L’economia
Tra Otto e Novecento, lo spostamento del baricentro produttivo di Venezia dal bacino di S. Marco all’estremità del canale della Giudecca diede avvio ad «un nuovo ciclo per l’economia veneziana, che chiudeva la fase della lunga stagnazione ottocentesca e inaugurava una prospettiva di relativa rinascita commerciale e industriale»(1). La realizzazione di un grande bacino delimitato da due moli collegati alla ferrovia attraverso un ponte sul Canal Grande concretizzò il nuovo dislocamento della portualità veneziana verso la parte occidentale della città che — sulla linea «del processo virtualmente aperto in periodo napoleonico con l’istituzione del porto franco, proseguito e sanzionato in periodo austriaco con la franchigia generale e la costruzione del ponte ferroviario e ulteriormente sviluppato in periodo italiano con la realizzazione della Stazione marittima»(2) — si sarebbe completato qualche decennio dopo con la creazione di Porto Marghera.
La Stazione marittima(3), progettata per risolvere il cruciale rapporto del trasporto della merce nave-treno senza «rottura di carico» e realizzata nel 1880, divenne il fulcro del ripensamento generale sull’utilizzazione del bacino portuale veneziano. Per incentivare il traffico del porto furono realizzate strutture ausiliarie servite da una serie di raccordi ferroviari che percorrevano il nuovo ponte in ferro sul canale Scomenzera. Da questo forte nucleo portuale nuove attrezzature si svilupparono verso est, in direzione della città. Nel 1892 sorse il puntofranco a S. Basilio e nel ’96 furono edificati i Magazzini generali a S. Marta. Nel frattempo grosse concentrazioni produttive si installarono in direzione nord, a Cannaregio, e verso sud, oltre il canale della Giudecca. Gli interventi e gli ampliamenti che si susseguirono sul finire del secolo risposero alla sempre più pressante esigenza di strutturare il porto su basi ‘moderne’, cioè su un adeguato sistema di banchine percorse da binari in modo che dalle navi si potessero scaricare a terra o sui carri ferroviari le merci e viceversa, razionalizzando il sistema dei collegamenti porto-ferrovia(4).
Con la caduta della Repubblica e con le trasformazioni dell’apparato produttivo urbano, il porto aveva perduto il carattere di ‘porto emporio’ di merci ricche, che sostavano in deposito e venivano contrattate dando luogo a cospicui movimenti e operazioni finanziarie con i relativi margini di profitto. La prospettiva entro cui da tempo ci si muoveva era quella del potenziamento delle funzioni dello scalo veneziano come ‘porto di transito’ delle merci in arrivo e in partenza, soprattutto di merci povere e di massa: carboni, concimi, materie prime, con pochi interventi e margini molto limitati di profitto(5). I dati erano inequivocabili: se nel giro di un ventennio, tra gli anni Ottanta e la fine del secolo, il movimento mercantile di Venezia era quasi triplicato (tab. 1 e graf. 1), a tale aumento non aveva corrisposto un pari incremento in termini di valore. Il carbon fossile che nel 1880 rappresentava il 30% delle merci sbarcate era salito nel 1900 al 60%. In più, lo sviluppo del traffico portuario era quasi del tutto assorbito dalle merci sbarcate, evidenziando il tipico tratto dei grandi porti italiani, e cioè il forte squilibrio tra importazioni ed esportazioni. Le prime, infatti, superavano di ben dieci volte le seconde(6).
Lo sviluppo del traffico marittimo commerciale e l’evoluzione dei mezzi navali di trasporto, con il sempre più intenso utilizzo della navigazione a vapore, avevano richiesto un continuo adeguamento dell’accesso al porto e delle sue attrezzature. Tra il 1886 e il 1892, dopo aver sistemato la bocca di Malamocco, si era proceduto al graduale riattamento degli ingressi lagunari di S. Nicolò del Lido, che distavano solo 5 km dalla città e ne costituivano il naturale accesso dal mare. Nel frattempo gli assidui interventi effettuati nella Stazione marittima e nelle zone attigue sul canale della Giudecca avevano esteso la superficie complessiva del porto a 49 ettari, di cui 34 di terrapieni e 15 di specchi d’acqua navigabili. Al tornante del secolo, per il servizio diretto e sussidiario delle attività portuali si disponeva di 32,77 km di canali principali di grande navigazione, di 137 km di canali secondari di collegamento interlagunare e di vie di penetrazione fluviale.
Le vie ferroviarie, inoltre, attraverso il ponte translagunare collegavano il porto di Venezia con la stazione di Mestre da cui si diramavano le linee per Portogruaro in direzione Trieste, per Udine in direzione Vienna, per Treviso verso Belluno, per Padova verso Bologna, Verona-Milano e Verona-Trento. La disponibilità di vaste aree per edifici industriali e magazzini, l’aumento delle merci sbarcate, l’integrazione del servizio marittimo con quello ferroviario determinarono un sempre più forte spostamento dell’attività portuale verso la Marittima, cosicché all’inizio del Novecento il 90% del traffico si svolgeva ormai a S. Marta(7). Peculiarità di Venezia fra i porti italiani era l’affidamento dell’amministrazione del porto alle Ferrovie dello Stato, la cui gestione fortemente accentratrice, finché venne mantenuta, non mancò di procurare disagi.
Sugli sviluppi del graduale collegamento nave-treno, la Stazione marittima funzionò «da volano di una ripresa economica che agì in qualche modo da contrappeso al preponderante ruolo di transito assegnato al porto lagunare»(8), determinando il profilo della nuova Venezia industriale (tab. 2). Inizialmente, dunque, questa non nacque dalle esigenze del suo territorio, quanto dalla costruzione della Stazione marittima, dal trasferimento a Venezia di numerose attività dalla terraferma e dall’apporto di capitali ed imprenditorialità esterni. Il porto, peraltro, come si vedrà più oltre, avrebbe mantenuto il divario strutturale tra il traffico in entrata e in uscita non solo in termini di volumi, ma anche di valore.
Emblemi di questo essor industriale erano, a cavallo del secolo, i grandi stabilimenti del Cotonificio Veneziano e del Mulino Stucky. Il Cotonificio Veneziano era sorto nel 1882, conglobando anche gli stabilimenti di Torre e Rorai di Pordenone, grazie all’apporto del capitale lombardo e, in particolare, di Eugenio Cantoni, figura-chiave anche per i rapporti con l’altro storico polo dell’industrializzazione veneta, quello tessile altovicentino.
Il Cotonificio venne eretto sull’area delle antiche arzere di S. Marta lungo il canale della Giudecca, con l’intento di appropriarsi di un’area più vasta rispetto a quella di immediato interesse produttivo per poi poterne rivendere una parte. Si trattava di un’industria di rilevanti proporzioni, che, superato un momento critico sul finire del secolo, all’inizio del Novecento era passata dai 25.000 fusi iniziali a 40.000 (altri 35.000 erano attivi nella sede di Pordenone dove erano pure dislocati 560 telai di tessitura e uno stabilimento di tintoria e candeggio). Il Cotonificio occupava 400 operai maschi e 700 femmine (oltre ai 1.500 di Pordenone) e produceva annualmente 30.000 quintali di filati(9).
L’imprenditore svizzero Giovanni Stucky si era trasferito da Treviso a Venezia, dove, sulla base delle previsioni di sviluppo del mercato delle granaglie, aveva eretto uno stabilimento molitorio all’estremità occidentale della Giudecca sull’area dell’ex convento di S. Biagio. Dopo aver utilizzato al massimo gli stabilimenti esistenti, Stucky — spinto dalla necessità di ospitare grandi macchinari e di immagazzinare notevoli quantità di materie prime e di prodotto finito — propose (e impose ai recalcitranti componenti della commissione all’ornato del Comune, minacciando il licenziamento dei 187 dipendenti) il modello dei grandi mulini da grano tedeschi all’avanguardia nel settore. L’imponente edificio neogotico, progettato da Ernst Wullekopf di Hannover, costituì un riferimento stilistico per altri insediamenti industriali realizzati negli anni successivi, come la birreria sorta nel 1902 e la fabbrica di tessuti stampati Fortuny, eretta nel 1919. Nel 1901 lo stabilimento era dotato di due motrici a vapore che davano movimento a 60 laminatoi, 57 buratti piani, 40 pulitrici di semolino, 40 macchine per pulire il grano e ad altre attrezzature accessorie. Vi lavoravano 188 uomini e 6 donne. Agli sviluppi dei primi anni del secolo, che compresero un mulino autonomo per il granoturco e un nuovo pastificio, seguirono tra il 1920 e il 1925 ulteriori ampliamenti e ristrutturazioni benché, dopo la morte di Giovanni Stucky, la produzione avesse subito un calo del 40%.
In questo periodo la localizzazione delle industrie veneziane era determinata principalmente da due fattori: la vicinanza alla Stazione marittima (come avvenne nel caso della Società veneta di navigazione a vapore) e la disponibilità di ampi spazi. L’industria attestatasi a cavallo del canale della Giudecca occupò aree libere e terreni ricavati mediante l’imbonimento di sacche e barene e la demolizione di antiche pre;esistenze, trasformando il bordo nordoccidentale della città e gran parte dell’isola. Il fenomeno non era nuovo. Fin dall’inizio del XIX secolo, infatti, la disponibilità di terreni incolti e di grandi edifici aveva favorito la localizzazione di numerosi opifici alla Giudecca: mulini, birrerie, concerie, corderie, tessiture, cantieri navali, cementifici, orologerie, ecc. sorsero in un tessuto urbano caratterizzato dalla presenza di importanti architetture e notevoli porzioni di verde determinando una differenziazione fra il fronte prospiciente la città e quello lagunare opposto.
Tra Otto e Novecento, il processo di sviluppo industriale venne contrassegnato da velocissimi ritmi di trasformazione(10). Mentre antiche attività scomparivano o si evolvevano, altre ne sorsero influendo sul profilo urbano mediante il diversificarsi delle tradizionali vocazioni di parti importanti della città. Le trasformazioni interessarono anche Murano e l’Arsenale, che per secoli avevano caratterizzato il sistema economico e produttivo dell’ex capitale. Il distretto del vetro di Murano accolse via via nuove lavorazioni, innovazioni tecnologiche e moderne strutture produttive modificando gli originari modelli tecnico-produttivi e insediativi. Nuovi impianti industriali accentrarono fasi di produzione tradizionalmente separate: quella della fabbricazione della canna di vetro e degli smalti per conterie, che si svolgeva prevalentemente a Murano, e quella della riduzione in perle, che si svolgeva per la maggior parte a Venezia. Nel primo Novecento il settore era rappresentato da 19 fabbriche, che nell’insieme occupavano circa 1.500 addetti. Spiccavano la Società veneziana per l’industria delle conterie e la Vetreria e cristalleria veneziana del barone Franchetti. La prima esportava le ‘perle’ in ogni parte del mondo, specie in Africa. Dava lavoro a un migliaio di operai (750 uomini e 250 donne) che producevano 45.000 quintali annui di merce. La ditta del barone Franchetti, sorta nel 1872 per la produzione di cristalleria da tavola, occupava 357 operai maschi e 66 femmine. Il valore annuo della produzione, esitata sul mercato nazionale, era di 800.000 lire.
Nelle isole, consistenti opportunità occupazionali continuava a offrire anche la tradizionale industria dei merletti sparsa tra Venezia, Burano e Pellestrina. Nel solo territorio comunale di quest’ultima vi erano addette circa 2.500 operaie. 450 donne lavoravano per la Scuola merletti di Burano (società anonima cooperativa), sorta nel 1872, e altre 300 per la società Melville & Ziffer, nata nel 1893. Dal 1879 operava inoltre la Michelangelo Jesurum & C.
Il complesso dell’Arsenale, pur avendo subito difficoltà nel periodo austriaco, rimaneva la maggiore struttura produttiva veneziana, in costante adattamento alle esigenze, civili e militari, della Marina e della navigazione. Con l’annessione aveva riguadagnato terreno, beneficiando di commesse governative per costruzioni navali e riparazioni. Sul finire dell’Ottocento era stato diviso in una prima sezione marittima, che occupava circa 2.300 operai, e in una seconda per l’artiglieria e gli armamenti, con altri 700 addetti. Disponeva di 19 motori a vapore della forza complessiva di 900 cavalli che davano movimento a 655 macchine. L’Arsenale generava al suo intorno diverse attività collaterali: fonderie, corderie, piccoli cantieri. Anche alla Giudecca operavano cantieri specializzati nella manutenzione e riparazione di navi e barche di piccola portata come quelli della Savinem. Alle costruzioni navali in ferro attendevano anche le ditte F. Layet e Vianello-Moro-Sartori & C. Quasi tutti i vaporini che transitavano per il Canal Grande erano fabbricati in quest’ultimo stabilimento, mentre galleggianti, imbarcazioni in ferro e vapore per la Regia Marina e per i privati provenivano dalla Layet. Tipicamente locale era l’industria dei sandoli e delle gondole, fabbricati da due ditte con una ventina di operai, i cui prodotti erano venduti anche a Vienna, Londra e Chicago.
Agli sviluppi delle attività di antico impianto, come quelle legate alla cantieristica, al vetro e ai merletti, si erano affiancati nel corso del tempo insediamenti industriali di natura diversa, come le numerose industrie metallurgiche che producevano ponti, motori idraulici, pompe per l’irrigazione, trebbiatrici, piccole imbarcazioni in ferro, macchine nautiche, rimorchiatori, caldaie a vapore, ecc. Le fonderie veneziane si potevano suddividere in due categorie: quelle industriali che si dedicavano alla fusione di parti di macchine e oggetti d’uso industriale o comune e quelle artistiche. Tra le prime figuravano la fabbrica E.G. Neville & C. ai Frari, ampliata nel 1890 e poi rilevata dalla Savinem e nel 1905 trasferita alla Giudecca; nonché il cantiere e l’officina della Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche, attivi a S. Elena tra il 1887 e il 1905, e lo stabilimento F. Layet a Castello. La Neville si era affermata come una delle più importanti fabbriche italiane di macchine a vapore (già nel 1887 aveva oltre 400 operai). Costruiva anche caldaie, impianti meccanici, idrovore, ecc. La ditta Vianello-Moro-Sartori & C., sorta nel 1868, all’aprirsi del secolo occupava 130 operai e produceva annualmente circa 500 tonnellate di materiali vari venduti in Italia e all’estero. Federico Layet aveva iniziato l’attività nel 1866. Dotato di motrici a vapore e di numerosi macchinari, lo stabilimento produceva meccaniche d’ogni tipo, impianti industriali, ponti, tettoie, turbine, macchine a vapore per oltre 500 tonnellate all’anno più 300 per il cantiere.
Gli importanti sviluppi di questo settore in ambito veneziano erano attestati anche dalla costruzione nell’area dell’ex orto botanico di uno stabilimento per la costruzione di siluri, in base ad una convenzione tra la società tedesca Berliner Maschinenbahn Action Gesellschaft von L. Schwartzkopff e il Ministero della Marina; dalla presenza a S. Elena di un’officina della Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche di Vincenzo Stefano Breda; dallo stabilimento, alla Marittima, della Società italo-americana per il petrolio destinata a produrre stagnoni (cassette di latta) per lo smercio del petrolio da illuminazione e dalla fabbrica di orologi Junghans alla Giudecca, che produceva ogni anno circa 5.000 orologi con casse in legno e 50.000 con casse in metallo. Occupava 112 operai (60 maschi e 52 femmine).
Altre nuove industrie si erano via via introdotte nel tessuto produttivo urbano, dal cementificio costruito dalla Società anonima calci e cementi di Casale (1903) alle industrie dell’elettricità e del gas. L’officina della Lionese a Venezia aveva alle dipendenze 179 operai. Nel 1909 venne conclusa la costruzione del gasometro a S. Marta, anno in cui il servizio venne municipalizzato. La prima società elettrica ad insediarsi a Venezia era stata, nel 1890, la Società di illuminazione elettrica di Venezia, che dava lavoro a 60 dipendenti. La Società per le strade ferrate meridionali-Rete adriatica aveva un’importante officina alla Stazione marittima, dove lavoravano 61 operai. E nel giugno del 1900 venne fondata la prima industria veneziana del settore idroelettrico, la Società italiana per l’utilizzazione delle forze idrauliche del Veneto, denominata, dalla localizzazione del primo impianto, Cellina. Nel 1904 incorporò la Società di illuminazione elettrica legata alla Edison. Intanto la municipalizzazione del servizio dei vaporetti, entrata in vigore nel 1905, diede vita all’Azienda comunale per la navigazione interna, mentre la Società veneta di navigazione a vapore lagunare, operante dal 1873, avrebbe continuato a gestire le linee lagunari ed esterne fino al 1929.
Altre attività erano presenti nel settore alimentare (le Fabbriche riunite di glucosio, destrina ed affini, la ditta Passuanello e C., le ditte Traldi, Tomhas, Gorin, Dizier-Pianetti, Carnieli, Tomich, Massaro, la fabbrica di liquori Giacomuzzi e la fabbrica di confetture Ernesto Guadagnini, i cui prodotti venivano commerciati in tutta Italia), nelle cererie (le ditte Gavazzi, Pasqualin-Regini, Ivancich, Bussolin e varie altre) e fabbriche di saponi, nel pelli-cuoio (dove si distingueva la ditta Giacomo Pivato che conciava 8.000 pelli all’anno e dava lavoro a 40 operai) e specialmente nei tabacchi, dove la Manifattura Tabacchi, che già nel 1887 occupava 1.741 operai, si era affermata come una delle maggiori industrie veneziane sia per fatturato che per il personale impiegato. Erano inoltre attive fabbriche di pece, catrami e cementi (ditte Purisiol, Remy e altre), fabbricazioni di mobili, mobili artistici, decorazioni e sculture, numerose tipografie. Nella produzione di zolfanelli lo stabilimento L. Baschiera e C., aperto nel 1875, nel primo Novecento, all’epoca della fusione con la società Saffa, superò i 1.000 dipendenti. Altre attività produttive (tra queste, una fornace, la fabbrica di conterie vetri e mosaici Becher, la fabbrica per la macinazione dello zolfo della ditta Olverà, la fabbrica di pelli e cuoio Zonca, la fonderia-officina meccanica Tis, la fabbrica di amido Vianello-Giacoletti, ecc.) e depositi di legnami si erano attestati verso nord a Cannaregio, oltre la stazione ferroviaria, attirati dalla particolare disposizione della trama urbanistica formata da lotti lunghi e stretti serviti da ambo i lati da canali e fondamenta.
Tra Otto e Novecento Venezia rilanciò dunque le sue funzioni industriali potendo contare sulla disponibilità di vaste aree distribuite in un contesto segnato per secoli da una forte commistione di attività artigianali e produttive in perfetta sintonia con la struttura urbanistica ed edilizia. Numerosi insediamenti industriali furono il risultato di un lungo processo di modernizzazione delle manifatture tradizionali e dell’inserimento di nuove attività che si era sviluppato nel corso del XIX secolo con la graduale crescita di un tessuto di piccole aziende uniformemente distribuite nella città: fonderie, cererie, concerie, ferriere, fabbriche di conterie, vetrerie e mosaici, tessiture e piccoli cantieri. Spesso queste attività si insediarono in edifici non necessariamente destinati alla produzione: un mulino a vapore nella chiesa di S. Girolamo, un magazzino tabacchi nella chiesa di S. Marta, una tipografia a palazzo Lezze, una fabbrica di perle a Ca’ Bembo e così via.
Gli insediamenti industriali si concentrarono soprattutto in prossimità del nuovo centro marittimo/ferroviario, nelle aree occidentali della Giudecca e nell’isola di Sacca Fisola, a Dorsoduro e Cannaregio; e inoltre a Castello, nella zona circostante l’Arsenale, tra S. Pietro e S. Elena, dove v’erano ancora superfici non edificate; infine a Murano, lungo i margini meridionali dell’isola, grazie anche al riuso di edifici spesso di notevole pregio storico-artistico. Ciminiere, gru, coperture di ferro e vetro, edifici rosseggianti di mattoni, scali e banchine, con il flusso di navi, chiatte, vagoni ferroviari, merci e operai, segnavano un paesaggio tipicamente industriale.
Portando a compimento un processo secolare anche il bordo lagunare di Cannaregio finì per mutare volto e funzione. Da luogo di piccola residenza qualificata, ricco di ampi giardini e dotato di antiche presenze architettoniche, divenne sede di attività commerciali, artigianali e di edilizia popolare, dotata di fondamenta e dei necessari attracchi per i natanti. Le nuove attività spesso si inserivano in opifici preesistenti. In un’antica cereria si trovava un mulino per la macinazione dei grani, con un alto silo prospiciente il rio della Crea, mentre una fabbrica di scarpe si era insediata in uno stabilimento compreso tra fondamenta S. Giobbe e il rio della Crea, dove in precedenza si effettuava la tiratura delle canne da vetro.
Più che sui caratteri peculiari dell’ambiente lagunare, questi insediamenti di varia natura e importanza vennero a incidere notevolmente sul profilo urbano dell’ex capitale sia per la creazione di nuovi poli direzionali della vita economica cittadina, sia perché modificarono i flussi di abitabilità, incentivarono nuove attività commerciali e sociali, imposero una ristrutturazione funzionale della viabilità e dei servizi. Tali modifiche andarono di pari passo con quelle determinate dal potenziamento di una serie di attrezzature e servizi caratterizzati da tecnologie e supporti energetici di derivazione industriale (stazioni, acquedotti, officine per la distribuzione del gas, ecc.). Per realizzare queste infrastrutture si era reso necessario procedere all’interramento di tratti lagunari, alla chiusura di canali, alla demolizione di edifici religiosi e all’occupazione di orti e giardini. E i ritmi di intervento si erano intensificati a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento con l’apertura della Strada Nuova, la formazione di un centro economico-amministrativo fra Rialto e S. Marco, il rafforzamento della pedonalizzazione con l’interramento di rii e canali, la costruzione di nuovi ponti, la riorganizzazione dei percorsi acquei e così via.
Come s’è visto, l’apertura della Stazione marittima, con lo spostamento delle attività portuali, aveva determinato una «rotazione dell’asse economico e sociale della città». Benché il baricentro gravitazionale della ‘città degli affari’ fosse rimasto a S. Marco, s’era verificato un travaso di popolazione e di attività dai sestieri di Castello e di Cannaregio verso quelli di Dorsoduro e S. Croce. Tra il 1881 e il 1901 questi sestieri videro un incremento di popolazione a un tasso quasi doppio rispetto a quello dell’intero centro storico. Questi movimenti di popolazione riflettevano la crescita degli addetti alle attività portuali, passati da 1.243 nel 1881 a 1.541 nel 1901. L’insieme degli occupati nelle attività marittimo-portuali si attestava intorno al 20% della popolazione attiva.
Caratteristica del comune di Venezia era la ridottissima percentuale di addetti alle attività primarie. Tra queste primeggiava naturalmente la pesca, mentre l’agricoltura era confinata alle aree periferiche della laguna e della terraferma. Assai marcata risultava l’alterità del capoluogo veneziano rispetto alle caratteristiche della provincia: già negli anni Ottanta dell’Ottocento la popolazione attiva del primo era impegnata per il 43,1% in attività industriali, mentre nella provincia presa nel suo insieme questa percentuale scendeva al 26,5% e, tolta Venezia, al 16,9%. Nel settore delle costruzioni navali erano impiegati 1.036 addetti contro i 723 del tessile. Venezia tendeva a concentrare fin da allora il chimico, che con i 609 occupati in città copriva l’86,6% degli attivi di tutto il ramo provinciale. La stessa tendenza alla concentrazione nel capoluogo lagunare (65% degli addetti) si manifestava nelle attività commerciali e creditizie. Nel 1901 non si registrarono mutamenti sostanziali rispetto a questo quadro, bensì un’accentuazione degli occupati sia nell’industria (45% sul totale) che nel commercio.
Gli spazi per un’ulteriore espansione industriale si andavano tuttavia riducendo. Un’indagine del 1904 diede disponibili nei cinque sestieri centrali non più di 10 ettari — 26 a S. Elena, 16 alla Giudecca e 5 a Murano(11) — per i quali erano prioritariamente ipotizzabili destinazioni abitative. La scelta di un modello di crescita subordinato ai vincoli imposti da una configurazione sociale e ambientale assolutamente peculiare(12) come quella di Venezia appariva già esclusa dalle dinamiche in atto. Vecchie e nuove industrie tendevano a insediarsi nelle vicinanze degli snodi ferroviari e, nel caso delle industrie di base che abbisognavano di materie prime importate via mare, in prossimità dei grandi scali marittimi. Tutta la parte della città insulare protesa verso la terraferma aveva ormai cambiato funzioni e aspetto, assumendo l’immagine di «una vera e propria periferia portuale e produttiva». La sorte di «Venezia città industriale», quale appariva all’esordio del Novecento, era legata al crescente irrobustirsi di potenti coalizioni di interessi volti a un modello di crescita economica orientato all’industria di base e a scelte strategiche sulle grandi infrastrutture portuali che avrebbero di lì a breve portato all’insediamento, sulla vicina terraferma, del nuovo polo industriale di Porto Marghera.
A vent’anni dalla sua attivazione, la Marittima era già insufficiente a fronteggiare la crescita del traffico portuale. Sulle possibili modalità dell’ulteriore espansione del porto si sviluppò un ampio e aspro dibattito che è stato oggetto di numerosi studi e di analitiche ricostruzioni. Vi parteciparono forze politiche, imprenditoriali, commissioni tecniche, studiosi e semplici cittadini, che, al di là della varietà di progetti avanzati, finirono per polarizzarsi nello scontro tra i sostenitori di una soluzione «neo-insulare», mirante a mantenere il porto e le attività industriali a Venezia, e di una soluzione che invece guardava alla gronda lagunare come direttrice di espansione più idonea alla creazione di un vero e proprio «porto industriale»(13) e ai suoi successivi ampliamenti. Sul rapporto tra le forze in gioco (Camera di commercio, ceti commerciali e piccola borghesia da un lato, gruppi industriali e finanziari dall’altro) influì il crescente peso di una nuova imprenditorialità industriale emersa grazie al ruolo decisivo — non solo in termini di propulsione e di finanziamento, ma anche di coordinamento e di orientamento dello sviluppo — assunto dalla banca mista e in particolare dalla Banca Commerciale Italiana, non ultima nel sostegno all’espansione imperialistica italiana verso l’area balcanica in cui si distinsero alcuni protagonisti dell’ambiente economico veneziano (oltre a Foscari e Volpi, Revedin, Papadopoli, Braida, Paganini, Toeplitz)(14). Frutto e simbolo di questa inversione di tendenza, che avrebbe condotto all’«invenzione» di una «nuova Venezia», fu, in particolare, la nascita della S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità).
Un momento di svolta nel dibattito fu segnato dall’articolo pubblicato sull’influente «Gazzetta di Venezia» il 3 agosto 1902 dal capitano marittimo Luciano Petit, il quale propose di abbandonare i progetti di ampliamento della Stazione marittima per creare un bacino di scarico delle merci povere e ingombranti in terraferma, a S. Giuliano, localizzazione poi sostituita con l’indicazione dei Bottenighi in una successiva conferenza all’Ateneo Veneto. Nonostante le diffuse ostilità politiche, commerciali e tecniche all’idea del nuovo scalo in terraferma, essa finì con il prevalere nei fatti poiché andava «a sciogliere la contraddizione che si sviluppava in termini sempre più acuti tra localizzazione in centro storico e funzioni di transito a servizio del retroterra veneto e padano in genere»(15).
Fu così che, mentre si ipotizzava il completamento del molo di Ponente alla Marittima, si incominciò a delineare la possibilità di un ampliamento del porto al margine della terraferma, al fine di poter disporre di maggiori raccordi ferroviari con la stazione di Mestre. La legge 14 luglio 1907 per nuove opere marittime, da un lato stabilì l’ampliamento della Stazione marittima con il completamento del molo di Ponente e l’apertura di un nuovo bacino sul suo lato occidentale, dall’altro fece propria la richiesta dei sostenitori del porto in terraferma prevedendo lo scavo di un canale di accesso e di un bacino ‘sussidiario’ alla Marittima localizzato ai Bottenighi, dove si sarebbero dovute concentrare le merci povere in transito (specialmente carbone). I lavori, iniziati nel 1909, avanzarono per lotti successivi con lo scavo del bacino d’approdo e con l’allargamento del terrapieno a ovest del molo di Ponente, indi con l’apertura di un nuovo canale parallelo al ponte ferroviario e la realizzazione di un bacino ai Bottenighi, che penetrò nelle barene e si attestò all’altezza del Forte Marghera. Nel contempo, le Ferrovie dello Stato provvedevano ad allargare gli ultimi 500 metri del ponte sulla laguna verso Venezia, aggiungevano due binari sul tratto compreso tra la stazione di Mestre e la testata del ponte e avviavano i lavori per la stazione di smistamento a Mestre che avrebbe enormemente facilitato l’inoltro delle merci dalla Stazione marittima alla terraferma. Allo stesso fine avrebbe dovuto concorrere la realizzazione dell’idrovia Venezia-Milano, per la quale, alla vigilia della guerra mondiale, erano quasi conclusi i lavori del canale da Brondolo al Po(16).
Secondo l’ufficio del Genio civile di Venezia, che elaborò il progetto del 1907, l’insieme degli interventi «senza arrecare il benché minimo pregiudizio nei riguardi lagunari, avrebbe fornito il mezzo di provvedere ai più lontani bisogni del crescente traffico e al più vasto sviluppo delle industrie locali […], avrebbe insieme offerto il modo di dare completa soluzione anche al problema ferroviario, sollevando il porto da tutto il movimento delle merci povere in transito, rappresentanti i 2/3 circa dell’intero movimento portuale, e quindi aumentandone enormemente la potenzialità, così nei riguardi del movimento viaggiatori, come in quello delle merci ricche, cui sarebbe stata pressoché esclusivamente adibita la Stazione Marittima»(17). A tal fine si immaginava anche di poter realizzare rapidamente una funicolare aerea per il trasporto delle merci povere alla rinfusa dal porto di Venezia alla stazione di Mestre come si era fatto a Genova e a Savona. Nonostante la scarsa efficacia pratica fino al dopoguerra e nonostante la diffusa convinzione che la soluzione di Marghera dovesse rimanere complementare e subordinata alle strutture cittadine esistenti(18), i lavori per lo scavo del canale (28 m di larghezza e 4,5 di profondità) e per la realizzazione della darsena, realizzati dal 1909 al 1916, segnarono l’irreversibilità del processo di espansione portuale-industriale in terraferma(19).
Neppure l’ampio e documentato studio tecnico degli ingegneri Alzona, Coen Cagli, Fantoli e Tajani, pubblicato nel 1915, metteva in antitesi questa espansione con l’ulteriore sviluppo della Marittima. Lo studio sintetizzava le complesse questioni esaminate in questi termini: «Il disagio che accusa da tempo il traffico affluente al porto di Venezia è noto nelle sue cause e nelle sue caratteristiche e si può riassumere in poche righe: gli impianti sono insufficienti di fronte all’entità del traffico»(20), anche solo considerando i quasi 3 milioni di tonnellate raggiunte nel 1912 (se ne prevedeva una crescita a 4 milioni e mezzo) (tabb. 3a-3b e graf. 2). L’approfondita relazione è stata vista da Chinello non come «la base per l’affare di Porto Marghera»(21), ossia del successivo progetto del nuovo porto redatto da Coen Cagli, bensì come «riscontro generale rispetto alle decisioni — e alle polemiche — che maturano e si risolvono nella scelta del 1917»(22), insomma come «una soluzione solo parziale che avrebbe comunque lasciata impregiudicata l’attività della Marittima»(23).
Le proposte della commissione, infatti, erano tutte orientate alla soluzione dei problemi portuali e lasciavano ai margini i progetti di accoppiamento con un consistente sviluppo dell’attività industriale che, invece, sarebbero divenuti preminenti nell’attuazione dei piani di Giuseppe Volpi. Con questi, ben altro spessore e dimensione avrebbero inevitabilmente assunto sia le questioni inerenti il rapporto tra la formazione di una grande industria di base e le attività produttive di antica localizzazione, sia quelle concernenti il rapporto con il diversificato entroterra veneziano ancora per la maggior parte rurale e a scarsa vocazione urbana nonostante alcuni insediamenti industriali anche significativi lungo il canal Salso (Magazzini generali, Società carbonifera, fornace Da Re), la linea ferroviaria per Padova e la riviera del Brenta(24). Insomma, sembrerebbe potersi concludere che il fenomeno Marghera nasce «dall’accaparramento di un’idea di sviluppo portuale, e dalla sua abile trasformazione in un disegno di dimensione nazionale di sfruttamento industriale»(25).
In questo senso — come ha sottolineato Dorigo — Volpi incorporò nei suoi piani, trasformò e diede impulso decisivo a idee, proposte, progetti già da tempo sul tappeto. Il sodalizio Foscari-Volpi, poi allargatosi nella S.A.D.E., portò alla grande scala territoriale, industriale e finanziaria un progetto «che, al di fuori degli strumenti urbanistici messi o no in atto» venne «man mano pensato, preparato, sostenuto e portato avanti […] in netto contrasto con i ceti commerciali e con la tradizione»(26). A partire dal 1903 vi concorsero anche le iniziative e sperimentazioni condotte col Sindacato di studi italo-montenegrino oltre a quelle attuate nel campo della nascente industria elettrica. Il capitolo S.A.D.E. fu comunque determinante giacché sul piano industriale, finanziario e organizzativo si era creata una struttura sovradimensionata rispetto alle capacità di assorbimento energetico della regione. Una domanda adeguata non poteva certo venire dal tessuto industriale leggero e diffuso che caratterizzava lo sviluppo industriale del Veneto. Occorreva dunque dar vita a una forte concentrazione di industrie di base: «come non si potrebbe concepire l’esistenza e lo sviluppo del Porto Industriale di Venezia senza l’imponente contributo di energia elettrica fornita dal gruppo alle industrie ivi installate [rimarcava la stessa S.A.D.E. in una pubblicazione aziendale(27)], così per contro lo stesso Porto Industriale rappresenta uno dei più importanti centri di utilizzazione dell’energia elettrica prodotta, ed anzi quello che in prosieguo di tempo dà i maggiori affidamenti per un rapido ed importantissimo incremento di consumo».
L’atto di nascita di Porto Marghera data al febbraio 1917, in pieno periodo bellico, e alla costituzione da parte di Volpi del Sindacato di studi per imprese elettro-metallurgiche e navali del Porto di Venezia, che commissionò all’ingegner Enrico Coen Cagli — nel 1904 segretario della commissione ministeriale per lo studio del piano regolatore dei principali porti del Regno che aveva approvato lo scavo del canale per i Bottenighi — lo studio del progetto per lo sviluppo del porto in terraferma con la previsione della zona industriale e del quartiere urbano. Al Sindacato concorreva un folto gruppo di imprese: elettriche, come la S.A.D.E. e la Cellina; ferroviarie e marittime, come la Società veneta di navigazione a vapore e la Società veneta per costruzione ed esercizio di ferrovie secondarie; siderurgiche, come la Franco Tosi; meccaniche, come le Officine meccaniche di Battaglia e la Savinem; di costruzioni, come la Edoardo Almagià. Vi contribuivano anche privati come Nicolò Papadopoli Aldobrandrini e l’ingegner Giancarlo Stucky, titolare dell’industria molitoria veneziana, ma anche a capo di una società produttrice di materiali elettrici, la Pilla Pilla, e consigliere di amministrazione di alcune società partecipanti al Sindacato, del Credito Italiano e della Società italiana di costruzioni. Obiettivo della potente coalizione di interessi e di capitali comprendente settori meccanici, elettrici, cantieristici, chimici e siderurgici, «oltre a quello di imporre allo stato la creazione di un moderno porto industriale-commerciale in laguna, era quello di costruirvi a ridosso una vasta area industriale per attirarvi le più svariate imprese, delle quali i partecipanti al Sindacato potessero essere contemporaneamente fornitori e clienti»(28).
Il progetto saldava organicamente gli interventi sul porto, sulla zona industriale e la creazione di un quartiere urbano a Marghera di circa 25.000 abitanti per accogliere la popolazione rurale coinvolta nel processo di industrializzazione(29). L’area interessata apparteneva amministrativamente in larga parte al comune di Mestre e per una piccola frazione di territorio al comune di Mira. Si ponevano dunque le premesse per la successiva formazione della «grande Venezia». Per quanto concerne le infrastrutture, moli e banchine attrezzate avrebbero consentito alle navi-cisterna e ai cargo di giungere fin sotto gli stabilimenti in cui si sarebbero lavorate le materie prime d’importazione e i prodotti di esportazione. Un grande canale navigabile doveva connettere il nuovo porto e la città, mentre raccordi ferroviari e fluviali li avrebbero collegati con il retroterra regionale e padano. Il massiccio fabbisogno di energia elettrica sarebbe stato naturalmente assicurato dalle società di Volpi che sfruttavano le risorse idriche del Veneto settentrionale e da una grande centrale termoelettrica a Fusina, vicino alla zona portuale.
Nel giugno del 1917, con gran parte dei soci del Sindacato, si costituì la Società porto industriale di Venezia, cui Volpi, con un complesso gioco di mediazioni e di intrecci politico-imprenditoriali(30), assicurò il totale appoggio governativo, «concretando un’operazione che era al tempo stesso di appalto, concessione e delega di poteri, con una spettacolare — e discutibile — commistione di interessi privati e pubblici»(31). La convenzione con il governo attribuì alla società la costruzione delle opere che comprendevano il completamento e l’approfondimento del canale di grande navigazione tra Giudecca e Bottenighi; lo scavo di un canale industriale prospiciente le banchine e di una darsena da annettere al cantiere navale; l’apertura di un bacino commerciale per lo scarico di merci povere; la costruzione della parte settentrionale del Molo A; la realizzazione delle strade di accesso e dei raccordi con la stazione di Mestre. La società ottenne inoltre, nella convenzione, il rimborso delle spese sostenute, la gestione dei servizi portuali e alcuni poteri eccezionali, tra i quali l’incarico di procedere direttamente agli espropri dei terreni e alla loro cessione alle imprese interessate.
Attraverso l’osmosi di interessi economici privati con strategie politiche generali si realizzò il prepotente inserimento del Veneto nel processo di crescita e di riorganizzazione produttiva che, sulla spinta dell’eccezionale evento bellico, l’Italia andava perseguendo nella chimica, nella siderurgia e nella grande meccanica. Tutto ciò conferì alla decisione di creare la zona industriale di Porto Marghera un significato che andava ben oltre le problematiche legate all’insufficienza della Stazione marittima, alla ricerca di un ruolo industriale per la città, ai diversi possibili modelli economici, culturali e urbanistici per lo sviluppo di Venezia(32).
L’operazione Porto Marghera prese avvio nel quadro dell’interventismo statale nella produzione industriale imposto e favorito dallo sforzo bellico. Nel 1917 Volpi creò la Società cantieri navali e acciaierie con la partecipazione delle maggiori industrie siderurgiche italiane: Terni, Ilva, Acciaierie di Piombino, Ansaldo, Officine Miani e Silvestri, Cantieri riuniti, Franco Tosi. Nella paralisi seguita alla rotta di Caporetto, vennero predisposti gli strumenti esecutivi del grandioso progetto, con la costituzione, nel 1918, della Società veneta di beni immobiliari e con il rafforzamento della Società italiana costruzioni. I lavori ebbero inizio nel 1919 e i primi stabilimenti cominciarono a insediarsi nel 1922, con le strutture portuali non ancora ultimate, ma con il canale navigabile già in funzione. «Era nato il primo grande progetto di pianificazione industriale del paese»(33), sui cui sviluppi grandi gruppi come la Montecatini e la S.A.V.A. (Società Alluminio Veneto Anonima) sarebbero stati affiancati dall’industria di Stato: l’I.R.I. (Istituto per la Ricostruzione Industriale) avrebbe detenuto importanti partecipazioni a Porto Marghera in industrie come l’Ilva, la S.A.D.E., l’Elettrometallurgia San Marco e altre ancora.
Il disegno di portata nazionale impedì di fatto che la nuova realtà industriale potesse interagire con la coeva evoluzione della struttura economica veneziana, creando una dicotomia tra Venezia «città d’arte e di cultura» e il nuovo polo industriale. Una dicotomia peraltro già prevista dai principali artefici del progetto, dal gruppo degli imprenditori capeggiati da Volpi e da Cini, intermediari tra i potenti gruppi privati e l’interventismo statale. Contestualmente alla stipula della convenzione, la parte del territorio comunale di Mestre interessata all’operazione venne annessa con apposito decreto luogotenenziale al comune di Venezia. L’annessione di Marghera fece da preludio alle successive incorporazioni, nove anni dopo, di Mestre, Favaro Veneto, Zelarino e Chirignago, vale a dire, con Malcontenta (annessa nel ’33), di tutto l’arco orientale della terraferma. Le opere furono realizzate in tempi stretti attraverso l’erogazione di imponenti finanziamenti a sostegno della realizzazione di infrastrutture portuali e industriali destinate ad avere un forte impatto sul contesto ambientale. Tra il 1922 e il 1932 gli investimenti produttivi crebbero da 22,5 a 514 milioni, 23 volte la cifra iniziale(34). Con la convenzione del 18 agosto 1926, il cui decreto di recepimento venne controfirmato dallo stesso Giuseppe Volpi in qualità di ministro delle Finanze, le condizioni accordate alla Società porto industriale di Venezia furono ancora più favorevoli, comportando l’esenzione dalle imposte di ricchezza mobile, terreni e fabbricati alla società e a tutte le industrie insediate a Marghera.
Gli anni Venti segnarono «un periodo di cesura nello sviluppo economico regionale e provinciale», evidenziando «una battuta d’arresto nello sviluppo degli elementi caratteristici che avevano guidato la crescita economica della regione». Tale cesura ebbe una particolare accentuazione proprio nell’area veneziana, che venne interessata sia da estese trasformazioni fondiarie che dalla costituzione del polo dell’industria pesante a Porto Marghera(35). Importanti elementi analitici vengono dalle rilevazioni censuarie che consentono di analizzare le dinamiche evolutive del comune, della provincia e della regione in termini non attingibili da altre fonti. Esse inducono inoltre a fissare alcune periodizzazioni. Dal censimento del 1911 a quello del 1927 (tabb. 4-5-6), ad esempio, comune, provincia e regione evidenziano caratteristiche simili sia per quanto attiene all’occupazione sia per quel che riguarda la dimensione delle imprese, mentre il quadro si modifica nel decennio successivo.
Una differenza si coglie tuttavia nel settore delle costruzioni: «gli indici di localizzazione provinciale della popolazione calcolati nei primi anni venti sui dati del ‘Bollettino del lavoro’, ci sottolineano [ha rimarcato Tattara] come, già nell’immediato dopoguerra la provincia di Venezia presentasse una specializzazione netta nell’attività edile rispetto sia alle altre province che alla media nazionale», segno dell’intensa opera di ricostruzione che era stata intrapresa e delle opere di apprestamento della nuova zona industriale(36).
Per quanto riguarda le dimensioni, mentre a livello regionale l’incremento degli occupati si registrava negli stabilimenti di dimensione estrema (meno di 5 addetti e più di 250), a Venezia emergeva con evidenza, come si vedrà meglio più oltre, l’incremento nelle classi di dimensione maggiore.
Il comune di Venezia al censimento del 1927 contava 4.411 esercizi industriali con un totale di 39.180 addetti (tab. 7).
Le attività maggiormente sviluppate erano i trasporti, le costruzioni, la meccanica, l’industria alimentare. Tra le aziende il Mulino Stucky concentrava il maggior numero di addetti di tutto il territorio comunale (1.109), mentre il settore con il maggior numero di occupati e di esercizi era quello dei trasporti e delle comunicazioni. Tra le altre industrie censite come medio-grandi si confermava rilevante la presenza della meccanica legata per lo più alle costruzioni navali e all’industria delle costruzioni, che in quel periodo era impegnata nella realizzazione delle grandi infrastrutture industriali di Porto Marghera. All’epoca del censimento, le attività maggiormente sviluppate nel comune veneziano non avevano molti altri punti di connessione con la realizzazione del polo industriale di base a Porto Marghera. Ancora limitato appariva l’apporto della siderurgia e della chimica appena all’inizio dei rispettivi insediamenti nella nuova zona industriale veneziana. Il rapporto con la città era debole anche per quanto concerne il reclutamento della manodopera, la quale, anche per scelta degli imprenditori, proveniva molto più dalla provincia che dal centro storico(37).
Importanti attività siderurgiche e chimiche presenti a Porto Marghera all’epoca non avevano ancora completato i loro impianti industriali. Per questo il censimento non ne evidenziava adeguatamente il crescente ruolo nel contesto economico veneziano(38). Resta, tuttavia, che il processo di formazione di Porto Marghera si caratterizzava più per gli insediamenti industriali che per le opere portuali, le quali vennero realizzate con molta lentezza. Il Molo A entrò in funzione solo nel 1934. Dieci anni dopo l’inizio dei lavori, dei 645 ettari di terrapieni realizzati dalla società, 70 erano concepiti per accogliere opere portuali, 23,5 erano assegnati al Porto Petroli e ben 551,5 alle attività industriali. Da una disaggregazione dei dati (Tab. 8) risulta che nel 1927, a Porto Marghera, operavano 45 esercizi industriali con un totale di 4.370 addetti. Il chimico presentava il maggior numero di insediamenti (12) e di addetti (1.820). Come numero di esercizi seguivano i settori edile (7 esercizi con 585 addetti), meccanico (6 esercizi con 270 addetti) e i trasporti (6 esercizi con 95 addetti). Come quota di addetti, invece, dopo il chimico venivano i 2 cantieri navali con 880 occupati; 4 esercizi operanti nel settore dei combustibili davano impiego a 535 persone, 2 aziende metallurgiche a 75 persone. Il quadro ancora provvisorio di Porto Marghera si completava con 2 esercizi nel settore alimentare (con 35 dipendenti), 3 nel legno (55), 1 nell’elettrico (20)(39).
La più alta concentrazione di manodopera si registrava nelle due maggiori classi dimensionali: il 55,6% degli addetti era occupato nella classe da 101 a 500 addetti e il 26,3% in quella da 501 a 1.000, mentre solo l’11,1% era dislocato nella classe inferiore a 50 e il 5,8% in quella compresa tra 51 e 100 addetti (tab. 9).
Con l’82% degli addetti occupato in stabilimenti di terza e quarta classe si stabiliva dunque subito il dominio della media-grande impresa, nonostante i settori-cardine dello sviluppo di Porto Marghera — il siderurgico, il chimico, l’elettrometallurgico — non avessero ancora raggiunto livelli tali da considerare l’area industriale di Porto Marghera come un polo già strutturato. L’industria chimica Vetrocoke presentava lo stabilimento con il più alto numero di occupati. Gli esercizi di questo settore avevano in media 151 addetti. Seguivano in ordine di importanza i cantieri navali con gli importanti insediamenti dei Cantieri navali e acciaierie di Venezia e della Breda.
Il confronto tra i due censimenti industriali del 1911 e del 1927 permette di evidenziare i mutamenti intercorsi e i rapporti tra il capoluogo e il territorio provinciale. Nel 1911, su 2.835 esercizi registrati nella provincia veneziana, 1.317 erano concentrati nel centro storico e circa il 60% della popolazione attiva lavorava a Venezia. La dimensione media delle aziende urbane, inoltre, era superiore a quella delle aziende decentrate (14,7 addetti contro 9,1). Sui 2.835 esercizi censiti nel 1911 in tutta la provincia solo 49 occupavano più di 100 addetti e di questi solo una decina era dislocata fuori dai confini cittadini. Unico stabilimento degno di nota per le dimensioni assunte era quello della Mira-Lanza insediato a Mira sulla Riviera del Brenta. Era invece nel centro storico che si dislocavano strutture industriali di notevole dimensione: dall’Arsenale, che occupava 2.200-2.500 addetti, al Cotonificio Veneziano e alla Manifattura Tabacchi con un migliaio di occupati(40).
Nel 1927 la differenziazione col retroterra era ancora più marcata. Più della metà degli esercizi industriali era distribuita sul territorio comunale e dei 39.180 addetti oltre il 72% lavorava nel comune veneziano. Rispetto al 1911 le aziende con oltre 100 addetti passarono da 49 a 80, con un rilevante incremento soprattutto per le industrie dei settori tessile, chimico e alimentare. L’apporto delle prime industrie di Porto Marghera appariva evidente anche se al momento limitato, dato che 45 opifici erano ancora in costruzione. Lo sviluppo industriale veniva inoltre ad interessare anche altre zone della provincia, soprattutto con la chimica e col tessile-abbigliamento. Nel primo settore si collocava, come in precedenza, la Mira-Lanza (saponeria e candele) con un migliaio di addetti; nel secondo, il cotonificio di Marano (con 500 addetti), lo stabilimento concimi Marchi (con un centinaio di occupati), le filande di Salzano, il calzaturificio Voltan di Stra (circa 200 addetti)(41).
Per numero di addetti ed esercizi il trend di crescita della provincia veneziana non si discostava fino a quel momento da quello di altre province (tabb. 4-5-6). Il cambiamento più significativo si registrava nella potenza installata. Se nel suo insieme la provincia di Venezia presentava nel 1911 uno dei valori più bassi per potenza installata espressa in Hp rispetto alle altre province venete (tab. 4), nel 1927 invece Venezia balzava al primo posto con quasi un terzo della potenza installata in tutta la regione (28,38%) (tab. 5). L’incremento del 64% della potenza installata confermava il notevole sviluppo del polo veneziano rispetto alle altre province venete.
Osservando il quadro dei movimenti settoriali si nota come, nel periodo, le maggiori dimensioni si rafforzassero proprio nei comparti in cui la provincia di Venezia andava acquisendo una sempre maggiore specializzazione. Cresceva in primo luogo l’importanza delle grandi industrie metallurgiche e meccaniche: l’incremento di 12.600 occupati che si verificò in questo comparto nelle unità con più di 250 addetti dal 1927 al 1937 risultò assorbito per il 50% dalla provincia di Venezia, che accentrò anche la totalità dell’aumento degli occupati verificatosi nell’industria chimica alle dimensioni maggiori (4.000 occupati)(42).
Al censimento industriale del 1937-1940 (tabb. 10-11) la provincia veneziana confermava dunque la sua alterità rispetto ai caratteri e alle modalità dello sviluppo delle altre province venete: l’insediamento del polo industriale di Porto Marghera strutturato nelle produzioni dell’elettrometallurgia e della chimica costituì certamente qualcosa di nuovo rispetto alla tipologia di sviluppo della regione. La creazione di un’area industriale di importanza nazionale fortemente accentrata, legata a produzioni ad alta intensità di capitale investito per addetto e ad alto consumo di energia, pur essendo espressione di un diverso modello di sviluppo, non rappresentò peraltro un elemento di rottura nello scenario regionale, ma venne a convivere in modo non conflittuale con il modello diffusivo prevalente nelle altre province venete(43).
Nel settore tessile — dove aumentavano sia la specializzazione regionale che l’occupazione — si confermava lo storico dominio della provincia vicentina con circa 28.000 addetti distribuiti tra Schio, Valdagno e Thiene, mentre nella metallurgia e nella chimica il primato era saldamente della provincia veneziana, che per numero di cavalli vapore utilizzati presentava valori sempre più elevati rispetto alla media rilevata per le altre province. L’industria metallurgica, in particolare, evidenziava un alto numero medio di addetti per esercizio (427) con un impiego di 7 cavalli vapore per addetto. Nel decennio intercorso dal precedente censimento si notava un sensibile incremento degli occupati negli esercizi con più di 250 addetti. L’aumento di 38.000 addetti che si verificò nel corso del decennio nelle imprese con oltre 250 occupati risultò concentrato nella provincia di Venezia, con una variazione di 9.500 addetti.
Nell’insieme, la provincia di Venezia al censimento del 1937 annoverava 8.343 imprese con 62.029 addetti. Come numero complessivo di occupati era seconda dopo la provincia vicentina (68.029 addetti) coprendo il 19,16% sul totale della regione contro il 21,01 del Vicentino. Vicenza e Venezia si riconfermavano dunque, ancora una volta, i due poli trainanti dell’industrializzazione veneta. Venezia tuttavia incrementava ulteriormente la sua distanza da tutte le altre province come forza motrice (108.741 Hp pari al 30,34% del totale regionale contro il 19,80% di Vicenza e il 13% circa di Verona e di Padova). Rispetto al 1927 le imprese del Veneziano erano cresciute dell’8,20%, gli addetti del 14,74% e la potenza installata del 34,29%.
Il primato veneziano restava indiscusso nelle industrie di base come quella metallurgica e chimica. Qui giocava naturalmente un ruolo primario il polo industriale di Porto Marghera, che, da solo, occupava nelle sue industrie il 15% circa della popolazione attiva della provincia. I settori che presentavano i valori più alti coincidevano con quelli insediati nella nuova zona industriale (metallurgia, elettrometallurgia, chimica). Il confronto tra Porto Marghera e il resto della provincia evidenziava la struttura dualistica dell’economia veneziana: industrie accentrate di grandi dimensioni (318 addetti in media per esercizio) a Porto Marghera contrapposte a un numero elevato di piccoli esercizi sparsi nella provincia con una ventina di addetti per esercizio.
Tra le cinque classi in cui il censimento suddivideva gli esercizi industriali, era la classe con più di 1.000 addetti a raggruppare il 47,18% della forza lavoro di Porto Marghera, mentre la classe precedente — tra 500 e 1.000 addetti — occupava il 20,96% della forza lavoro. A Porto Marghera, mentre il 30% circa degli addetti distribuiti nelle prime tre classi dimensionali era occupato in 47 aziende, il 70% degli addetti alle due classi maggiori risultava impiegato in sole 11 imprese. Il deciso orientamento alla grande dimensione era evidenziato anche dal confronto tra gli indici di concentrazione del 1927 e del 1937: 95 addetti per esercizio del ’27 contro i 318 del ’37(44) (tab. 12).
A partire dal 1928 — come ha osservato Ravanne — «momento in cui Porto Marghera appare come un grosso centro industriale già strutturato attorno ad aziende medie (55% degli occupati) e medio grandi (23,5%) (tab. 13), si assiste a un processo di ulteriore polarizzazione occupazionale verso le aziende maggiori»(45). In effetti gli esercizi piccoli e medio-piccoli a partire dal 1927 ridussero rapidamente il numero di addetti scendendo dal 16,9% del 1927 al 7% del ’37.
Tra i settori maggiormente interessati all’incremento occupazionale, il settore chimico manteneva parte dell’occupazione anche nelle imprese piccole e medio-piccole, mentre per l’elettrometallurgia, che presentava la più alta concentrazione (1.233 addetti per esercizio), l’occupazione risultava accentrata esclusivamente nei settori medio-grandi e grandi. Nella meccanica, invece, l’occupazione scese nel corso del decennio da 270 a 130 addetti distribuiti in sole 3 imprese di modeste dimensioni. Anche l’edilizia, che nel 1927 occupava il 14% degli addetti, fece registrare nel ’37 soltanto 265 addetti, pari all’1% del totale degli occupati di Porto Marghera. La flessione era imputabile alla conclusione, intorno al ’34, dei lavori di costruzione del polo industriale (graf. 3).
Fuori del territorio comunale di Venezia v’era solo una decina di imprese con più di 100 addetti. Le industrie più importanti erano sempre lo stabilimento chimico della Mira-Lanza, a Mira, il cotonificio Battagia e una fabbrica di concimi a Marano, alcune filande e calzaturifici della zona centrale della provincia, la distilleria di Cavarzere e le fabbriche tessili dell’area di San Donà e Portogruaro, alcune fornaci per laterizi e i cantieri di Chioggia.
L’industria dei laterizi nel ’34 produceva però soltanto al 50% delle sue capacità, quella dei saponi di Mira ai due terzi, la fabbricazione dei concimi a Marghera e Portogruaro era stazionaria ed era stato chiuso il cotonificio Battagia di Marano. A metà degli anni Trenta la quota di disoccupati arrivò al 30% degli addetti alla manifattura, una quota molto elevata sia rispetto alla media nazionale che a quanto avveniva nel contesto internazionale(46).
È importante a questo punto valutare le interazioni tra lo sviluppo di Porto Marghera e la vecchia manifattura del centro storico veneziano. Giuseppe Tattara ha definito l’evoluzione della struttura industriale provinciale come la somma di due fenomeni contrapposti: «la crescita rapidissima di nuovi insediamenti nella terraferma, a porto Marghera, il declino delle industrie tradizionali del centro storico e la crisi delle restanti unità produttive, poche in verità, sparse nel territorio provinciale»(47). In effetti, se la zona industriale di Porto Marghera nel decennio intercensuario fece registrare i più alti indici di sviluppo dal punto di vista sia occupazionale che produttivo, nella città storica la struttura produttiva si presentò in costante e progressivo declino. I disoccupati di Venezia, che nel 1928 erano 4.575, nel ’31 salirono a 13.172. Al centro della crisi delle attività urbane v’era il ridimensionamento postbellico dell’Arsenale e di tutta l’industria marinara cittadina. Dal 1922 al ’25 i lavori di riparazione subirono una contrazione dell’80%, le industrie navali vararono solo piccoli natanti e anche l’attività di demolizione navale e rifusione del rottame divenne sempre più limitata a causa del crollo dei prezzi dei rottami importati(48). La Cantieri navali e acciaierie di Venezia, trasformata nel 1929 in Società cantieri navali e officine meccaniche di Venezia, tra il 1923 e il 1929 ridusse gli addetti del 20%.
Le tradizionali industrie dell’abbigliamento, della seta, dei merletti e del vetro, che vendevano soprattutto nei mercati americani e inglesi e che nel dopoguerra avevano ripreso il consueto ritmo di attività, subirono pesanti battute d’arresto a causa della rivalutazione della lira e della chiusura degli sbocchi all’estero, per cui, a cavallo degli anni Trenta, l’occupazione cittadina venne penalizzata anche dalle difficoltà dell’artigianato e della piccola industria veneziana. Il settore dei merletti scese dalle circa 2.000 unità occupate nel 1924 alle 300 del ’33. Nello stesso ’24 gli addetti alle conterie erano oltre 6.000, la metà dei quali lavoranti a domicilio. Nel ’34 rimanevano in 1.600 circa, dei quali un migliaio continuava a lavorare a domicilio(49). Ridimensionate o colpite erano, per ragioni diverse, alcune delle altre maggiori industrie cittadine: il Mulino Stucky, il Cotonificio Veneziano, la Junghans, che in un decennio vide contrarsi gli attivi del 40%, passando dalle 500 unità del 1924 alle 300 del 1933. Più di un terzo della manodopera disoccupata nell’industria urbana era costituita da donne. Tra gli uomini il fenomeno colpiva soprattutto i marittimi, gli edili e i lavoratori delle vetrerie.
La forza lavoro rimasta disoccupata a Venezia non beneficiò dell’effetto-compensazione per lo sviluppo della grande industria a Porto Marghera, dove negli anni compresi tra il 1924 e il 1928 si era registrata la maggiore progressione negli insediamenti (tab. 13).
Durante la crisi degli anni Trenta l’insediamento delle nuove industrie procedette in maniera più rallentata e soltanto dal ’37 riprese dinamismo il collocamento delle aree industriali, facilitato dalle agevolazioni fiscali, dall’abolizione del sovrapprezzo dei terreni, dal potenziamento del polo chimico ed elettrometallurgico(50) (tabb. 14-15).
Dal 1935 alla guerra il numero degli addetti triplicò accompagnandosi a una rapidissima crescita del prodotto. Gli impianti erano sorti prevedendo elevate produzioni che in molti casi non furono mai raggiunte: è «quindi possibile pensare [conclude Tattara] che una volta creata la domanda con le commesse militari e rimossi i contingenti, l’impennata della produzione e dell’occupazione possa essere risultata molto rapida, avvalendosi della elevata riserva di capacità produttiva disponibile»(51). A Marghera, tuttavia, la domanda di operai riguardava soprattutto la manodopera generica.
L’ampia letteratura dedicata al tema(52) ha abbondantemente mostrato come la professionalità e la qualificazione tecnica dei lavoratori non fossero tra le priorità degli imprenditori, i quali preferivano manovali comuni. Si trattava di squadre di operai facilmente adattabili alle condizioni ambientali e alle rigide disposizioni organizzative. La domanda di operai specializzati e di tecnici fu molto limitata e risolta attingendo dall’offerta esistente in altre regioni(53). La formazione avveniva all’interno: nel 1936, ad esempio, per conto del commissario generale per le fabbricazioni di guerra, l’Istituto veneto per il lavoro organizzò negli stabilimenti di Marghera dei corsi per addetti ai forni elettrici, per tornitori, aggiustatori meccanici e saldatori autogeni a cui presero parte 200 operai(54). Gli operai erano generalmente di estrazione contadina. Il bacino di provenienza era situato nell’area centrale della provincia, a una distanza di circa 25-30 chilometri dal polo industriale. La forza lavoro poteva arrivare dal centro storico, ma ben di più dalle frazioni cittadine di terraferma e dai diciotto comuni dei distretti di Dolo e Mirano(55). Il contadino-operaio rimaneva legato alla terra e si spostava dalla casa alla fabbrica generalmente in bicicletta.
Si approfondiva così la dicotomia tra le «due Venezie»: quella industriale e quella della cultura e del turismo, con un centro storico progressivamente depotenziato delle sue tradizioni produttive. Del resto, così si espresse Cini in un intervento del 1935 nel consiglio provinciale dell’economia corporativa: «Venezia da un punto di vista sociale deve consolidarsi nella città studi per eccellenza, cui lo sviluppo economico di Marghera apporta il contributo necessario per l’indispensabile salvaguardia artistica». Rispecchiavano questo indirizzo i lavori compiuti dall’amministrazione pubblica a Venezia, volti soprattutto a rivitalizzare la città dal punto di vista culturale. «Su questa linea si inserirono i lavori per la Biennale Cinema e i numerosi restauri compiuti nei maggiori palazzi veneziani, primo fra tutti quello del Conservatorio Benedetto Marcello. Se cultura voleva dire restituire lustro alla città, dall’altra significava anche turismo e quindi ritorno economico grazie alle considerevoli partecipazioni che Volpi deteneva nel gruppo grandi alberghi (CIGA)»(56).
Che ne era, a questa data, degli annosi problemi della portualità veneziana ora affidati a un provveditore al porto e a un consiglio di amministrazione? Dopo la stasi del periodo bellico e il quasi dimezzamento degli anni Venti, il movimento marittimo complessivo riprese un più deciso movimento ascendente che riportò il traffico oltre i 2 milioni di tonnellate di merci (tabb. 16-17, graf. 4). Nel 1928 il traffico superò il volume di 2.800.000 tonnellate, tornando alle punte dell’anteguerra (tab. 18, graf. 5)(57). La media di traffico del 1909-1913 era stata infatti di 2.739.000 tonnellate, con una punta di 2.881.839 nel 1912. Lo sviluppo del traffico portuale era stato quasi interamente assorbito dalla marina a vapore e dalle merci sbarcate. Per queste ultime prevaleva la navigazione internazionale, per quelle imbarcate prevaleva quella di cabotaggio con destinazione interna. La sproporzione tra merci imbarcate (poco più di un ventesimo sul movimento portuale totale) e sbarcate rimaneva sempre elevata confermando la caratteristica di una struttura portuale rivolta quasi esclusivamente all’approvvigionamento delle materie prime. Il 48% delle merci sbarcate era costituito da carboni fossili, cereali, fertilizzanti, petroli e oli minerali (Tab. 17). Per gli imbarchi le principali voci erano rappresentate da merci quali le piriti, materie fertilizzanti, petroli e oli minerali.
Altri elementi interessanti emergono dalla distinzione tra traffico commerciale e industriale rispetto al totale. Nel 1929 il movimento commerciale fu pari a circa il 76% del volume complessivo delle merci imbarcate e sbarcate, con un aumento del 9,5% rispetto all’anno precedente. Il movimento industriale aumentò invece del 28,6%, con un fondamentale apporto delle nuove merci richieste dai più recenti insediamenti industriali. Rispetto al 1928, i carboni per conto privati, le ceneri di pirite, i petroli e oli minerali crebbero rispettivamente del 93%, del 36% e del 19%. Dopo soli quattro anni dall’apertura del nuovo porto industriale, la composizione delle merci ne evidenziava l’accresciuta importanza(58).
La distinzione tra l’attività del porto industriale e di quello commerciale risulta necessaria per valutare le variazioni del traffico portuale nel corso degli anni Trenta(59) (Tab. 18, Graf. 5). Dal 1930, rispetto al periodo precedente, si verificò infatti una tendenza contrapposta: mentre il movimento commerciale tra il ’29 e il ’31 calò del 16,5%, quello industriale aumentò del 23,6%. Su tale incremento incise in maniera determinante la struttura industriale di Porto Marghera che permise di compensare la flessione del traffico commerciale. Questo si ridusse alla punta minima nel ’32 (1.673.000 t contro 2.218.000 t del ’29), mentre quello industriale manifestò un costante incremento che lo portò dalle 699.000 t del ’29 a 1.014.580 del ’33. Nell’insieme, le merci in entrata e uscita nel 1930 fecero registrare un leggero aumento del 2% rispetto a quanto rilevato per il 1929.
La forte contrazione negli sbarchi di merci come i cereali-farine e i carboni ebbe una diretta incidenza sulla flessione del 3,5% fatta registrare dal porto commerciale. Diminuirono pure notevolmente gli sbarchi dei cotoni principalmente a causa della crisi cotoniera americana, particolarmente acuta nel biennio 1928-1929, ma anche per l’introduzione dei contingentamenti all’importazione imposti dal governo. Il porto industriale nel ’30 presentò un saldo positivo del 18% sia per le merci imbarcate che per quelle sbarcate rispetto al ’29. Gli aumenti più sensibili riguardarono gli oli minerali (67.610 t) e i fertilizzanti (+6%). Dopo un quinquennio di incrementi, nel ’31 si registrò una lieve contrazione del 3%, dovuta esclusivamente al traffico commerciale che subì una flessione tra merci imbarcate e sbarcate pari all’11% (la diminuzione del traffico industriale fu dell’1,6%). Nel triennio a subire una forte contrazione fu il carbone, sceso del 21,5% a causa della cessazione delle importazioni di carbone per conto dello Stato. Dal 50% degli sbarchi nel ’32 si ridusse al 40%.
Nel ’33 si concluse il periodo di stasi del traffico marittimo. Il traffico totale fece registrare un incremento del 14,6%; quello industriale fece un vero e proprio balzo, oltrepassando per la prima volta il milione di tonnellate. L’aumento del 19% del traffico industriale era direttamente connesso con il crescente fabbisogno, da parte degli insediamenti industriali di Porto Marghera, di petrolio, benzina, oli minerali, minerali metallici, pirite e ceneri di pirite. Il numero di navi entrate ed uscite dal porto di Venezia era aumentato rispetto al 1928 di 1.700 unità, con un incremento della stazza media pari al 4%. Se il 1930 presentò un trend negativo per vari porti italiani, così non fu per il porto veneziano e per porti minori come Brindisi, Bari, Ancona, Napoli (Tab. 19). Negli anni di crisi immediatamente successivi il decremento fu tra i più contenuti. Venezia, come nell’anteguerra, figurava al secondo posto, dopo Genova, tra i porti italiani per volume di merci movimentate. Dopo la considerevole flessione del ’32 (–12,6%), nel ’33 il porto di Venezia registrò un aumento dei traffici del 3,7% rispetto a una flessione media nazionale del 4,1%(60). Anche Genova fece segnare un significativo aumento nel movimento di merci.
Il porto di Venezia transitò dunque senza grandi difficoltà attraverso la crisi dei primi anni Trenta, grazie — secondo Luigi Candida — allo «sviluppo economico delle regioni che cadono nell’ambito di naturale competenza del nostro porto», cui aveva corrisposto «un maggiore incremento dei traffici, una sempre maggiore richiesta delle indispensabili materie prime, come carbone, concimi, petroli», grazie, insomma, al maggiore traffico di esportazione dei centri industriali e commerciali e delle «terre redente dalla bonifica». Venezia, in altre parole, avrebbe «saputo e potuto trarre dal suo stesso retroterra quelle energie capaci di mitigare, se non addirittura annullare gli effetti di una crisi economica»(61). Ben più rilevante e diretta fu, tuttavia, l’incidenza dell’intervento pubblico nell’economia sia attraverso la politica di protezione e di esenzione fiscale garantita alle industrie di Porto Marghera, sia mediante la domanda statale indirizzata alle più importanti produzioni del polo industriale(62).
Nel primo semestre del 1934 si rilevarono notevoli aumenti per le merci destinate alle industrie (fertilizzanti, piriti, metalli, semi oleosi, ecc.). L’incremento del 24,5% delle merci sbarcate e imbarcate nel porto fu peraltro dovuto soprattutto ai combustibili. Carboni e oli minerali coprivano rispettivamente il 51 e il 14% del totale. Il secondo semestre superò i già brillanti risultati del primo, sul traino dei carboni, dei petroli e dei fertilizzanti. Rilevante si confermava il movimento del porto industriale legato al polo di Marghera, che coprì circa un terzo del valore complessivo. 1.131.000 t di merci passarono dal polo industriale su 3.730.000 t di merci imbarcate e sbarcate in totale nel porto veneziano. Sul forte incremento del traffico commerciale incisero, oltre che la ripresa dell’economia italiana, la costruzione del Molo A di Porto Marghera destinato al traffico delle rinfuse e l’apertura di numerose strade che resero possibile ai camion di raggiungere qualsiasi banchina del porto(63).
Nel ’35 il traffico totale fu di 4.349.000 tonnellate. Marghera vi contribuì per circa sette decimi, cioè con oltre 3.050.000 t, la Marittima con i restanti tre decimi, pari a poco meno di 1.300.000 tonnellate. Negli sbarchi i carboni denotavano anche in quell’anno il maggiore aumento rispetto all’anno precedente (19%). La crescita riguardava pure i metalli (13.000 t), la juta e la lana (6.000 t), i semi oleosi (13.000 t). Dal ’35 i cotoni, assieme ad altre merci, furono sottoposti al contingentamento. Nel comparto dei fosfati, il calo negli sbarchi evidenziava la ridotta domanda per i prodotti di importazione a fronte del crescente impiego dei concimi di produzione nazionale. In periodo d’autarchia, la forte dipendenza italiana dal carbone straniero venne ‘risolta’ scambiando l’importazione di carbone proveniente dall’Inghilterra con quello proveniente dalla Germania.
Continuava nel frattempo ad aumentare l’importanza del porto industriale che nel 1936 raggiunse il totale di 1.676.000 t di merci sbarcate e imbarcate. Il traffico maggiore restava tuttavia ancora quello commerciale. Questo il quadro fornito nella seduta del consiglio di amministrazione del porto del 2 settembre 1936 dal provveditore amm. Gambarella: «Nel primo semestre del 1935 si erano raggiunte 2.042.000 tonnellate, in questo semestre si è scesi a 1.886.000 con una diminuzione quindi di 177.000 tonnellate […]. Scindendo le due correnti di entrata e di uscita si ha una diminuzione delle merci sbarcate di 285.000 tonnellate, mentre gli imbarchi hanno continuato la loro promettente ascesa con +199.000 dovuta però esclusivamente al traffico di cabotaggio in uscita. Il traffico industriale di Marghera (ove si comprendano gli oli minerali) registrando un incremento del 20%. Concludendo si può ripetere quanto è stato detto nelle relazioni alla fine del 1935 e cioè che se, nonostante queste forti contrazioni, il traffico del nostro porto ha potuto mantenersi a quote elevate, questo lo dobbiamo alla fermezza dimostrata da alcuni nostri traffici tradizionali ed inoltre al costante incremento del ritmo lavorativo delle industrie a Porto Marghera»(64).
Così, mentre il secondo semestre del 1936 mostrava una flessione del 25% nelle merci trattate (graf. 5) — un calo quasi interamente dovuto al traffico di entrata rispetto a un movimento in uscita in lieve aumento —, la zona industriale fece segnare un incremento del traffico totale del 28% rispetto al secondo semestre 1935. La maggiore riduzione fra le merci sbarcate riguardò i carboni per conto privati e per conto delle Ferrovie dello Stato. Dal ’37 il traffico di esportazione riprese vigore superando la quota di 4.191.000 t movimentate (tab. 18). Questa volta l’impulso maggiore venne da un forte rialzo della domanda di prodotti tessili. La tendenza alla ripresa dei traffici portuali era confermata anche dai dati di altri importanti porti italiani(65).
Circa le direzioni di traffico, vennero ad assumere un peso crescente i rapporti con l’Europa settentrionale: dal 9,2% del totale delle merci movimentate nel periodo 1926-1930 si passò al 13% del 1938. Tali correnti erano strettamente correlate alla caratteristica saliente del movimento del porto veneziano, vale a dire al fatto che poco meno della metà del volume totale sbarcato era costituito da carboni. La Gran Bretagna, la Germania e la Polonia parteciparono al movimento complessivo del periodo 1926-1938 rispettivamente con il 55,6%, con il 20% e con l’8%. In aumento risultavano anche i metalli grezzi e lavorati, la cellulosa e la pasta di carta provenienti da paesi come la Norvegia, la Finlandia e la Germania. Nettamente inferiore il volume delle esportazioni dirette verso l’Europa settentrionale che, dopo essere notevolmente cresciute intorno agli anni Trenta, nel ’36 tornarono ai livelli del ’26-’29 (intorno alle 55.000 t) per calare a 9.000 t nel ’38. Le merci in uscita più importanti per valore erano la canapa grezza, i cordami, i tessuti di juta destinati a Inghilterra, Norvegia, Germania e Olanda; le conterie, i vetri e i cristalli destinati principalmente a Francia, Inghilterra, Germania e Olanda. Come volume gli imbarchi più consistenti erano le ceneri di pirite destinate ai porti olandesi.
Nei traffici col Mar Nero due erano i paesi maggiormente in rapporto con Venezia: la Russia e la Romania, sia per i combustibili liquidi che per i cereali. L’importanza di questo settore di traffico subì a partire dal 1930 una forte flessione. In quell’anno, infatti, la Russia aveva esportato nel porto veneziano circa 124.000 t fra petroli, oli minerali e residui della distillazione; tale cifra diminuì di un terzo nel 1935 e nel 1936 per azzerarsi nel 1938. Alla caduta delle esportazioni sovietiche corrispose un aumento di quelle rumene: le 48.000 t del 1931 raggiunsero infatti nel ’35 le 477.000 t per poi calare a 238.000 nel 1938. Fra i paesi europei la Romania si qualificava come il migliore mercato per il porto veneziano(66). Il consistente flusso di cereali era cresciuto negli anni 1927-1928, dato che all’esportazione di frumento si era aggiunta con il tempo anche quella del granoturco. Nel ’30 il porto veneziano importò da quel paese 64.000 t di mais, discese a 43.000 nel ’35 azzerandosi nel ’36.
Il movimento delle esportazioni dal porto veneziano verso quei paesi fu assai meno consistente di quello delle importazioni. In rapporto al valore si segnalavano i tessuti e i filati di cotone e di canapa, le vetrerie, il riso lavorato, diretti specialmente verso la Romania, la Bulgaria e i porti turchi del Mar Nero. Nel ’27 in Romania erano andate più di 2.000 t di riso lavorato e circa 1.000 ne aveva ricevute la Turchia. Qualche prodotto subì, per le ragioni già ricordate, pesantissime contrazioni. Era il caso del cotone grezzo che passò dalle 5.000 t esportate nel ’27 in Romania alle sole 70 del 1938.
Nei traffici con il Mediterraneo Venezia importava principalmente fertilizzanti provenienti da Tunisia, Algeria, Marocco, Egitto; pirite dalla Spagna; cotone dall’Egitto; legname dalla Iugoslavia. Nel ’27 la Tunisia aveva esportato verso il porto veneziano 126.000 t di fosfati(67). Nel ’32, tuttavia, si ebbe una forte riduzione nell’importazione di questa merce che scese a 36.000 tonnellate. Negli anni seguenti si registrò un recupero che stabilizzò il flusso intorno al centinaio di migliaia di tonnellate.
La media annua delle esportazioni del porto veneziano verso il Mediterraneo raggiunse le 57.000 t, pari a circa un sesto delle importazioni che provenivano dall’area. Nel ’31 si raggiunsero le 77.000 t contro le 49.000 del 1926. Negli anni successivi l’andamento fu molto variabile: le esportazioni scesero a 34.000 t nel ’34 per raggiungere le 81.000 nel ’38. Si esportavano soprattutto riso lavorato, manufatti di cotone, di canapa e di juta, macchine, metalli grezzi e laterizi; prodotti, questi, destinati a paesi come la Iugoslavia, la Grecia (per 4.000 t), la Romania e la Turchia. I tessuti e i filati di cotone, di canapa e di juta trovavano sbocco in quasi tutti i paesi del Mediterraneo orientale. La Grecia era il maggior acquirente di filati di canapa con un movimento di 100.000 t nel triennio 1927-1930, salito a 1.700 t nel ’35 e a 2.000 nel ’38. Per le esportazioni di metalli grezzi, ghisa, ferro e acciaio, i maggiori importatori risultarono la Grecia, la Iugoslavia, la Turchia, l’Egitto e la Libia(68).
Nel traffico commerciale con le Americhe la situazione di Venezia era ben diversa rispetto a quella dei porti di Napoli e di Genova. Le importazioni dall’America settentrionale che fino al 1930 si erano mantenute sulle 200.000 t, dal ’31 al ’36 scesero a 100-120.000 t per riconquistare e sorpassare negli ultimi due anni le 200.000 t (287.000 nel ’38). Vi furono anche cambiamenti nella tipologia delle merci importate. Calarono fortemente i cereali, i carboni e crebbero le importazioni di petroli(69). Il cospicuo aumento degli anni prebellici era essenzialmente motivato — osservò Candida — «dal sempre crescente bisogno dei nostri stabilimenti di raffineria di Porto Marghera. La nostra importazione del 1938 si può valutare pari ai due terzi di quella del vicino porto di Trieste, che in detto anno aveva importato dagli Stati Uniti 305 mila tonnellate di oli minerali»(70).
Nel 1926 il commercio di esportazione del porto di Venezia con i paesi delle Americhe superò di poco le 1.000 t, aumentate a 4.535 nel 1930. Negli anni successivi questo valore diminuì fino a ridursi a 700 t nel ’34 per poi risalire e stabilizzarsi intorno alle 3.000 t nel ’38. Tra i prodotti maggiormente esportati figuravano i marmi, le terre varie, il riso lavorato, prodotti diretti principalmente in Argentina.
Il buon andamento del traffico portuale determinò anche un sensibile incremento del traffico ferroviario (Tab. 20), dettato soprattutto dalla zona commerciale. Nel ’31 il movimento ferroviario totale, attestatosi su 1.903.498 t, risultava composto per il 67% dal traffico proveniente dalla zona commerciale e per il 33% da quello generato dalla zona industriale. Una forte flessione si verificò nel biennio successivo (nel 1933 si toccò la punta minima di 1.459.024 t), mentre dal ’34-’35 il trend negativo cambiò di segno: in questi due anni si ebbe un notevole incremento delle partenze sia dalla zona industriale che da quella commerciale, che poteva contare sull’apertura del Molo A. Ancora una volta, l’incremento del 42% del traffico totale rispetto al 1933 si allineava con il sensibile incremento del traffico portuale. Nel ’37 il trend positivo si stabilizzò su 1.979.378 tonnellate. L’apporto del traffico ferroviario generato dalla zona industriale rispetto al totale venne ad attestarsi al 54% modificando radicalmente un consolidato rapporto.
In definitiva, il nuovo porto industriale di Venezia «fu in grado di soddisfare e generare nuove prospettive per l’economia portuale veneziana nonostante il periodo di sensibile contrazione del traffico portuale italiano. L’elevata domanda di prodotti petroliferi poté essere soddisfatta grazie alla disponibilità di ampi spazi, di nuove tecnologie e di un settore industriale in forte espansione»(71). Negli anni Trenta una quota sempre maggiore delle merci sbarcate veniva trattenuta nel porto a conferma dell’importante funzione che il porto e l’apparato industriale stavano assolvendo in quegli anni. A fronte di una diminuzione delle spedizioni ferroviarie, come diretta conseguenza delle minori importazioni via mare, si registrò un considerevole aumento degli arrivi per ferrovia, a testimoniare come la differenza fosse stata assorbita anche se in parte minima dall’incremento del traffico con il retroterra.
Dal 1933 prese rilevante sviluppo anche il trasporto su gomma grazie all’apertura del ponte translagunare che, come si dirà più oltre, collegava via strada Venezia con la terraferma. Il potenziamento dei collegamenti viabilistici con Padova e la soluzione dei problemi di accesso dal ponte del Littorio alla Marittima e a Porto Marghera diedero un forte impulso al trasporto su gomma che fece registrare un sensibile incremento fino al 1936, quando l’applicazione delle sanzioni e la limitazione imposta al consumo dei carburanti determinarono una forte flessione. Nelle partenze del periodo 1933-1939 la voce che contribuiva maggiormente al tonnellaggio finale era quella dei carboni (51% del totale), seguita molto da lontano dal cotone (14,2%) e dai cereali (9,6%). In rapporto al tonnellaggio movimentato si piazzavano al primo posto i territori dell’entroterra veneziano e trevigiano (circa 16.000 t), seguiti dalle province di Milano, Verona, Bologna, Brescia, Vicenza e Bergamo. Mentre il trasporto camionistico con i centri vicini riguardava essenzialmente il carbone, per le province più lontane la preferenza era data a merci più pregiate come il legname per Milano e il cotone per Bergamo. Per quanto riguarda gli arrivi, Milano primeggiava con 13.000 t di merci spedite, seguita da Brescia, Padova, Bergamo, Verona, Udine e Treviso. Gli arrivi provenienti dalle zone limitrofe consistevano prevalentemente in prodotti agricoli; quelli provenienti dai centri industriali erano costituiti da tessuti e filati, carta, metalli, macchine.
Gli anni successivi al 1927 costituirono una fase cruciale per il futuro assetto portuale e industriale di Porto Marghera. Conclusa la fase che aveva legato la presenza dell’energia elettrica a quella di un porto industriale, si aprì una nuova fase in cui industria e porto interagivano funzionalmente. La realizzazione del porto da un lato e la creazione della zona industriale dall’altro procedettero di pari passo in un processo funzionale a un progetto che coinvolgeva l’intera struttura economica veneziana. Come ha osservato Maria Dri, «la linea di trasformazione dell’economia veneziana trovava un evidente riscontro nelle vicende del porto intrinsecamente legate allo sviluppo della zona industriale»(72).
Il forte incremento del traffico portuale, specie industriale, rese evidente l’insufficienza degli spazi e delle strutture di servizio. Il provveditore al porto, colonnello Armando Gaeta, nella seduta del 12 settembre 1930 rilevava che il porto necessitava «di liberarsi della soffocazione dalle ristrettezze dovute al movimento dei carboni e delle rinfuse e di trovare più ampio sfogo e respiro nonché maggiori possibilità di sviluppo nel molo ancora vergine di Marghera». Si evidenziava dunque un cambiamento di priorità nella dialettica tra struttura portuale di carattere commerciale e sviluppo di un porto industriale.
I maggiori problemi che il provveditorato al Porto e la Società porto industriale affrontarono nel decennio 1928-1937 furono legati all’esigenza di una specializzazione dei due scali, nell’adeguamento delle strutture già costruite ai diversi bisogni del traffico commerciale e industriale. I principali obiettivi furono l’allestimento del porto commerciale di Porto Marghera e la creazione di strutture e infrastrutture atte a integrare la ‘storica’ funzione commerciale della Stazione marittima con il nuovo ruolo economico assunto dal porto industriale di Marghera. L’allestimento del Molo A fu l’opera che ebbe maggiore risalto nella pubblicistica del tempo. Tuttavia, non meno importanti furono i lavori effettuati nella Stazione marittima e nel centro storico con la costruzione di nuovi ponti, la realizzazione di nuove strade camionabili e l’ampliamento delle linee ferroviarie(73).
I lavori interessarono, in particolare, il porto del Lido, il canale S. Marco, il canale della Giudecca, la darsena della Stazione marittima, il canale Vittorio Emanuele III e il canale Brentella. La Stazione marittima, con il completamento del molo di Ponente (1929-1931) e con la sistemazione della banchina di Palazzo, conclusa nel ’34, aumentò la dotazione di banchine attraccabili da 4.129 a 4.759 metri. Le aree scoperte passarono da 462.400 a 493.500 mq. Il provveditorato al Porto inaugurò inoltre due opere di notevole importanza come i magazzini S.2 e S.3. Costruiti in cemento armato e muratura, sostituirono i vecchi magazzini a un solo piano che esistevano alla testata del molo di Levante con lo scopo di aumentare la superficie per deposito merci. I nuovi magazzini garantivano un’area utile di 5.000 mq su due piani e su un fronte di accosto di 900 metri. Gli impianti ferroviari potevano contare nella Marittima su circa 52 km di strada.
Fra le infrastrutture di maggiore importanza venne progettata e realizzata una rete di penetrazione stradale che comprendeva le dorsali dei moli di Ponente e di Levante e una rampa di accesso che, attraverso un ponte a tre campate sul canale di Scomenzera, collegava la zona dei traghetti e le banchine di S. Marco e di S. Basilio. Sempre nel ’34 vennero realizzate le opere inerenti il banchinamento a nord-ovest del molo di Ponente a uso della navigazione fluviale con fondale a 4,12 m sul livello medio del mare e la relativa sistemazione dei retrostanti piazzali di movimentazione. Nella Stazione marittima vennero inoltre completate nel ’34 la banchina Palazzo e la banchina Fluviale. Nel ’36 il provveditorato al Porto riscattò, su autorizzazione statale, il complesso del silo granario esistente sulla testata del molo di Levante sino ad allora gestito dalla Società dei Silos di Venezia, mentre nel bacino di S. Marco venivano ultimati i lavori di banchinamento della fondamenta Ca’ di Dio e della riva di S. Biagio per accosti navi croceristi. Due anni dopo cominciarono i lavori di riconversione e ristrutturazione della calata ovest del molo di Ponente che comprendevano la costruzione dei magazzini 114 e 117 a due piani, l’acquisto di 10 gru da banchina della portata di 3 t e altre opere accessorie.
A Porto Marghera, l’apertura del Molo A coincise con l’inaugurazione del ponte translagunare costruito a fianco del ponte ferroviario tra il 1931 e il 1933 su progetto iniziale di Vittorio Umberto Fantucci e inaugurato il 25 aprile 1933 col nome di ponte del Littorio (attuale ponte della Libertà). Il ponte era lungo 3.682 m e largo 20. Il terminale di arrivo venne dislocato tra il Canal Grande nella zona di S. Chiara e la Stazione marittima, «quasi ad inserire l’automobile tra il treno e la nave»(74). Si trattava di un piazzale di circa 30.000 mq comprendente un’autorimessa della capienza di circa 2.000 automobili.
Tutta una serie di opere stradali di allacciamento della Stazione marittima al ponte del Littorio vennero disposte dall’Ente portuale(75). Nel ’34 si stava completando un collegamento stradale tra il ponte translagunare e il Magazzino orientale, mentre era già ultimata la grande strada camionabile (lunga 1.300 m e larga 8) che dal ponte di Scomenzera arrivava fino al Magazzino orientale. Si eseguì inoltre il prolungamento del tratto di strada lungo la banchina di Ponente fino alla testata in modo da consentire un più agevole traffico delle merci.
Importante fu la costruzione dell’autostrada(76) che legava l’attività commerciale di Padova a quella portuale e industriale di Venezia. L’opera, realizzata interamente con finanziamenti statali dalla Società delle autostrade di Venezia e Padova, venne inaugurata il 15 ottobre 1934. Il percorso autostradale si sostituiva alla più lunga direttrice Mestre-Mirano-Padova e al tortuoso e lento percorso della Riviera del Brenta. L’autostrada venne costruita con una larghezza di 10 m, di cui 8 destinati esclusivamente al traffico automobilistico e 2, uno per parte, destinati al transito pedonale degli addetti alla sorveglianza e alla polizia. La nuova arteria presentava innovazioni tecniche di rilievo: la pavimentazione non fu in cemento, ma con un impasto basaltico penetrato di bitume. Per garantire un andamento rettilineo vennero compiute numerose opere di alta ingegneria come il ponte in ferro che attraversa il Brenta. L’autostrada abbreviava il percorso del 16,5% in lunghezza e del 40% in tempo di percorrenza. Venne stabilita l’applicazione di tariffe particolarmente vantaggiose per il passaggio di automezzi in entrata e in uscita dal porto di Venezia.
Il quartiere urbano di Marghera rientrava nella progettazione originaria dell’insediamento industriale. La sua realizzazione spettava, a norma dell’art. 22 della convenzione del 1917, al comune di Venezia. La sua attuazione diede il via a un processo di profonde trasformazioni urbanistiche che investirono Mestre e il suo hinterland. Nei primi decenni della sua formazione, tuttavia, il quartiere urbano di Marghera si mantenne nettamente distinto da Mestre. Si trattava di far fronte al fabbisogno abitativo della quantità sempre crescente di operai e di impiegati che sarebbero confluiti nel nuovo polo produttivo garantendo «un alloggio che offrisse insieme il massimo del conforto materiale e condizioni igieniche certamente migliori di quelle che avrebbero trovato a Venezia»(77). Il piano regolatore del quartiere, elaborato da una sezione autonoma dell’Ufficio tecnico comunale appositamente costituita nel 1919 e diretta dall’ingegnere Pietro Emilio Emmer, assunse come modello le «città-giardino». L’area residenziale (68 ettari) doveva accogliere 25.000 abitanti suddivisi tra «case isolate di tipo operaio» e «villini o piccole case con giardino per impiegati e capi». Il progetto ipotizzava che si potessero realizzare per ragioni economiche anche case a più abitazioni con un numero limitato di alloggi, ma con annesso un piccolo appezzamento per orto e giardino. Le aree per i servizi (10 ettari, più 12,5 ettari di piazze e giardini) erano distribuite lungo il viale centrale, dove si prevedeva, in alto, un primo complesso comprendente uffici comunali, scuole e asili, e un secondo, in basso, assai più esteso a completamento del viale, comprendente vari edifici: il teatro, la biblioteca, la chiesa, i mercati e subito all’esterno altri edifici scolastici, l’ospedale ambulatoriale e la palestra(78). L’estesa maglia stradale definiva le aree residenziali e quelle per i servizi. L’acqua potabile doveva essere fornita dall’acquedotto di Venezia.
Il piano del quartiere urbano venne presentato in Comune nel marzo 1920 e approvato dal Ministero dei Lavori pubblici nel febbraio del 1922. Il Comune aveva già effettuato gli espropri acquisendo tutte le aree individuate dal piano per un prezzo di 1 lira al mq e per un totale di 3.064.000 mq e aveva iniziato i lavori di urbanizzazione. Il Comune si assumeva in carico «tutte le spese indispensabili alla creazione delle strade, della piazza e dei relativi servizi» e provvedeva «alla rivendita del terreno a piccoli lotti a chiunque, assoggettandosi a particolari norme di occupazione, avesse avuto intenzione di provvedere alla costruzione di nuovi fabbricati ad uso di abitazione»(79). Le prime quattro case di abitazione sorsero nel 1921 su iniziativa privata. Nel 1924 furono costruite a Marghera le prime case dell’I.A.C.P. (istituto Autonomo Case Popolari). Gli alloggi costruiti fino al 1927 erano 286. Contemporaneamente vennero costruite 42 abitazioni dalla Cooperativa edile ferroviaria di Mestre(80).
Il quartiere nasceva con imponenti impegni da parte del Comune, che realizzò gran parte della rete stradale primaria, aree verdi e alberature, collettori della rete fognaria, un nuovo acquedotto, l’illuminazione stradale. Lo sviluppo della parte residenziale fu lento e sostenuto in buona parte dall’iniziativa privata, «che vi realizza un’edilizia di tono borghese, con un’immagine assai diversa da quella di una città operaia»(81). L’industria non pareva interessata a realizzarvi delle abitazioni per i propri addetti e i pochi alloggi destinati a tecnici trasferiti da altre sedi vennero costruiti all’interno dei recinti delle fabbriche. Il solo intervento dell’industria nel quartiere urbano fu costituito dal complesso edilizio di Enzo e Silvio Chiari, iniziato nel 1936 e rimasto interrotto per il conflitto mondiale. Il progetto per il quartiere urbano, nonostante il forte impegno di risorse tecniche e finanziarie da parte del Comune, si concretizzò solo parzialmente e limitatamente alla porzione settentrionale, dove si concentrò il maggior numero di interventi. Tutta la parte rimanente sarebbe stata edificata solo nel secondo dopoguerra.
Da piccolo borgo qual era in precedenza, Marghera comunque si trasformò in un nucleo urbano. Tra il 1921 e il 1936 la sua popolazione residente passò da 896 a 7.298 abitanti. Tra il 1921 e il ’28 furono edificati 315 fabbricati per un complesso di 4.350 locali abitabili(82). Nel ’36 gli edifici crebbero a 520 con 6.023 vani. A quindici anni dall’inizio dei lavori risiedevano nell’area residenziale di Marghera poco più di 7.000 abitanti, contro i 25.000 previsti. Delle infrastrutture previste venne costruito solo l’edificio scolastico, il macello e qualche locale per gli uffici comunali(83). La chiesa nel ’36 era ancora in costruzione.
Il mancato decollo urbano fu «strettamente legato al particolare rapporto che fin dall’inizio si venne stabilendo fra la nascente concentrazione produttiva e la manodopera» che vi affluiva. Se da un lato gli industriali preferirono assumere negli stabilimenti la forza-lavoro proveniente dalle campagne già largamente utilizzata per lo scavo dei canali e la realizzazione delle infrastrutture e dei banchinamenti, dall’altro Marghera venne utilizzata per accogliere le molte famiglie espulse dal centro storico a causa delle ristrutturazioni speculative. «Marghera [ha osservato Piva] non assunse neppure il ruolo specifico di città-dormitorio della forza-lavoro occupata nel polo industriale, ma quello di ‘serbatoio abitativo’ per la popolazione espulsa coattivamente dalla città storica». I primi operai di Marghera vivevano in campagna e non abbandonavano le proprie case, né potevano trasferirsi a Marghera, dove il costo dell’affitto di un alloggio dell’I.A.C.P. equivaleva ad un terzo del proprio salario. I contadini-operai coprivano le distanze massime di 25-30 km dalla fabbrica in bicicletta. Nel 1932, dei 5.066 operai di Porto Marghera solo 435 risiedevano nel quartiere urbano. Dunque il disegno «della nuova zona urbana di Venezia» rimaneva ben lungi dall’essere realizzato(84). L’industria non s’impegnava nell’approntamento di abitazioni e servizi; Marghera e Venezia restavano due realtà distinte, con scarse interrelazioni, dove una funzionava come valvola di sfogo del sovraffollamento abitativo, l’altra come città d’arte.
In questa direzione si mossero i più importanti interventi pubblici nel settore residenziale realizzati nel decennio precedente al conflitto mondiale. Comune e I.A.C.P. costruirono d’intesa tra il 1934 e il 1938, ai margini del quartiere urbano, i villaggi di Ca’ Emiliani (128 alloggi), Ca’ Brentelle (126 alloggi) e Ca’ Sabbioni (74 alloggi) destinati ad accogliere parte della popolazione trasferitasi dal centro storico nel momento in cui Venezia stava vivendo un importante rilancio turistico internazionale. Le abitazioni realizzate in questo secondo lotto di interventi pubblici furono costruite con criteri ultraeconomici. Si ottennero 88 alloggi, ciascuno dei quali poteva essere abitato da 6 persone che potevano disporre, negli appartamenti più grandi, di 36 mq.
Mestre, nel frattempo, era cresciuta più di Marghera, fino a raggiungere nel ’36 i 36.000 abitanti contro i 22.000 del 1917. Lo sviluppo del polo industriale giocava dunque a suo favore, mentre a sfavore di Marghera pesavano alcuni fattori come la mancanza di servizi e le disagevoli condizioni ambientali. Mestre cominciò così ad accogliere quella parte di manodopera occupata a Porto Marghera (nel ’38 era pari a 16.000 unità) che, favorita da livelli di reddito più alti, poté trasferirsi nel centro vicino. Si creavano così le premesse per un’altra, futura difficile coesistenza: quella tra Venezia e la sua propaggine mestrina.
1. Massimo Costantini, Dal porto franco al porto industriale, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti-Ugo Tucci, Roma 1991, p. 904 (pp. 879-914).
2. Ibid., p. 907.
3. Per un’ampia descrizione delle strutture v. Cinquant’an;ni di Provveditorato al Porto di Venezia, Venezia 1979, pp. 75-76.
4. Cesco Chinello, Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del ‘problema di Venezia’, Venezia 1979, p. 44.
5. Interessanti passaggi al riguardo nella conferenza sull’economia di Venezia tenuta a palazzo Grassi il 7 agosto 1954 da M. Pasquato, vicepresidente della Confederazione generale dell’industria italiana.
6. Cf. Primo Lanzoni, Il porto di Venezia, Verona 1895, e Epicarmo Corbino, I porti da Ancona a Venezia, «Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica», ser. IV, 38, 1923, vol. XIV, p. 494 (pp. 477-501).
7. Tullio Bagiotti, Venezia da modello a problema, Venezia 1972, p. 269.
8. M. Costantini, Dal porto franco al porto industriale, p. 905.
9. Umberto Bolzonella, Da S. Marco a Porto Marghera: industria e attività portuale (1880-1927), tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1991-1992.
10. Sulle industrie veneziane del periodo cf., oltre a Comune di Venezia, Relazione sul V Censimento demografico e I Censimento degli opifici ed imprese industriali del 10-11 giugno 1911, Venezia 1912, Camera di Commercio ed Arti di Venezia, Navigazione e commercio di Venezia negli anni 1900 e 1901 coll’aggiunta di alcune informazioni sulle industrie esistenti nella provincia di Venezia alla fine del 1901, Venezia 1902. Per le localizzazioni e altre informazioni, v. Venezia città industriale. Gli insediamenti produttivi del 19° secolo, Venezia 1980.
11. U. Bolzonella, Da S. Marco a Porto Marghera, p. 95.
12. M. Costantini, Dal porto franco al porto industriale, p. 908.
13. Sul rapporto tra questi progetti e i problemi di integrità ambientale, ibid., pp. 906 ss. In generale, per due diversi punti di vista sul cruciale e prolungato scontro tra le diverse posizioni, v. i lavori di Wladimiro Dorigo, Una legge contro Venezia. Natura, storia, interessi nella questione della città e della laguna, Roma 1973, e C. Chinello, Porto Marghera 1902-1926. Cf. anche Calogero Muscarà, Porto Marghera, estr. da «Nord e Sud», 12, 1964-1965, nrr. 60-61.
14. Maurizio Reberschak, L’economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 227-298.15. M. Costantini, Dal porto franco al porto industriale, p. 908; cf. Luciano Petit, Porto di Venezia, Venezia 1905.
16. U. Bolzonella, Da S. Marco a Porto Marghera, p. 52.
17. Ibid., p. 60.
18. Luigi Alzona-Enrico Coen Cagli-Gaudenzio Fantoli-Filippo Tajani, Sistemazione e ampliamento del Porto di Venezia. Studi e proposte di una commissione tecnica promossa dal Comune, dalla Provincia e dalla Camera di Commercio di Venezia. Con dieci allegati e due tavole, Roma 1915, p. 28.
19. M. Reberschak, L’economia, p. 234.
20. L. Alzona-E. Coen Cagli-G. Fantoli-F. Tajani, Sistemazione e ampliamento del Porto di Venezia, p. 14.
21. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, p. 165. V. Enrico Coen Cagli, Il nuovo porto di Venezia e lo stato dei lavori, Varese 1920, e Id., Porto Marghera. Le nouveau port de Venise, Venezia 1930.
22. C. Chinello, Porto Marghera 1902-1926, pp. 161 ss.
23. U. Bolzonella, Da S. Marco a Porto Marghera, pp. 123 ss.
24. Per gli insediamenti tra Venezia e Padova, cf. Giovanni Luigi Fontana-Giorgio Franceschetti-Giorgio Roverato, Cento anni di industria calzaturiera nella Riviera del Brenta, a cura di Giovanni Luigi Fontana, Stra-Venezia 1998.
25. Franco Mancuso, Dal porto alla grande industria. Venezia e Porto Marghera, in Archeologia industriale nel Veneto, 6, a cura di Id., Cinisello Balsamo 1990, p. 187 (pp. 185-191).
26. C. Chinello, Porto Marghera 1902-1926, p. 148.
27. S.A.D.E., Il Gruppo SADE e la sua attività tecnica ed economica dalle origini al 1929, Roma 1930, p. 129.
28. Giorgio Roverato, L’industria nel Veneto. storia economica di un ‘caso’ regionale, Padova 1996, p. 177; cf. Piero Foscari, Per il più largo dominio di Venezia. La città e il porto, Milano 1917.
29. Sugli aspetti relativi al reclutamento della manodopera, cf. I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione. 1917-1940, a cura di Francesco Piva-Giuseppe Tattara, Venezia 1983.
30. Cf. l’approfondita analisi di C. Chinello, Porto Marghera 1902-1926.
31. G. Roverato, L’industria nel Veneto, p. 177.
32. Cf. Santo Peli, Le concentrazioni finanziarie industriali nell’economia di guerra: il caso di Porto Marghera, «Studi Storici», 16, 1975, nr. 1, pp. 182-204, e Rolf Petri, Strategie monopolistiche e ‘Veneto industriale’. Porto Marghera alla vigilia della seconda guerra mondiale, «Venetica», 1, 1984, nr. 2; Id., La zona industriale di Marghera 1919-1939. Un’analisi quantitativa dello sviluppo tra le due guerre, Venezia 1985; Id., La frontiera industriale. Territorio, grande industria e leggi speciali prima della Cassa per il Mezzogiorno, Milano 1990.
33. G. Roverato, L’industria nel Veneto, p. 178.
34. C. Chinello, Porto Marghera 1902-1926, p. 228, tab. 2.
35. Giuseppe Tattara, Lo sviluppo economico nella provincia di Venezia, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, p. 30 (pp. 19-45).
36. Ibid.
37. Francesco Piva, Il reclutamento della forza-lavoro: paesaggi sociali e politica imprenditoriale, in I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione. 1917-1940, a cura di Id.-Giuseppe Tattara, Venezia 1983, pp. 325-463.
38. Cf. IRSEV, Le provincie venete nell’ultimo cinquantennio. Profilo economico e sociale, I, Venezia 1960.
39. Antonio Agustoni, Le industrie a Porto Marghera, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 7, 1928, pp. 573 ss.; Fabio Ravanne, Gli insediamenti industriali a Porto Marghera, in I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione. 1917-1940, a cura di Francesco Piva-Giuseppe Tattara, Venezia 1983, p. 139 (pp. 133-161); Maurizio Lucchetti, Marghera: porto e industria (1927-1937), tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1992-1993, pp. 77-82; Camera di Commercio e Industria di Venezia, L’attività economica della provincia di Venezia negli anni 1924-25, Venezia 1926; Consiglio e Ufficio Provinciale dell’Economia di Venezia, L’attività economica nella provincia di Venezia negli anni 1926, 1927 e 1928, Venezia 1930, e Id., L’attività della provincia di Venezia negli anni 1929-1930, Venezia 1932.
40. M. Lucchetti, Marghera: porto e industria, pp. 84-86.
41. Ibid.; cf. anche Rodolfo Gallo, Indici demografici ed economici di Venezia, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 2, giugno-ottobre 1923.
42. G. Tattara, Lo sviluppo economico nella provincia di Venezia, p. 31.
43. Cf. Giovanni Luigi Fontana-Giorgio Roverato, Processi di settorializzazione e di distrettualizzazione nei sistemi economici locali. Il caso veneto, in Comunità di imprese. Sistemi locali in Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di Franco Amatori-Andrea Colli, Bologna 2001, pp. 527-618.
44. M. Lucchetti, Marghera: porto e industria, pp. 192-197.
45. F. Ravanne, Gli insediamenti industriali a Porto Marghera, p. 156.
46. G. Tattara, Lo sviluppo economico nella provincia di Venezia, p. 33.
47. Ibid.
48. Ibid.
49. Luca Ballerano, L’evoluzione della ‘Società Veneziana Conterie’ fra la metà degli anni venti e la fine della seconda guerra mondiale, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1990-1991, p. 36.
50. G. Tattara, Lo sviluppo economico nella provincia di Venezia, p. 34.
51. Ibid.
52. Cf., in partic., Fabio Ravanne, Migrazioni interne e mobilità della forza lavoro: Venezia e Marghera, in La classe operaia durante il fascismo, a cura di Giulio Sapelli, Milano 1981, pp. 579-636 e i contributi al volume I primi operai di Marghera.
53. F. Piva, Il reclutamento della forza-lavoro, pp. 332 ss.
54. Bruna Bianchi, L’economia di guerra a Porto Marghera: produzione, occupazione, lavoro. 1935-1945, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, p. 164 (pp. 163-233).
55. F. Piva, Il reclutamento della forza-lavoro.
56. M. Lucchetti, Marghera: porto e industria, p. 201.
57. Per l’andamento dell’economia portuale sul lungo periodo, cf. Gianni Toniolo, Cento anni di economia portuale a Venezia, «CO.S.E.S. Informazioni», 2, 1972, nr. 3, pp. 33-73. Per i dati sul periodo, «Bollettino Ufficiale del Provveditorato al Porto di Venezia», suppl. statistico, 1950, nr. unico, e Rodolfo Gallo, Dati statistici sul movimento marittimo e ferroviario del Porto di Venezia, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 6, maggio 1927.
58. M. Lucchetti, Marghera: porto e industria, pp. 89 ss. sulle fonti del provveditorato al Porto (Verbali del Consiglio di Amministrazione 1927-1937, ufficio statistico del porto, bollettini ufficiali) e sui bollettini della Camera di commercio.
59. «Bollettino Ufficiale del Provveditorato al Porto di Venezia», vari anni e supplementi statistici.
60. Ibid., ottobre 1934.
61. Luigi Candida, Il porto di Venezia, Napoli 1950, p. 75.
62. R. Petri, La frontiera industriale, p. 37.
63. «Bollettino Ufficiale del Provveditorato al Porto di Venezia», febbraio 1935, e «Rivista Mensile della Città di Venezia», 13, 1934, nrr. 1-2.
64. Archivio del Provveditorato al Porto di Venezia, Verbale del Consiglio di Amministrazione del Provveditorato al Porto di Venezia, seduta del 2 settembre 1936.
65. Id., Verbale del Consiglio di Amministrazione del Provveditorato al Porto di Venezia, seduta del 15 luglio 1937.
66. «Bollettino Ufficiale del Provveditorato al Porto di Venezia», suppl. statistico, 1950; L. Candida, Il porto di Venezia, p. 54.
67. L. Candida, Il porto di Venezia, p. 98.
68. «Bollettino Ufficiale del Provveditorato al Porto di Venezia», suppl. statistico, 1950; L. Candida, Il porto di Venezia, pp. 93-98; M. Lucchetti, Marghera: porto e industria, pp. 115-118.
69. «Bollettino Ufficiale del Provveditorato al Porto di Venezia», suppl. statistico, 1950.
70. L. Candida, Il porto di Venezia, p. 99.
71. M. Lucchetti, Marghera: porto e industria, p. 121.
72. Maria Dri, Porto e industrie del centro storico veneziano tra economia di guerra e ricostruzione, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, p. 126 (pp. 115-161).
73. M. Lucchetti, Marghera: porto e industria, p. 129 sui dati dell’Ufficio tecnico del provveditorato al Porto di Venezia e del «Bollettino Ufficiale del Provveditorato al Porto di Venezia». Per le infrastrutture del centro storico, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 13, febbraio-agosto 1934.
74. M. Lucchetti, Marghera: porto e industria, p. 137; cf. inoltre Cinquant’anni di Provveditorato al Porto di Venezia.
75. Archivio del Provveditorato al Porto di Venezia, Verbale del Consiglio di Amministrazione del Provveditorato al Porto di Venezia, seduta del 30 ottobre 1933.
76. Tra i numerosi articoli pubblicati dalla «Rivista Mensile della Città di Venezia», nel nr. 6 (14, 1935) si informava come, per la costruzione dell’opera «s’impegnarono trecentodiecimila giornate lavorative con una spesa di 30 milioni di lire […] gli scavi e i riporti di terra ottenuti con diversi mezzi condussero al movimento di ben 743.800 metri cubi di materiale […] per la costruzione dei ponti, dei cavalcavia e per le armature del cemento si impiegarono 1.380.000 kg di ferro, e per la pavimentazione dell’autostrada che copre una superficie di 210.000 metri quadrati, vennero posti in opera 1.050.000 kg di bitume e 134.900 metri cubi di materiale tra sabbia e i vari generi di pietrame».
77. Emilio Emmer, Il Quartiere urbano di Porto Marghera, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 1, 1922, nr. 5, pp. 18-30; Le opere del Comune per la creazione e lo sviluppo di Porto Marghera, Venezia 1932, pp. 20-22.
78. F. Mancuso, Dal porto alla grande industria, p. 188, e Id., La vicenda urbanistica, in Porto Marghera, le immagini, la storia 1900-1985, Torino 1985, p. 23 (pp. 15-27).
79. Porto Marghera 1932. Raccolta di scritti su Porto Marghera, Venezia 1932, p. 20.
80. «Rivista Mensile della Città di Venezia», 12, 1931.
81. F. Mancuso, Dal porto alla grande industria, p. 188.
82. Giovanni Lasorsa, La ricchezza privata della provincia di Venezia, Padova 1934, p. 162.
83. F. Mancuso, Venezia e Porto Marghera, p. 191.
84. Ibid.