Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Settecento si apre all’insegna di una politica di recupero del controllo statale sull’istruzione, che erode gli spazi di tradizionale monopolio della Chiesa. Il bisogno di personale qualificato, l’esigenza di un più sicuro inquadramento delle masse nella compagine civile, la crescente domanda di scuole e sapere da parte della società concorrono a porre in grande rilievo le questioni educative.
La volontà di elaborare un nuovo modello culturale e pedagogico e l’interesse dell’opinione pubblica verso i problemi dell’istruzione rappresentano un elemento distintivo del Settecento. Nel corso di questo secolo l’importanza e lo spazio riservati all’educazione si dilatano progressivamente, per emergere dall’oscuro ambito della vita quotidiana e dalla riservata cerchia dei discorsi specialistici. Alla base di questo mutamento sta un insieme di ragioni, materiali non meno che ideologiche. Mentre in passato avevano discusso di educazione soprattutto i religiosi e da un punto di vista religioso, gli uomini del secolo dei Lumi traducono il dibattito in termini più concreti, ponendo in primo piano fattori d’ordine sociale ed economico: il dibattito esce dal chiuso ambito delle accademie e mira a una concreta trasformazione della realtà sociale. Su questa trasformazione non poco influisce l’abolizione della Compagnia di Gesù e la chiusura della potente rete dei suoi collegi, ramificatisi nel corso di due secoli sino a coprire l’Europa cattolica. Ciò impone rapidi provvedimenti per colmare il vuoto improvvisamente creatosi nel settore educativo, ma anche per mettere a frutto le risorse ora disponibili (edifici, rendite). Su un altro piano, l’emergere di una nuova filosofia dell’uomo e della natura apre prospettive radicalmente diverse: la teoria empirica della conoscenza, che registra in questa epoca una crescente diffusione, contiene in sé i germi di una vera rivoluzione pedagogica. L’individuo alla nascita è concepito come una tabula rasa, i cui contenuti morali e intellettuali non possono che scaturire dall’esperienza sensibile; in questa prospettiva l’educazione vede accrescere enormemente il proprio ruolo e le proprie potenzialità. Sensismo e psicologia scientifica stanno poi alla base di un’altra importante conquista dell’epoca dei Lumi: la scoperta o, meglio, la nuova valorizzazione dell’infanzia. Mentre secondo la visione tradizionale la prima fase dell’esistenza era considerata uno stato precario e transitorio, da cui era necessario uscire al più presto per raggiungere la maturità, con l’avanzare del secolo il bambino diviene l’oggetto di una nuova attenzione e di un investimento privilegiato, materiale e sentimentale insieme.
Il Settecento pare riscoprirne l’innocenza, il fascino e l’energia vitale, secondo una linea di tendenza che emerge anche nell’ambito dei comportamenti demografici (calo della natalità e della mortalità infantile) e dei sentimenti (rapporti emotivamente più intensi tra genitori e figli).
II progetto pedagogico che caratterizza questo tempo ruota intorno alla rivendicazione di un’educazione nazionale, concepita come un dovere pubblico. Per la prima volta la scuola viene riconosciuta come strumento per realizzare l’unità morale della nazione, cementando in una comunità coesa costellazioni di individui; e per la prima volta viene attribuito allo Stato il compito di dirigere questo settore chiave della vita associata. Ma non si tratta soltanto di una questione di controllo; per l’opinione pubblica più aperta l’istruzione si collega strettamente al concetto di pubblica felicità, deve cioè facilitare un’organizzazione armoniosa del corpo sociale e avere come obiettivo fondamentale il bene comune. Per questo motivo la scuola non può essere privilegio di pochi: essa deve insegnare i princípi di una morale fondata sul diritto naturale e inculcare nei giovani, visti come membri responsabili della comunità sociale, il rispetto e l’obbedienza per le leggi dello Stato.
Di limiti più evidenti, invece, si deve parlare a proposito dell’educazione femminile. Con poche eccezioni, il Settecento relega ancora le donne nello spazio e nelle competenze domestiche, suggerendo per le fanciulle una formazione specifica e ben delimitata, mirata soprattutto al benessere e alla felicità del marito e dei figli: religione, alfabeto, lavori femminili, arts d’agrément. A segnare una qualche rottura con il passato, la sola trasmissione dell’esperienza familiare all’interno delle mura domestiche viene ormai avvertita come insufficiente e le crescenti critiche contro l’educazione monastica contribuiscono a orientare molti genitori verso soluzioni diverse: la scuola primaria municipale, l’insegnamento privato in casa o presso qualche pensione laica.
Gravi tensioni si focalizzano intorno alla questione dell’istruzione popolare. Il desiderio di estendere a tutti i benefici del sapere contrasta, infatti, con il timore che la diffusione dei Lumi finisca per destare pericolosi fermenti nelle masse e che l’istruzione popolare possa portare all’abbandono dei mestieri più umili ma più utili. Un compromesso accettabile viene trovato nel concetto di educazione diffusa, ma finalizzata al lavoro, per le classi diseredate. Gradualmente si afferma così l’idea che una certa familiarità con l’alfabeto e le regole del calcolo, le basi di una buona morale e un piccolo patrimonio di nozioni pratiche (di agricoltura o di meccanica) siano utili a tutti e possano opportunamente dispensarsi anche ai gruppi popolari.
Capire come e quanto teorie e discussioni incidano fattivamente sui processi educativi non è semplice. In termini generali si può dire che i progetti riescono a realizzarsi soprattutto là dove si incontrano con la volontà e l’azione di sovrani riformatori. In certa parte dello spazio europeo si va infatti radicando in questo periodo un nuovo modello di Stato ben amministrato, attento al benessere dei sudditi come al progredire delle scienze e degli studi. Naturalmente le idee cardine dell’Illuminismo, finalizzate al controllo dei processi educativi, vengono filtrate attraverso molteplici compromessi e mediazioni. La crescente esigenza di tecnici e burocrati, legata all’estendersi dei compiti amministrativi e finanziari, rende improrogabile un riordinamento didattico e disciplinare delle istituzioni scolastiche. Per quanto riguarda gli studi superiori, si rivela indispensabile colpire il patrimonio e l’autonomia su cui si reggono i collegi pubblici degli ordini religiosi; ma si devono fare i conti anche con le organizzazioni corporative – collegi professionali di medici e giuristi – che controllano buona parte delle università, monopolizzando l’accesso alle professioni più lucrose. In positivo l’offerta didattica viene arricchita con l’introduzione di nuove discipline e di autori più moderni, con la creazione di laboratori e biblioteche, con un parziale rinnovamento del corpo docente. Non si tratta comunque di un mutamento radicale, quanto di una riorganizzazione dello spazio scolastico segnato da confusione e anarchia, ed è bene ricordare che tutte le generalizzazioni sono rischiose.
Nell’Europa dei Lumi, infatti, l’atto di iscriversi all’università, pur riguardando quasi sempre una fascia selezionata per status e ricchezza, copre esperienze molto diverse. In certi luoghi rappresenta un semplice atto pro forma, spesso a conferma di una posizione privilegiata: pagando il dovuto si ottiene un rapido rilascio del diploma. Altrove, ben più degli esami e della frequenza, può contare ancora il tirocinio professionale presso un docente di fama: questi addestra presso di sé piccoli gruppi di allievi, riproponendo le forme dell’insegnamento privato nei recinti dell’ateneo. Infine, gli anni di università possono rappresentare un’esperienza di studio impegnativa, caratterizzata da un severo curriculum e da esami selettivi, anche se questo riguarda soprattutto gli outsider.
Per quanto riguarda invece gli interventi relativi al settore preuniversitario, una tendenza evidente consiste nel limitare la domanda di istruzione superiore, domanda che i gruppi dirigenti vedono lievitare con grandi timori. Lo Stato assume il controllo della rete scolastica esistente, utilizzandone fondi, edifici e talvolta anche personale, ma quello che di fatto viene a mancare sono buoni insegnanti e buoni programmi. Se da un lato lo stipendio continua a essere troppo basso e lo scarso prestigio legato al ruolo non attira giovani di valore, dall’altro il curriculum classico manifesta una notevole forza di resistenza e nelle scuole pubbliche viene ancora confermata la centralità del latino. Proprio questa rigidità e incapacità di rispondere a una domanda educativa più varia determinano il sorgere di corsi paralleli, secondo una tendenza caratteristica e originale del periodo. Nel secondo Settecento, infatti, accanto ai collegi di fondazione municipale e congregazionista si forma una rete di istituti privati, che si differenziano per i programmi più vari e moderni. L’orientamento è quello di una crescente specializzazione degli insegnamenti, mirati a gruppi specifici: pensioni per gente d’affari e di commercio, piccoli seminari per il futuro clero, scuole militari per la nobiltà. Per molti però il collegio latino continua a rappresentare la strada maestra per gli uffici più lucrosi, oltre che un segno distintivo di status, e non a caso esercita una potente attrazione anche sulle frange benestanti di piccoli commercianti o di contadini proprietari alla ricerca di una legittimazione sociale. Ma al di là della relativa apertura di reclutamento sono le modalità di frequenza (ingressi tardivi, uscite precoci, aleatorietà della presenza) a penalizzare ed emarginare ancora questo gruppo di confine.
Uscire dall’area della scuola classica e parlare di educazione elementare significa accostarsi a un tema più sfuggente, dai confini non sempre precisamente definiti. Ci limitiamo a ricordare due punti essenziali e collegati: l’aumento della domanda sociale d’istruzione e la crescita del numero di alfabeti nel corso del secolo. Si tratta di una crescita non omogenea né regolare, soggetta a fluttuazioni e arresti, ma dagli esiti ovunque apprezzabili. Su questo piano la carta dell’Europa è ovviamente segnata da forti chiaroscuri e netti contrasti: alla fine del Settecento c’è il 50 percento di alfabeti in Inghilterra, il 37 in Francia e il 23 nell’Italia padana, disegualmente distribuiti in base al sesso, al censo e alla residenza.
Ma anche nelle zone più arretrate accade che una fitta rete d’istruzione coesista con un diffuso analfabetismo; e un insieme di insegnamenti dalla fisionomia assai mobile, intersecati e sovrapposti, caratterizza in effetti il sistema del tempo.
Accanto alle scuole di grammatica latina, cerniera tra i corsi superiori e le più elementari forme di sapere, vi sono le scuole parrocchiali, disseminate soprattutto nelle campagne. Queste mirano in primo luogo all’insegnamento della dottrina e della lettura, ma possono offrire un primo dirozzamento nella lingua della Chiesa ai giovani destinati al sacerdozio. Nei centri urbani, poi, dove la vita pulsa più rapida e maggiore è la richiesta di notizie, di saperi e di pratiche culturali, vi sono petites écoles gratuite che si fanno carico dell’insegnamento dei primi rudimenti o di una formazione professionale. Sulle stesse piazze, infine, lavora il gruppo numeroso ed eterogeneo dei maestri mercenari di aritmetica mercantile, di scrittura, di lingue e di lettura; accanto a questi vi sono le maestre, che svolgono insieme compiti di custodia e di insegnamento, illustrando a un pubblico composito per età e per sesso preghiere, lavoro e lettere dell’alfabeto. Questo tipo di istruzione ha un carattere eminentemente pratico, che spesso si integra con le competenze acquisite nel mestiere, e viene richiesta da una clientela varia e irregolare di artigiani, domestici, piccoli artigiani e proprietari; si tratta quindi di un sistema finalizzato a bisogni specifici, applicato di volta in volta in maniera autonoma e individuale. Nel secondo Settecento il potenziamento della rete di scuole disponibili e gratuite è senza dubbio legato sia alle proposte degli illuministi che all’intervento dello Stato riformatore, ma accanto all’offerta scolastica e al dibattito pedagogico giocano ancora, come in passato, altri fattori d’ordine geografico, economico e culturale. La crescita della popolazione urbana, la dinamicità delle attività economiche, l’articolarsi delle strutture sociali contribuiscono indubbiamente ad aumentare il valore d’uso della cultura scritta. Del resto la volontà di diffondere un minimo di conoscenze e di frequenza scolastica si collega solo in parte alla prospettiva illuminista; l’obiettivo prevalente sembra essere la preoccupazione di inquadrare le masse popolari e rurali, senza trascurare la persistente influenza della pastorale cristiana.
Non si può dimenticare in ogni caso che la scuola non rappresenta una tappa obbligata, ma soltanto una delle possibili strade di formazione. Per molti ragazzi e soprattutto per le fanciulle di un’Europa in larga parte rurale si tratta ancora di apprendere il mestiere dei genitori sotto la loro guida e al loro fianco: un percorso assai comune che ha lasciato meno tracce, perché legato a un mondo che ha poca familiarità con lo scritto. Non solo tra i contadini, ma anche tra i mercanti e gli artigiani si tramanda la consuetudine che i figli, pur frequentando la scuola, vengano iniziati dai padri. In questi ambienti, dove i maestri sono soppiantati spesso da mediatori di cultura non istituzionali, le carriere scolastiche regolari risultano meno frequenti dei percorsi accidentati e fortuiti, ritagliati in modo individuale. Qui gli studi formali, ma anche l’educazione autodidatta, sono interrotti e ripresi più volte nel corso della vita e i saperi appresi possono perdersi rapidamente per mancanza d’uso oppure perfezionarsi gradualmente, anche in età adulta, grazie a eventi e incontri casuali o in relazione ai bisogni concreti dell’esistenza.