Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’elettrodinamica quantistica è la teoria quantistica dei fenomeni elettromagnetici. La dualità onda-particella che costituisce uno dei principi della meccanica quantistica, implica, a livello della spiegazione dei fenomeni elettromagnetici, che questi dipendano dal comportamento particellare della luce. Ovvero dall’esistenza di particelle che “trasportano” il campo elettromagnetico, i “quanti di luce” o, fotoni. L’elettrodinamica quantistica trova le sue basi nelle intuizioni di Planck (quanti) e di Einstein (fotoni). La formulazione della teoria, però, è da attribuirsi a Richard Feynman, Julian Schwinger e Sin-Ititro Tomonaga, che per questo si aggiudicano il premio Nobel nel 1965. Il loro contributo si basa sul principio di invarianza di gauge che si estende dall’elettromagnetismo classico alla teoria quantistica. La procedura di rinormalizzazione da loro introdotta per attribuire un senso fisico ad alcune divergenze presenti negli integrali della teoria trova appunto la sua prima applicazione utile nell’elettrodinamica quantistica.
Nel 1900 il fisico tedesco Max Planck formula l’idea rivoluzionaria che porta alla nascita della meccanica quantistica. La sua intuizione risolve uno dei problemi che affligge la fisica alla fine dell’Ottocento: le leggi classiche dell’elettromagnetismo, infatti, implicano che l’energia emessa da un corpo che irradia, come il sole o il fuoco di un camino, aumenti all’aumentare della frequenza della radiazione, e siccome la radiazione può avere qualsiasi frequenza, questo implica che l’energia emessa può diventare infinita. Questo problema della teoria classica è noto col nome di catastrofe ultravioletta. Planck scopre che per risolvere questo paradosso è necessario assumere che un corpo può irradiare energia solamente in quanti della frequenza della radiazione moltiplicata per la costante h = 6.6261×10-34Js, che successivamente prenderà il suo nome, vale a dire E=Nhν, dove E è l’energia, vè la frequenza ed N è un numero intero. L’idea di Planck è che l’approssimazione classica è esatta solo per frequenze non troppo elevate, mentre la probabilità che venga emessa radiazione ad altissime frequenze è molto bassa. C’è un valore della frequenza per cui l’energia irradiata è massima, e per un corpo come il sole, la cui temperatura superficiale è circa 5800 K, l’idea di Planck comporta che la massima emissione di radiazione avviene a una frequenza corrispondente al colore giallo, in accordo con quanto osserviamo. Planck vince il premio Nobel per la fisica nel 1918.
La comunità scientifica impiegherà cinque anni a capire che l’idea di Planck implica la “quantizzazione” del campo elettromagnetico. Albert Einstein, nel 1905, intuisce che i quanti di energia di Planck corrispondono a fotoni, particelle di massa nulla, e l’energia trasportata da un singolo fotone è pari al quanto di Planck, ovvero hν. Einstein utilizza questa intuizione per spiegare l’effetto fotoelettrico, ovvero l’effetto di emissione di elettroni da un metallo investito da radiazione elettromagnetica.
Secondo la teoria classica, questa emissione dovrebbe crescere all’aumentare dell’energia della radiazione, indipendentemente dalla frequenza. Gli esperimenti, invece, mostrano che l’emissione avviene solo per frequenze superiori a una frequenza di soglia, dipendente dal tipo di metallo. La soluzione di questo problema sta nel fatto che ciascun elettrone assorbe l’energia di un singolo fotone, ed è solo se questa è maggiore dell’energia di legame dell’elettrone che l’emissione può avere luogo. Einstein, con un semplice modello cinematico, cioè determinando l’assorbimento del fotone da parte dell’elettrone con un processo di urto, riproduce i risultati degli esperimenti: per questo risultato Einstein è insignito del Premio Nobel per la fisica nel 1921.
Nonostante tutti questi risultati evidenziassero le proprietà quantistiche della radiazione elettromagnetica, ci vorranno ancora molti anni perché una teoria quantistica consistente dell’elettrodinamica venga formulata. Il modello di Einstein, infatti, è puramente cinematico, e la comprensione della dinamica sottostante richiederà lo sviluppo di idee completamente nuove nei decenni successivi. La meccanica quantistica, invece, nel corso di questi stessi anni, assurge al ruolo di teoria fondamentale per la comprensione dei fenomeni riguardanti la materia. Lo spettro di emissione degli atomi o delle molecole, ad esempio, può essere calcolato e verificato con grande precisione. Alcuni risultati sperimentali concernenti gli spettri degli atomi, però, non potevano essere spiegati nel contesto della meccanica quantistica. In particolare, due righe dello spettro dell’atomo di idrogeno, che in meccanica quantistica sono previste essere coincidenti, risultano essere separate negli esperimenti. Questo risultato, scoperto da Willis Eugène Lamb e Robert Retherford nel 1947 e che prende il nome di Lamb shift, come vedremo in seguito, viene spiegato dalla teoria dell’elettrodinamica quantistica.
Un altro risultato degli esperimenti che non è spiegabile nel contesto della meccanica quantistica è legato allo spin (o momento angolare intrinseco) dell’elettrone. Una particella immersa in un campo magnetico si polarizza, e lo spin è il numero quantico che descrive questa polarizzazione. Più precisamente, l’accoppiamento con il campo magnetico è determinato dal momento magnetico che è proporzionale allo spin. La meccanica quantistica prevede che il momento magnetico g dell’elettrone, in opportune unità di misura, sia esattamente uguale a 2, mentre gli esperimenti mostravano che esso è uguale a 2.002... La differenza tra questo valore e il valore previsto dalla meccanica quantistica, g-2, è dovuta all’effetto della quantizzazione del campo elettromagnetico, e prende il nome di momento magnetico anomalo.
La teoria dell’elettrodinamica quantistica viene formulata nel dopoguerra dai fisici americani Richard Feynman e Julian Schwinger e dal fisico giapponese Sin-Itiro Tomonaga, insigniti del premio Nobel per la fisica nel 1965 per questa ricerca. Il principio fondamentale della teoria è quello dell’invarianza di gauge che ora vogliamo spiegare. In meccanica quantistica, le quantità fisiche sono legate al valore assoluto della funzione d’onda, e questo non cambia se si effettua una trasformazione di fase globale, cioè indipendente dal punto dello spazio (e del tempo) in cui ci troviamo. Rendere questa simmetria una simmetria di gauge significa rendere la teoria invariante rispetto a trasformazioni di fase locali, ovvero dipendenti dal punto dello spazio (e del tempo) in cui ci troviamo. L’interazione delle particelle col campo elettromagnetico, quindi, consiste formalmente nel rendere le equazioni della meccanica quantistica invarianti rispetto a trasformazioni di gauge. Il principio dell’invarianza di gauge è in realtà già presente nella teoria dell’elettromagnetismo classico, ed è essenzialmente una generalizzazione del concetto di potenziale. In un sistema elettrostatico, infatti, il potenziale è determinato a meno di una costante non fisica, visto che quantità fisiche, come il campo elettrico, dipendono solo dalla variazione di potenziale. In presenza di campi magnetici, è possibile introdurre un potenziale vettore, e le quantità fisiche non cambiano se aggiungiamo a questo potenziale la derivata, nelle tre direzioni spaziali, di una qualsiasi funzione. Questa trasformazione del potenziale è una trasformazione di gauge. Nella teoria quantistica il concetto di invarianza di gauge diventa essenziale.
L’elettrodinamica quantistica è una teoria quantistica dei campi. La differenza sostanziale tra la meccanica quantistica e una teoria quantistica dei campi è il fatto che in meccanica quantistica il numero di particelle descritte in un processo è fissato, mentre in una teoria quantistica dei campi il numero e la natura stessa delle particelle possono cambiare durante un determinato processo. In particolare, l’elettrodinamica quantistica descrive processi come lo scattering Compton in cui un elettrone assorbe un fotone e lo riemette, o come lo scattering Bhabhain cui un elettrone e un positrone (l’antiparticella dell’elettrone) annichilandosi creano un fotone che poi riemette un muone e un antimuone. Un campo, che classicamente è una funzione delle coordinate, viene quantizzato, e i modi corrispondenti a ciascuna frequenza di vibrazione vengono associati a particelle la cui energia è associata alla frequenza secondo la relazione di Planck. Come già detto, il fotone è il quanto associato al campo elettromagnetico. È Feynman a ideare un metodo per rappresentare le interazioni in termini di diagrammi (diagrammi di Feynman).
Una caratteristica fondamentale delle teorie quantistiche è il fatto che processi, classicamente proibiti a causa della conservazione dell’energia, sono consentiti purché avvengano in tempi “brevi”, ovvero all’interno della relazione di indeterminazione energia-tempo: ΔE × Δt ~ h. Storicamente, tramite il calcolo di queste correzioni i risultati sperimentali – come il Lamb shift o la misura del momento magnetico anomalo dell’elettrone – risultano in accordo con la teoria. Questi diagrammi sono apparentemente divergenti e per renderli finiti è necessario ridefinire le quantità che compaiono nella teoria, come ad esempio la carica elettrica. In altre parole, la carica elettrica stessa riceve correzioni quantistiche che la teoria determina univocamente sulla base del fatto che le ampiezze contenenti loop devono risultare finite invece che divergenti. Questo processo prende il nome di rinormalizzazione. Una teoria come l’elettrodinamica quantistica, per la quale il processo di rinormalizzazione comporta la ridefinizione, attraverso correzioni quantistiche, solo di un numero finito di quantità fisiche, viene detta rinormalizzabile. Correzioni di loop per effetti come il momento magnetico anomalo dell’elettrone e del muone sono stati nel corso degli anni seguenti calcolati con grande precisione, e per questi e altri motivi la teoria dell’elettrodinamica quantistica è tuttora la teoria che più di ogni altra è in accordo coi dati sperimentali.
Alla fine degli anni Sessanta è stato mostrato da Glashow, Salam e Weinberg che l’elettrodinamica quantistica e la teoria che descrive la interazioni deboli, ovvero le interazioni responsabili dei decadimenti nucleari, ammettono una descrizione unificata. Successivamente, ’t Hooft e Veltman dimostrarono che la teoria risultante, che prende il nome di teoria elettrodebole, è rinormalizzabile. Per questi risultati Glashow, Salam e Weinberg vinsero il premio Nobel per la fisica nel 1979, mentre ‘t Hooft e Veltman lo ottengono nel 1999.