Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’idea che percorre tutta la storia dell’ecologia è la necessaria interdipendenza dei viventi: nella biosfera tutto si tiene in equilibrio. L’ecologia studia strutture e processi sincronicamente e diacronicamente, a varie scale spaziali e temporali; si concentra sulle relazioni intra e interspecifiche, ne indaga la natura economica, conflittuale o cooperativa, ne misura l’intensità; ricorre descrittivamente al concetto di ecosistema. Il vocabolario dell’ecologia è spesso antropocentrico; la conoscenza degli ecosistemi e degli ambienti di vita delle altre specie è severamente condizionata dai limiti percettivi degli ecologi. L’ecologia del secondo Novecento ha dovuto concentrarsi su problemi applicativi di enorme complessità: boom demografico, inquinamento, crisi climatiche e della disponibilità d’acqua, erosione della biodiversità di specie di interesse agronomico o ittico, alterazione degli ecosistemi, insorgenza di nuove patologie mediche e veterinarie, estinzione. Oggi molti dei problemi affrontati dall’ecologia scientifica intercettano questioni economiche e politiche.
Poche scienze sono allo stesso tempo tanto popolari e così mal conosciute e fraintese come l’ecologia. Anche se in modo ovviamente assai meno vistoso di quanto non accada presso il pubblico, pure tra gli addetti ai lavori si possono trovare punti di vista diversi e spesso discordanti sull’identità e la natura dell’ecologia. Gli storici della scienza si dividono sulla sua origine e la sua storia, gli ecologi ne tratteggiano differenti profili a seconda della loro formazione accademica e del loro specifico oggetto di studio: piante, animali, cenosi (specie viventi) terrestri, lacustri, fluviali, marine, benthos, plancton, foreste, paesaggio ecc., arrivando a differenti conclusioni anche a seconda della scala di osservazione e misura a cui si svolgono le loro ricerche. Potrà stupire ma non tutti gli ecologi concordano sulle proprietà di base delle biocenosi e degli ecosistemi. La natura composita descrittiva e meccanicistica, quantitativa e olistica dell’ecologia si è manifestata sin dalle origini ottocentesche della disciplina attraverso i contributi della geobotanica, della fisiologia vegetale, interessata al rapporto tra piante, clima e suolo, dello studio della dinamica della vegetazione nel tempo. Tale natura polimorfica dell’ecologia in parte è frutto della sua storia e delle diverse tradizioni di ricerca, in parte deriva dall’oggetto stesso della disciplina: le relazioni tra organismi e ambiente. Più che in altre discipline biologiche è importante in ecologia il posizionamento teorico del ricercatore, il suo punto di vista, la sua epistemologia.
Diversamente dalla genetica o dalla biologia molecolare in ecologia non si fanno delle improvvise scoperte: è una scienza giovane e il suo oggetto di studio è estremamente complesso, spazialmente eterogeneo e temporalmente variabile, sensibile agli effetti di scala. Gli avanzamenti sono rappresentati piuttosto da progressi nell’accuratezza delle misure, nella ricostruzione dei meccanismi, nell’attendibilità delle rappresentazioni dei fenomeni, dalla scoperta di regolarità piuttosto che di leggi. La tensione e il contrasto teorico tra descrizioni ai diversi livelli organizzativi dei sistemi ecologici sono al momento alquanto forti: gli aspetti microscopici e quelli macroscopici restano abbastanza separati. La teoria dei flussi energetici nell’ecosistema non è connessa con l’ecologia di popolazione né l’ecologia di comunità sembra facilmente riducibile a quella di popolazione, la quale a sua volta si interfaccia malamente con la genetica di popolazione; l’ecologia del paesaggio si connette a fatica con l’ecologia popolazionistica e ancora meno con l’ecologia fisiologica e con quella comportamentale dal momento che manca in sostanza una teoria integrata e generale dell’ecologia: quello che vale per gli ecosistemi non è trasferibile ai livelli organizzativi più bassi.
Decisiva nella ricerca ecologica è l’attività di identificazione e rilevamento dei parametri ambientali, importantissime sono la descrizione demografica delle popolazioni, problematica è quasi sempre la delimitazione spaziale delle cenosi e degli ecosistemi, l’analisi del funzionamento dei medesimi, la descrizione dei grandi cicli biogeochimici della biosfera. L’indagine sul campo è molto sviluppata (forse più di quella sperimentale di laboratorio) e richiede molto dispendio di tempo e il contributo di molti specialisti che operano in condizioni concrete spesso logisticamente difficili, quando non ostili, e mai pienamente controllabili. Si conosce l’ autoecologia di pochissime specie, altrettanto poco si sa della loro sinecologia ; ancora meno della variabilità adattativa delle diverse popolazioni di una stessa specie. Tenendo conto che le specie note alla scienza si aggirano come minimo attorno ai 2 milioni, si deduce che lo spazio tassonomico e quello ambientale indagato dall’ecologia sono estremamente lacunosi. Ambienti come quelli delle profondità oceaniche, delle alte quote, dei grandi fiumi tropicali, della volta forestale, delle grotte, sono di difficile accesso e si conosce pochissimo dei loro habitat e delle specie che li popolano. L’analisi statistica dei dati ecologici può essere molto sofisticata e così pure sono i modelli di simulazione di fenomeni intrattabili sperimentalmente e i modelli matematici, deterministici o probabilistici, a carattere predittivo. Il sostegno dell’informatica è indispensabile; lo stesso vale per l’uso di strumenti e tecnologie che vanno dai semplici termometri ai satelliti da telerilevamento ai correntometri ai batiscafi, ecc. La fase descrittiva dell’ecologia è lontana dall’essere compiuta.
Sebbene il termine sia stato coniato in tedesco (Ökologie) dal biologo Ernst Haeckel nel 1866, molto prima che l’ecologia si rendesse autonoma dalla botanica e dalla zoologia, la maggior parte dei teorici ha parlato e parla angloamericano. Attraverso molti autori, da Haeckel che cita la darwiniana economia della natura, agli ecologi sperimentali di popolazione come Thomas Park, al limnologo e teorico George E. Hutchinson, l’influenza di Darwin – soprattutto relativamente al concetto di selezione naturale – sul pensiero ecologico è assolutamente pervasiva a livello organismico, popolazionale e biocenotico, meno sentita, invece, a livello ecosistemico. Mancando, quindi, una specifica teoria generale dell’ecologia, l’unica teoria generale disponibile rimane quella della selezione naturale, anche se poi questo non implica alcuna integrazione automatica delle conoscenze ecologiche con quelle genetiche.
Tipicamente, l’ecologia studia i rapporti tra gli organismi e il loro ambiente; sotto alcuni aspetti essa è l’erede moderna della più antica storia naturale degli organismi; moderna perché affianca allo studio qualitativo degli ottocenteschi “costumi” di animali e piante la descrizione quantitativa e l’analisi causale dei fenomeni studiati. Una sua caratteristica, rivelata dalla radice comune ai due termini economia-ecologia, è l’interesse per la dimensione economica della natura: attenzione manifestata attraverso l’elaborazione di stime quantitative dell’efficienza ecologica. Stimare il rapporto tra le quantità di materia vivente prodotta e i costi di produzione è una sfida per gli ecologi. Quando, per esempio, dopo molti decenni di lavoro si riesce a dimostrare che gli ecosistemi più efficienti ai tropici sono le foreste pluviali mentre nei climi temperati sono i laghi e gli stagni, tutti gli studiosi di ecologia hanno la forte consapevolezza di avere compiuto un progresso importante. Storicamente uno dei contributi paradigmatici della nascente ecologia è l’idea deterministica e finalistica di Frederich Edward Clements (1874-1945) secondo cui le cenosi si comportano analogamente a superorganismi, di cui le popolazioni sono loro organi. Per Clements (1916), botanico del Nebraska, le cenosi, al pari degli organismi, sono dotate di omeostasi e, come quelli, si sviluppano nel tempo maturando attraverso la successione ordinata di stadi culminanti nel climax (la cenosi terminale della serie in equilibrio con l’habitat). All’opposto, nel 1926, Henri A. Gleason dell’università dell’Illinois concepisce probabilisticamente le cenosi come associazioni opportunistiche, casuali e temporanee, di popolazioni di specie; Gleason è contro l’approccio olistico alle cenosi: sono individui piuttosto che classi.
Negli stessi anni in Inghilterra Arthur G. Tansley, fondatore del “New Phytologist” (1902), della British Ecological Society (1913) e del “Journal of Ecology” (1917) è favorevole a una concezione quasi organismica delle cenosi e degli ecosistemi, ed è convinto che le successioni ecologiche possano essere progressive quanto regressive, quindi non destinate all’equilibrio. Nel 1925 con Elements of physical biology , dell’americano Alfred James Lotka, che tratta di demografia, cicli di nutrienti e flussi di energia, nasce il primo libro di ecologia teorica. L’anno dopo, Raymond Pearl fonda la rivista “The Quarterly review of Biology”, inaugurando il primo numero con un articolo, poi diventato celeberrimo, di rassegna della crescita demografica di popolazioni di lievito, drosofile e uomo. Di solito si fa coincidere con quella data la “riscoperta” dell’equazione logistica del matematico belga Pierre-François Verhulst risalente al 1838 (ispiratagli a sua volta dal suo maestro Adolphe Quetelet e l’inaugurazione di un nuovo campo di ricerche. Anni prima, nel 1908, il fisiologo e biochimico australiano Thorburn Brailsford Robertson aveva però già pubblicato articoli in cui venivano riportati i dati di Quetelet e veniva introdotta la curva logistica, che Robertson chiama autocatalitica; Pearl conosceva questi articoli e li aveva anche molto criticati.
L’idea universale e astorica della curva logistica è che qualsiasi popolazione – a qualsiasi specie appartenga, non importa se di batteri protisti funghi vegetali animali – nelle prime fasi della propria crescita aumenta di numero seguendo una legge matematica descrivibile mediante una curva di cui è nota la funzione. Nella logistica c’è poi l’idea che il massimo numero di individui della popolazione che può mantenere un equilibrio nell’ambiente non dipende dalle caratteristiche della popolazione, ma solo dal contesto ambientale, cioè dalla sua capacità di sostenere la popolazione: è la nozione di capacità portante dell’ambiente. Tutta l’ecologia dei rapporti tra le specie – dalle equazioni di competizione, a quelle sulla predazione, al principio di esclusione competitiva di Volterra-Gause – è stata sviluppata a partire dall’equazione di Pearl-Verhulst.
Nel 1927 in Inghilterra Charles Elton pubblica Animal ecology dove, oltre a sostenere l’autoregolazione demografica, si occupa del rapporto tra livelli trofici dell’ecosistema, cioè tra tutti quegli organismi che nella catena alimentare si nutrono della stessa tipologia di cibo (piante, erbivori, carnivori, sostanze inorganiche), e distribuzione delle biomasse, cioè delle masse di organismi prodotte da un ecosistema in un dato periodo, tra i livelli. Altrove vengono affrontate altre differenti questioni ecologiche: nello stesso anno lo svizzero Josias Braun-Blanquet pubblica Pflanzensoziologie, il trattato di riferimento della scuola fitosociologica di Zurigo-Montpellier. Intanto nel 1926 il fondatore della biogeochimica, il russo Vladimir I. Vernadskij elabora una concezione globalistica e panecologica del nostro pianeta, conia la parola biosfera, riconosce che tra i processi più importanti della biosfera c’è la produzione di materia vivente, reputa fondamentale – anche per ragioni applicative – riuscire a stimare l’ammontare delle risorse organiche del pianeta. Vernadskij conosce i lavori di Lotka e li cita; Lotka citerà i suoi; entrambi concordano su una visione dell’ecologia che solo anni dopo verrà chiamata sistemica. Al loro punto di vista si rifarà, mezzo secolo dopo, il rumeno Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994) pioniere dell’economia ecologica, olistica ed ecocentrica. Da metà degli anni Venti alla fine degli anni Trenta matura l’ecologia teorica; oltre a Lotka tra i principali contributori troviamo il matematico italiano Vito Volterra, il matematico Vladimir A. Kostitzin (1882-1950), e il microbiologo Giorgi F. Gause (1910-1986), entrambi russi, e gli australiani Alexander John Nicholson (1865-1969) e Victor Albert Bailey.
Il più importante concetto dell’ecologia scientifica è quello di ecosistema; il termine venne coniato dall’ecologo vegetale inglese Arthur Tansley nel 1935 e sette anni più tardi implementato quantitativamente dal limnologo americano Raymond Lindeman. È su questo concetto, portato al successo nel 1953 dal più famoso dei trattati di ecologia, Fondamenti di ecologia di Eugene P. Odum, che si fonda l’autonomia dell’ecologia come scienza. Tutta l’ecologia è impregnata di pensiero sistemico, molto essa deve alla teoria dei sistemi di Ludwig von Bertalanffy, alla cibernetica di Norbert Wiener degli anni Cinquanta e Sessanta e, più di recente, alla teoria del caos e della complessità. I pattern (campioni) e i processi derivanti dall’interazione tra individui, popolazioni, specie e comunità all’interno di paesaggi sono al centro degli studi attuali dell’ecologia. Queste interazioni formano complesse reti (la nozione di rete è centrale in molte scienze di fine Novecento), oggetto di intensa ricerca nell’ambito della teoria della complessità, dell’informatica e della meccanica statistica. Oltre ad avere stabilito rapporti con le scienze dure di tipo fisico-matematico, per il suo approccio sistemico e globalistico, l’ecologia conserva intatti i legami con le altre scienze naturali e con la biologia e manifesta più di un’apertura verso le scienze umane attraverso l’economia, l’antropologia, la geografia. Un’esame ravvicinato merita la nozione di nicchia ecologica.
Nel secondo Novecento l’interesse per le modificazioni ambientali, il rapido degrado, l’esplosione demografica della nostra specie e quindi per i correlati problemi alimentari e di inquinamento, ha influito pesantemente sugli sviluppi dell’ecologia promuovendo certi temi con forte impatto sociale, spesso a scapito di altri forse anche più interessanti sotto il profilo schiettamente scientifico. Nei Paesi occidentali economicamente più ricchi, gli ecologi sono stati presto chiamati a consigliare i politici in molte occasioni in cui erano in ballo questioni ambientali. La nascita dell’ambientalismo postbellico può essere fatta risalire al 1962, quando con la pubblicazione Silent Spring Rachel Carson denuncia i nefasti effetti ambientali del DDT e di altri pesticidi, criticando anche l’idea di progresso tecnico-scientifico. Da allora l’interesse del pubblico verso le conoscenze dell’ecologia scientifica si è andato restringendo a favore del richiamo dell’ecologia applicata orientata a studiare gli impatti dell’inquinamento e di altri stress sulla struttura e il funzionamento degli ecosistemi.
Naturalmente si potrebbero fare moltissimi esempi di impatto ambientale, ma una lista delle principali macrocategorie può bastare a rendere l’idea: inquinamento dell’aria, contaminazione da elementi tossici, acidificazione, inquinamento da petrolio, eutrofizzazione delle acque, presenza di pesticidi, deforestazione, perdita di biodiversità, effetti ecologici delle guerre. L’azione antropica ha una tale influenza sull’ambiente che oramai esistono protocolli standard di riferimento e un apposito settore dell’ecologia applicata specializzato nella previsione degli effetti derivanti da interventi come l’apertura di un’autostrada, l’edificazione di un complesso industriale, la costruzione di una diga foranea, la posa sul fondo marino di condutture e cavi. La finalità della Valutazione a priori dell’Impatto Ambientale (VIA) di un intervento antropico è quella di offrire eventuali alternative per l’ottimizzazione del progetto rispetto agli inevitabili danni arrecati all’ambiente. Nel 1969 gli Stati Uniti sono stati il primo Paese a legiferare adottando l’obbligo di una procedura di VIA; in Italia le prime norme sulla VIA risalgono al 1986. Visto che dipendiamo dagli ecosistemi per l’aria, l’acqua, le materie prime, il cibo, le medicine e altri beni e servizi, quello che è dannoso per la biodiversità è quasi sempre dannoso per la nostra specie. Se l’uomo comune difficilmente si rende conto di questa dipendenza, invece essa è chiarissima agli esperti di conservazione. L’ecologia, o meglio la biologia della conservazione combina molte competenze settoriali per fronteggiare la crisi della biodiversità e più in generale quella ambientale. Questo obiettivo viene perseguito sia valutando gli effetti dell’attività antropica su specie, biocenosi ed ecosistemi, sia elaborando procedure capaci di prevenire l’estinzione delle specie. Dato che la causa principale della crisi ecologica deriva dall’impatto umano, è diventato indispensabile modificare culturalmente i comportamenti delle persone nei confronti della natura. Solo in casi eccezionali è possibile ricorrere a degli strumenti coercitivi come leggi restrittive delle libertà personali e particolarmente punitive. Nella maggioranza dei casi la società ricorre alla mobilitazione di conoscenze antropologiche, sociologiche, economiche e geografiche per veicolare la cultura ecologica e programmare azioni di sensibilizzazione e di educazione alla difesa e alla conservazione delle specie e degli ecosistemi. Come gran parte dell’ecologia applicata, anche la biologia della conservazione si presenta come una disciplina dell’emergenza, visto che è assai ricorrente che qualche Paese del mondo debba decidere su temi critici di conservazione con pressante urgenza e disponendo di solito di informazioni largamente insufficienti.
Sono decine di anni che nei Paesi occidentali c’è la consapevolezza di dover conservare la diversità biologica e gli ecosistemi. Naturalmente questa consapevolezza non è una prerogativa né dell’Occidente né dell’approccio scientifico alla natura in quanto in tutto il mondo si trovano credenze religiose e filosofiche i cui precetti dettano la protezione della natura. Negli Stati Uniti, in particolare, la cultura del rispetto della natura e della sua conservazione è molto antica e si può dire che sia nata ben prima che fosse elaborata dall’ecologia scientifica. Pensatori e profeti del pensiero ecologico e dell’azione ecologista come Ralph Waldo Emerson (1803-1882) poeta e filosofo di una visione romantica della natura con finalità moralistiche e utopistiche, Henry David Thoreau sostenitore di una visione arcadica e sensuale ove la natura è animata e governata da una forza vitale, John Muir, fondatore nel 1892 della prima organizzazione conservazionista, il Sierra Club , e quindi ritenuto il padre del movimento ecologista, Aldo Leopold che per primo elaborò l’idea di risorsa ambientale, applicandola alla selvaggina, e stabilì i fondamenti scientifici della gestione razionale delle fauna selvatica, sono altrettanti precursori del moderno pensiero conservazionista. Una prospettiva tardo novecentesca (1979) è offerto dall’idea del biofisico James Lovelock e della biologa Lynn Margulis (1938-2001), conosciuta come ipotesi Gaia secondo cui la Terra con tutto l’insieme dei suoi ecosistemi abbia le proprietà di un superorganismo e che, in quanto tale, sia capace di interagire e di regolare lo stato dell’atmosfera e del clima. Già agli albori della tradizione conservazionista coesistono perciò posizioni di intransigenza nei riguardi dell’ambiente con posizioni che, con un occhio all’economia, hanno come obiettivo la gestione razionale degli ecosistemi naturali. Da queste posizioni gestionali deriva il moderno concetto di sviluppo sostenibile, risalente al 1987, definito come quella forma di sviluppo che soddisfa i bisogni primari del presente, senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni. Questa idea (espressa dal rapporto Brundtland della Commissione mondiale dell’ONU per l’ambiente e lo sviluppo) si basa sull’assunto che possa esistere un modello economico capace di soddisfare contemporaneamente tre requisiti: i bisogni della popolazione globale in crescita, l’incremento del tenore di vita dei Paesi del Terzo Mondo, la riduzione delle interazioni tra sistema produttivo e ambiente in maniera compatibile con i cicli della biosfera. Attualmente l’entusiasmo che aveva accompagnato la nascita del concetto di sviluppo sostenibile si è molto attenuato e sono in aumento le critiche alla sua inconsistenza teorica, e alla debolezza di alcune premesse come l’inesauribilità delle risorse naturali. Voci critiche si levano contro l’idea stessa che l’ambiente sia una risorsa, qualcosa da potere sfruttare e non piuttosto un bene da tutelare.
La ricerca ha dimostrato che l’estinzione non avviene a caso ma colpisce certe specie più di altre. L’identikit delle specie maggiormente minacciate contempla l’appartenenza a livelli trofici alti, la bassa densità di popolazione, un lungo periodo di gestazione nei mammiferi e una piccola area di distribuzione geografica. Purtroppo oggi le specie di animali che possiedono queste caratteristiche sono numerosissime. La perdita di biodiversità di specie fa danni maggiori quanto più filogeneticamente isolate sono le specie che si estinguono. Specie, come per esempio il panda gigante, che appartengono a branche evolutive poco ramificate dell’albero della vita, sono più in pericolo di altre e la loro estinzione implica la perdita di interi brani di storia evolutiva. La distruzione degli habitat per scopi agricoli o di sviluppo economico, lo sfruttamento di specie per la pesca e la caccia, l’introduzione volontaria o involontaria di specie esotiche rappresentano altrettante cause di modificazioni ambientali nocive agli equilibri degli ecosistemi. Naturalmente, le condizioni geografiche di alcuni territori espongono le specie che li abitano a un maggiore rischio di estinzione. La teoria dell’equilibrio insulare di Robert MacArthur ed Edward O. Wilson elaborata negli anni Sessanta afferma che su di un’isola il numero di specie rimane pressoché stabile, è in equilibrio, quando il tasso di specie immigranti sull’isola eguaglia il tasso di specie che vi si estinguono. Più piccole sono le isole maggiore è la velocità di estinzione, più lontane esse sono dal continente (o da isole maggiori) minore è la velocità di immigrazione. La teoria prevede che le faune di isole piccole e lontane dal continente siano caratterizzate da un equilibrio alquanto precario. Questo modello è stato confermato in moltissime occasioni, per molte isole e per molti gruppi di organismi. La teoria sembra purtroppo convalidata anche da dati storici: la colonizzazione umana delle isole del Pacifico ha provocato l’estinzione di circa 2 mila specie di uccelli terrestri. L’induzione antropica dell’estinzione è continuata nel Novecento. Similmente alle faune e alle flore delle isole geografiche, anche le specie relegate in ambienti ecologicamente isolati, come le parti più elevate delle montagne o i laghi, sono più a rischio di estinzione. Ci sono poi dei gruppi come gli anfibi che per specialissime caratteristiche biologiche sono molto sensibili all’inquinamento e per questo corrono rischi più e prima degli altri. Delle 5.743 specie di anfibi, 1856 (32 percento) sono già minacciate e altre 1.300 stanno per esserlo (per confronto: di tutte le specie di uccelli ne sono a rischio il 12 percento, dei mammiferi il 23 percento). Dato che la pelle di rane, rospi e salamandre è altamente permeabile essa è molto sensibile ai cambiamenti dei parametri ecologici dell’habitat incluse le modificazioni nella qualità dell’acqua e dell’aria. Questi animali sono stati perciò scelti come indicatori privilegiati dello stato dell’ambiente. L’IUCN, che ha promosso insieme ad altre agenzie e società il monitoraggio della fauna mondiale di anfibi, ha accertato che nelle Americhe e in Australia la scomparsa degli anfibi è dovuta a infezioni fungine contratte a seguito dell’inaridimento climatico, mentre in Europa, Asia e Africa ne sono responsabili la distruzione degli habitat, l’inquinamento e anche la domanda di mercato a scopo alimentare. L’allarme è a scala mondiale anche se, ovviamente, alcune aree sono più toccate di altre; come era prevedibile gli anfibi delle isole tropicali sono i più minacciati, addirittura il 92 percento della fauna di Haiti è in pericolo di estinzione. La drammatica situazione degli anfibi suona come un campanello di allarme segnalando che la situazione ambientale è critica a livello mondiale.