Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
All’inizio del Novecento è ancora un impero che combatte al suo interno i movimenti d’indipendenza nazionale. Dopo la prima guerra mondiale, l’Austria fatica a costruire una propria identità nazionale, sia per le amputazioni territoriali subite, sia per l’impossibilità di unirsi alla Germania (l’unificazione imposta dai nazisti con la forza nel 1938). Dopo la seconda guerra mondiale l’Austria rimane un Paese a sovranità limitata fino al 1956. La sua vita politica successiva è caratterizzata dalla stabilità delle istituzioni e dell’economia. Con il crollo dei Paesi comunisti, sorgono problemi economici e sociali per la massiccia immigrazione slava. La partecipazione al governo del partito xenofobo di Jörg Haider produce gravi tensioni diplomatiche.
All’aprirsi del XX secolo il territorio austriaco è ancora parte dell’Impero austro-ungarico, entità politica formata da due Stati, con un unico imperatore e con due governi distinti; la politica estera, dipendente dal ministero delle Finanze e da quello della Guerra, è in comune. La situazione economica nei primi anni del Novecento è in espansione, quella politica vede l’introduzione progressiva di provvedimenti democratici: il suffragio universale maschile viene concesso nel 1907; il bilinguismo è attuato in tutti i territori dell’impero. Queste aperture e la crescita economica non riescono comunque a contenere le spinte indipendentiste, che diventano sempre più pressanti e spingono le autorità a un’azione repressiva. La lotta contro il nazionalismo è attuata, sul piano interno, contrapponendosi alle istituzioni parlamentari locali (scioglimento del parlamento boemo nel 1907) e in politica estera, con un sempre maggiore interventismo nei Balcani, dove la Repubblica Serba, anche per le sue stesse mire espansionistiche, rappresenta un modello di autonomia per tutte le altre nazionalità. Questa strategia trova la più esplicita applicazione nell’ottobre 1908, con l’annessione della Bosnia-Erzegovina, atto palesemente ostile verso la Serbia e verso la Russia. Il governo austriaco si orienta quindi verso una soluzione bellicista che non prevede concessioni di tipo diplomatico. La linea intransigente appoggiata dall’imperatore Francesco Giuseppe non trova il consenso dell’erede designato, l’arciduca Francesco Ferdinando, che è favorevole alla concessione ai territori slavi della parte meridionale dell’impero di un’autonomia pari a quella ungherese. L’imperatore invece si sente meglio garantito dall’alleanza militare con la Germania e con l’Italia, seppure ai vertici militari si nutrano dubbi sulla fedeltà di quest’ultima in caso di conflitto. La guerra alla Serbia, dichiarata nel luglio del 1914, non è un evento inaspettato per i vertici politici austriaci, che da tempo cercano un pretesto per condurre una guerra contro la repubblica slava, anche in seguito all’importanza che questa ha assunto durante le guerre balcaniche (1912-1913). L’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, oltre a risolvere il dubbio sulla più conveniente strategia politica da adottare nei confronti delle questioni nazionali, dà avvio alla prima guerra mondiale, aprendo scenari totalmente imprevisti dai dirigenti austriaci. Innanzitutto per i fronti che vedono impegnata la nazione: non solo quello balcanico ma, a oriente – soprattutto nella prima fase del conflitto – quello con la Russia zarista, quindi quello dell’Italia, la quale, abbandonando la Triplice alleanza, è entrata in guerra contro l’Austria per entrare in possesso delle terre irredente.
La pluralità dei fronti e il protrarsi inaspettato della guerra con le conseguenti difficoltà, danno forza alle rivendicazioni nazionali, aumentando il pericolo di disgregazione dell’impero. Tomas Masaryk (1850-1937), uno dei padri fondatori della Cecoslovacchia, proclama un governo ceco in esilio, subito riconosciuto dai nemici dell’Austria. Alla morte dell’imperatore Francesco Giuseppe (21 novembre 1916) l’Austria si trova in una situazione di grande difficoltà, tanto che il successore, Carlo I (1887-1922), prende contatti con le potenze della Triplice intesa, nel tentativo di realizzare un accordo indipendentemente dalla Germania. Le potenze alleate respingono le proposte dell’imperatore, in effetti poco disponibile alle concessioni, in particolare nei confronti dell’Italia. Nel 1917 lo sfondamento a Caporetto illude i vertici militari austriaci su un possibile rovesciamento delle sorti della guerra; l’arresto però sulla linea del Piave causa la definitiva sconfitta. Le diverse nazionalità si proclamano indipendenti e i soldati dei nuovi Stati disertano, facilitando l’azione dell’esercito italiano, che ne approfitta per penetrare nei territori austriaci. La situazione è così critica che diventa impossibile per Carlo I convincere gli Alleati a imporre condizioni di pace meno dure di quelle della Germania. Le diverse nazionalità dell’impero rifiutano seccamente la proposta dell’imperatore di dare origine a uno Stato federale; si formano così gli Stati autonomi di Cecoslovacchia, Ungheria e Jugoslavia (trattato di Saint-Germain e trattato del Trianon). Queste decisioni, che sanciscono la fine dell’impero, conducono Carlo I a rinunciare a ogni responsabilità politica; il 12 novembre 1918 viene istituita la Repubblica.
Le dimensioni del Paese sono notevolmente ridotte, anche perché gli Alleati si oppongono all’unificazione con la Germania, che in quel frangente appare un ovvio esito politico. Neanche i territori compresi nelle regioni slave, abitati prevalentemente da Tedeschi, entrano a far parte della repubblica, per la ferma opposizione dei nuovi Stati. Le prime elezioni dopo la guerra sono vinte dai socialdemocratici, la cui linea politica si ispira alle dottrine dell’austro-marxismo teorizzate da Otto Bauer e Max Adler, di tendenza riformista. Questo governo deve affrontare una difficile situazione economica, dovuta anche alla sproporzione tra una capitale in cui si concentra la maggioranza degli abitanti e un territorio limitrofo poco sviluppato nelle sue potenzialità. I socialdemocratici introducono notevoli riforme sociali ma, nello stesso tempo, rifiutano la deriva rivoluzionaria auspicata dai comunisti. Questo atteggiamento viene mantenuto anche quando le contemporanee rivoluzioni comuniste in Ungheria e in Germania individuano nell’Austria il territorio che può favorire una continuità rivoluzionaria tra l’Unione Sovietica e la Germania. Nel decennio compreso tra il 1920 e il 1930 la forza politica maggioritaria è quella dei cristiano-sociali, seguiti dai socialisti. L’Austria, nei successivi governi dei cancellieri Johann Schober (1874-1932) e Ignaz Seipel (1876-1932), conosce un destino simile a quello tedesco: deve cioè affrontare enormi difficoltà economiche, che si attenuano a metà del decennio, in ragione del mutato clima nelle relazioni internazionali. Un prestito gestito dalla Società delle Nazioni consente la ripresa economica e la stabilità monetaria.
La possibile unificazione con la Germania, verso cui gli Alleati mostrano ostilità, ritorna a essere una questione politica attuale quando l’Austria viene drammaticamente investita dagli effetti della crisi economica del 1929: come in Germania, l’impoverimento improvviso di una parte consistente della popolazione, che da poco ha approfittato di una decisa ripresa post-bellica, favorisce la crescita delle posizioni politiche più radicali. In Austria tale esasperato nazionalismo, carico di risentimenti verso i trattati di pace, inevitabilmente finisce con l’appoggiare la causa della riunificazione di tutti i territori tedeschi. Protagonisti dell’attività politica diventano le formazioni squadriste dell’estrema destra (solidali con i territori tedeschi compresi nei Paesi slavi) che combattono contro le milizie operaie, decise a difendere la repubblica. Il cancelliere cristiano-sociale Engelbert Dollfuss (1892-1934) mantiene una posizione moderata, agendo contro l’attivismo politico degli opposti estremismi: combatte le formazioni paramilitari di destra, scioglie le milizie della sinistra e cerca di realizzare una svolta autoritaria, caratterizzata, nelle sue intenzioni, dai principi del cooperativismo, ispirati però alla dottrina sociale della Chiesa.
Dollfuss viene assassinato (25 luglio 1934) in seguito a un colpo di Stato fallito dei nazisti austriaci; l’unificazione con la Germania riesce quattro anni più tardi (11-12 marzo 1938), in quanto Mussolini, ormai alleato di Hitler, non mobilita più le sue truppe a difesa dell’indipendenza austriaca. Il periodo di unificazione con la Germania, compresi i terribili anni della guerra, rappresentano per l’Austria una fase storica cruciale, che ha dato luogo a differenti interpretazioni. Contro una storiografia di parte che ha voluto rappresentare la nazione vittima di un’invasione straniera, il Paese continua a interrogarsi, investendo anche le più alte istituzioni, sul grado di coinvolgimento e di collaborazione dei cittadini austriaci con i crimini del nazismo.
Dopo la guerra, l’Austria è un Paese sotto tutela fino al 1956 e Vienna viene divisa in quattro zone occupate dalle nazioni vincitrici. Cancelliere è il socialista Karl Renner, che ha guidato il primo esecutivo anche dopo la prima guerra mondiale. I suoi poteri sono di poco rilievo e ogni decisione legislativa deve essere approvata dai rappresentanti delle potenze occupanti. L’Austria può ritornare a essere uno Stato sovrano solo nell’aprile del 1955, quando, con un viaggio a Mosca, il cancelliere Julius Raab (1891-1964) rassicura l’Unione Sovietica sulla posizione di neutralità dell’Austria (Memorandum di Mosca, aprile del 1955).
Le potenze occupanti abbandonano il Paese e l’Austria entra a far parte delle Nazioni Unite. Da allora la vita politica austriaca vede il protagonismo del Partito Cristiano Sociale e del Partito Socialista che, in un primo tempo, danno vita a governi di coalizione. L’unica questione internazionale rimasta aperta, quella del Südtirol con l’Italia, viene risolta alla fine degli anni Sessanta; il trattato di Copenhagen del 1969, firmato dai due Paesi, rinnova quello del 1946 e prevede un’ampia autonomia per la popolazione di lingua tedesca. Sicuramente questa firma contribuisce a stemperare le tensioni nella regione, pur non eliminandole del tutto. L’equilibrio tra i due principali partiti si interrompe nel 1970; già da quattro anni era terminata l’esperienza dei governi di coalizione, sostituiti da un monocolore cattolico. Nel 1974 emerge la personalità del socialista Bruno Kreisky (1911-1990), l’uomo politico austriaco più rappresentativo del secondo dopoguerra. Le riforme varate dal suo governo, che suscitano viva approvazione presso l’opinione pubblica, consentono ai socialisti di mantenere il potere fino al 1983. Nel corso degli anni Ottanta la scena politica muta, con il forte successo dei Verdi. L’Austria deve far fronte alle polemiche internazionali suscitate dalla candidatura a presidente della Repubblica di Kurt Waldheim (1918-), già segretario dell’ONU, di cui vengono rivelati i trascorsi bellici nelle forze armate tedesche. Durante la presidenza Waldheim, a partire dal 1986, è più volte primo ministro Franz Vranitzky (1937-), divenuto poi presidente del Partito Socialista dal 1988. In questi anni le trasformazioni della politica mondiale condizionano in modo sensibile le istituzioni austriache: il crollo del mondo comunista non rende più necessaria la posizione di neutralità; l’Austria, di conseguenza, entra a far parte dell’Unione Europea. Contemporaneamente la posizione di confine, a ridosso dei Paesi ex comunisti, provoca una consistente immigrazione, soprattutto slava. Nel 1989, del resto, l’Austria è, attraverso l’Ungheria, il primo Paese occidentale raggiunto dai cittadini dell’ex Germania orientale. Con l’esplodere del conflitto civile nella Jugoslavia, in Austria si riversano diversi profughi; il fenomeno, analogamente a quanto avviene in altri Paesi europei, fa emergere posizioni xenofobe, che trovano aggregazione nella formazione politica guidata da Jörg Haider (1950-2008) del Partito Liberale Austriaco (FPO). Il consenso al partito si rafforza anche in ragione di un ripensamento, da parte dell’opinione pubblica, sull’opportunità di far parte della Comunità Europea, soprattutto per le manovre restrittive imposte dal trattato di Maastricht. La consistenza di tale partito costringe le altre formazioni politiche a dar vita a governi di coalizione; nel 2000, il cancelliere popolare Wolfgang Schüssel (1945-) decide di accettare quale alleato nel governo il partito di Haider, suscitando vivaci reazioni internazionali, che prevedono anche la rottura o la limitazione dei rapporti diplomatici: lo Stato di Israele ritira il proprio ambasciatore, l’Unione Europea sospende le relazioni politiche, gli Stati Uniti riducono il loro personale diplomatico. Queste reazioni non portano il cancelliere a mutare parere; nelle elezioni del novembre del 2002 il partito di Schussel (ÖVP) ottiene una netta vittoria, mentre quello di Haider riduce i propri consensi a poco più del 10 percento. L’alleanza di governo viene comunque continuata, con una ridotta possibilità da parte dell’FPO di condizionare le principali decisioni politiche. Nel 2004 è eletto presidente della Repubblica il socialista Heinz Fischer (1938-); la sua elezione a suffragio popolare, pur non avendo immediate ripercussioni politiche, viste le funzioni di pura rappresentanza che la Costituzione austriaca assegna al capo della Repubblica, segnala un nuovo orientamento a sinistra dell’elettorato austriaco.