L'educazione in Grecia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I due concetti educativi fondamentali nella cultura greca sono quelli di esempio (paradeigma) e di imitazione (mimesis). I tradizionali racconti paradigmatici sono veicolati dalla poesia epica, genere fondante della identità greca, vera e propria “enciclopedia tribale”. Rilevante luogo di educazione è anche il teatro. Con i sofisti, nel V secolo a.C., si afferma un nuovo tipo di educazione e la retorica assume sempre più un’importanza centrale nella formazione dei cittadini.
Se mi venisse chiesto di individuare due sole parole per definire l’educazione greca sceglierei senza dubbio parádeigma e mímesis. Parádeigma corrisponde al latino exemplum e indica il comportamento o il racconto tanto noti da diventare modelli e termine di confronto per casi analoghi. Mimesis è l’imitazione, intesa sia come principio didattico fondamentale, per esempio dell’educazione retorica, per cui si apprende imitando orazioni celebri, sia come principio ontologico e di teoria poetica. In Platone l’arte è imitazione della realtà, che a sua volta imita le idee.
Per chiarire la dinamica dei paradigmi propongo un esempio dal XXIV libro dell’Iliade. Achille ha accolto Priamo nella sua tenda e vuole convincerlo ad accettare il pasto, malgrado il vecchio re sia oppresso dal dolore per la perdita del figlio Ettore. Ecco il discorso di Achille (599-620):
“T’è reso il figlio, o vecchio, come hai pregato,
è steso nel feretro: all’apparir dell’aurora
lo vedrai, lo porterai via. Ora pensiamo alla cena.
Anche Niobe chioma bella pensò a mangiare,
a cui dodici figli morirono in casa,
sei fanciulle e sei giovani nel fior dell’età.
Questi li uccise Apollo con l’arco d’argento,
irato contro Niobe, l’altre Artemide urlatrice,
perché a Latona bel viso Niobe osò farsi uguale:
la dea – diceva – due figli fece, lei molti ne partorì.
Ma quelli ch’eran due soli tutti i molti le uccisero.
E giacquero nove giorni nel sangue, non c’era nessuno
per seppellirli, ché in pietre aveva cambiato la gente il Cronide.
Al decimo giorno li seppellirono infine i Celesti.
Ebbene anche lei pensò al cibo quando fu stanca di pianto.
Ora là fra le rocce, sui monti solinghi,
nel Sípilo, ove sono – raccontano – i letti delle divine
ninfe, che danzano intorno all’Acheloo,
là, fatta pietra dai numi, cova il suo strazio.
Pensiamo noi pure, dunque, vecchio glorioso,
al cibo; poi piangerai il caro figlio,
ricondotto in città; ti costerà molto pianto”.
(trad. R. Calzecchi Onesti)
Il paradigma è quindi in prima istanza il racconto (mythos) di un episodio famoso o il rinvio a un racconto ben noto che presenti elementi di analogia rispetto alla vicenda con la quale è confrontato. Evito di usare la parola “mito”, che, nel corso dei secoli, si è caricata di connotazioni, e provvisoriamente intendo il greco mythos come “racconto” o, al più, come “racconto tradizionale”.
Le due situazioni, quella di Priamo e quella di Niobe, in parte si sovrappongono, in parte divergono. I due personaggi sono accomunati dalla perdita dei figli e dalla loro ritardata sepoltura, ma le cause che hanno condotto alla morte Ettore e i Niobidi sono diverse: Ettore è morto eroicamente in battaglia, i figli di Niobe sono stati uccisi dagli dèi per punire la madre colpevole di hybris nei confronti di Latona. Le aree di scarto tra le due vicende non sono meno importanti di quelle di sovrapposizione: proprio le differenze determinano il guadagno conoscitivo.
Accanto ai paradigmi positivi (exempla virtutis per i Romani) ci sono anche i paradigmi negativi, che funzionano per opposizione. Il caso più noto è quello di Tersite nel II libro dell’Iliade. Per essere paradigmatica una vicenda deve avere una certa distanza rispetto al presente. È questo il precetto che Fenice premette al paradigma di Meleagro nel IX libro dell’Iliade (524-528):
“Così sappiamo anche le glorie degli antichi
eroi, quando qualcuno lo coglieva l’ira impetuosa:
si lasciavano piegare dai doni e dalle parole.
Ricordo quest’impresa antica, recente non di certo
come fu: a tutti voi amici la voglio raccontare”.
Nelle parole di Fenice c’è una sintetica teoria del paradigma: il paradigma deve riguardare le gesta gloriose (“le glorie”), e specificamente gesta antiche. Si tratta di gesta che appartengono al patrimonio delle conoscenze (“sappiamo”), a cui attingere attraverso la memoria (“ricordo”). Chi racconta, in questo caso Fenice, deve esserne buon conoscitore per esporlo correttamente (“come fu”) a beneficio di tutti gli amici che lo ascolteranno e che, si può aggiungere, da esso trarranno un insegnamento.
L’apprendimento attraverso l’imitazione fa parte dell’esperienza comune. Come i Greci se lo rappresentino lo spiega Dionigi di Alicarnasso nel trattato dedicato a questo tema.
“Bisogna leggere gli scritti degli antichi affinché di lì ricaviamo non solo la materia della trattazione, ma anche l’emulazione delle caratteristiche. Infatti l’anima di chi legge trae la somiglianza del carattere dalla continua frequentazione. Una storiella racconta che qualcosa di simile toccò anche alla moglie di un contadino: dicono che a un contadino brutto d’aspetto venne la paura di diventare padre di figli simili a lui; ma questa paura gli insegnò l’arte di avere bei figli. Mettendo in mostra delle immagini abituò la moglie a guardarle: e dopo di ciò si unì a lei e ottenne la bellezza delle immagini. Così anche con l’imitazione dei discorsi si genera la somiglianza, se si emula quello che appare migliore presso ciascuno degli antichi e, come radunando una corrente da molti rivoli, si porta questa corrente nell’anima. Posso confermare questo discorso con un fatto: Zeusi era un pittore ed era ammirato dai Crotoniati; mentre dipingeva Elena nuda gli permisero di vedere nude le fanciulle del posto: non perché fossero in tutto belle, ma non era verosimile che fossero integralmente brutte. Ciò che in ciascuna era degno di essere dipinto fu riunito in un’unica immagine e dalla raccolta di molte parti l’arte compose un aspetto perfetto. Perciò è possibile anche a te esaminare come in un teatro le forme di antichi corpi e cogliere il miglior fiore dalla loro anima e raccogliendo il banchetto dell’erudizione non foggiare un’immagine che svanirà col tempo, ma la bellezza immortale dell’arte” (Hermann K. Usener, dall’epitome, pp. 17-19).
È evidente il parallelismo con l’apprendimento della retorica. L’allievo deve avere davanti a sé i modelli migliori e trarre da ciascuno di essi le caratteristiche più adatte al testo che sta scrivendo. L’imitazione non è un procedimento di meccanica reduplicazione, ma di interiorizzazione dei modelli, che devono essere usati nel modo giusto e al momento giusto (il kairós, momento opportuno).
Il genere letterario che perpetua la memoria dei racconti tradizionali paradigmatici è la poesia epica. Non bisogna dimenticare che la cultura greca e la stessa letteratura greca nascono in un contesto di oralità primaria e che lo stesso termine “letteratura” rinvia inevitabilmente alla scrittura come mezzo di composizione e di pubblicazione, e quindi non è applicabile per tutta l’età di formazione dell’epos. Per molti secoli, anche dopo l’introduzione della scrittura alfabetica intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., il canale principale di comunicazione nonché di diffusione delle opere letterarie è l’ascolto, tanto che si è parlato a ragione di fase “aurale” (da aures, orecchie).
In una cultura fondata sull’ascolto anche l’educazione non può che usare quel canale e non può che prendere la forma della ripetizione di azioni (per esempio danze, manovre militari) e di canti. Varie forme di canto, spiegato o più vicino alla recitazione piana (si usa come termine di paragone il recitativo dell’opera lirica), vengono usate in molteplici occasioni della vita sociale: cerimonie religiose, feste pubbliche e private, agoni, simposi ecc. La poesia epica, accompagnata da uno strumento a corde, trova spazio dapprima nelle corti dei principi, poi nelle feste e negli agoni. È un genere praticato in tutto il mondo greco e si avvale di una lingua artificiale, mista di dialetto ionico ed eolico, che si è venuta formando attraverso un processo durato secoli.
Il canto perpetua il ricordo delle vicende degli eroi, che sono naturaliter paradigmatiche per la loro grandezza (la guerra di Troia, che diventerà termine di paragone per tutte le guerre successive), per la distanza temporale rispetto al presente e anche per le profonde differenze rispetto all’esperienza quotidiana: vi intervengono le divinità, si fanno viaggi straordinari fino ai confini del mondo, si incontrano popoli mostruosi. Gli eroi, nati in genere dall’unione di dèi e mortali o discendenti da stirpe divina, sono eccessivi in ogni loro manifestazione, nel valore guerriero come nell’ira o nel dolore, ma anche nell’appetito e nel desiderio sessuale. L’epica è il canale comunitario e autorevole attraverso il quale si apprendono le vicende degli eroi, che vivono però anche nelle storie raccontate dagli anziani intorno al fuoco e nelle arti figurative. I Greci, che non hanno un libro sacro, riconoscono l’epos come repositorio del patrimonio di racconti sui cui si fonda la loro identità e che racchiudono i loro valori condivisi. l’epos è, per usare le parole di Eric Alfred Havelock, l’“enciclopedia tribale” dei Greci o il loro “libro di cultura” (Jurij Lotman).
Due sono le categorie in cui si manifesta l’eccellenza degli eroi: l’azione e la parola. L’educazione greca valorizza sempre questi due aspetti promuovendo da un lato la cura del corpo e la preparazione militare, anche attraverso attività come l’equitazione e la caccia, dall’altro la capacità di convincere con il discorso. Anche gli eroi omerici sanno cantare (Achille nel IX dell’Iliade, Odisseo alla corte dei Feaci) e comporre discorsi persuasivi (Nestore, Odisseo).
Accanto all’epica degli eroi la Grecia conosce un’altra epica, quella delle Opere e i giorni di Esiodo, caratterizzata da contenuti legati alla vita quotidiana delle comunità contadine. Precetti etici e prescrizioni pratiche, sull’aratura, la semina, gli strumenti agricoli, vengono a comporre un quadro di conoscenze condivise che, non diversamente dai racconti tradizionali, contribuisce a fondare l’identità dei Greci e in particolare di quelle comunità di agricoltori a cui il poeta si rivolge. A questa poesia epica è stato dato il nome di sapienziale (A. Ercolani) ed è stata assimilata ad analoghe forme presenti nel vicino Oriente fin dal III millennio a.C.
Nelle fasi più antiche della cultura greca la crescita dei giovani fino all’età adulta è scandita e regolata da istituzioni iniziatiche. Di queste istituzioni restano tracce sia nel patrimonio dei racconti tradizionali sia nel culto e nei rituali. L’area che conserva più a lungo il sistema delle iniziazioni, organizzato per classi di età, è quella dorica, in particolare a Sparta e a Creta. Le prove a cui gli adolescenti maschi sono sottoposti preparano alle durezze della guerra e temprano il carattere, mentre le feste a cui partecipano e le danze e i canti che eseguono li formano come cittadini in grado di partecipare ai riti collettivi. Compiere piccoli furti, esponendosi alle conseguenze del caso, funziona per analogia rispetto alle astuzie necessarie per sorprendere i nemici negli agguati. Dormire all’aperto e stare in guardia nel timore di essere sorpresi li prepara alle campagne militari e ai turni di sentinella. Nella maggior parte delle città greche i cicli iniziatici si trasformano in un periodo di addestramento dei giovani (efebía, da efébos, giovane) che, nel caso di Atene, dura due anni, dai 18 ai 20, e che comprende la preparazione atletica e militare.
La formazione dei giovani, specie in ambito aristocratico, può comportare rapporti privilegiati, anche di natura sessuale, con adulti dello stesso sesso che, con il loro esempio e con i loro precetti, contribuiscono all’educazione dei giovani.
Mentre il rapporto tra un adulto amante (erastés) e un giovane (erómenos) è descritto da una pluralità di fonti, dalla poesia lirica ed elegiaca al Simposio di Platone, più difficile da definire è il rapporto che si stabilisce tra Saffo e le ragazze della sua comunità, il tiaso. Le analogie con istituzioni moderne, come l’educandato femminile, sono completamente fuorvianti. Nel tiaso vi è certamente una dimensione religiosa, legata al culto di Afrodite, che non può essere tenuta separata dalla funzione educativa.
Uno dei luoghi in cui adulti e giovani possono incontrarsi è il simposio, vera e propria istituzione sociale che riunisce aristocratici legati da vincoli di parentela e di schieramento politico.
Il simposio è, come indica il termine, il momento del bere in comune, successivo al banchetto. I simposiasti sono tenuti a cantare a turno, preferibilmente riprendendo il tema dell’intervento precedente: chi ha poca dimestichezza con la poesia può usare repertori, come quello tramandato sotto il nome di Teognide. Gli argomenti che si toccano a simposio possono essere vari, ma molti di essi sono importanti per definire e riaffermare i valori del gruppo e, in generale, del ceto aristocratico a cui i simposiasti appartengono: precetti etici e politici e norme di buon comportamento a simposio. Senofane di Colofone ci ha lasciato una delle più belle descrizioni di simposio:
“Ora infatti il pavimento è puro, e così le mani di tutti
e le coppe; uno ci pone intorno al capo ghirlande intrecciate,
mentre un altro protende del profumato unguento in una fiala.
Il cratere sta lì fermo, colmo di letizia,
e altro vino di miele, che dice di non tradirci mai,
è pronto negli orci, odoroso di fiore;
l’incenso, là in mezzo, emana un sacro effluvio,
e l’acqua è fresca, dolce e pura;
ci sono biondi pani e una venerabile mensa
ripiena di formaggio e pingue miele,
e l’altare, nel mezzo della sala, è stato avvolto d’ogni parte di fiori,
e il canto e la festa pervadono la casa.
Per prima cosa i lieti uomini devono levare un inno al dio
con reverenti parole e puri detti;
Ma dopo che si è libato e pregato di essere in grado di compiere
giuste azioni – queste infatti sono più facili da fare –,
non le prepotenze, si deve bere quel tanto che ti faccia tornare a casa
senza chi ti sorregga, sempre che tu non sia proprio vecchio.
Degli uomini si deve lodare chi bevendo mostra saggezza
secondo la sua memoria e la sua aspirazione alla virtù;
niente si deve dire delle lotte dei Titani o dei Giganti
o dei Centauri, invenzioni degli antichi,
né delle violente contese: non vi è niente di utile in questo,
e per gli dèi bisogna avere sempre buon riguardo”.
Il precetto della moderazione nel bere, oltre a essere conforme al principio della misura (medén ágan, nulla di troppo) è anche legato alla funzione del simposio come luogo di discussione e di decisione politica: il bouleúesthai pará póton, decidere mentre si beve. Nella parte conclusiva del carme vi sono precise prescrizioni di poetica simposiale: i temi tipici dell’epica, Titanomachie, Gigantomachie, contese (il termine richiama l’Iliade, con la contesa tra Agamennone e Achille) sono respinti come non utili e la preferenza va implicitamente ad altri argomenti.
La presenza a simposio di giovani, impiegati come coppieri, consente ai simposiasti di avere dei destinatari a cui indirizzare i carmi, come il Cirno a cui sono rivolte alcune delle elegie del corpus di Teognide. Il simposio può essere anche luogo di sperimentazione di forme poetiche e musicali e di replica, in esecuzione monodica, di carmi corali o di altri canti lirici estrapolati dai drammi. È quindi anche il luogo naturale dell’apprendistato poetico.
Che la tragedia sia uno strumento di educazione dei cittadini di Atene è quasi un luogo comune, antico almeno quanto le Rane di Aristofane (405 a.C.). Ma Aristofane, che ci presenta un Eschilo maestro della città ed educatore di cittadini bellicosi, è un poeta comico e ci offre un’immagine distorta e parziale della funzione educativa della tragedia. Insomma, non è corretto prenderlo alla lettera: Aristofane sa benissimo che educare i cittadini non significa soltanto esortarli al patriottismo e al valore militare.
La paideia attraverso il teatro non è un fenomeno semplice da definire e neanche facilmente schematizzabile: non si può opporre, come fa Aristofane, una paideia eschilea, più antica ed essenzialmente politica e ideologica, a una euripidea, moderna e sofistica, incentrata sulla retorica e sulla dialettica, perché, quando Euripide è in attività, le tragedie di Eschilo vengono portate nuovamente sulla scena e continuano a riscuotere grande successo. E Euripide, che certamente subisce l’influenza della sofistica, è pur sempre un poeta tragico e non un maestro di retorica. Bisogna anche sottolineare che l’unica funzione che emerge, nelle parole di Dioniso, il dio del teatro, è il térpein (916), il piacere prodotto dallo spettacolo, un aspetto che deve essere valorizzato più di quanto non sia stato fatto finora. Se ci domandiamo perché gli Ateniesi vadano volentieri a teatro, dobbiamo anzitutto rispondere che a teatro si divertono.
D’altro canto le Rane, nella loro prospettiva comica, affrontano un problema terribilmente serio: il modo in cui Atene può uscire dalla crisi che l’attanaglia e quale genere di teatro è più appropriato alla città. La domanda è, in questo come in altri casi, molto più importante della risposta. La commedia mette davanti agli spettatori la città con i suoi problemi (la guerra e la pace, l’amministrazione della giustizia, l’educazione), ma non pretende di offrire soluzioni, piuttosto di introdurre elementi di riflessione divertendo il pubblico.
Un contemporaneo di Aristofane, Gorgia, ci ha lasciato una definizione della tragedia ben più antica di quella, celeberrima, di Aristotele. È il fr. 23 D.-K., tramandato da Plutarco, che riporto senza affrontare i difficili problemi di delimitazione del testo o del pensiero di Gorgia rispetto a quello della fonte:
“La tragedia fiorì e fu acclamata, e fu mirabile ascolto e visione per gli uomini di quel tempo e con i racconti e le sofferenze procurò un inganno per cui, come dice Gorgia, chi inganna è più giusto di chi non inganna e chi è stato ingannato è più competente di chi non è stato ingannato. Infatti chi inganna è più giusto perché ha compiuto quel che ha promesso, chi è stato ingannato è più competente perché chi non è insensibile si fa prendere dal piacere dei discorsi.”
L’inganno del teatro è l’illusione scenica, che ci trasporta all’interno delle vicende che osserviamo sulla scena. Attraverso l’inganno il poeta, più competente (sophós) del pubblico, trasmette un sapere il cui veicolo sono i racconti (mýthoi) e le sofferenze (páthe). Lo spettacolo teatrale trasmette anzitutto la conoscenza di racconti paradigmatici che si imprimono nella mente degli spettatori grazie alle sofferenze dei personaggi, condivise dagli spettatori per il meccanismo dell’empatia. Il poeta tragico orienta le reazioni degli spettatori, presentando i personaggi e le posizioni in conflitto e suggerendo analogie con altre vicende. Un esempio può chiarire la dinamica dei paradigmi tragici. Nel primo stasimo delle Coefore di Eschilo il coro canta tre casi di donne che hanno provocato la morte di uomini: Altea che ha provocato la morte del figlio Meleagro, Scilla, responsabile della morte del padre Niso, le donne di Lemno che hanno ucciso i loro mariti. Dopo l’ultimo paradigma e prima della coppia strofica conclusiva, incentrata su Díke (Giustizia), il coro si pone una domanda retorica (638): “Quale di questi racconti ho radunato non giustamente?”
La domanda del coro sui paradigmi appena proposti riflette quella del poeta tragico al suo pubblico, senza che si debba pensare a una sorta di parabasi tragica, nella quale il poeta per mezzo del coro si possa rivolgere direttamente al pubblico infrangendo l’illusione scenica. Nella tragedia non si può uscire dall’illusione scenica, così come non si può uscire dal livello del paradigma per entrare in quello dell’allegoria riferita a fatti e personaggi dell’attualità. Come il coro propone l’interrogativa retorica sulla correttezza dei paradigmi che ha presentato, così il poeta, nell’atto stesso di portare sulla scena una trilogia, si interroga e chiede indirettamente agli spettatori se i temi da lui prescelti siano adatti a suscitare le riflessioni di cui sentono il bisogno. I paradigmi così intesi sono argomentazioni autorevoli e inveranti basate sull’analogia e fondanti per una società aurale come quella ateniese di metà V secolo a.C.
Lo scopo dei tre paradigmi è quello di fornire adeguata motivazione a un atto inaccettabile, il matricidio che Oreste sta per compiere, e il canto è rivolto sia ai personaggi, in particolare allo stesso Oreste, sia al pubblico, nella fase delicata tra la decisione e l’azione. La vicenda di Clitennestra che ha ucciso il marito Agamennone viene in questo modo inserita in una serie di altre vicende, non identiche (lo scarto di cui parlavo prima), ma in varia misura analoghe, come se si tratti di una casistica giudiziaria. Il caso portato sulla scena si rispecchia in altri affini: allo stesso modo il pubblico confronta quello che vede con la propria esperienza, stabilisce punti di contatto e di divergenza, amplia la propria conoscenza. Come ha scritto Pierre Vidal-Naquet, la tragedia è uno specchio infranto e nei frammenti dello specchio ogni spettatore legge la propria esperienza.
Le storie dell’educazione greca riservano un posto abbastanza limitato ai sofisti del V secolo a.C., in parte perché il termine ha assunto, già nel corso del IV secolo a.C., una connotazione negativa, in parte perché le opere dei sofisti non ci sono pervenute. Platone e Aristotele li hanno condannati all’oblio e il discrimine è diventato Socrate: tutti i predecessori sono stati relegati tra i presocratici, un insieme di filosofi naturalisti con interessi molto vari e per i quali spesso ci si accontenta di etichette.
Quella di sofisti è un’etichetta particolarmente insidiosa, legata com’è alla pratica di farsi remunerare per il proprio insegnamento e a forme di dialettica estrema, spinta fino a sostenere tesi paradossali. Ma la realtà è molto diversa. I sofisti, Protagora, Ippia, Prodico, Gorgia, per citarne soltanto alcuni, si sono impegnati in una molteplicità di campi aprendo la strada a diverse discipline che poi sarebbero diventate autonome. Nel V secolo a.C. il sapere non è articolato e classificato e il termine filosofia designa genericamente la cultura, l’amore per il sapere, e, più specificamente, una serie di competenze, téchnai in greco.
Aristofane nelle Nuvole mette alla berlina Socrate che, nella percezione popolare, non è diverso dai sofisti con cui si confronta. Socrate viene rappresentato come uno studioso dei fenomeni naturali, che vive sospeso nel suo pensatoio (phrontistérion), ma anche come un maestro nell’arte retorica, che dovrebbe consentire al contadino Strepsiade di ingannare i creditori. I due discorsi, il Migliore e il Peggiore, che nelle Nuvole si combattono, sono le due forme di educazione, quella antica e quella moderna. Ma anche in questo caso non dobbiamo prendere la testimonianza di Aristofane alla lettera.
Che Socrate sia trattato da Aristofane come un sofista induce a riflettere sull’immagine corrente di personaggi ai quali attribuiamo etichette differenti. In particolare, storici come Erodoto, Tucidide, Ellanico e, più tardi, Senofonte, devono apparire agli occhi del pubblico non troppo diversi da Protagora o da Ippia. Anzitutto per le modalità di diffusione delle loro opere in pubbliche letture (akroáseis), in secondo luogo per gli argomenti affrontati. Sia gli storici sia i sofisti indagano sulla storia antica (archaiología), un termine che compare per la prima volta in riferimento a Ippia (Platone, Ippia Maggiore 285d). E si interrogano sugli ordinamenti politici, sulle leggi, sull’esercizio del potere e, ovviamente, sull’educazione dei cittadini e in particolare di chi avrebbe ricoperto cariche pubbliche. Insomma se Erodoto, Tucidide, Ellanico e Senofonte si possono considerare come dei sofisti dimenticati, Protagora, Democrito e Ippia sono, tra l’altro, degli storici dimenticati.
Tra le varie téchnai quella più legata alla vita politica è certamente la retorica. Per buona parte del V secolo a.C. gli uomini politici non compongono per iscritto i loro discorsi per paura, come dice Platone (Fedro 257d) di essere presi per sofisti, cioè per professionisti e manipolatori della parola. Il cambiamento è legato soprattutto alla necessità di proporre agli allievi modelli per l’imitazione e alla prassi di scrivere orazioni per altri.
Questa prassi, sorta dalla necessità di parlare in prima persona nei tribunali, non essendo prevista la figura dell’avvocato, favorisce la nascita di una categoria di professionisti (logografi, cioè, appunto, “scrittori di discorsi”). Uno dei primi ad Atene è stato Antifonte di Ramnunte che ha lasciato, oltre ad alcune orazioni, una raccolta di discorsi fittizi, evidentemente a uso didattico e dimostrativo.
Questa è una delle vie che conduce alla pratica di diffondere le proprie opere attraverso la circolazione di copie. Tuttavia non si deve credere che la pratica dell’improvvisazione venga abbandonata: ancora nel IV secolo a.C. Alcidamante la insegna e la difende contro chi compone per iscritto i suoi discorsi.
Mentre per noi una lezione scolastica o universitaria è cosa ben diversa da una conferenza o da un dibattito pubblico, nel V secolo a.C. non esistono simili distinzioni.
Un famoso sofista che si esibisce in una casa privata, come Protagora nell’omonimo dialogo platonico, o in un ginnasio dà dimostrazione delle sue capacità e allo stesso tempo offre un modello ai suoi allievi, sia a quelli che lo seguono abitualmente sia a quelli occasionali. Nel corso dell’ultimo quarto del V secolo e poi nel IV secolo a.C. un numero sempre maggiore di giovani si mette al seguito di retori illustri. Il più importante di loro è Isocrate, che inizia la sua attività di maestro di retorica intorno al 390 a.C. Isocrate propone all’imitazione degli allievi opere da lui composte in forma di discorsi fittizi, afferenti a generi e sottogeneri diversi e che non vengono scritte in vista di una specifica occasione, ma sono destinate alla didattica e alla diffusione scritta. A lui risalgono alcune delle caratteristiche costanti dell’educazione occidentale: la centralità del testo letterario, di cui viene per la prima volta chiaramente definita la specificità rispetto al contenuto e rispetto alla forma, la scelta di argomenti tradizionali, anche anacronistici, la pretesa di formare gli allievi ai valori etici e civili. La scoperta dello specifico letterario avviene in connessione con la funzione educativa delle opere di letteratura. Si legga Panegirico 3-5:
“Non per questo mi sono scoraggiato e non ne ho fatto nulla, ma, convinto che la fama che mi sarebbe venuta dal discorso sarebbe stata per me premio adeguato, vengo a consigliare sulla guerra contro i barbari e la concordia tra di noi, non ignorando che molti che pretendono di essere sofisti hanno affrontato questo soggetto, ma al tempo stesso confidando di superarli, tanto da far credere che gli altri non abbiano mai detto nulla al riguardo; e insieme valutando che i discorsi più belli sono quelli che riguardano i temi più importanti e rivelano in massimo grado le qualità degli oratori e arrecano grandissima utilità a chi li ascolta: e questo è uno di quei discorsi. Inoltre le circostanze non sono ancora così mutate da rendere inutile che siano ripresi questi temi. Infatti si deve smettere di parlare o quando una questione sia conclusa e non si debba più decidere su di essa o quando si veda che il discorso ha raggiunto una forma così compiuta che non sia lasciata agli altri alcuna possibilità di perfezionamento.”
Con Isocrate l’insegnamento della retorica acquista un carattere più organico e si afferma come fase imprescindibile della formazione, dopo i primi rudimenti nella scrittura e nel calcolo e dopo lo studio dei poeti, in particolare di Omero, che costituiscono la base dell’educazione greca. Il confronto con Omero, che diventa talvolta aperta competizione, è presente non soltanto in Isocrate, ma anche in Tucidide e in Platone. I tre grandi innovatori della prosa greca intendono creare una letteratura alternativa a quella su cui si sono formate generazioni di Greci. Tucidide sostituisce l’epica troiana con una ricostruzione attendibile del più importante avvenimento della storia recente, la guerra del Peloponneso, dichiarando esplicitamente la volontà di creare un nuovo paradigma, più appropriato alla formazione delle classi dirigenti di quelli offerti da Omero.
Platone trasferisce nella pagina scritta il dialogare socratico includendo nelle sue opere molti generi letterari e teorizzando al tempo stesso la pericolosità della poesia tradizionale (II libro della Repubblica). Isocrate, oltre a includere nelle sue opere forme e funzioni di altri generi letterari (per esempio la poesia encomiastica nell’Evagora), specie nelle ultime opere (Antidosi, Filippo, Panatenaico) inserisce sezioni dialogiche. È la sua risposta a Platone e agli altri socratici.
Nello stesso torno di tempo anche i filosofi danno vita a scuole organizzate. Platone e i suoi discepoli si riuniscono in un’area dedicata all’eroe Academo, l’Accademia, Aristotele e la sua scuola nel ginnasio che prende nome da Apollo Liceo. Per buona parte del IV secolo a.C. retori e filosofi si contendono il primato nell’educazione, in particolare delle classi dirigenti.
Dalla V lettera di Isocrate veniamo a conoscere alcuni dettagli sulla concorrenza tra scuole per conquistare un allievo d’eccezione: Alessandro il Macedone.
“Sento dire che tra le filosofie non respingi neppure quella eristica [forma estrema della dialettica, volta alla confutazione dell’avversario], ma credi che permetta di prevalere nelle discussioni private, ma non si adatti né a chi è a capo del popolo né ai monarchi: infatti non è utile né conveniente a chi ha qualità intellettuali maggiori degli altri né discutere con i concittadini né permettere agli altri di contrapporsi a loro con discorsi. E che non ami questa pratica, ma preferisci l’educazione [paideia] a quei discorsi di cui ci serviamo nelle vicende quotidiane e con cui prendiamo decisioni sulle questioni di interesse comune. Mediante questa educazione saprai formarti opinioni opportune su quello che sta per verificarsi, dare ordini ai sudditi non da stolto sui compiti di ciascuno, discernere correttamente il bene e il giusto e i loro contrari, e inoltre onorare e punire gli uni e agli altri come spetta loro (3 s.)”.
Come fa anche altrove, Isocrate contrappone la propria educazione retorica, volta a formare cittadini e uomini di potere, alla formazione dialettica, confusa intenzionalmente con l’eristica.
In questo modo Aristotele, il precettore di Alessandro, viene incluso in una categoria di filosofi interessati soltanto a demolire il pensiero degli avversari senza avere come scopo né il raggiungimento della conoscenza né la capacità di argomentare indispensabile nella vita civile.
Malgrado il successo di Aristotele nella competizione per l’educazione di Alessandro, sarà la retorica ad avere il sopravvento sulla filosofia: in età ellenistica e romana la scuola del retore sarà una tappa ineludibile nell’educazione, e soltanto un numero ristretto di giovani, spesso dopo gli studi retorici, si rivolgerà alle scuole dei filosofi.
Con l’affermazione della retorica come fase centrale e imprescindibile della formazione superiore l’intero sistema educativo comincia ad acquisire una fisionomia più definita e regolare. Non si deve però credere che vi sia omogeneità nel curriculum degli studi: la frammentazione politica del mondo greco, l’importanza e la relativa autonomia delle realtà municipali e il carattere privato dell’istruzione determinano una situazione fluida, non paragonabile all’organizzazione degli studi che noi siamo abituati a conoscere. Molto dipende dalla disponibilità di docenti – alcuni di loro si spostano da una città all’altra alla ricerca di allievi – e dalle loro competenze. Con le fondazioni di città promosse da Alessandro e dai suoi generali e successori il mondo greco si amplia enormemente, soprattutto verso Oriente e in Egitto. Il modello urbanistico della città greca, con l’agorà, il teatro e i ginnasi, si estende, e con esso l’educazione greca raggiunge terre molto lontane dalla penisola ellenica.
Se ogni città, anche la più periferica, ha dei maestri che insegnano a leggere, a scrivere e a far di conto (grammatodidáskalos), non sempre può essere disponibile un grammatikós che perfezioni la conoscenza della lingua basandosi sui testi poetici, Omero in primo luogo, ma anche i tragici. Il grammatikós non si limita a un insegnamento linguistico-letterario, ma, partendo dai testi che commenta, fornisce agli allievi una serie di conoscenze in molteplici campi del sapere.
In un sistema educativo poco specializzato i testi letterari offrono in primo luogo contenuti narrativi, in gran parte relativi al patrimonio dei racconti tradizionali, ma talvolta anche a vicende storiche, in secondo luogo danno lo spunto per approfondire informazioni negli ambiti, per esempio, della scienza o della geografia. I riferimenti astronomici nella navigazione di Odisseo possono essere l’occasione per spiegazioni astronomiche, così come il verso dell’Odissea (I, 23) sugli Etiopi divisi in due parti permette di ampliare il discorso alla geografia e all’etnografia.
La poesia viene imparata a memoria, anche per favorire la pratica della mnemotecnica, e in età ellenistica si sviluppa il genere della poesia didascalica.
Si tratta di opere in esametri o in trimetri giambici dedicate all’astronomia, alla geografia, alla storia o anche ad argomenti più tecnici, come i veleni e gli antidoti, oggetto dei poemi di Nicandro di Colofone. In alcuni casi, come il poemetto geografico tramandato sotto il nome di Scimno di Chio, e databile alla fine del II secolo a.C., l’intenzione prevalente è quella didattica, in altri gli autori hanno ambizioni poetiche e vogliono esibire la propria abilità di esprimere in versi contenuti difficili. Alcuni di questi poemi, come i Fenomeni di Arato di Soli, di contenuto astronomico, nascono quasi prevedendo di essere accompagnati da ampi commentari. E la tradizione ci ha lasciato una grande quantità di commenti antichi trascritti a margine del testo e in alcuni casi di poco posteriori alla composizione dell’opera.
Se ci domandiamo quali siano i testi che i grammatici commentano possiamo rispondere facilmente se ci limitiamo alle opere imprescindibili: non credo che un grammatico possa rinunciare a Omero, ma è libero di spaziare tra generi e autori diversi e può anche commentare opere di prosa. Siamo a conoscenza di commentari antichi dedicati a storici come Erodoto o a oratori come Demostene. Non esistono programmi ministeriali e neanche precisi confini tra le discipline.
Il commento grammaticale può scivolare verso la retorica e il grammatico può proporre esercizi di composizione abitualmente eseguiti nelle scuole di retorica: sono i progymnásmata, gli esercizi preliminari. Non mancano neanche personaggi in grado di insegnare entrambe le discipline, come Aristodemo di Nisa, di cui è stato allievo il geografo Strabone, che insegna al mattino la retorica e di pomeriggio la grammatica. È anche poco opportuno distinguere, come spesso si fa, tra i grandi filologi alessandrini o pergameni e i comuni grammatici. I filologi di alto livello, come Aristofane di Bisanzio o Aristarco di Samotracia, dedicano impegno anche alla costituzione dei testi, un’attività che il comune grammatico non pratica, ma tutti sono maestri e tutti hanno allievi. La differenza sta nel fatto che i grandi filologi prestano spesso la loro opera ai figli dei sovrani ellenistici e formano altri grammatici.
La definizione della techne grammatike è di molto posteriore a quella della retorica. Se già i sofisti hanno indagato le strutture del linguaggio e Aristotele ha dedicato ad esse una sezione della Poetica, il capitolo XX, è soltanto con Aristarco e soprattutto con il suo allievo Dionisio Trace che si costituisce una dottrina delle parti del discorso e si cominciano a fissare le parti della grammatica, che comprendono la lettura, l’interpretazione, la spiegazione delle parole difficili (glóssai) e dei contenuti narrativi, l’etimologia, l’esposizione dell’analogia e, infine, il giudizio sulle opere.
L’analogia è uno dei principi fondamentali della teoria grammaticale alessandrina, per cui la lingua sarebbe organizzata secondo criteri di uniformità, di regolarità e di simmetria; a questa teoria si oppone quella detta anomalista, per cui la lingua si sviluppa sulla base dell’uso. L’ultima parte, il giudizio, è definita da Dionisio la parte più bella della disciplina.
Con il giudizio sulle opere è connesso il processo di canonizzazione della letteratura, che inizia molto precocemente con il riconoscimento, ad esempio, della superiorità di Eschilo, Sofocle e Euripide nel campo della tragedia già da parte di Aristofane nelle Rane. La realizzazione di una copia depositata del testo dei tre tragici e di statue ad essi dedicate da parte di Licurgo, uomo politico e oratore ateniese, intorno al 330 a.C. sancisce definitivamente questo canone.
La selezione prosegue e si estende in età ellenistica, quando grammatici e retori scelgono gli autori eccellenti nei vari generi letterari. Malgrado la rigidità del termine canone, che viene dal campo degli studi biblici, i canoni sono liste aperte, che sono state progressivamente ampliate. I canoni selezionano non soltanto autori, ma anche epoche: ad esempio i dieci oratori coprono all’incirca il secolo della grande oratoria attica, dagli ultimi decenni del V agli ultimi del IV secolo a.C.; d’altra parte la storiografia più apprezzata è quella che tratta il periodo dalle guerre persiane (Erodoto) alla guerra del Peloponneso (Tucidide, Senofonte) e arriva fino ad Alessandro Magno. Le conquiste di Alessandro e la costituzione dei regni ellenistici sono sentiti presto come un discrimine fondamentale: basti pensare che ancora dopo secoli gli studenti greci fanno esercizi di composizione sulle grandi vicende del V e del IV secolo a.C. e non su fatti più recenti, e che Dionigi di Alicarnasso, nel I secolo a.C., fa risalire alla morte di Alessandro l’inizio della decadenza dell’oratoria.
In età ellenistica la retorica acquista progressivamente un carattere più tecnico, soprattutto al servizio del genere giudiziario e delle sue esigenze di analisi della casistica e di omogeneità dei procedimenti argomentativi.
La produzione oratoria di età ellenistica è per noi quasi completamente perduta: proprio il giudizio negativo di atticisti come Dionigi di Alicarnasso ne favorisce la scomparsa; parallelamente anche i trattati di retorica sono andati perduti e possiamo ricostruirne in parte il contenuto attraverso le opere dei maestri romani, come Cicerone e Quintiliano.
Quando la Grecia entra a far parte dello stato romano l’interazione tra le due culture si sviluppa, anche se l’insegnamento in lingua greca rimane distinto da quello in lingua latina. I Romani si avvalgono sempre di più dell’insegnamento di maestri greci e anche i Greci cominciano a imparare il latino, soprattutto per le esigenze dell’amministrazione. Ma l’educazione greca resta, anche sotto Roma, un forte fattore identitario e, in tempi di scarso peso politico, è molto valorizzata nelle città greche.
Il mito di Atene maestra della Grecia è nato per propagandare soprattutto la civiltà politica ateniese, e in particolare il sistema di governo democratico e l’equilibrio sociale che da esso deriva: così risulta chiaramente dalle parole che Tucidide fa pronunciare a Pericle (2. 41). Ma già Isocrate restringe il campo alla sfera della paideia e gli Ateniesi divengono maestri nel campo del pensiero e della parola (Panegirico 50).
La canonizzazione della cultura letteraria ateniese e più in generale greca prende forme concrete nella seconda metà del IV secolo a.C., quando Licurgo non solamente sancisce il canone dei tre tragici, ma nella Leocratea, un’orazione scritta per un processo su un caso di diserzione, mette insieme la prima antologia di testi sul tema del valore militare e dell’attaccamento alla patria. Atene diviene un museo, con le statue dei grandi poeti che si affiancano a quelle dei politici e dei generali.
Questo processo si compie anche sulle pagine dei libri. La cultura greca, che ha da sempre ricercato l’esemplarità, tanto da poter essere definita una cultura del paradigma, diviene un paradigma di cultura, e tale è rimasta nel nostro immaginario.