L’Ateneo Veneto
A pronunciarli, o leggerli, i nomi dell’Ateneo Veneto e dell’Istituto Veneto possono far pensare a due realtà molto simili tra loro. La qual cosa, per quanto attiene le circostanze esterne, presenta effettivamente non pochi né irrilevanti motivi di riscontro: queste istituzioni, infatti, nacquero all’incirca nello stesso periodo (l’età napoleonica), si dettero le stesse strutture, ordinamenti, finalità; infine, entrambe ebbero sede a Venezia. Qui però iniziano e finiscono le analogie, dal momento che, mentre l’Ateneo ebbe prevalentemente dimensione urbana, l’Istituto non si risolse mai nel breve recinto delle lagune, e benché fosse originariamente ospitato a Palazzo Ducale, ossia nel centro più prestigioso dell’antica Serenissima di cui occupava gran parte del secondo e terzo piano, con la città mantenne sempre rapporti distaccati, uso a spaziare su orizzonti ben più vasti del chiuso perimetro municipalistico(1).
Questo, invece, fu a un tempo il limite e la grandezza dell’Ateneo, che il 23 novembre 1963 Enzo Milner, da poco assunta la presidenza, poteva definire «centro intellettuale e [...] faro di libertà nel cuore della nostra Venezia». Con quest’espressione il rapporto dell’accademia con la città è definito esemplarmente, ed è un rapporto etico, laddove quello con l’Istituto Veneto fu sempre e soltanto tecnico e scientifico. Questo è il succo del mio discorrere; le rimanenti pagine serviranno soprattutto a dimostrarne gli aspetti, le manifestazioni, la scansione cronologica e, soprattutto, la fondatezza.
Il 14 dicembre 1924 Gino Damerini, noto giornalista e critico ideologicamente vicino al nazionalismo di Volpi, nella quarta puntata, dedicata appunto a Venezia, di una inchiesta a seguire condotta da «Il Marzocco» sulle Istituzioni di cultura italiane, attaccava duramente l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti quale esponente di una cultura togata ed elitaria, refrattaria alle novità e a ogni apertura sociale del progresso scientifico, laddove l’Ateneo gli appariva ben altrimenti fruttuoso alla città, nonostante gli innumerevoli condizionamenti di una tradizione ormai distesa su un arco di 112 anni di vita, e la precarietà delle condizioni finanziarie che l’avevano perennemente dannato a «una esistenza materialmente stentata». In effetti, continuava Damerini, l’Ateneo «ha tradizioni culturali magnifiche: è benemerito per aver stupendamente restaurata la sua sede storica, ma lotta, come un gran signore decaduto, a sanare il passivo irriducibile dei suoi bilanci». L’Ateneo, questo era il punto,
s’è coraggiosamente evoluto. Ha spalancate le porte del Tempio alla città; ha infittite le schiere dei suoi soci tassandoli con una quota mensile per farli contribuire alle spese; dà ospitalità a istituzioni varie; con l’aiuto dell’Associazione della Stampa nutre un gabinetto di lettura di giornali quotidiani, ha creata una biblioteca pubblica circolante; stampa una voluminosa rivista mensile, s’è messo a fiancheggiare assiduamente gli avvenimenti locali, italiani, mondiali. Sotto la presidenza di un clinico di valore, il prof. Jona, in questi ultimi tempi ha svolto un’opera organica e conseguente veramente notevole: corsi di storia letteraria; corsi annuali della storia politica di Venezia; corsi annuali della storia del costume a Venezia; corsi critici di storia del teatro; corsi scientifici; pubblicazioni centenarie interessantissime tra cui quelle importanti su Paolo Sarpi; dibattiti alti e sereni sui problemi specifici del presente e dell’avvenire di Venezia, il tutto affidato a uomini di rara competenza, taluni illustri; con un ritmo fervido di operosità cosciente e dinamica. Una festa, entrare nella austera sala delle letture, normalmente gremita nonostante la sua ampiezza: segno di spontanea partecipazione delle classi colte veneziane allo sforzo dei dirigenti; ma purtroppo, nient’altro che questo! Infatti l’Ateneo Veneto prodiga quanto s’è detto gratuitamente. […] Ed ecco spiegate le difficoltà finanziarie in cui esso versa costantemente! Conviene sperare ed augurare che l’azione dell’Ateneo Veneto trovi negli enti pubblici e nei più cospicui cittadini di Venezia, incoraggiamenti ed aiuti maggiori di quelli sui quali poté, finora, contare. Quanto meglio sarebbe se, in luogo di disperdere il denaro per cento rivoli verso scopi affini, si pensasse finalmente a convogliarlo sulle istituzioni che si presentano come le più proprie a realizzare siffatti scopi! Cito un esempio: da un par d’anni a Venezia si profondono somme cospicue a favore di certi cosiddetti corsi d’alta cultura estivi pro stranieri, che nessuno frequenta e che non servono a nulla. Codeste somme affidate all’Ateneo Veneto significherebbero la salvezza e la prosperità del prode istituto centenario; e la cultura (la piccola, la media e l’alta cultura) ne sarebbe davvero avvantaggiata. Ma appunto perciò il consiglio, vedrete, resterà lettera morta!
Mi sono dilungato forse un po’ troppo su questo elogio tributato da Damerini all’Ateneo, ma perché trovo che la descrizione sia calzante e, tutto sommato, valida nel tempo: davvero il sodalizio di S. Fantin fu (e in parte è ancora) tutto questo. Oddio, un poco di tara bisogna farla: Damerini era già da cinque anni attivo socio dell’Ateneo, mentre non lo sarebbe mai stato dell’Istituto, che oltretutto di lì a qualche anno avrebbe ospitato i tanto vituperati corsi estivi per stranieri; ancora, definire «una festa» l’ingresso nella sala di lettura, a suo dire «normalmente gremita nonostante la sua ampiezza», sa di forzatura come facilmente può immaginare chiunque abbia un poco di dimestichezza con le biblioteche nostrane: e infatti, nella relazione conclusiva dell’a.a. 1932-1933, il segretario Ettore Bogno avrebbe onestamente dichiarato, a proposito del Gabinetto di lettura: «Il tentativo di allungare l’orario serale sino alle 23, non ci portò che una maggior spesa di luce, senza che la frequenza, quasi nulla, la giustificasse. Perciò ritornammo all’orario vecchio: 10-12 e 16-20»(2).
Dunque, posto che Damerini non poteva parlare a vanvera, qual era la situazione dell’Ateneo nel primo dopoguerra? Dopo la forzata chiusura conseguente alla fase più drammatica del conflitto (4 novembre 1917-23 dicembre 1918), la ripresa dell’attività venne favorita proprio dall’urgenza di problemi concreti inerenti alla vita della città, come del resto era nello stile del sodalizio: lo ricordava il presidente Ferruccio Truffi, docente di Merceologia a Ca’ Foscari, nella sua relazione conclusiva sugli anni 1918-1919, accennando alla costituzione di una specifica commissione di soci (tra essi, il prelodato Damerini) onde procedere al ritorno e al riordinamento delle opere d’arte asportate da Venezia per timore dei bombardamenti. Truffi stava per passare la mano a Davide Giordano, primario all’Ospedale Civile di Venezia, di cui sarebbe stato sindaco di lì a poco, dal ’20 al ’24, dopo di che sarebbe divenuto senatore; un uomo d’impronta liberale e nazionalista, in ottimi rapporti con i centri del potere locale, e che, caso unico assieme al primo presidente, Leonardo Manin, avrebbe diretto per ben tre volte l’Ateneo. Giordano non portò a termine il mandato, appunto per essere stato eletto sindaco, ma con la sua autorevolezza riuscì a trarlo dalle secche in cui la guerra l’aveva confinato e, ben coadiuvato da un vicepresidente come Arnaldo Segarizzi e un segretario del calibro di Giulio Lorenzetti, a dotarlo di un nuovo statuto, approvato dall’assemblea dei soci il 27 giugno 1920, in sostituzione del precedente che risaliva all’ormai lontano 1878(3).
Il criterio fondamentale cui si ispirava la riforma era di procedere all’allargamento della base sociale degli iscritti, onde ovviare alle difficoltà finanziarie e realizzare nuovi e più vasti contatti con la realtà non solo culturale, ma anche produttiva, della città; era, in fondo, far propria la lezione della guerra, che aveva scardinato il vecchio ordine sociale ed economico. Pertanto il numero dei soci effettivi fu innalzato da 100 a 300, portando in tal modo «linfa viva e sana […] nella nostra compagine»(4); inoltre nel suo quadriennale mandato il presidente sarebbe stato affiancato da un solo vicepresidente e da un solo segretario, in luogo dei due sino allora eletti in rappresentanza delle diverse classi del sapere, scientifica e umanista: era anche questo un modo non solo per rendere più agile la macchina accademica, ma anche per coniugarne ulteriormente l’unità della gestione culturale. Propongo qui, al fine di facilitare al lettore la conoscenza dei quadri direttivi dell’Ateneo nel periodo in esame, l’elenco delle personalità chiamate a ricoprire le principali cariche:
Tab. 1. Presidenti, vicepresidenti e segretari dell’Ateneo (1919-1945) Presidenti Vicepresidenti Segretari 1915-19 = Ferruccio Truffi 1921-23 = Arnaldo Segarizzi 1919-25 = Giulio Lorenzetti 1919-21 = Davide Giordano 1923-25 = Pietro Rigobon 1925 = Giuseppe Fiocco 1921-25 = Giuseppe Jona 1925-29 = Nino Barbantini 1925-30 = Mario Brunetti 1925-29 = Davide Giordano 1929-35 = Luigi Marangoni 1930-35 = Manlio Dazzi-Ettore Bogno 1929-33 = Giovanni Bordiga 1935-38 = Alberto Musatti 1935-37 = Ettore Bogno 1933-37 = Luigi Marangoni 1938-47 = Arturo Pompeati 1938-47 = Francesco Tullio Roffarè 1938-42 = Davide Giordano 1942-45 = Carlo A. Dell’Agnola
Ancora, lo statuto del 1920 prevedeva espressamente che tra i punti caratterizzanti l’attività dell’Ateneo fosse contemplata l’apertura delle proprie sale «a persone, istituti, associazioni, congressi che con serietà e dignità intendano agli stessi scopi culturali e scientifici dell’Ateneo»: non che questa fosse una novità, ché già la sede ospitava l’Ordine dei medici, l’Università Popolare, la Società Dante Alighieri, l’Associazione della stampa veneta, quella forense, quella contro la tubercolosi e altre sigle ancora, ma col tempo la concessione di spazi a enti estranei all’Ateneo avrebbe finito col trasformarsi in vera e propria locazione, secondo una tradizione che continua tuttora (il 12 novembre 1972, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, si discusse sull’opportunità di mutare l’orario delle riunioni dei soci, visto che il sabato pomeriggio non sembrava più tanto gradito — (fino al novembre 1937 le assemblee si tenevano la domenica mattina —, ciò però non fu possibile perché tutti gli altri giorni risultavano già impegnati da riunioni prefissate dagli «ospiti» dell’Ateneo). Infine, il nuovo statuto auspicava la nascita di una biblioteca circolante, che dai 3.000 volumi del 1921 sarebbe passata agli 8.000 del ’37; dotata di un capitale di 15.000 lire, essa fu ospitata in una sala del pianterreno, affiancando in tal modo il Gabinetto di lettura(5).
Dunque un Ateneo calato nella città, in qualche misura al servizio di essa o quantomeno della sua parte migliore, pur conservando una propria indiscussa autonomia morale e intellettuale; si potrebbe dire, in fondo, che a ripercorrere l’attività dell’Ateneo si finisce per far la storia dei problemi di Venezia, dei dibattiti, delle speranze, dei progetti, delle illusioni e delusioni che sottesero il secolo testé concluso. Resta da dire, per completare il quadro dell’attività della nostra accademia, che accanto alle innovazioni convissero, ovviamente più numerose, le persistenze, a cominciare dai Corsi di storia veneta. Essi furono, e sono tuttora, uno dei tradizionali appuntamenti annuali dell’Ateneo; nati nel 1848 per iniziativa di Samuele Romanin, nel periodo compreso tra le due guerre mondiali erano frequentati soprattutto da studenti delle scuole medie superiori, in numero che oscillava per solito tra le 40 e le 100 unità; si concludevano con un esame accompagnato dalla premiazione dei 4 più meritevoli. Quanto ai docenti, furon quanto di meglio si potesse reperire sulla piazza, per così dire: erano gli studiosi che in quegli anni facevano parte della Deputazione di Storia Patria e riempivano dei loro scritti l’«Archivio Veneto». Eccoli(6):
Tab. 2. Docenti del Corso di storia veneta (1919-1943) Presidenti Segretari 1919-1922 = Mario Brunetti 1932-1934 = Giuseppe Maranini 1922-1924 = Pier Liberale Rambaldi 1934-1935 = Augusto Lizier 1924-1927 = Giuseppe Pavanello 1935-1936 = Eugenio Bacchion 1927-1928 = Mario Brunetti 1936-1937 = Carlo Lagomaggiore 1928-1929 = Giuseppe Pavanello 1938-1939 = Bruno Dudan 1929-1930 = Giuseppe Maranini-Mario Brunetti 1939-1940 = Gino Damerini 1930-1932 = Augusto Lizier 1940-1943 = Eugenio Bacchion
Assieme ai Corsi, la rivista, ossia la voce dell’Ateneo. Nata nel 1881, essa mutò più volte il sottotitolo, ma non mai il titolo di «Ateneo Veneto»; altro punto fermo della sua tradizione, il cronico ritardo con cui uscì rispetto all’anno indicato: al punto che neppure la data di nascita riuscì più ben chiara agli editori, sicché nel 1963, quando il responsabile Nicola Mangini diede inizio a una nuova serie, provvide a mutare non solo la numerazione, ma anche la datazione(7). Cambiò più volte periodicità; in teoria mensile, dovette adeguare la sua uscita all’esiguità delle risorse economiche dell’accademia, tanto da scomparire addirittura per anni interi; nel periodo che ci interessa, dapprima la sua direzione venne assunta direttamente dalla presidenza, che peraltro dal ’19 al ’24 riuscì a stampare un unico fascicolo annuo, con il rendiconto dell’attività istituzionale. Affidata poi nel ’25 all’allora segretario Mario Brunetti con l’intento di renderla semestrale, insuperabili difficoltà economiche la costrinsero ben presto al silenzio per vari anni, dal ’26 al ’31; essa ricomparve nel ’32 con periodicità bimestrale e in veste più elegante sotto la direzione di Manlio Dazzi, che si affidò alle officine tipografiche di Carlo Ferrari, le quali avrebbero stampato la rivista per ben trent’anni. Sostituito in copertina il leone marciano con l’impresa accademica che tuttora troviamo, Dazzi seppe ben armonizzare la parte ufficiale degli «Atti» con una vivace rappresentatività culturale, con qualche prevalenza letteraria. Poi, dopo un anno di intervallo in cui venne pubblicato un unico fascicolo a cura della presidenza, dal ’37 l’incarico fu affidato a Elio Zorzi, che l’avrebbe tenuto fin oltre la guerra, sino all’anno della morte, avvenuta nel 1955. La direzione di Zorzi rappresentò la stagione migliore per la rivista, che riuscì a essere presente anche nei momenti più difficili, eccettuato il triennio 1946-1948, quando, come si vedrà, l’Ateneo fu commissariato(8).
Intensa fu poi l’attività culturale dell’accademia, esplicitata attraverso innumerevoli conferenze, a preferenza dei più impegnativi e costosi congressi che rimasero monopolio dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti (almeno sin quando, nel secondo dopoguerra, non sorse la Fondazione Giorgio Cini); arduo assunto sarebbe quello di individuare nell’eclettica produzione, scritta e orale, dei soci una precisa linea direttiva: tramontato l’indirizzo spiritualistico, così ammetteva Jona nella sua relazione del giugno ’22, «l’Ateneo non ha più la sua filosofia, e può ospitare nel suo grembo tutte le correnti del pensiero moderno: l’Ateneo non ha riserve né deve averle: la libertà non gli consente di professare una filosofia ed una fede, basta la cultura e la critica»; donde tutto il ventaglio delle consuete conferenze spazianti dalla storia all’idraulica, dalla letteratura alla medicina, dalla filosofia al diritto, alla geografia, all’arte, all’ingegneria, alla musica: tutte queste, e molte altre ancora, portate a convivere con i problemi maggiormente sentiti nel circuito cittadino, quali, per rimanere nell’ambito della presidenza Jona (1921-1925), le cinque conferenze sull’erigendo ponte translagunare o lo sviluppo dell’educazione professionale oppure quello dell’edilizia popolare. L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma senza aggiungere granché al concetto di fondo, che consiste nel fatto che l’Ateneo non si diede una precisa linea culturale, risultando sotto quest’aspetto piuttosto specchio che coscienza delle tendenze della vita intellettuale e sociale veneziana.
Era condizionato, vorrei dire incalzato, dalle necessità economiche. È un ritornello, quello delle angustie finanziarie, che ricorre puntualmente nelle relazioni dei presidenti e dei segretari. Nel 1925 il fabbisogno dell’Ateneo era stimato in 35.000 lire; nel ’31 le entrate furono di circa 40.000 lire, ma solo perché l’anno precedente il contributo pro capite dei 250 soci effettivi era stato portato da 3 a 5 lire e il cassiere dell’Ateneo aveva potuto introitare altre 10.000 lire, versate dall’Associazione fascista della scuola in cambio di un poco di ospitalità. Ogni tanto, è vero, arrivava qualche rinforzino, come nel ’35 le 10.000 lire generosamente elargite dal notaio Dionisio Tassini o le 50.000 donate nel ’42 dall’ingegner Giancarlo Stucky, ma il sodalizio di S. Fantin continuava a stento, sicché nel dicembre ’34 il segretario Ettore Bogno constatava amaramente che l’Ateneo sopravviveva «in decorosa povertà». I bilanci dell’Ateneo per l’a.a. 1937-1938, dei quali riproduco la parte più significativa, lo confermano:
Tab.3. Bilancio consuntivo dell’a.a. 1937-1938 (Lire) Spese Rendite Spese ordinarie 20.059,21 Quote sociali 8.430 Spese rivista 13.181,40 Contributi straordinari 13.280 Premi Corso storia veneta 700 Proventi eventuali 3.430 Onorario docenti 500 Abbonamento rivista 1.420 Inserzioni rivista 6.920 Altre 960,61 Totale 34.440,61 Totale 34.440,61
Come si vede, i soldi servivano per la stampa (circa un terzo del totale) e le parsimoniosissime retribuzioni del personale; fra le entrate meritano attenzione le inserzioni sulla rivista, che da sole rappresentavano il 20%, sempre del totale. Insomma, i bilanci erano sull’ordine delle 35-40.000 lire. A titolo di confronto, rammento che nello stesso 1937 la Fondazione Minich passava all’Istituto Veneto, quale normale surplus amministrativo, la bella somma di 300.236,78 lire, circa nove volte l’intero bilancio dell’Ateneo.
Difficoltà finanziarie, ho detto, segnarono questi anni, ma non fu solo questione di soldi: dal ’22 il Comune pubblicava la «Rivista di Venezia», dove in veste accattivante le statistiche ufficiali (civiche ed economiche) convivevano con l’aggiornamento dei principali avvenimenti turistico-culturali-mondani della città, spesso dovuti a buone penne, le stesse che sottoscrivevano gli articoli dell’«Ateneo Veneto»: dunque v’era della concorrenza, e temibile (meno incisiva, a questo proposito, risultò la comparsa de «Le Tre Venezie», di esplicita matrice fascista, iniziata nel ’26); ancora, ma soprattutto, a inquinare i lavori dell’Ateneo (i migliori, voglio dire) era l’imperante demagogia che nel nostro felice paese non ha mai mancato, né manca, di fornire vistose prove di disinvolta superficialità. Certo la crisi dell’Ateneo non è ascrivibile a cattivi rapporti col regime, ché a leggere le prolusioni/conclusioni accademiche dei presidenti pro tempore è un costante peana, un ininterrotto applauso ai superiori destini della patria, al genio del duce, ecc.: il nuovo statuto octroyé da Roma nel ’34 al ridimensionato «Ateneo di Venezia» è accolto dai soci senza apparente dissenso e non poche organizzazioni fasciste trovano ospitalità tra le mura dell’accademia. Sicché non resta che pensare a una concomitante duplice concausa, di natura finanziaria e di natura psicologica, la stessa — del resto — che in questo torno di anni attraversa l’Istituto Veneto.
Pressato dall’incalzante attivismo fascista che costruisce e innova senza consultare i tradizionali filtri dell’opinione pubblica (ed ecco, negli anni Trenta, la città mutar volto con la costruzione del ponte translagunare con annesso piazzale Roma, terminal della coeva autostrada Mestre-Padova, ed ecco il ponte degli Scalzi presso la stazione ferroviaria e la nascita di S. Elena e della riva dell’Impero); scavalcato dalla «rivoluzione» mondano-culturale di Volpi e Cini con la nascita della Mostra del cinema, del Casinò, del Golf agli Alberoni, con le grandi mostre artistiche a Ca’ Pesaro, per finire con la «Riunione degli scienziati dell’Italia imperiale», fitta di oltre 1.000 partecipanti splendidamente ospitati nel settembre 1937 presso il Centro Volpi di elettrologia (l’attuale palazzo Vendramin-Calergi); premuto dalle prevaricanti piccolezze di quanti pur arrembavano sotto la copertura dell’Istituto di cultura fascista, l’Ateneo visse una crisi di credibilità che neppure la ripresa delle pubblicazioni, nel ’31, in concomitanza con l’abbellimento della sala di lettura e qualche ritocchino alle suppellettili, valse ad arrestare(9). Donde le dimissioni, il 10 ottobre ’37, del presidente Marangoni (fresco rinunciatario, la data è il 20 settembre ’37, pure dalla testé conseguita presidenza della Deputazione veneta di Storia Patria); duplice atto non certo suggerito da ragioni politiche di ordine generale: da poco infatti, la legge reca la data 23 dicembre ’36, Marangoni era riuscito a ottenere gratuitamente dal demanio, «per la munifica volontà di S.E. Benito Mussolini», il riconoscimento all’Ateneo della piena proprietà della sede con tutti i suoi preziosi dipinti; ancora, l’11 giugno ’39 egli sarebbe assurto al rango di accademico d’Italia; comunque si dimise, questo è il fatto, seguito due giorni dopo, sempre per gli immancabili motivi di salute, dal segretario dell’Ateneo, Ettore Bogno; qualche mese più tardi (16 febbraio ’38) li imitava il vicepresidente Alberto Musatti: nessuno di questi tre personaggi venne sostituito subito, ma solo dopo la chiusura dell’anno accademico, nel luglio 1938.
Quel che è certo, è che a partire dal ’26 non v’è relazione di presidente o segretario che non lamenti con ossessiva ripetitività difficoltà economiche e disagio nella conduzione culturale accademica, sicché l’attività perde il contatto con il tessuto sociale urbano e si riduce quasi sempre a promuovere celebrazioni indolori o a ospitare scritti sempre più manifestamente plaudenti alla politica del regime: l’11 settembre ’36 si inaugura il busto di Daniele Manin alla presenza del ministro De Vecchi, nel ’38 si pubblica un nuovo Indice dei lavori usciti nella rivista, che integra quello di Cesare Musatti fermo al 1900; il 4 giugno ’39 il presidente Giordano, mettendo forse il dito sulla ragione di fondo che aveva portato alle dimissioni della precedente presidenza, ribadiva che l’Ateneo, «riconoscendo nell’Istituto di Cultura Fascista un Ente non concorrente, ma collaboratore, d’accordo con esso, che promuove conferenze prevalentemente di carattere politico, ha tenuto nell’anno decorso sette conferenze di cultura varia, che vennero così ad integrare il programma dell’Istituto di Cultura Fascista stesso; e per dare pratica sanzione all’accordo, i membri dei due Istituti poterono reciprocamente intervenire alle manifestazioni culturali svolte d’ambo i lati»; dopo di che, per sottolineare vieppiù il perfetto allineamento dell’accademia all’imperante linea politica, nel ’38 e nel ’39 affidava a Bruno Dudan, studioso della Dalmazia donde proveniva la sua famiglia, il Corso di storia veneta, mentre un anonimo editoriale premesso al fascicolo maggio-luglio del 1941 presentava la guerra contro la Grecia sotto un eloquente titolo, suggestivo se vogliamo, ma non poco inquinato da forzatura, che suonava La ricostituzione dell’impero di Venezia(10).
Con il secondo conflitto mondiale l’attività dell’Ateneo, pur riducendosi significativamente, non s’interruppe mai del tutto (stranamente, il silenzio sarebbe sceso più tardi, dal ’46 al ’49 compresi); nel ’43 si tennero dieci conferenze e nove riunioni culturali dei soci; nel ’44 si ebbero otto riunioni, dimezzate nel ’45: ma la rivista continuò a uscire e ancora nel giugno del 1944 il presidente Dell’Agnola, per più anni rettore di Ca’ Foscari, parlava di «fede inestinguibile nei destini della Patria».
Un anno dopo sarebbe toccato allo stesso Dell’Agnola «salutare con gioia la liberazione di Venezia e d’Italia», rassegnando il mandato nelle mani del prefetto (7 maggio 1945) ed esprimendo nel contempo la speranza che un nuovo statuto avrebbe consentito la riammissione dei soci ebrei espulsi dalle leggi razziali e ripristinato il glorioso nome di «Ateneo Veneto»; infine, il 3 giugno chiudeva l’ultimo suo anno accademico lasciando a Mario Battain la commemorazione, dal valore quasi espiatorio, del predecessore Jona, tragicamente scomparso. Il ministro Gonella avrebbe licenziato il nuovo statuto il 3 maggio ’49, non proprio prestissimo insomma: esso aboliva quello fascista del ’34 e sostanzialmente ripristinava quello del ’20, con qualche leggera modifica. A questo punto l’Ateneo poteva riprendere a pieno titolo l’attività, dopo il lungo commissariamento appoggiato ai soci Arcangelo Vespignani (maggio 1945-febbraio 1947) e Mario Nono (febbraio-luglio ’47), cui aveva fatto seguito l’elezione di una nuova presidenza, guidata dall’avvocato Ernesto Pietriboni, un vecchio liberale che peraltro non sarebbe riuscito a portare a termine il mandato, poiché morì il 16 dicembre 1950.
Richiamandomi allo specchietto sopra riportato, presento ora il quadro dei soci che ricoprirono le principali cariche in questo secondo dopoguerra, non senza rammentare che un nuovo regolamento interno, approvato nel 1960, riduceva a due anni (rinnovabili) la durata del mandato presidenziale:
Tab. 4. Presidenti, vicepresidenti e segretari dell’Ateneo (1947-1988) Presidenti Vicepresidenti Segretari 1947-50 = Ernesto Pietriboni 1947-51 = Nino Barbantini 1947-51 = Giuseppe Avon Caffi 1951-55 = Antonio Romani 1951-55 = Arturo Pompeati 1951-55 = Giovanni Mariutti 1955-58 = Arturo Pompeati 1955-59 = Francesco Baldassari 1955-59 = Bruno De Biasio 1959-63 = Giacomo Tosoni 1959-63 = Achille Bosisio 1959 = Nicola Mangini 1963-67 = Enzo Milner 1963-66 = Arrigo Usigli 1959-63 = ad interim 1967-71 = Sandro Manconi 1967-71 = Nicola Mangini 1963-78 = A. Mariutti de S. R. 1971-75 = Pietro Zampetti 1971-75 = Deuglesse Grassi 1978-85 = Alessandro Manganiello 1975-79 = Giuseppe La Monaca 1975-79 = Fabio Scapini 1979-83 = Sergio Perosa 1979-83 = Lionello Agazia 1983-88 = Alessandro Bettagno
I positivi effetti che sarebbero potuti ricadere sull’Ateneo, grazie al clima di libertà di cui poteva finalmente godere, vennero purtroppo in parte ridimensionati dalla nuova realtà che stava interessando Venezia; nel corso del sesto decennio del secolo, infatti, il centro storico che aveva toccato un massimo di 184.447 abitanti proprio nel 1950, vide rapidamente decrescere la sua popolazione a vantaggio di Mestre. Accanto a questa rivoluzione che ne alterava il tessuto sociale, sul versante culturale Venezia non sconfessava la precedente scelta volpiana, per cui mentre escludeva progressivamente dalla città insulare gli insediamenti industriali e artigianali, si riproponeva brillantemente come faro di civiltà umanistica, non senza qualche generosa spruzzatura di mondanità: ecco allora, dopo lo straordinario successo della Biennale del ’48 (la prima diretta da Pallucchini), la nascita della Fondazione Giorgio Cini, seguita dalla galleria aperta a Ca’ Venier da Peggy Guggenheim, e poi, nel 1954, ecco sorgere la nuova facoltà di Lingue a Ca’ Foscari, cui si affiancherà, nel ’70, quella di Lettere e Filosofia e, più avanti, le mostre di palazzo Grassi, destinate a grande successo di pubblico.
È chiaro che questo fervore di iniziative doveva pur togliere qualcosa alle vecchie accademie, che infatti (l’Ateneo come l’Istituto Veneto) conobbero anni di ripiegamento, ancora una volta, per il susseguirsi ininterrotto di negative congiunture: le due guerre, il fascismo e ora una diffusa vivace concorrenza. Mi limito in proposito a un’unica considerazione: la costante perdita di prestigio dei Corsi di storia veneta, che tendono a essere appoggiati a un solo docente, per periodi sempre maggiori; in altri termini, se prima della guerra il loro titolare mutava ogni due o tre anni al massimo, ora la sua permanenza alla guida del corso si prolunga senza limiti precisi. Dal 1948 al ’56 fu Mario Brunetti a tenerli, dal ’58 all’anno seguente Raimondo Morozzo della Rocca, dal 1959 al ’61 Carlo Guido Mor, da quell’anno e fino al 1967 Roberto Cessi, dal ’68 al 1985 Paolo Selmi.
Posto che nel ’57 il corso tacque, per essere la sede interessata da complessi restauri, va detto che l’iniziativa tese sempre più a offrirsi come una sorta di ‘servizio’ rivolto a persone adulte o addirittura anziane, ai cultori di storia patria insomma, mentre i giovani se ne distaccarono (oggi si può dire che sia rarissimo ritrovare questo interesse), per cui durante gli anni Ottanta gli esami finali con relativa premiazione vennero un poco alla volta ridimensionati e infine soppressi. Del resto, pur condotti con encomiabile senso civico e molto amore per la storia di Venezia da studiosi di notevole levatura, questi corsi non potevano certo competere con quelli di «alta cultura» che a settembre richiamavano nell’isola di S. Giorgio i migliori specialisti del circuito internazionale, né, per quanto riguarda gli studenti, con l’articolazione didattica che venne posta in essere dallo specifico corso di laurea in Storia attivato, a partire dal ’79-’80, nella sede cafoscarina di S. Sebastiano (ora S. Maria del Giglio).
La rivista, invece, andò migliorando la veste estetica e la struttura generale, anche se non riuscì mai a onorare l’appuntamento previsto dal calendario. Dopo un silenzio che si protraeva dal 1945, la ripresa fu annunciata da un’esile miscellanea uscita nel ’49 col titolo: Numero speciale dedicato al centenario dell’epopea veneziana degli anni 1848-49; quindi dal ’50 essa riprese cadenza semestrale (definitivamente annuale dall’84), passando dalla direzione di Elio Zorzi a quella di Ugo Facco De Lagarda (1956-1959), di Nicola Mangini (1959-1969), di Gian Albino Ravalli Modoni (1969-1972), di Deuglesse Grassi (1973-1985), quest’ultimo però affiancato nell’attività redazionale sin dall’80 da Marino Zorzi, erede della non dimenticata tradizione paterna, che gli sarebbe subentrato definitivamente nella piena responsabilità della rivista nel 1986. Nel ’57 uscì nuovamente come numero speciale dedicato alle celebrazioni goldoniane in occasione del 250° anniversario della nascita, e la cosa si ripeteva nel ’62, quando il direttore Mangini, che per lunghi anni prestò all’Ateneo la sua opera competente e generosa, realizzava un fascicolo speciale per la 150° ricorrenza della fondazione, evento particolarmente sentito in quanto seguiva di poco il radicale restauro dell’edificio, atteso da anni e finalmente realizzato fra il ’56 e il ’58. Il volume, che già si è avuto modo di ricordare, ripercorre con felice scelta di soggetti la storia dell’Ateneo, sì da costituire una sorta di summa riepilogativa di rapida e facile consultazione(11). Altre iniziative della rivista furono costituite da un nuovo Indice che si ricollegava a quello uscito nel ’38 e prolungava l’aggiornamento dei lavori al 1959; quindi dai numeri speciali per il centenario dantesco (con saggi di Edoardo Sanguineti e Giorgio Bàrberi Squarotti) e per quello dell’unione del Veneto all’Italia, entrambi del ’66; oggetto di analoga celebrazione fu poi Manzoni, nel ’74.
Ho accennato ai restauri effettuati alla fine degli anni Cinquanta, che interessarono le strutture murarie portanti e il tetto; essi furono resi possibili grazie a un contributo di 20 milioni (notevole per i tempi) ottenuto dal Ministero al tempo della presidenza Pompeati, che poté valersi dell’appoggio dell’architetto Ferdinando Forlati, «proto» della basilica marciana. Naturalmente la pubblica mano, sempre larga eccome nel sorridente promettere non men che restia quando poi tocca addivenire all’esborso, non riuscì a coprire, cioè non volle, l’intero ammontare delle spese, che superarono i 24 milioni, sicché la nostra accademia dovette moltiplicare gli sforzi in ogni direzione e, a dire il vero, riuscì a spuntarla: fu istituito un albo degli «Amici dell’Ateneo», che in pochi mesi raccolse 1.020.000 lire; la Camera di commercio si sobbarcò le spese relative alla stampa di circolari e inviti; nel ’63 la Soprintendenza bibliografica di Venezia esibì 480.000 lire per l’acquisto delle scaffalature metalliche dell’ampliata biblioteca. Soprattutto l’Ateneo poté giovarsi del socio sen. Eugenio Gatto, che nel ’66 divenne sottosegretario al Tesoro e nel ’71 ministro per l’attuazione dell’ordinamento regionale: nel ’65 il Comune (era assessore il prof. Mario De Biasi) portava il suo contributo annuo a 250.000 lire adeguabili (sarebbero divenute 15.840.000 lire nell’86), e nel ’71 il Ministero innalzava la sua dotazione da 6 a 8 milioni (nell’80 avrebbe riconosciuto l’Ateneo Veneto come ente culturale di interesse nazionale, ammettendolo a godere di un contributo di 25 milioni annui). Altre sovvenzioni ‘istituzionali’ sarebbero giunte da enti pubblici quali la Provincia e la Regione o da enti scientifici (Consiglio Nazionale delle Ricerche) o finanziari (banche), sicché il 17 gennaio ’83 il presidente Perosa poteva finalmente definire «tranquillizzante» la situazione finanziaria del sodalizio, che anche in tal modo esibiva accresciuto prestigio e incisività nella vita cittadina.
Poc’anzi ho riportato il bilancio relativo all’a.a. 1937-1938, cui ora faccio seguire il preventivo del 1985 (anno solare), non quale appare in dettaglio nella rivista, ma accorpato secondo le voci principali:
Tab. 5. Bilancio preventivo 1985 (Lire) Spese Rendite Spese ordinarie 75.000.000 Quote sociali 14.000.000 Spese rivista 40.000.000 Contributo Ministero 40.000.000 Manifestazioni culturali 40.000.000 Contributi enti pubblici 80.000.000 Banche e altri enti 15.000.000 Interessi 6.000.000 Totale 155.000.000 Totale 155.000.000
Rispetto a circa mezzo secolo prima, possiamo riscontrare un forte incremento dei contributi pubblici, il che, tra l’altro, permette di eliminare la pubblicità dalla rivista.
Dopo tante cifre, torniamo a parlare di cultura, che è poi l’oggetto primario del nostro discorrere. Quando ancora non poteva fidare sul pubblico possente braccio, l’Ateneo ebbe la ventura di poter contare su significativi lasciti di privati, come ebbe a verificarsi a opera degli eredi degli avvocati Giulio Sacerdoti o Guido Franceschinis, o per il premio Marta (1961) o ancora, ma soprattutto, per il successivo Torta (1973).
Guido Marta (1889-1960), ancorché figlio di un famoso ostetrico, mostrò sempre sprezzo per Ippocrate, la bugiarda prònuba e le tube di Falloppio, preferendo invece dedicarsi a Calliope, nota musa della poesia e ferace dispensatrice di allori; sicché nel testamento lasciò un legato di 3 milioni da suddividersi in varie annualità onde premiare le migliori prove di lirica dialettale veneta; l’ultima tranche del concorso fu bandita nel 1970, ma poco dopo altri volle rifarsi a sì lodevole esempio: fu la signora Paola Volo, vedova di Pietro Torta, insigne tecnico del restauro e per quindici anni presidente dell’Ordine degli ingegneri veneziani; ebbene, il 22 ottobre ’73 la signora Torta, a ciò persuasa dal presidente dell’Ateneo (ch’era allora Zampetti), istituiva un cospicuo premio rivolto a quanti, italiani o stranieri, si fossero distinti nel promuovere o realizzare il restauro di edifici nel centro storico veneziano. Il momento era favorevole all’iniziativa, che anche per tal motivo godette di larga risonanza: il 16 aprile di quello stesso 1973, infatti, dopo lunghi dibattiti e innumerevoli rinvii, il Parlamento aveva approvato la legge speciale per Venezia, che privilegiava la salvaguardia di un centro storico a destinazione turistico-museale sulle ormai declinanti fortune industriali di Mestre-Marghera. Da allora si moltiplicarono gli interventi pubblici e privati volti a salvare/recuperare calli, campielli e quel che c’era sopra, accanto e frammezzo: e qui s’inserisce appunto il premio Torta, che nella sua prima edizione (1974) venne assegnato a sir Ashley Clarke, già ambasciatore britannico a Roma e allora vicepresidente del Venice in Peril Found, la benemerita associazione cui si deve il restauro di importanti strutture quali le chiese della Madonna dell’Orto, di S. Nicolò dei Mendicoli, della Loggetta di Jacopo Sansovino in piazza S. Marco, della porta della Carta a Palazzo Ducale. L’anno seguente il premio sarebbe toccato a Vittorio Cini, per il recupero del complesso monumentale dell’isola di S. Giorgio Maggiore, e via di questo passo: gran prestigio, gran nomi, grandi liaisons internazionali.
Difficile rendere conto della pluridecennale attività culturale di un’accademia culturale statutariamente interdisciplinare. Vediamo allora di riassumere in due parole quali furono i fatti salienti, a questo proposito, nella seconda metà del secolo. Diciamo subito che il livello osservato dalle varie presidenze fu alto: quasi sempre la prolusione inaugurante a ottobre-novembre il nuovo anno accademico è affidata a un personaggio illustre estraneo all’Ateneo: nel ’69 si tratta di Giuseppe Petronio, preside della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trieste, nel ’71 troviamo Mario Ferrari Aggradi, ministro per l’Ordinamento regionale. Fitto il calendario delle manifestazioni: nel ’62-’63 si ebbero 25 conferenze e 12 comunicazioni (comprese quelle degli ospiti regolari dell’Ateneo, che in quell’anno furono l’Università Popolare, il Circolo di cultura, la Dante Alighieri, la Federazione italiana donne arti professioni affari, l’Associazione italo-francese, il Centro informazioni e studi sulle comunità europee, il quale dal ’56 attivava corsi di istruzione e aggiornamento per funzionari della Comunità Europea); nel ’72-’73 le sole conferenze salirono a 34 e successivamente continuarono ad aumentare: nel ’75-’76 sarebbero state ben 92. Iniziative di particolare rilievo furono, nel ’67, un volume celebrativo con studi giuridici in onore di Francesco Carnelutti, seguito due anni dopo da analoga miscellanea dedicata alla medicina, in occasione del centenario dell’Ospedale al mare; da segnalare inoltre le conferenze, spesso articolate su un arco di più giornate, in onore di Gasparo Gozzi e Galileo (1964), di Proust (1971), Tommaseo (1974), Tiziano (1976), per non parlare delle moltissime dedicate alle leggi speciali per Venezia oppure alla salvaguardia lagunare, che son quei problemi che mai non tramontano sotto il nostro nobilissimo cielo, come ognun sa.
Più importante mi sembra invece accennare a due momenti di crisi vissuti dalla nostra accademia nel corso di questo periodo; ma forse, complice anche la reticenza delle fonti, sarebbe più pertinente parlare di malessere di singoli individui piuttosto che dell’istituzione in sé.
Spostiamoci al 1973. A Venezia è sindaco Giorgio Longo, democristiano di sinistra che guida una coalizione sorretta dai comunisti; la prima legge speciale è una realtà acquisita, che però non riesce a governare il moltiplicarsi dei mali cittadini; infine, la contestazione: debole quella giovanile per la mancanza di grandi numeri sul piano della popolazione studentesca e operaia, essa si fa incisiva nell’ambito delle strutture culturali, quali la Biennale e la Mostra del cinema. L’onda lunga del disagio che colpisce un po’ tutto il mondo intellettuale giunge a lambire anche l’Ateneo, dove a partire dal ’72 alcuni soci sollevano critiche, avanzano proposte di rinnovamento. Nulla di concreto però, non si va oltre generici auspici. L’unica vera denuncia in proposito proviene dal presidente Zampetti nella riunione del 10 novembre ’74. Ascoltiamolo: «Parlando di problemi culturali vorrei fare con voi [così disse] una specie di autocritica per quanto succede alla Biennale di Venezia ove io ricopro la carica di membro del Consiglio direttivo [...]. Qualcosa ci è sfuggito di mano. Alcune manifestazioni come quelle che si sono svolte nella sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, il giorno dell’inaugurazione, in cui si è ridicolizzato su Benedetto Croce, e si è fischiato al nome di Ugo La Malfa, e si sono esaltati certi avvenimenti che suonavano insulto alla vita politica italiana e alla stessa Resistenza, non hanno certo giovato alla nuova Biennale, né alla libertà della cultura [...]. Un altro avvenimento che ho disapprovato [...] è la pseudo democratizzazione della Biennale di Venezia che si concretizza nel trasferire alla ‘petrolchimica’ di Marghera e in altri centri della periferia di Mestre degli spettacoli, come se ciò fosse sufficiente per un vero discorso culturale con le masse dei lavoratori»(12). Zampetti parlava della Biennale, ma si rivolgeva ai soci dell’Ateneo, sicché possiamo leggere tra le righe, e senza correre il rischio di forzature, che l’autocritica era globale: de te fabula narratur. Il clima contestatario finì tuttavia per favorire, nei migliori, la riflessione, il ripensamento stesso di quelle tradizioni che così spesso in passato erano state motivo di orgoglio; l’eclettismo dell’accademia, già simbolo di libertà culturale, ora d’un tratto pareva scadere a espressione di genericità superficialità qualunquismo: a che servivano, alla fin fine, quelle loro indolori riunioni?
La crisi, chiamiamola pur così, non sublimò in paralisi, non scoppiò in segni o episodi manifesti; secondando l’italico genio, essa fu serpeggiante, lentamente stemperandosi e da sé risolvendosi nel gran mare degli umori collettivi di quello che allora si amava definire «il Paese». Ci furono però dei segni positivi; alcuni avanzarono critiche e proposte finalmente costruttive che non sarebbero rimaste lettera morta: il 19 aprile 1975 Enrico Polichetti manifestava riserve sul contenuto della rivista, a suo vedere di non altissima qualità. Gli faceva eco, il 30 giugno ’77, Nicola Mangini, che non solo criticava l’impostazione e la struttura che sorreggeva il periodico, ma ampliava la sua protesta alla formulazione stessa del programma scientifico dell’istituto, ravvisando in esso i tratti di una persistente occasionalità. Giuste e giustificate, allora, queste critiche, che però chiudevano un’epoca. Gli anni Ottanta, infatti, avrebbero recato nuovi impulsi, spesso disordinati, a volte negativi, ma comunque economicamente positivi per il mondo occidentale; donde, attraverso innumerevoli riflessi, anche Venezia vide aprirsi una stagione nuova, stranamente poggiante su una dicotomia fatta di sclerosi demografica e rigoglio economico: quest’ultimo basato sul turismo di massa supportato, va detto, purtroppo, da un’offerta culturale sempre più scadente, certo non paragonabile alla fioritura degli anni Cinquanta e Sessanta.
In tutti i casi, se la Fondazione Giorgio Cini non avrebbe conosciuto, non in questo secolo, almeno, una seconda giovinezza, altre accademie (con l’Ateneo, anche l’Istituto Veneto) riuscirono a inserirsi proficuamente nei nuovi spazi, sfruttando le opportunità che altri uomini, altre presidenze andavano scoprendo per rinvigorire le istituzioni loro affidate: quella di palazzo Loredan valorizzando al meglio le ingenti risorse economiche della sua Fondazione Minich; questa di S. Fantin attraverso la solidarietà di tanti concittadini che, una volta recepiti/riassorbiti attraverso qualche aggiustamento i principali motivi di protesta avanzati negli anni Settanta, sempre più furono in grado di ritrovare nell’Ateneo il proprio ‘salotto’, la sede deputata a incontrarsi apprendere discutere nell’ambito di livelli e segmenti culturali diversi, ma tutti uniti nel nome di una coscienza civica non dimentica dell’antica «venezianità».
1. Si deve forse ricercare qui il motivo per cui Molmenti, presidente dell’Istituto Veneto dal 1914 al 1916, non volle mai far parte dell’Ateneo.
2. Ettore Bogno, Relazione per l’anno 1932-1933, «Ateneo Veneto», 124, 1933, nr. 2/3, p. 235 (pp. 232-235). Quasi tutte le notizie fornite dal presente saggio sono state ricavate dagli «Atti» riportati nella rivista, che riflettono l’attività istituzionale dell’Ateneo. Questa premessa mi esimerà pertanto dal riproporre citazioni tutte riferite alla stessa fonte: tranne, beninteso, qualche caso eccezionale o, naturalmente, qualora si tratti di fonti diverse.
3. Il testo è riportato in «Ateneo Veneto», 43, 1920, pp. 23-31.
4. Così il nuovo presidente, Giuseppe Jona, nel discorso conclusivo dell’a.a. 1920-1921, pronunciato il 5 giugno 1921, nel commentare le finalità del nuovo ordinamento, il quale «ispirandosi ai concetti rinnovatori dell’età nostra, che tende sempre più a fondere la vita culturale colle correnti fattive di tutti i campi della vita sociale, ha chiamato a sé, e saluta oggi lietamente, uomini dell’industria, del commercio, della navigazione, della banca, i quali tutti, coll’esercizio illuminato e onorato, concorrono alla rinascita cittadina […]. Da questo Statuto, che rappresenta un’iniziativa ardita e geniale nel campo delle consuetudini accademiche […], io non dubito di trarre i più lieti auspici […]; esso saprà sempre più legare il nostro Ateneo alla vita cittadina, promuoverne il progresso attraverso lo studio e la discussione dei suoi problemi, attraverso la diffusione insistente e illuminata di ogni utile iniziativa». Dove l’accento batte più sul sociale che sulla cultura come valore autonomo; ecco spiegato il plauso dei «novatori» alla Damerini. Giuseppe Jona, libero docente di Patologia speciale medica, primario di Medicina interna all’Ospedale Civile, si sarebbe suicidato il 17 settembre 1943 per non consegnare l’elenco degli iscritti alla comunità israelitica di Venezia (Angelo Ventura, La persecuzione fascista contro gli ebrei nell’Università italiana, «Rivista Storica Italiana», 109, 1997, nr. 1, p. 167 [pp. 121-197]). L’unica differenza fra i soci effettivi e quelli corrispondenti (il cui numero era illimitato) fu sempre costituita dal fatto che questi ultimi risiedevano fuori Venezia; all’Istituto Veneto la distinzione era, ed è, meritocratica.
5. Per una breve storia di questa biblioteca circolante v. Amelia Fano, La Biblioteca circolante dell’Ateneo. Cenni, «Ateneo Veneto», 122, 1931, nr. 1/1, pp. 149-152.
6. Sui Corsi di storia veneta, con gli elenchi dei docenti e degli allievi premiati, v. l’omonimo articolo di Mario Vianello-Chiodo, in Ateneo Veneto. Fascicolo speciale per il 150° anniversario. 1812-1962, Venezia 1962, pp. 168-176.
7. Anche sulla storia della rivista c’è uno specifico saggio, a firma appunto di Nicola Mangini, sul volume celebrativo del 150° anniversario dell’Ateneo, ricordato alla nota precedente (pp. 180-186).
8. Così Mangini: «In questo lungo periodo, in cui l’Italia passò attraverso dolorose e non dimenticate esperienze, che dovevano culminare con la seconda guerra mondiale e l’amaro dopoguerra, la rivista mantenne un suo tono, sempre decoroso, caratterizzandosi in un eclettismo misurato e in una garbata dimensione di curiosità intellettuale. Venezia, la sua storia e il suo presente occuparono un posto di rilievo» (ibid., p. 185).
9. Una vivace testimonianza di quel periodo ci è offerta da Maria Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova 1988.
10. «Ateneo Veneto», 132, 1941, nrr. 5-6-7, pp. 151-152.
11. Il titolo dell’opera è riportato sopra, n. 6. Questo l’Indice, che credo opportuno presentare, in quanto riassume il ventaglio degli interessi e dell’attività dell’Ateneo; dopo una sobria Prefazione del presidente Giacomo Tosoni (pp. 3-4), l’opera si articola in tre settori che per comodità possiamo definire storico, artistico e istituzionale. Abbiamo così Storia di ieri e di oggi: Achille Bosisio, Il 150° anniversario dell’Ateneo Veneto, pp. 7-23; Rodolfo Gallo, La Scuola di San Fantin e il suo architetto, pp. 25-31; Lia Sbriziolo, Il primo biennio di vita dell’Ateneo da un manoscritto marciano di Giovanni Rossi, pp. 33-56; Roberto Cessi, Un ricordo sull’Ateneo Veneto nel 1847-48, pp. 57-61; la seconda parte del libro è intitolata Il patrimonio artistico e i restauri, e comprende i seguenti saggi: Nicola Ivanoff, Il ciclo pittorico della Scuola di San Fantin, pp. 65-81; Vittorio Moschini, Dipinti restaurati, pp. 83-91; Giacomo G. Tosoni, I restauri all’Ateneo dal 1956 al 1958, pp. 93-112; infine l’ultima sezione, Rassegne del cinquantennio, stampata a corpo minore e così articolata: Achille Bosisio, I presidenti del cinquantennio, pp. 115-127; Elena Bassi, Le arti, pp. 128-130; Giuseppe Scarpa, Astronomia e fisica, pp. 131-134; Giovanni Giorgio Marangoni, Il diritto, pp. 135-138; Lina Passarella, Filosofia e pedagogia, pp. 139-143; Francesco Tullio Roffarè, Le lettere, pp. 144-155; Ugo Stefanutti, La medicina, pp. 156-162; Antonio Giordani Soika, Le scienze naturali, pp. 163-165; Giorgio Emanuele Ferrari, La storia (sommario), pp. 166-167; Mario Vianello-Chiodo, I Corsi di storia veneta, pp. 168-176; Rodolfo Gallo, La biblioteca dell’Ateneo, pp. 177-179; Nicola Mangini, La rivista dell’Ateneo Veneto, pp. 180-186. Segue l’elenco dei soci (305 effettivi, più 27 corrispondenti) al 31 dicembre 1962, con la data di nomina, pp. 187-196.
12. Relazione del Presidente, «Ateneo Veneto», n. ser., 12, 1974, pp. 159-160 (pp. 156-161).