Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La storia del popolo ebreo è soprattutto la storia delle sue migrazioni, delle sue rielaborazioni identitarie, dei suoi rapporti con il mondo esterno. Il XX secolo ha inferto una svolta geografica, politica ed esistenziale all’ebraismo (dalla Shoah alla nascita di Israele), determinando altresì l’insorgenza dell’individuo ebreo come figura non del tutto assimilabile a una sola identità etnico-religiosa.
Il termine ebraismo denota comunemente una credenza, un retaggio, un popolo: il popolo “eletto” dell’Antico Testamento. La fine della modernità e l’insorgenza della postmodernità, caratterizzata da un processo crescente di immanentismo e dalla progressiva disintegrazione di tutti quegli steccati dottrinali e identitari che definivano il posto dell’uomo nel mondo, rendono di problematica decifrazione l’ebraismo contemporaneo. Il XX secolo ha determinato un lungo faticoso e doloroso processo di ridefinizione della condizione ebraica, sfidata dal tramonto del mondo yiddish, dal genocidio pianificato dal nazismo, dalla nascita dello Stato d’Israele e, non ultimo per importanza, dall’inarrestabile processo di individuazione. Il paradosso dell’ebraismo di inizio terzo millennio consiste proprio nella forbice sempre più ampia tra un modello identitario e aggregativo di stampo etnico-comunitario (vedi il caso di Israele e degli Stati Uniti) e la piena consapevolezza della aleatorietà di qualsiasi classificazione di stampo puramente etnico e religioso volta a definire l’ebraicità di un singolo individuo. Partendo da una breve spiegazione di termini quali ebreo, ebraismo, giudeo e giudaismo racconteremo la storia del popolo ebreo del secolo scorso attraverso le sue direttive geografiche, politiche e religiose.
Le lingue indo-europee usano riferirsi alle persone di confessione mosaica – cavallo di battaglia dell’illuminismo ebraico tedesco personificato da uomini quale Moses Mendelssohn (1729-1786) – con l’espressione “giudeo” (Jew in inglese, Jude in tedesco, juif in francese), mentre quel corpus dottrinario che ha definito le loro esistenze durante la diaspora – canonicamente, il periodo successivo alla distruzione del secondo tempio a opera dell’imperatore romano Tito nel 70 d.C. – viene genericamente indicato con l’espressione “giudaismo” (Judaism, Judaismus, judaïsme). A questo punto insorge un ulteriore distinguo semantico: la comunità delle persone di confessione mosaica viene indicata con espressioni quali Jewry e Judentum. La tassonomia moderna ha escogitato, però, un astuto tranello: la nascita di Israele, la riscoperta dell’ebraico come lingua di conversazione hanno introdotto il termine di “ebreo” (Hebrew, Hebräisch, hébreu). Passando alla lingua italiana, osserviamo come il Grande Dizionario dell’Utet definisca “ebraismo” come letteralmente “religione ebraica”, mentre “giudaismo” riguardebbe “la religione e la cultura del popolo ebraico, quali si vennero definendo” dalla cattività babilonese al sorgere del cristianesimo.
Il XX secolo dell’ebraismo può iniziare con il fallimento del modello emancipatorio ottocentesco, segnato dall’affare Dreyfus nella Francia della terza Repubblica: un “giudeo” deve ora sottostare alla rigida identificazione tra cittadinanza politica e nazionalità culturale imposta dagli Stati-nazione europei nell’età dell’imperialismo. Mentre in epoca moderna l’identità ebraica era rinchiusa entro precisi confini sociali, economici ed etnico-religiosi (i ghetti, la trasmissione patrilineare del retaggio, il credo religioso), in epoca contemporanea il diritto individuale alla cittadinanza politica viene subordinato all’abbandono dell’appartenenza identitaria minoritaria. “Bisogna rifiutare tutto agli ebrei come nazione, ma bisogna concedere loro tutto come individui”: questa affermazione di un costituente francese del 1789 racchiude assai bene l’ingiunzione etica rivolta all’ebraismo contemporaneo. La nascita del moderno antisemitismo a fine Ottocento riflette proprio il radicale cambiamento socio-politico in corso d’opera: l’ebreo, in quanto portatore di un determinato retaggio e di una determinata funzione economica, non è più del tutto distinguibile dal non-ebreo maggioritario, tende cioè a mimetizzarsi nel corpo sociale intaccandone la “sanità”. Mentre in Europa centro-occidentale la comunità ebraica riesce a conseguire una certa rispettabilità nella sfera pubblica (soprattutto nella vita economica), portando avanti un processo di riforma in senso moderno del rituale religioso (assimilazione senza integrazione), in Europa orientale il mancato influsso giuridico e spirituale della Rivoluzione francese determina una vera e propria implosione del mondo yiddish. La modernizzazione economica lo pone di fronte a tre alternative: l’emigrazione verso il Nuovo Mondo, la lotta per l’emancipazione politica oppure la ridefinizione comunitaria della propria ebraicità.
La grande spaccatura tra Est e Ovest, tra ebraismo emancipato ed ebraismo yiddish, si riflette anche sul diverso assetto comunitario tra Nord e Sud, vale a dire tra ebraismo ashkenazita (originario della Germania) ed ebraismo sefardita (originario della Spagna). La crisi irreversibile dell’Impero ottomano ha costretto le comunità sefardite a un radicale processo di adeguamento anzitutto istituzionale all’insorgenza degli Stati-nazione: le strutture comunitarie vengono riorganizzate sul modello delle comunità mitteleuropee; lo Stato interviene negli affari interni accordando sovvenzioni alle istituzioni religiose, il dominio progressivo dei settori secolari contribuisce alla modernizzazione socio-politica. Lo scambio con il mondo gentile e con quello ashkenazita si fa più serrato: l’educazione diventa lo strumento principale per avvicinare il mondo sefardita alla civiltà occidentale. In questo processo eterogeneo, caratterizzato da profonde sfumature al suo interno (basti confrontare i mutamenti avvenuti nelle comunità sefardite balcaniche con quelli nelle comunità nord-africane e mediorientali), va segnalato il ruolo importante rivestito dall’ebraismo francese attraverso società filantropiche come l’Alleanza Israelita Universale. Se è vero che la modernizzazione dell’universo sefardita è stata una sua occidentalizzazione, è altrettanto vero che tale processo non è avvenuto sotto l’egida dello Stato-nazione (come in Europa centro-occidentale), ma sotto l’influsso del “giudaismo” modernizzante francese oppure tedesco.
La prima guerra mondiale porta a compimento il processo di disgregazione degli ultimi imperi multi-etnici europei (austro-ungarico e ottomano). L’ebraismo mondiale, diffuso sul pianeta secondo quello che il sociologo israeliano Shmuel Trigano ha definito il “triplo mondo” (Nord-Ovest, Est e Sud), vanta una comunità di oltre 13 milioni di unità: le forti correnti migratorie verso Occidente, indotte dall’acutizzarsi delle persecuzioni in Europa orientale e dal ridisegnarsi dello spettro lavorativo a tutto scapito dei tradizionali settori economici ebraici (la mediazione finanziaria e il commercio), spostano il baricentro in direzione degli Stati Uniti. È qui che, nel corso del periodo interbellico, si assiste alla formazione di un polo ebraico assolutamente originale e innovativo, che apre le porte a un processo di integrazione etnica nel tessuto sociale senza precedenti e che tuttavia consente la permanenza, benché a volte ritualistica, delle forme aggregative e dei costumi religiosi tradizionali. La costruzione di nuovi Stati-nazione in Europa orientale, il decadimento del modello comunitario dello shtetl (villaggio ebraico orientale) e la crisi economica che attanaglia l’intero Vecchio Continente nel periodo interbellico fungono da background all’ascesa delle nuove destre e alla trasformazione dell’antisemitismo da strumento di propaganda politica in vera e propria politica di Stato. Il protezionismo economico, prodotto di una società insicura e restia al rischio, si riflette anche in una sorta di protezionismo etnico: Paesi come gli Stati Uniti, quello maggiormente in grado di aprire le porte agli ebrei in cerca di una vita migliore, introducono precise quote migratorie volte a salvaguardare l’equilibrio demografico ed economico dello spettro sociale.
Il periodo interbellico e, a maggior ragione, la seconda guerra mondiale infliggono una svolta decisiva all’assetto dell’ebraismo mondiale. Un paradosso spesso ignorato che soggiace all’intero meccanismo persecutorio antiebraico, dapprima nella forma dell’espulsione più o meno coatta dalle nazioni ospitanti, in seguito in quella della soppressione fisica organizzata perpetrata dal nazismo, è che qualsiasi tentativo volto a definire con precisione chi sia “giudeo” (o ebreo) si è dimostrato essere fallimentare, fallace. Con la progressiva disintegrazione del mondo yiddish e “l’americanizzazione” dell’ebraismo si avverte con maggiore forza la rilevanza sociale della strategia matrimoniale esogamica: mentre in età moderna i criteri per definire un individuo ebreo erano la presenza di una madre giudea, la conversione in caso di madre gentile o – per rimanere all’immaginario collettivo – l’esistenza di una serie di qualità “etniche” compendiate abilmente dal mercante veneziano di Shakespeare, in età contemporanea i diritti del singolo cercano di aprirsi una piccola breccia tra le rigide barriere etniche e sociali. Il tentativo nazista di biologizzare la politica ha determinato il massacro di quasi la totalità dell’ebraismo europeo, ma non è stato in grado di distruggere un’identità culturale, etica e religiosa non riconducibile unicamente al vincolo di sangue. Tramonta definitivamente il “triplo mondo” ebraico che ruotava intorno al Vecchio Continente: con la seconda guerra mondiale non scompaiono unicamente milioni di uomini, ma anche precisi modelli comunitari e aggregativi che disegnavano l’identità ebraica.
La fine della seconda guerra mondiale determina un nuovo assetto dell’ebraismo. L’universo yiddish dell’Europa orientale è stato annientato dal nazismo. Il modello liberale dell’Europa occidentale non è riuscito a integrare compiutamente la minoranza ebraica. Il mondo sefardita scompare in seguito alla convergenza di tre determinati processi storici: il genocidio nazista, la decolonizzazione africana e mediorientale e la nascita dello Stato d’Israele. Trigano parla di “duopolio” israelo-americano per definire l’assetto postbellico ma individua anche tre idealtipi di civiltà ebraica: il modello “simbiotico”, caratterizzato dall’integrazione di elementi della civiltà maggioritaria (vedi la diaspora europea occidentale ottocentesca); il modello etnico-statuale, ben definito dall’esistenza di un corpo politico ebraico autonomo (vedi Israele); infine, un “modello” autonomista, caratterizzato da una civiltà più o meno autonoma, più o meno chiusa e refrattaria all’influsso esterno (vedi soprattutto il mondo ashkenazita orientale). L’ebraismo del secondo dopoguerra presenta indiscutibilmente l’avvento del modello etnico-statuale, laddove si considerino la nascita dello Stato d’Israele e l’esperimento etnico-comunitario americano. Ma se è vero che, a livello politico, è l’asse Gerusalemme-New York a meglio definire il mondo ebraico, è altrettanto vero che la rinascita di un ebraismo europeo, nutritosi in parte dell’emigrazione sefardita postalgerina (vedi il caso francese), e il problema dell’ebraismo russo pongono quanto meno in discussione la validità di una classificazione su basi puramente etniche.
Se di questione ebraica è possibile parlare al termine del XX secolo lo si deve fare in relazione al problema demografico, intorno al quale sembra giocarsi il destino futuro dell’ebraismo mondiale. La fine del mondo bipolare ha influito pesantemente anche sull’assetto sociale, culturale ed etnico ebraico: nel corso di un decennio sono emigrati in Israele dall’ex Unione Sovietica oltre un milione di individui che si definiscono “ebrei”. La legge del ritorno promulgata dal governo israeliano nel 1950 prevede infatti che possano acquisire la cittadinanza israeliana tutti gli ebrei che decidano di vivere in Israele. Il vago grado di ebraicità richiesto dalla legge, profondamente criticato dalle autorità religiose rispettose dell’halakah (la legge, il corpus normativo tradizionale), riveste un ruolo politico affatto secondario: proprio mentre il mondo ebraico sembrava aver imboccato la strada dell’identità forte etnico-nazionale con la nascita di Israele, di un Stato e di una lingua propri, la prospettiva di ampliare a dismisura la casistica dell’ebraicità dimostra nuovamente quanto risulti difficile – o forse del tutto ozioso – ritenere che una civiltà e una cultura siano biologicamente ed etnicamente marcabili. Il futuro demografico israeliano, paventato da studiosi quali Sergio Della Pergola, intenti a salvaguardarne “l’ebraicità” etnica di fronte alla superiore fertilità della minoranza araba, non può prescindere da una risoluzione del problema politico culturale e identitario di una maggioranza ebraica, vera base della mitologia sionista. Che cosa però si debba intendere con l’espressione maggioranza ebraica è motivo di profonda discussione: il polo americano, dove i matrimoni misti piuttosto comuni vengono riconosciuti dall’ebraismo riformato, pone lo Stato ebraico, retto da una legislazione ortodossa in materia di diritto privato, di fronte a un dilemma identitario difficilmente affrontabile con una strumentazione scientifica desueta.
È indubbio che l’intero discorso sull’ebraismo novecentesco ruoti necessariamente non tanto intorno alla domanda chi siano gli ebrei oggi, quanto intorno a chi siano stati i giudei ieri e a chi lo sarà domani. Il riferimento alla rilevanza della memoria olocaustica è piuttosto evidente (si veda la Shoah). Il XX secolo ha posto l’ebraismo mondiale non solo di fronte alla disintegrazione dei recinti identitari religiosi, ma anche di fronte ai dilemmi propri di un potere politico statuale etnico-nazionale assolutamente nuovo, simile e allo stesso tempo differente rispetto a quelli europei del passato. Secondo le ultime stime ufficiali, oggi esistono nel mondo all’incirca 13 milioni di ebrei, vale a dire lo stesso numero di quelli esistenti circa un secolo fa. La maggior parte degli ebrei vive in Israele (sei milioni circa). Accanto alla ricca e influente comunità americana ne esiste una europea numericamente limitata e tuttavia arricchita dall’ibridazione dell’universo sefardita. Non pochi analisti ritengono che il futuro dell’identità ebraica sia giocabile solo all’interno di uno Stato-nazione, l’unico garante credibile di una storia ebraica, dato che il futuro dei “giudei” della diaspora sarebbe segnato da una progressiva, irreversibile e inevitabile assimilazione alla cultura maggioritaria. La domanda fatale “chi sono gli ebrei?” reca con sé l’impronta indelebile del genocidio nazista, al quale va ascritto il triste merito di aver “ucciso” l’ebraismo come luogo europeo per eccellenza dell’incontro con la diversità inducendo un gruppo di persone a identificarsi con un passato ormai morto o con un presente nevroticamente afflitto dalla paura di mettersi in discussione.