Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’editoria è stata la prima vera industria musicale e il suo primato storico si è tradotto, per un lungo arco di tempo durante il Novecento, anche in una leadership commerciale e ideologica. Sono stati gli editori a concepire il ruolo di mediazione fra gli autori di musica e un mercato rappresentato in primo luogo dalle istituzioni della vita musicale (teatri, festival, locali di intrattenimento). Ma l’entrata in scena di media come il disco e la radio ha interferito progressivamente con questo ruolo, limitandone lo spazio. Come molte altre industrie, ma forse prima di tutte, l’editoria musicale ha beneficiato ed è poi stata vittima della smaterializzazione del suo oggetto.
L’industria dell’editoria musicale entra nel Novecento forte della grande espansione del mercato e del perfezionamento di accordi internazionali (Convenzione di Berna, 1886) che consentono la tutela del diritto d’autore su vasta scala. I tempi dell’artigianato, quando gli editori erano poco più che tipografi, sono ormai lontani, e i rapporti con gli autori sono regolati da una contrattualistica dettagliata, che prevede anche la corresponsione di anticipi per opere ancora non scritte. Per quanto la vendita o il noleggio di spartiti costituisca la voce di gran lunga più importante nel fatturato, gli editori musicali contano sempre più consapevolmente sulla creazione di un patrimonio immateriale, quello delle opere in catalogo, che le leggi sul diritto d’autore permettono di prefigurare come fonte di rendita nel lungo periodo. Nelle città dove si concentrano i teatri e le attività di intrattenimento, gli editori a loro volta si riuniscono in uno spazio ristretto, perché la natura del lavoro di promozione e vendita richiede una facile accessibilità da parte di musicisti, agenti, impresari.
A New York, il quartiere delimitato dalla ventottesima strada e da Broadway viene denominato – in un articolo del giornalista e autore di canzoni Monroe H. Rosenfeld pubblicato nel 1903 – Tin Pan Alley, “vicolo delle padelle di latta”, per il suono incessante dei pianoforti verticali, con i martelletti consumati dall’uso, che proviene dalle finestre degli uffici editoriali. Da allora il termine ha definito per gran parte del secolo l’industria editoriale americana, oltre che lo stile musicale tipico della sua produzione. Allo stesso modo, l’editoria italiana sarà “Galleria del Corso”, e quella britannica “Denmark Street”. Prima dell’avvento della radio, e mentre il mercato discografico si espande gradualmente, il successo commerciale di un’opera musicale coincide sostanzialmente con quello tributato nei teatri e nei locali di intrattenimento: se si tratta di un’opera, un’operetta, una composizione sinfonica, il successo genererà altre repliche, quindi noleggi di parti e vendita al pubblico di riduzioni, trascrizioni eccetera; se si tratta di una canzone verrà inserita nel repertorio di altri interpreti, e se ne venderanno molti spartiti. Bird in a Gilded Cage di Harry Von Tilzer nel 1900 si vende in 2 milioni di copie. Gli editori musicali, perciò, non lasciano nulla di intentato per favorire il successo dei loro prodotti: nei loro uffici lavorano i propagandisti di canzoni (song pluggers: farà questo mestiere anche George Gershwin), che cercano di convincere cantanti e impresari a inserire i brani nei loro nuovi spettacoli; al termine della giornata di lavoro, i propagandisti si trasferiscono nei teatri, a fare la claque alle canzoni della loro scuderia. Il lavoro dell’editore musicale, per tutto il secolo, si svolgerà tra gli alti e bassi (culturali e morali) di queste pratiche: da un lato, rapporti di alto impegno intellettuale con gli autori, e dialoghi raffinati con sovrintendenti di istituzioni operistiche e concertistiche, direttori artistici, interpreti, per promuovere l’esecuzione delle nuove musiche in catalogo; dall’altro, un’attività di lobbying a volte feroce per trarre il massimo profitto dallo sfruttamento delle utilizzazioni, la promozione più smaccata, e in qualche caso la corruzione esplicita di funzionari di altri rami dell’industria musicale.
Il successo crescente del disco viene visto dagli editori come una minaccia: non solo perché tende ad allontanare il pubblico da una pratica musicale attiva, ma perché le leggi sul diritto d’autore sono precedenti allo sfruttamento commerciale dell’invenzione di Edison, e non prevedono questo tipo di utilizzazione delle opere, essendo state modellate sostanzialmente sulla tutela di un’opera scritta. Tracce di questa distorsione permarranno per tutto il secolo nella legislazione sul diritto d’autore e sul copyright, che tratta i diritti sui fonogrammi come diritti “connessi” o “derivati”. È, in un certo senso, il residuo del primato dell’industria editoriale dei primi decenni del Novecento, che guarda con superiorità alle realizzazioni puramente tecniche della discografia. Il riconoscimento dei diritti sulle riproduzioni fonografiche avviene, negli USA, nel 1909, e mostra tutta la sua efficacia già solo dieci anni dopo, quando un lungo sciopero dei tipografi interrompe la stampa delle edizioni musicali, ma gli editori resistono grazie ai sostanziosi pagamenti di diritti fonomeccanici. Nel periodo che va dagli anni Venti agli anni Cinquanta, l’editoria musicale, assistita dalle società di raccolta dei diritti, raffina e potenzia sempre più la propria capacità di gestire il proprio catalogo di titoli attraverso la cessione di licenze e la raccolta di royalties, e si basa sempre meno sulla vendita degli spartiti. Se nel mercato di massa gli editori per molto tempo riescono ad asservire la discografia, continuando a imporre il primato dell’opera sull’interpretazione (non a caso, nel 1951, in Italia si istituisce un festival della canzone, quello di Sanremo, nel quale in origine un piccolo gruppo di cantanti interpreta tutte le canzoni in gara), nel mercato élitario della musica colta – dove le composizioni di largo successo sono quasi tutte di dominio pubblico e quelle nuove fanno fatica ad andare oltre la prima replica – il potere di lobbying dell’editoria musicale si indirizza (in tutta Europa) verso la radio, imponendo attraverso le società degli autori parametri correttivi che aumentano di molto i diritti maturati per ogni minuto di trasmissione radiofonica di un brano del repertorio colto. Solo in parte giustificabile da un intento di promozione e sostegno della cultura musicale contemporanea, questa consuetudine crea (nell’arco di tempo che va dal secondo dopoguerra alla fine degli anni Ottanta, quando poi verrà sostanzialmente neutralizzata) una sorta di zona franca, di mercato protetto della musica d’avanguardia, che susciterà l’opposizione di compositori più giovani, desiderosi di misurarsi (a volte piuttosto ideologicamente) con il pubblico e con il mercato. A partire dalla metà degli anni Sessanta, il primato dell’editoria musicale viene messo in discussione dall’evoluzione tecnologica, dall’ampliamento del mercato dovuto all’entrata in scena del pubblico giovanile, dai cambiamenti nell’assetto dei media. L’industria discografica, puntando su registrazioni sempre più coinvolgenti e perfezionate, sul formato dell’album long playing a 33 giri (che potenzia la funzione dell’interprete e gli offre con l’ampia copertina un forte strumento di comunicazione dell’immagine), sulla progressiva identificazione fra autore e interprete, si libera dal dominio dell’editoria e, in molti casi, rovescia a proprio favore i rapporti di forza: sono i gruppi discografici multinazionali ad acquisire il controllo societario di numerosi importanti editori. Gli anni Ottanta e Novanta mettono in evidenza un’ulteriore trasformazione: ridotto ormai ai minimi termini il commercio di musica stampata, ma anche messo progressivamente in crisi il modello del commercio di musica sotto forma di supporti registrati, il lavoro dei discografici e degli editori tende a sovrapporsi e integrarsi. Si tratta in entrambi i casi di negoziare dei diritti, servendosi degli stessi uffici legali, sia pure mantenendo la distinzione fra i diritti primari delle opere musicali e quelli connessi delle registrazioni. Nello stesso periodo (verso la fine degli anni Ottanta, e poi con un’incidenza crescente) l’uso di programmi di scrittura musicale su personal computer tende a svincolare i compositori – anche e soprattutto quelli di musica colta – da una delle ragioni storiche del loro rapporto con gli editori, quella della preparazione delle parti per gli esecutori. Questo ha contribuito a trasformare anche i più importanti editori musicali, negli ultimi anni del Novecento, sostanzialmente in agenzie di promozione, la cui ragione d’essere è la mediazione fra gli autori (del tutto indipendenti dal punto di vista produttivo) e le istituzioni musicali eventualmente interessate a inserirne le opere nella propria programmazione.