘staffetta’ tra presidente e vicepresidente in ragione delle dimissioni del primo qualora chiamato ad altri incarichi rappresentativi ovvero per sopravvenuta incompatibilità – la Corte chiuse recisamente ogni margine a questa proposta, in quanto ciò avrebbe rappresentato un vulnus rispetto alla volontà popolare espressa nelle elezioni, posto che il presidente della regione, eletto direttamente dal corpo elettorale regionale, non può essere sostituito da un presidente non eletto senza ricorrere allo scioglimento automatico del consiglio (sent. 2/2004).
Questa tendenza a cristallizzare il modello transitorio, trasformandolo in standard, trovò ulteriori sostegni nella giurisprudenza costituzionale, tanto nella sent. 372/2004 relativa all’art. 32.2 dello statuto della Regione Toscana (che rendeva non vincolante dal punto di vista giuridico la scelta del presidente, eletto direttamente, di essere presente alla prima seduta del Consiglio per presentare il suo programma di governo e la lista degli assessori), quanto nella successiva sent.12/ 2006 riguardo allo statuto della Regione Abruzzo, che attribuiva il potere di nomina e revoca degli assessori al solo presidente della giunta, dichiarando peraltro incostituzionale la norma che prevedeva la sfiducia individuale al singolo assessore in quanto, affievolendo i poteri che l’elezione diretta e popolare del presidente comportano, tale sfiducia era lesiva dell’intero impianto della forma di governo neoparlamentare. Peraltro, posto che ai sensi della l. cost. 31 genn. 2001 nr. 2 anche alle regioni a statuto speciale si applica il medesimo schema di forma di governo di tipo neoparlamentare, se si considera anche il fallimento (in seguito alla bocciatura da parte del corpo elettorale regionale del referendum confermativo del 29 settembre 2002) della legge regionale sulla forma di governo della Regione Friuli Venezia Giulia, volto alla reintroduzione dell’elezione consiliare del presidente della giunta (Morrone 2002), si comprende come il modello di forma di governo previsto dalla legge costituzionale del 1999 sia riuscito a divenire regola standard per ogni regione, ordinaria o speciale, nonostante fosse prevista la facoltà di ciascuna regione di ritornare a un modello di governo di tipo parlamentare.
Infine, riguardo ai limiti di competenza, la partita più interessante si è forse giocata nella definizione degli ambiti di intervento statutario tra regioni e Stato.
Questa dinamica, che riguarda quattro aspetti (la forma di Governo, i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento, l’esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della regione e la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali), in realtà ha toccato diversi piani, considerando che «materie legislative e ambito della potestà statutaria [sono] due entità non omogenee» (D’Alessandro 2009, p. 197; in linea con De Siervo 1974). Tutto ciò, dunque, ha determinato un complesso e articolato rapporto tra due diverse discipline costituzionali: l’art. 123, relativo allo statuto, e l’art. 117, riferito al catalogo delle materie di competenza legislativa, regionale e statale.
In questo intreccio, dal 2002 in poi, si è sviluppato quindi un intenso e rilevante contenzioso costituzionale che, tuttavia, non ha riguardato più gli statuti e la potestà statutaria regionale in senso stretto, ma il rispetto dei confini costituzionali e ordinamentali che hanno determinato gli interventi normativi operati dalle regioni sulle competenze previste dall’art. 117. Così, tra materie, ‘materie non-materie’, materie residuali, ambiti e settori di intervento, la giurisprudenza della Corte ha pressoché interamente riscritto il contenuto dell’intervento normativo regionale, ridefinendo, praticamente singulatim per ogni competenza concorrente, una disciplina ex novo (da ultimo, Calzolaio 2013).
A distanza di oltre dieci anni quindi, l’insieme di questi nodi problematici che hanno interessato a più livelli gli statuti regionali (e gli interventi che via via ne sono scaturiti) evidenzia che l’esperienza regionalista italiana, almeno alla luce della potestà statutaria, sia stata caratterizzata da un’autonomia più apparente che reale, posto che, nella sostanza, le cosiddette Costituzioni regionali (La Repubblica delle autonomie, 2003; Caravita 2006) non rappresentano molto altro in più di quanto già rappresentavano gli statuti precedenti la revisione costituzionale del 1999.
Naturalmente gli statuti hanno introdotto innovazioni importanti (dal consiglio delle autonomie locali a un rinnovato impulso agli istituti di democrazia diretta, fino agli organi di garanzia statutaria), ma non tali da determinare profonde mutazioni nell’approccio delle regioni rispetto ai margini molto più ampi di autonomia che potenzialmente il titolo V offre loro.
Il processo di ristrutturazione politico istituzionale, intervenuto tra il 1999 e il 2002, non ha risparmiato le regioni ad autonomia differenziata. Infatti, la nuova normativa introdotta dalla l. cost. nr. 2 del 2001 ha esteso sia l’elezione diretta del presidente della giunta sia il meccanismo elettorale previsto dal Tatarellum, anche alla Sicilia, alla Sardegna e al Friuli Venezia Giulia, trasformando invece il Trentino-Alto Adige in una ‘confederazione’ fra le due Province autonome di Trento e Bolzano (così, il consiglio regionale è divenuto semplicemente l’unione dei due consigli provinciali, e il presidente della regione è a turno uno dei due presidenti delle province) (Cosulich 2008). La Valle d’Aosta, invece, ha rimesso la decisione di passare o meno a un modello neoparlamentare al consiglio, che ancora non si è pronunciato. L’incidenza della riforma del titolo V sulle regioni speciali ‒ presente all’art. 10, 3° co. della l. cost. 18 ott. 2001 nr. 3, secondo cui «sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite» ‒ di fatto ha, da un lato, legittimato il regime transitorio in attesa delle scelte statutarie, dall’altro favorito una clausola di «adeguamento automatico» delle competenze speciali alla «maggiore autonomia» riconosciuta, almeno sulla carta, alle regioni ordinarie.
Per cui, se fino alla riforma del titolo V era possibile rinvenire differenze importanti tanto tra gli statuti delle regioni ordinarie rispetto a quelle ad autonomia differenziata, quanto tra queste ultime, il primo effetto della riforma, in via generale, è stato quello di una progressiva omogeneizzazione dei contenuti statutari, riducendo conseguentemente la distanza di contenuto tra le regioni ad autonomia differenziata e quelle di tipo ordinario (Caretti, Tarli Barbieri 2007). Nello specifico, due sono stati gli aspetti toccati dalla riforma del titolo V: il procedimento di approvazione e di revisione degli statuti, e l’introduzione della legge statutaria.
Il procedimento di revisione degli statuti speciali, disponendo che sia la legge regionale a determinare la forma di governo regionale, in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e con l’osservanza di quanto disposto dallo statuto speciale, ha pressoché ricalcato la specifica previsione relativa alle regioni ordinarie – delineata dall’art. 123 Cost. – con la sola differenza che per le regioni speciali non è richiesta la doppia deliberazione per l’approvazione dello statuto-legge regionale, che è imposta invece dalla Costituzione per lo statuto delle regioni ordinarie.
Invece, un carattere del tutto peculiare lo riveste l’introduzione della legge statutaria. Mentre prima, infatti, la forma di governo delle regioni differenziate e quindi anche l’organizzazione interna erano stabilite dalla legge costituzionale (art. 116 Cost.) e dalle norme di attuazione – sebbene alcuni statuti differenziati, come quello della Sardegna (art. 54, 5° co.) e quello della Valle d’Aosta (art. 50, 4° co.), avessero espressamente previsto, pur senza mai farlo, che avrebbero potuto dotarsi di uno statuto basato sul medesimo procedimento normato all’art. 123 della Costituzione per le regioni ordinarie – la riforma del titolo V ha consentito di ‘decostituzionalizzare’ la disciplina della forma di governo, riservandola a una fonte della regione, che può approvarla appunto con una legge regionale.
Ad alcuni è apparso un indebolimento della specialità, perché potenzialmente non più coperta dal rango costituzionale, ma in realtà proprio questa scelta rappresenta la possibilita di una maggiore autonomia in quanto consente margini di flessibilità più ampi nella qualificazione identitaria, a garanzia, appunto, di non assimilazione con nessuna altra regione, cioè di specialità. Non da ultimo, perché continua a non esistere «un modello unitario di specialità ma ciascuna Regione autonoma presenta peculiarita che ne fanno quasi un modello a sé stante» (Demuro, Ruggiu 2012).
L’effetto di tutto ciò è stato quindi quello di favorire, con maggiore intensità di prima, che le regioni speciali esprimessero, nelle scelte statutarie, una identità propria in senso stretto, capace di proporre anche nuove giustificazioni della specialità, oltre a quelle originarie. Ma già sul finire degli anni Settanta, con l’inizio del processo di regionalizzazione in tutto il Paese, quell’identità da tanti sbandierata sembrava essersi smarrita (Mor 1988; Bin, Coen 2008; Giangaspero, in Il regionalismo, 2012). D’altronde, le ragioni della specialità, che hanno caratterizzato le quattro regioni (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige), poi divenute cinque nel 1963 con l’aggiunta del Friuli Venezia Giulia, si sono sempre basate su tradizioni e percorsi diversi, per lo più condizionati da vicende anteriori all’inizio dei lavori della Costituente; tali ragioni, però, con il tempo e con il procedere della Repubblica, hanno visto una progressiva riduzione, non da ultimo in ragione del fatto che gli statuti si sono rivelati poi pressoché «privi dell’esplicitazione delle ragioni fondative dell’autonomia» (Giangaspero, cit., p. 153).
Eppure, con la riforma del titolo V, la volontà del legislatore costituzionale era esattamente opposta, fondandosi sull’intento di favorire il ruolo nuovo per gli statuti. Questi dovevano essere vocati a modellare la condizione dell’autonomia differenziata regionale, dando così piena attuazione proprio a quelle «forme e condizioni particolari di autonomia» previste dall’art. 116 della Costituzione. Invece, l’impatto della riforma del titolo V sulle autonomie speciali non ha favorito una reale capacità delle classi dirigenti regionali di dimostrare e confermare il senso e le ragioni dell’autonomia e della differenza, marcando ulteriormente la distanza rispetto alle regioni ordinarie.
Peraltro, dal punto di vista della fisionomia legata all’autonomia statutaria (la forma di governo, la legislazione elettorale e gli istituti di democrazia diretta), l’attuazione della riforma ha visto il fatto di dover ricercare le ragioni della specialità nelle (nuove) leggi statutarie mentre, per le attribuzioni regionali, bisogna ancora far riferimento tanto ai ‘vecchi’ statuto speciale/legge costituzionale quanto, ovviamente, alle indicazioni del titolo V, che prevedono forme più accentuate di autonomia per le regioni a statuto ordinario. E questo, a maggior ragione, ha reso poco intellegibile il tutto, allargando così la distanza tra eletti ed elettori. Così, mentre alcune regioni come la Sicilia e il Friuli Venezia Giulia hanno provato una revisione organica dello statuto, rispettivamente attraverso una convenzione regionale e un’apposita commissione speciale per la revisione dello statuto, le altre realtà ad autonomia speciale, insieme con le due Province autonome, per ora hanno elaborato solo diverse leggi statutarie (che peraltro sono fonti abilitate a regolare anche materie tra loro disomogenee). Ne consegue che tutte le regioni, compresa il Friuli Venezia Giulia dopo che il referendum confermativo popolare ha visto privilegiare l’investitura popolare del presidente della giunta al posto di quella consiliare, hanno adottato la forma di governo transitoria, eccezion fatta per la Valle d’Aosta dove, pur con alcune correzioni, si è mantenuta l’elezione consiliare del presidente.
Alla fine cosa emerge? Che le regioni speciali per lo più sono state incapaci, attraverso i loro statuti, di confermare valide, ancora oggi, le ragioni della loro differenza. E questa inadeguatezza politico-culturale, ha mostrato sempre più il fatto che l’autonomia è più una garanzia passiva di fronte alla non assimilazione con le altre regioni, che uno strumento attivo di promozione, sviluppo e determinazione di una differenza ormai sempre meno palese.
Per cui, se un pregio certo ha avuto il titolo V, è stato quello di ‘mettere a nudo’ ciascuna autonomia differenziata di fronte a se stessa (e quindi anche di fronte agli altri), mostrando che le ragioni storiche che allora ne giustificarono la differenza, oggi hanno una forza inferiore, soprattutto guardando alle regioni nel nuovo contesto del processo di europeizzazione.
Le linee di fondo che si possono registrare, possono essere sintetizzate in alcuni punti.
In primo luogo, l’introduzione del titolo V ha svelato tutte le aporie e i problemi di scelte costituzionali già allora non risolte tanto dal costituente quanto dal legislatore (lungo un continuum potenziale che sarebbe potuto andare dal mero decentramento, a un regionalismo forte, fino a una dinamica federale, anzi di devolution) e che si sono ulteriormente caricate di senso, proprio attraverso quello che il titolo V chiedeva alle regioni di fare: cercare la propria identità, ristrutturando sé stesse in un contesto generale di forma di Stato più duttile e aperta. Invece, l’esperienza della riforma del titolo V ha mostrato, proprio sul terreno del confronto statutario, dal lato dello Stato, che vi sono forti resistenze ad accompagnare questo processo e, dal lato delle regioni, che vi sono inadeguatezze, incapacità e velleità che, via via, sono state svelate o dal contenzioso costituzionale (con una Corte attenta a preservare tanto una dimensione di coerenza intrinseca nelle scelte autonome e proprie di ciascuna regione quanto la dimensione unitaria del nostro ordinamento) o dalla realtà concreta delle cose (basti pensare al tema delle norme programmatiche o della politica estera regionale).
In secondo luogo, se il titolo V da un lato ha favorito una sorta di ‘omogeneizzazione’ degli strumenti giuridici tra regioni speciali e regioni ordinarie, rendendo le speciali ‘meno speciali’, dall’altro ha offerto ampi spazi, strumenti e possibilità per far sì, invece, che le regioni speciali più liberamente e più chiaramente dimostrassero e giustificassero le ragioni della loro differenza, soprattutto in un contesto interno e internazionale decisamente mutato rispetto al periodo costituente. Eppure, ciò non è avvenuto, e la specialità ha finito per consistere – e non solo nell’immaginario più largo – soprattutto in forme di privilegio e di vantaggio meramente di tipo economico a spese dell’erario pubblico, acuendo così un tipico fenomeno di confronto intraregionale che non tollera asimmetrie ingiustificabili, a maggior ragione se si è dentro un contesto comune di crisi economica.
Infine, l’esperienza degli statuti regionali in Italia appare un’occasione sprecata perché, da un lato, questi testi non riescono realmente a differenziare perché non fanno emergere con tutta chiarezza e plastica evidenza le ragioni di una differenziazione che dovrebbe essere confermata anche nella pratica, utilizzando a pieno le potenzialità che il titolo V offre; e dall’altro, gli statuti non riescono però neanche realmente a unire, nel senso che, proprio in quanto espressione costituzionalmente protetta di una oggettiva specificità o specialità, non possono evidentemente contribuire a rendere molto più omogeneo il nostro regionalismo.
Così, alla prova dei fatti, tra asimmetria e omogeneizzazione delle scelte, tra coerenza richiesta e incoerenza che si cerca di praticare, l’esito finale mostra un evidente ridimensionamento dell’aspirazione regionale a dare agli statuti quella portata e quel respiro di tipo costituzionale che invece avrebbero potuto avere. Naturalmente tutto ciò si riverbera sul tipo della nostra forma di Stato che, pur oscillando tra un regionalismo forte e un federalismo potenziale, alla fine – anche grazie all’intervento della Corte – sembra aver stabilizzato l’asse della nostra forma di Stato su un pieno regionalismo. Sia come sia, l’esperienza degli statuti regionali è riuscita a dimostrare che da un lato il titolo V è una riforma da completare, non da ultimo perché in molti casi lo Stato ha continuato a legiferare come se nulla fosse accaduto. Dall’altro, che forse la soluzione risiede altrove, ossia in un ripensamento complessivo dell’impianto del titolo V, soprattutto riguardo alle materie di competenza (alcune da rinazionalizzare come l’energia, la comunicazione, lo sviluppo economico e altre da inserire nelle esclusive regionali) e nell’introduzione di una Camera di tipo territoriale al posto del Senato della Repubblica, in modo da favorire una rappresentanza autonoma ed efficace dei problemi e delle scelte dei soggetti espressivi della dimensione territoriale del potere nel nostro Paese.
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