Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel periodo interbellico dal 1919 al 1939 la crescita del PIL rallenta di quasi la metà rispetto all’andamento secolare, il commercio estero registra un crollo netto e l’occupazione cala drasticamente, configurando il fenomeno critico più vistoso del ventennio. Sul piano strutturale la fase si caratterizza per un forte squilibrio tanto nelle economie nazionali, coinvolte in vario grado da fenomeni di inflazione e disoccupazione, tanto nel sistema delle relazioni economiche internazionali, dove agli assetti prebellici non si è in grado di sostituire un sistema di regolazione adeguato. Tuttavia il periodo si caratterizza anche per la significativa divaricazione tra le performance economiche complessive e l’andamento della produttività nel settore industriale che registra un ininterrotto miglioramento: ciò depone per l’ipotesi di lettura che attribuisce le ragioni della lunga crisi interbellica a fattori congiunturali e umani, ovvero tanto, come è ovvio, agli effetti distruttivi della guerra, quanto a madornali errori di politica economica e di scelte strategiche di politica internazionale.
La Grande Guerra lascia in eredità all’Europa degli anni Venti non solo un bilancio fortemente negativo di distruzione di uomini, materiali e infrastrutture, ma anche un insieme di misure di politica economica e un modello di gestione dell’economia destinati a persistere al di là della congiuntura critica; in questo senso si è individuato nel primo conflitto mondiale lo spartiacque tra la civiltà del XIX secolo, saldamente fondata sul liberismo e sul mercato che si autoregolava, e quella del XX secolo, caratterizzata da un crescente protagonismo dello Stato nel governo dell’economia. Sul piano tecnologico la guerra funge da detonatore di una serie di innovazioni che si consolidano e danno impulso allo sviluppo di nuovi settori, segnatamente l’aeronautica, la chimica e le comunicazioni a distanza; sul piano organizzativo essa dà il la all’adozione di modelli di organizzazione scientifica del lavoro che preludono all’affermazione in Europa della mass production sull’esempio americano. Nei rapporti economici internazionali la guerra dà il colpo di grazia al sistema del gold standard, fondato sui cambi fissi e sulla centralità finanziaria della City londinese; lascia alle economie d’oltreoceano una posizione di vantaggio come esportatori verso un’Europa bisognosa di prodotti primari; gli Stati Uniti diventano il principale creditore internazionale, prefigurando un nuovo sistema di equilibri internazionali non più fondato sulla centralità britannica.
In Europa l’eccesso di capacità produttiva industriale è la causa di forti squilibri interni che inevitabilmente accompagnano la riconversione all’economia di pace; il processo tuttavia si annuncia lento, per effetto della sopravvenuta rigidità di prezzi e salari conseguente alla mutata struttura dell’economia, all’emergere di concentrazioni industriali e al rigido apparato burocratico eretto a controllo dell’economia.
L’Europa disegnata dai trattati di pace è totalmente differente da quella prebellica: è un continente con 12 Stati in più, nati dallo smembramento dell’Impero asburgico, in cui le barriere al commercio risultano moltiplicate. Le mutilazioni territoriali subite dai Paesi sconfitti hanno a loro volta tragici effetti sugli equilibri economici: la Germania perde l’Alsazia e la Lorena e le miniere di carbone della Saar che alimentavano il suo apparato industriale. Ma l’aspetto dei trattati di pace che avrà le peggiori conseguenze nell’immediato e sul medio periodo per il ristabilimento di una economia internazionale di pace è l’imposizione di ingenti riparazioni alla Germania. Concepite in un’ottica esasperatamente punitiva, e principalmente per volontà francese, le riparazioni che la Germania si trova a dover pagare in seguito a lunghissimi negoziati, che pure ridimensionano le iniziali pretese francesi, ammontano a due miliardi di marchi oro e al 26 percento del valore delle sue esportazioni. La Germania, alle prese con l’iperinflazione, pagherà soltanto una parte dei debiti, grazie all’aiuto degli Stati Uniti, i cui interventi a sostegno dell’economia tedesca (Piano Dawes 1924 e Piano Young 1930) culminano nel 1931 nel totale congelamento dei debiti intergovernativi. Oltre a esasperare gli animi e ad aggravare la crisi sociale e politica tedesca che sfocerà nella crescita del movimento nazionalsocialista e nell’ascesa di Hitler al potere nel 1933, l’esosità delle riparazioni imposte alla Germania è anche all’origine di un ciclo perverso del debito con al centro gli Stati Uniti, e di una crescente dipendenza dell’economia europea dal flusso di capitali da lì proveniente, che renderà facile e inevitabile lo sbarco in Europa della crisi del Ventinove.
Superata l’immediata crisi postbellica, l’economia europea conosce, nella prima metà degli anni Venti, una sensibile ripresa trainata dalla ricostruzione e dalla crescita della produttività nei nuovi settori cui la guerra ha impresso un forte impulso. La ripresa assume ritmi diseguali: più sostenuti nei Paesi che non hanno subito significativi danni all’apparato produttivo (Gran Bretagna e Stati Uniti) e in quelli che rimandano i progetti di stabilizzazione monetaria (Francia, Belgio e Italia) responsabili, secondo la maggior parte degli studiosi, di effetti deprimenti sugli investimenti. Superata l’iperinflazione, che raggiunge il culmine tra il 1919 e il 1921, anche i Paesi dell’Europa centrale conoscono una significativa ripresa produttiva.
Uno slancio di fiducia internazionale risveglia negli statisti l’illusione della possibilità di ricostruire il sistema internazionale della Belle Époque. Lo sforzo congiunto di ricostituire la parità aurea accomuna le politiche economiche della maggior parte degli Stati e conduce a una serie di negoziati internazionali. Il primo passo viene mosso dalla Gran Bretagna nel 1925, seguita dalla maggior parte dei Paesi europei. Tuttavia il sistema che si viene a creare, lungi dal riprodurre il meccanismo virtuoso prebellico di regolazione dei rapporti economici internazionali, produce effetti di squilibrio imprevisti: non sussistono più le precondizioni del suo funzionamento, ovvero la cooperazione internazionale tra le banche centrali, l’egemonia incontrastata della Gran Bretagna, e l’equilibrio tra le monete. La stabilizzazione monetaria avviene secondo parametri molto differenti da Paese a Paese, e produce effetti deflativi laddove si pretende di ricostituire la stabilità antebellica; ne traggono vantaggio i Paesi che rinunciano alla supervalutazione, come la Francia, dove la fissazione della parità a livelli più adeguati alle potenzialità dell’economia reale crea forti vantaggi nei rapporti economici con l’estero. L’illusione del gold standard, oltre a essere un costo insostenibile per le economie interne, costituirà concausa e aggravante della depressione del Ventinove.
La crisi del Ventinove, sospinta nell’immediato dal crollo borsistico statunitense, e presto tradottasi in una prolungata depressione dell’economia mondiale, distrugge qualsiasi illusione di ritorno all’età aurea del liberalismo e qualsiasi residua fiducia nel potere di funzionamento del libero mercato. Gli anni tra il 1929 e il 1932 vedono il PIL dei Paesi industrializzati crollare del 17 percento e la disoccupazione coinvolgere negli Stati Uniti un quarto della popolazione attiva. Gli effetti della crisi borsistica si propagano velocemente oltreoceano, in conseguenza della posizione di forza assunta dagli Stati Uniti come principale creditore internazionale. Il taglio dei prestiti statunitensi nel 1928-1929, il crollo della domanda di prodotti europei, e infine l’elevazione, nel 1930, di altissime barriere protezionistiche lasciano l’Europa orfana della guida necessaria alla ripresa. Gli effetti immediati si registrano nel crollo del sistema bancario centroeuropeo, che dipende massicciamente dagli investimenti americani (Creditanstalt), e conseguentemente del sistema industriale fortemente dipendente dal primo. Le risposte deflative esasperano gli effetti della crisi, fino a quando, con l’abbandono del gold standard da parte dell’Inghilterra nel 1932, il fragile sistema viene abbandonato a ruota da molti altri Paesi. Gli Stati Uniti abbandonano l’ortodossia monetaria con Franklin Delano Roosevelt nel 1933: il New Deal simboleggia l’inizio di una nuova era, in cui l’illusione nel mercato che si autoregola lascia definitivamente il posto a una legittimazione dell’intervento di stimolo dello Stato nell’economia, che troverà di qui a poco la sua più alta elaborazione teorica nell’opera di John Maynard Keynes. Le condizioni di gravissimo disagio sociale dell’America e dell’Europa dei primi anni Trenta spianano la strada a politiche statali finalizzate a sostenere la domanda, e a raggiungere la piena occupazione: l’obiettivo accomuna sia le democrazie liberali, sia i nuovi regimi fascisti, sia l’Unione Sovietica; nelle prime il sostegno alla domanda, il riconoscimento della contrattazione sindacale, politiche di redistribuzione del reddito e di sostegno alla produzione industriale; nelle seconde il diretto controllo statale della produzione industriale, la riforma del sistema creditizio, politiche massicce di lavori pubblici, e il disciplinamento autoritario di una manodopera assorbita dalla produzione finalizzata allo sforzo bellico; nella terza la pianificazione totale dell’economia e il controllo dei prezzi.
Sul piano internazionale gli anni Trenta segnano il trionfo del protezionismo, il richiudersi dei sistemi nazionali su se stessi, che assume nelle dittature fasciste la forma estrema dell’autarchia. Al gold exchange standard subentra una frammentazione del sistema monetario internazionale: si delinea un’area della sterlina, un’area nazista, e un residuo blocco dell’oro (Francia, Italia, Belgio, Svizzera, Olanda e Polonia) che continua a subire gli effetti negativi della deflazione fino alla metà del Decennio. L’instabilità dei cambi inaugura una fase di svalutazioni competitive che accentua la difficoltà delle relazioni internazionali e annulla qualunque tentativo di cooperazione, mentre i mercati interni si caratterizzano per la crescente tendenza alla cartellizzazione e al corporativismo.
Il mondo giunge alla vigilia della seconda guerra mondiale in condizioni assai più fragili di quelle del 1914.