di Giuliano Battiston
Dal 29 settembre 2014 il presidente della Repubblica islamica d’Afghanistan è Ashraf Ghani Ahmadzai, che sostituisce Hamid Karzai, al potere dal 2001 e al quale la Costituzione nega un terzo mandato consecutivo. L’insediamento di Ashraf Ghani - già alto funzionario della Banca mondiale e docente in prestigiose università degli Stati Uniti, poi ministro delle Finanze nel governo Karzai e rettore dell’università di Kabul – è stato ritardato a causa di una lunga contesa sugli esiti del ballottaggio del 14 giugno. Il 7 luglio, all’annuncio dei risultati preliminari, lo sfidante di Ashraf Ghani, l’ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah, ha accusato alcuni esponenti della Commissione elettorale indipendente di aver orchestrato una «truffa colossale» ai suoi danni, con il sostegno del presidente uscente. Lo scontro che ne è seguito ha riacceso vecchie rivalità politiche ed etniche. Da una parte i sostenitori di Abdullah, già esponente di spicco della cosiddetta Alleanza del nord e del Jamiat-e-Islami, il partito a prevalenza tagica fondato negli anni Settanta da Burhanuddin Rabbani, radicato nelle zone centrali e settentrionali del paese; dall’altra i sostenitori di Ashraf Ghani, che ha raccolto consensi soprattutto nelle aree sud e sud-est del paese, a maggioranza pashtun. Il timore di un conflitto intestino ha indotto la comunità internazionale a intervenire: sotto gli occhi di Jan Kubis, rappresentante della missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama), e dell’ambasciatore statunitense a Kabul James Cunningham, il 21 settembre i due candidati hanno firmato un accordo favorito dal segretario di Stato degli Stati Uniti, John Kerry. L’accordo prevede un governo di unità nazionale, bicefalo: è stata introdotta una nuova carica istituzionale, accanto al presidente, quella del Chief Executive Officer (Ceo), con poteri «simili a quelli di un primo ministro», assegnata ad Abdullah Abdullah.
Il governo andrà valutato nel lungo termine, ma già ora è possibile individuarne gli elementi di forza e di debolezza. Ha messo fine a un prolungato stallo politico che avrebbe potuto assumere forme violente e alimentare pericolose spinte centrifughe; costituisce un correttivo rispetto all’eccessiva centralizzazione del potere nelle mani del presidente a favore di quel sistema semi-presidenziale di cui si è molto discusso nel 2004, al tempo della stesura della Costituzione, e al quale è stato poi preferito un sistema rigidamente presidenziale; concede alle forze dei ‘tagichi del Nord’ uno strumento di condivisione del potere, reclamato da tempo come contrappeso alla contestata egemonia dei pashtun. Ma rimane un esperimento di ingegneria istituzionale azzardato, dagli esiti potenzialmente negativi. Il principio della doppia autorità rischia infatti di ostacolare, se non paralizzare , l’attività dell’esecutivo, istituzionalizzando la rivalità che intendeva sanare e depotenziando in una coabitazione forzata l’agenda rinnovatrice e modernizzatrice del neopresidente. Diverse per impostazioni e obiettivi, le agende politiche di Ashraf Ghani e di Abdullah Abdullah (e dei rispettivi sostenitori) rischiano di risultare incompatibili soprattutto nella lunga durata, quando verranno progressivamente meno gli ingenti aiuti finanziari dei donatori internazionali grazie ai quali Hamid Karzai è riuscito ad assicurarsi la stabilità interna.
Anche se il governo di unità nazionale dovesse dimostrarsi duraturo, rimarrebbe il vulnus inflitto all’architettura giuridico-istituzionale della Repubblica afghana, causato dalla subordinazione della prima fonte del diritto – la Costituzione – agli interessi contingenti del potere politico: la carica del Ceo, che non è contemplata dalla Costituzione, è stata istituita non con un emendamento costituzionale (che potrebbe avvenire soltanto con l’approvazione di due terzi di una Loya Jirga), né con un atto legislativo, ma con un decreto presidenziale. Inoltre, la presenza del Ceo è legata all’istituzione di un nuovo Consiglio dei ministri (Shura-e-Waziran) con struttura e composizione diverse da quelle del Gabinetto presidenziale, che modifica in modo sostanziale il ramo dell’esecutivo, con conseguenze imprevedibili nell’esercizio del potere. A ciò si aggiunge il fatto che l’accordo sottoscritto da Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah non prevede meccanismi e strumenti chiari per risolvere eventuali conflitti di attribuzione o di autorità. L’aspetto più preoccupante è però un altro: in un paese in cui la mobilitazione anti-governativa attinge principalmente all’inefficacia e alla corruzione del governo, alla distanza che separa la popolazione dalla ‘politica’, l’‘accordo di palazzo’ raggiunto dietro le quinte su sollecitazione degli Stati Uniti rischia di alienare ulteriormente la popolazione, minando già in partenza la legittimità delle procedure elettorali e dello stesso governo